Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto capitolo per capitolo Promessi Sposi, Schemi e mappe concettuali di Italiano

Riassunto capitolo per capitolo Promessi sposi (fonti: appunti e siti web)

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 31/10/2023

dduccio
dduccio 🇮🇹

4.7

(31)

25 documenti

1 / 104

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto capitolo per capitolo Promessi Sposi e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Italiano solo su Docsity! I Promessi Sposi Introduzione L'autore finge di citare l'inizio di un manoscritto di un anonimo autore del XVII secolo, il quale dichiara che la storiografia è una specie di guerra contro il tempo, poiché essa richiama in vita gli anni passati (paragonati a prigionieri, ovvero a caduti). Tuttavia, spiega l'anonimo, gli storici si limitano a raccontare le imprese politiche e militari di personaggi altolocati, cosa che egli non intende fare: poiché è venuto a conoscenza di una vicenda che ha visto come protagonisti personaggi di umile condizione sociale, intende raccontarla in modo conforme alla verità. La vicenda narrata risale agli anni della sua gioventù e la maggior parte dei personaggi citati sono ormai morti, tuttavia l'anonimo non farà i nomi di alcuni di essi per rispetto e per lo stesso motivo accennerà in modo vago anche ad alcuni luoghi. Questa non deve essere considerata un'imperfezione del racconto, poiché (come ben sa chi si intende di filosofia) i nomi non sono altro che semplici accidenti. Manzoni interrompe la citazione dello "scartafaccio", dal momento che si rende conto che la lingua e lo stile dell'anonimo non sarebbero stati apprezzati dai lettori contemporanei. Aveva allora stabilito di riscrivere il testo in una lingua e in una forma moderna, compiendo ricerche storiche per appurare se le cose narrate nell'autografo fossero verosimili o meno. Ha trovato nondimeno molte conferme e anche la prova che alcuni personaggi citati dall'anonimo sono realmente esistiti. L'autore si rende conto che, quando si sottopone l'opera di un altro a un rifacimento, bisogna dare delle spiegazioni al pubblico sui criteri che si sono seguiti. Riguardo al problema della lingua, Manzoni aveva immaginato una serie di obiezioni che potevano essergli mosse e aveva elaborato delle risposte convincenti, ma si era poi reso conto che l'insieme di queste considerazioni avrebbe costituito di per sé un libro alquanto lungo. Questo lo ha indotto a rinunciare ai suoi propositi per due ragioni: la prima, perché potrebbe sembrare assurdo scrivere un libro per giustificarne un altro; la seconda, perché di libri ne basta uno per volta, quando non è addirittura d'avanzo. Capitolo 1 Per una delle stradine descritte, la sera del 7 novembre 1628, torna a casa dalla passeggiata don Abbondio, curato di un paesino di quelle terre. Il curato cammina lentamente e con fare svogliato, recitando le preghiere e tenendo in mano il breviario, mentre alza di quando in quando lo sguardo e osserva il paesaggio, oppure prende a calci i ciottoli sulla strada. Oltrepassata una curva, percorre la strada sino a un bivio alla cui confluenza è posto un tabernacolo, che contiene immagini dipinte di anime del purgatorio: qui vede due bravi che sembrano aspettare qualcuno, il primo seduto a cavalcioni sul muretto e l'altro in piedi, appoggiato al muro opposto della strada. PRIMA DIGRESSIONE STORICA: grida. Le "gride" erano i provvedimenti di legge che il governo del Ducato di Milano emanava nel XVII secolo e venivano chiamate così per l'uso da 1 parte dei banditori di gridarle sulla pubblica piazza. L'autore cita una grida dell'8 aprile 1583, emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso funzionario emanò un'altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne ancora un'altra con reiterate minacce, seguita da un'altra datata 23 maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l'autore, quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627, quest'ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei fatti narrati. Don Abbondio capisce subito che i due bravi stanno aspettando lui, dal momento che al vederlo essi si scambiano un cenno d'intesa e gli si fanno incontro. Il curato si guarda intorno, nella speranza di scorgere qualcuno, ma la strada è deserta; pensa se abbia mancato di rispetto a qualche potente, escludendo di avere conti in sospeso di questo genere; non potendo fuggire, decide di affrettare il passo e affrontare i due. Uno dei bravi gli si avvicina e gli chiede se ha intenzione di celebrare l'indomani il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, affermando che tale matrimonio non dovrà esser celebrato né l'indomani né mai e facendo poi il nome di don Rodrigo. Il curato fa un inchino e chiede suggerimenti, ma il bravo ribadisce l'ordine e intima al religioso di mantenere il segreto. SECONDA DIGRESSIONE STORIA: condizioni della società seicentesca Le leggi non mancano e sono anzi sovrabbondanti, ma non vengono praticamente mai applicate e l'impunità è profondamente radicata nella società: i malfattori trovano asilo nei conventi, sono protetti dai loro padroni e dai privilegi nobiliari, cosicché le gride minacciano pene che non trovano esecuzione e i delitti si moltiplicano. Gli uomini chiamati a far rispettare le leggi sono impotenti, pavidi o spesso conniventi con i criminali che dovrebbero contrastare, per cui accade non di rado che siano gli uomini onesti e tranquilli ad essere perseguitati dalla giustizia. Alcuni si riuniscono in leghe, associazioni e corporazioni, per scopi leciti o illeciti, ma queste non hanno sempre un grande potere e, specie nelle campagne, un signorotto circondato da una masnada di bravi senza scrupoli può esercitare un dominio quasi tirannico sul paese. L'incontro coi bravi lo ha sconvolto e ora, mentre torna a casa, pensa come uscire d'impiccio: dovrà dare spiegazioni a Renzo, e tra sé inveisce contro lui e Lucia che, secondo lui, hanno il torto di volersi sposare e di metterlo nei pasticci. Mentre è immerso nei suoi pensieri, il curato giunge alla sua casa in fondo al paese ed entra. Don Abbondio va a sedersi sulla sua sedia in salotto e Perpetua capisce subito che è sconvolto: gli chiede spiegazioni, ma il curato rifiuta di parlare e chiede del vino. La donna rinnova più volte le sue richieste, così alla fine il curato si 2 Rodrigo, in compagnia del conte Attilio. Don Rodrigo l'aveva importunata con parole volgari e quindi lei aveva affrettato il passo per raggiungere le compagne, anche dopo aver sentito don Rodrigo che diceva all'altro signore "scommettiamo". Il giorno seguente c'era stato un nuovo incontro, ma stavolta la giovane aveva tenuto gli occhi bassi ed era rimasta in mezzo alle altre ragazze. Lucia aveva raccontato tutto al padre Cristoforo, in confessione, e giustifica il suo silenzio con la madre dicendo di non aver voluto rattristarla, anche se vi era un ulteriore motivo: ossia il timore che la donna, alquanto pettegola, rivelasse la cosa in paese. Il padre Cristoforo le aveva consigliato di non uscire e di affrettare le nozze, motivo per cui lei aveva pregato Renzo di accelerare le pratiche. Lucia scoppia in lacrime e Renzo inveisce contro don Rodrigo, manifestando propositi bellicosi che però la giovane seda subito invitando il giovane a confidare in Dio. Lucia propone addirittura di lasciare il paese, ma Renzo le ricorda che non sono sposati e ciò creerebbe infiniti problemi. I tre restano in silenzio, finché Agnese ha un'idea e consiglia a Renzo di andare a Lecco, per rivolgersi a un dottore in legge che tutti chiamano Azzecca-garbugli e che la donna descrive come un uomo alto, magro, pelato, col naso rosso e una voglia di lampone sulla guancia. Agnese raccomanda a Renzo di non chiamarlo col suo soprannome e gli suggerisce di portargli come offerta i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per il banchetto nuziale della domenica. Il giovane accetta e, presi i capponi, si reca subito nella vicina cittadina di Lecco, camminando di buon passo e dimenando le povere bestie che tiene per le zampe, le quali si beccano tra loro come di solito fanno i compagni di sventura. Giunto a Lecco, Renzo si fa indicare la casa dell'avvocato e qui viene accolto dalla serva in cucina, alla quale consegna i capponi non senza qualche esitazione. Compare poi l'Azzecca-garbugli, che accoglie Renzo nel suo studio. L'Azzecca-garbugli chiede a Renzo quale sia il suo caso e il giovane gli domanda, con qualche esitazione, se chi minaccia un curato perché non celebri un matrimonio può incorrere in una pena. L'avvocato cade in un equivoco e pensa che Renzo sia un bravo, quindi gli dice di aver fatto bene a rivolgersi a lui e si alza, cercando qualcosa tra i documenti sul tavolo. Dopo un po' trova una grida, datata 15 ottobre 1627, e inizia a leggerla invitando Renzo a seguirlo (il giovane dice di saper leggere "un pochino"): la grida commina pene assai severe a coloro che minacciano un curato per non celebrare un matrimonio, al che Renzo si mostra soddisfatto e felice che la legge preveda il caso che lo riguarda. Il dottore, che lo crede un malfattore, è stupito della sua calma e gli dice che ha fatto bene a tagliarsi il ciuffo, cosa che ovviamente Renzo smentisce affermando di non averlo mai portato in vita sua, cioè di non essere un bravo. A questo punto l'Azzecca-garbugli si irrita e, credendo che Renzo voglia farsi beffe di lui, lo invita a dire tutta la verità perché solo in questo modo l'avvocato potrà tirarlo fuori dai guai: gli prospetta poi il modo in cui lo assisterà, ovvero invocando la protezione del signore che lo ha incaricato di eseguire le minacce, comprando testimoni, minacciando a sua volta lo sposo offeso e il curato. Renzo comprende l'equivoco dell'Azzecca-garbugli e svela finalmente la verità, affermando di non essere un colpevole ma la vittima. Il giovane racconta per sommi capi la sua vicenda, ma quando fa il nome di don Rodrigo l'avvocato lo interrompe e inizia a storcere la bocca. L'Azzecca-garbugli non vuole sentire altro da Renzo e lo accusa di raccontar 5 fandonie, invitandolo ad andarsene subito dalla sua casa: lo caccia via senza sentir ragioni, ordinando addirittura alla serva di restituirgli i capponi. Nel frattempo Lucia vorrebbe avvertire il padre Cristoforo dell'accaduto per avere un consiglio, ma nessuna delle due sa come contattarlo (il convento di Pescarenico dove il cappuccino si trova è lontano e loro non hanno certo il coraggio di andarci). In quel momento si sente bussare alla porta e si sente qualcuno dire "Deo gratias", per cui Lucia corre ad aprire e compare fra Galdino, un cercatore laico cappuccino che porta al collo la sua bisaccia per la cerca delle noci. Dopo i saluti, Agnese ordina alla figlia di andare a prendere le noci per il convento. Fra Galdino chiede spiegazioni ad Agnese circa il matrimonio rimandato e la donna dice che è stato a causa di una malattia del curato. Il cercatore lamenta poi della scarsità della sua raccolta e dichiara che come rimedio per la carestia c'è solo l'elemosina, come dimostra il "miracolo delle noci" che avvenne molti anni prima in un convento di cappuccini in Romagna: il frate narra che in quel convento c'era un padre santo di nome Macario, che un giorno vide in un campo il proprietario di un noce che ordinava ai suoi contadini di abbattere la pianta; l'uomo disse al padre che il noce non faceva frutti, al che il cappuccino rispose che quell'anno avrebbe dato un raccolto straordinario. L'uomo accettò di risparmiare l'albero e promise che la metà delle noci sarebbe andata al convento. A primavera, in effetti, il noce produsse una quantità incredibile di frutti, ma il proprietario era morto prima di raccoglierle e suo figlio, giovane molto diverso dal padre, si era poi rifiutato di onorare la promessa e di consegnare le noci al convento. Un giorno, però, il giovinastro stava gozzovigliando con amici suoi pari, ridendo dei frati, e li aveva condotti in granaio a vedere le noci: al posto dei frutti trovarono solo i fiori secchi della pianta, per cui la voce del miracolo si sparse in un baleno e il convento ne guadagnò, perché in seguito ricevette tante elemosine da poterle poi ridistribuire tra i poveri, come normalmente avviene. Poco dopo ritorna Lucia con le noci e fra Galdino riempie la sua bisaccia. La giovane lo prega di riferire al padre Cristoforo che lei e la madre hanno bisogno di parlargli e che lo faccia venire alla loro casa quanto prima. Il frate promette di riportare il messaggio e se ne va. In seguito Agnese rimprovera la figlia della sua generosa elemosina, specie in quell'anno di carestia, ma Lucia si giustifica adducendo il fatto che in tal modo fra Galdino, avendo la bisaccia già piena, tornerà subito al convento e riferirà il messaggio, mentre se dovesse proseguire la cerca delle noci se ne scorderebbe di certo. A questo punto sopraggiunge Renzo che getta i capponi sulla tavola e riferisce l'infelice esito del suo incontro con l'Azzecca-garbugli. Renzo torna a manifestare oscuri propositi di vendetta, al che le due donne cercano di calmarlo e Lucia dichiara di sperare molto nell'aiuto del padre Cristoforo, che il giorno dopo verrà certamente a visitarle. Capitolo 4 Alle prime luci dell'alba padre Cristoforo lascia il convento di Pescarenico (un piccolo paese sulle rive del lago, non lontano dal ponte di Lecco e abitato per lo più da pescatori) per recarsi alla casa di Agnese e Lucia. Lungo il sentiero il frate vede da tutte le parti i segni della 6 carestia: i contadini che spargono i semi nei campi con parsimonia e lavorano svogliatamente con la zappa, una ragazza conduce al pascolo una vacca macilenta raccogliendo erbe che possono nutrire la sua famiglia. L'autore apre a questo punto un ampio flashback in cui racconta il passato di padre Cristoforo, che prima di diventare frate si chiamava Lodovico (il nome della città in cui è nato non viene menzionato). Lodovico è figlio di un ricco mercante, che alla fine della sua vita lascia gli affari e inizia a vivere come un nobile, vergognandosi delle proprie origini che tenta in ogni modo di nascondere. Lodovico viene educato come un aristocratico e acquista abitudini signorili. Trovandosi assai ricco alla morte del padre, egli tenta di mescolarsi agli altri nobili della sua città, ma viene trattato con disprezzo. In seguito tenta di competere con loro in sfarzo e spese futili, attirandosi inimicizie e critiche, per poi diventare una specie di difensore dei deboli e degli oppressi che subiscono angherie proprio da parte di quei nobili. La sua indole è onesta ma incline alla violenza, per cui Lodovico si circonda di sgherri e bravi ed è spesso costretto a compiere atti moralmente discutibili per amore della giustizia, tanto che, a volte, è tentato dall'idea di abbandonare il mondo e farsi frate). Un giorno Lodovico cammina per strada insieme a due bravi e un fedele servitore di nome Cristoforo, già dipendente del padre e ora suo maestro di casa, un uomo di cinquant'anni con una numerosa famiglia. Il giovane incontra un nobile della sua città, noto per la sua arroganza: entrambi camminano rasente un muro, e poiché Lodovico lo sfiora con il fianco destro avrebbe diritto che l'altro gli cedesse il passo, mentre il nobile potrebbe esigere la stessa cosa in quanto aristocratico (dunque entrambi, stando ai codici cavallereschi del tempo, avrebbero ragione). Quando i due si trovano di fronte, il nobile intima imperiosamente a Lodovico di farlo passare e il giovane rifiuta in modo sdegnoso. Segue un breve scambio di battute in cui i contendenti si scambiano tipici insulti cavallereschi e nasce così un duello cui prendono parte anche i bravi. Lo scontro è disuguale sia per il numero sia perchè Ludovico, a differenza dell’avversario, mirava a scansare i colpi e a disarmare l’avversario, piuttosto che a ucciderlo. Quando il nemico piomba addosso a Lodovico, già ferito al braccio sinistro, Cristoforo, vedendo il padrone in grave pericolo, accorre con il pugnale per aiutarlo, ma viene in questo modo ucciso dal nobile. Alla vista di ciò, Lodovico, come fuor di sé, uccide a sua volta il nobile, trafiggendolo con la sua lama. A questo punto i bravi di entrambi si danno alla fuga, mentre Lodovico rimane steso in strada, malconcio, accanto ai corpi di Cristoforo e del suo rivale. Attorno ai tre uomini si raccoglie una piccola folla di spettatori, i quali, sapendo che Lodovico era un giovane perbene e non volendo che questo finisse nelle mani della giustizia o dei parenti del morto, lo conducono a un vicino convento di cappuccini, dove sarebbe stato curato e al riparo da possibili ritorsioni (i luoghi sacri offrono asilo a chi vi si rifugia). Lodovico è rimasto profondamente turbato dalla morte di Cristoforo che si è sacrificato per lui, e soprattutto dalla vista dell'uomo che lui stesso ha assassinato; più tardi un padre del convento gli riferisce che il nobile, prima di spirare, lo ha perdonato e ha chiesto a sua volta perdono per il male commesso. Frattanto i parenti del nobile ucciso, armati di tutto punto, giungono nei 7 Tra il conte Attilio e il podestà è in corso una disputa su una questione cavalleresca: tale questione riguarda una sfida a duello mandata da un cavaliere spagnolo a uno milanese, la quale era stata recapitata da un servo al fratello dello sfidato che, irritato, l'aveva fatto bastonare.. Attilio sostiene che essa è legittima, mentre il podestà afferma il contrario in riferimento al diritto romano e all'usanza per cui l'ambasciatore è persona inviolabile. Don Rodrigo, volendo troncare la discussione, propone di fare arbitro di essa padre Cristoforo: il frate si dichiara incompetente, ma don Rodrigo fa alcune pesanti allusioni al suo passato di laico, lasciando intendere che sa che in gioventù aveva ucciso un uomo proprio in un duello. Alla fine padre Cristoforo, costretto a dire la propria, afferma che, secondo lui, non dovrebbero esserci né sfide, né duelli, né bastonature. Don Rodrigo cambia improvvisamente argomento di conversazione e allude alla guerra per il possesso di Mantova che è in corso tra la Francia di Luigi XIII e la Spagna di Filippo IV. Il conte Attilio considera che tale duello si concluderà pacificamente, mentre il podestà ribatte che ha saputo dal castellano spagnolo di Lecco che le cose non stanno così. Dopodiché i convitati iniziano a parlare della carestia. Questi accusano gli incettatori di grano e i fornai, rei di nascondere il pane, per cui più d'uno invoca processi sommari contro di essi. Padre Cristoforo assiste alla scena in silenzio, senza mostrare di volersene andare prima di aver parlato con don Rodrigo, che, per liberarsi di lui, a un certo punto si alza da tavola e fa accomodare il frate in una sala appartata, dove i due potranno parlare. Capitolo 6 Don Rodrigo, appartatosi con padre Cristoforo in una sala del palazzo, invita il frate a parlare. Il cappuccino lo informa del fatto che alcuni bravi hanno fatto il suo nome per minacciare un povero curato e lo prega umilmente di por fine a questa vicenda in nome della sua coscienza e dell'onore. Don Rodrigo ribatte che il frate gli parlerà della sua coscienza in confessione, mentre del suo onore è lui l'unico custode: il frate capisce che il nobile vuole trasformare il discorso in una contesa e per non irritarlo ulteriormente si affretta a scusarsi e a ribadire la sua preghiera in favore di due poveri innocenti. Dopo che i due dialogano, quando don Rodrigo fa per andarsene, Cristoforo gli si pone davanti e rinnova in nome della misericordia la sua preghiera affinché don Rodrigo, con una sua parola, faccia cessare la persecuzione nei confornti di tale ragazza. Poiché padre Cristoforo insiste tanto nel voler proteggere questa fanciulla, don Rodrigo si dichiara disposto ad aiutarla e avanza una proposta al frate: dovrà consigliare alla ragazza di venire a mettersi sotto la "protezione" del signorotto, cosicché nessuno oserà più importunarla. A questa incredibile affermazione, il frate perde le staffe e inizia ad accusare apertamente il nobile, puntandogli contro l'indice. Questi è quasi attonito per il contegno del frate, il quale prosegue affermando che Lucia è sotto la protezione di Dio e don Rodrigo non potrà farle del male, in quanto la punizione divina non ha certo riguardo per il suo palazzo o i suoi bravi. Padre Cristoforo inizia una minacciosa profezia dicendo "Verrà un giorno...", ma a quel punto don Rodrigo gli afferra il braccio puntato contro di lui e lo apostrofa con parole villane, rinfacciando al frate le sue origini non nobili e intimandogli di 10 uscire subito dalla sua casa, se non vuole ricevere una bastonatura per l'insolenza dimostrata. Il frate ascolta a capo chino e atteggiamento umile gli insulti del signorotto, quindi esce dalla porta che gli viene mostrata dal padrone di casa e si accinge a lasciare l'edificio. Mentre esce dalla stanza, padre Cristoforo vede un uomo che striscia lungo la parete e sembra non voglia rivelare la sua presenza: è il vecchio servitore che l'aveva ricevuto al palazzo e che vive lì dai tempi del padre di don Rodrigo (uomo ben diverso da lui). Dopo la sua morte il nuovo padrone aveva licenziato la vecchia servitù, ma aveva trattenuto costui per la sua alta opinione della famiglia e la conoscenza del cerimoniale. Il servo fa cenno al frate di tacere, lo accompagna in un angolo appartato e gli rivela di sapere qualcosa di importante, che intende riferirgli l'indomani al convento dopo averne saputo maggiori dettagli. Padre Cristoforo ringrazia l'uomo, lo benedice e se ne va. Intanto, a casa di Agnese e Lucia le due donne si stanno consultando con Renzo e a un certo punto la madre della giovane propone una sua idea che, secondo lei, risolverà l'impiccio più presto e meglio di quanto non saprebbe fare padre Cristoforo. Agnese allora spiega che per celebrare un matrimonio è necessaria la presenza del curato, ma non il suo consenso: è sufficiente che i due promessi pronuncino i voti di fronte a lui e a due testimoni. Renzo accoglie la proposta con entusiasmo e, quando Agnese gli ricorda la necessità di trovare due testimoni fidati, il giovane afferma di aver avuto un'idea. Lucia tenta debolmente di opporsi, ma Agnese la zittisce e Renzo esce di casa, deciso a realizzare il suo progetto. Renzo si reca a casa di un suo amico di nome Tonio, dove viene accolto e invitato a sedersi per cena. Renzo dice di voler parlare con Tonio da soli, per cui rivolge all'amico l'invito di cenare con lui all'osteria, invito che viene subito accettato da Tonio. Renzo e Tonio vanno dunque all'osteria del paese, e dopo una cena frugale Renzo chiede all'amico se vuol fargli un favore. Renzo ricorda a Tonio che quest'ultimo ha un debito di venticinque lire con don Abbondio, dicendosi pronto a pagarlo al suo posto se gli renderà un certo servizio; Tonio ne sarebbe ben felice, dal momento che il curato lo tormenta con continue e pressanti richieste di saldare il debito, (in tal modo potrà riscattare la collana d'oro della moglie data a garanzia). Renzo espone così lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e chiede a Tonio di fargli da testimone, cosa che l'amico accetta di buon grado proponendo poi il fratello Gervaso, uomo semplice e non troppo intelligente, come secondo testimone. Renzo accetta e promette di pagare da bere e da mangiare al fratello di Tonio, quindi i due si danno appuntamento per la sera dopo. I due escono dall'osteria e, dopo essersi salutati, tornano alle corrispettive abitazioni Renzo torna trionfante da Agnese e Lucia, spiegando di essersi accordato con Tonio. Agnese ricorda a Renzo che bisognerà pensare a Perpetua, giacché la domestica del curato non farà certo entrare i due promessi in casa del suo padrone, ma la donna ha già pensato a come distrarla toccando un certo tasto che lei sa essere molto sensibile. Resta tuttavia da convincere Lucia, la quale continua a opporsi a quello che considera un sotterfugio: Renzo cerca di persuaderla, ma la giovane continua a dire che sarebbe meglio confidare nell'aiuto di Dio e che non sarebbe buona cosa tacere tutto al padre Cristoforo. Mentre i tre stanno discutendo, si sentono alcuni passi e capiscono che sta arrivando il frate. Agnese così, dopo 11 aver intimato Lucia di non fare una parola di quanto hanno progettato al frate, va ad accoglierlo. Capitolo 7 Padre Cristoforo riferisce a Renzo, Lucia e Agnese l'infelice esito del suo colloquio con don Rodrigo, invitando tuttavia a confidare nella Provvidenza. Il frate raccomanda a Renzo di venire da lui al convento il giorno dopo (dove attenderà il servitore di don Rodrigo), o di mandare qualcun altro se il giovane non potesse, raccomandando di avere pazienza e di attendere pochi giorni senza compiere colpi di testa. Alla fine il frate se ne va affrettando il passo per giungere al convento prima di notte. Appena il frate è uscito, Renzo, fuori di sé dalla rabbia, torna a pronunciare minacce contro don Rodrigo. Le due donne tentano di farlo ragionare, ma il giovane non vuol sentire ragioni e si dice determinato ad uccidere il signorotto, incurante delle conseguenze (forse sarà imprigionato o ucciso, ma almeno, dice, impedirà a don Rodrigo di mettere le mani sulla sua promessa sposa). Lucia piange e lo supplica di tornare in sè, poiché lei non si è certo promessa a un assassino o a un poco di buono: alla fine gli si inginocchia di fronte e, per placarlo, promette che verrà dal curato per tentare il "matrimonio a sorpresa". Il mattino dopo Renzo torna di buon'ora a casa delle due donne, per definire gli ultimi dettagli del piano che attueranno la sera. Agnese chiede a Renzo se andrà al convento da padre Cristoforo, ma il giovane rifiuta in quanto teme che il cappuccino potrebbe intuire cosa stanno macchinando. La donna decide così di mandare là Menico, un ragazzo di circa dodici anni imparentato con lei. Agnese va a casa del ragazzo e gli promette due monete d'argento se andrà a Pescarenico a sentire cos'ha da dire il frate, per poi tornare da loro a riferirglielo. Nel resto della mattina avvengono alcuni strani fatti che mettono in agitazione Lucia e Agnese. Prima un mendicante entra a casa loro per chiedere del pane e, una volta ricevuta l'elemosina, si trattiene in casa con pretesti, guardandosi intorno con occhi curiosi. Nelle ore successive, sino a mezzogiorno, altri strani figuri passano davanti alla casa e sembrano guardare in modo altrettanto sospetto. L'autore a questo punto interrompe la narrazione e torna al giorno prima, al momento in cui padre Cristoforo ha lasciato don Rodrigo nel suo palazzo. Durante la cena don Rodrigo è alquanto taciturno e il conte Attilio lo punzecchia invitandolo a pagare la scommessa, dal momento che gli sembra evidente che non potrà vincerla. L'altro ribatte che non è ancora passato il giorno di San Martino e propone di raddoppiare la posta della scommessa. Il giorno dopo don Rodrigo sembra avere scordato della profezia di Cristoforo ed è ben deciso ad andare fino in fondo coi suoi sporchi progetti. Fa dunque chiamare a sé il Griso, il capo dei suoi bravi che, tempo prima, aveva ucciso un uomo in pieno giorno e si era messo sotto la protezione del signorotto, ponendosi al riparo da ogni giustizia: ciò gli ha garantito l'impunità e lo ha reso più feroce esecutore di nuovi delitti. Il nobile ordina al Griso di fare in modo che Lucia la sera stessa sia portata al palazzo, raccomandandogli di non torcere un solo capello alla ragazza. Questi spiega al padrone che la casa di Lucia è in fondo al paese ed è posta 12 richiamare quanta più gente possibile e dare così aiuto al padrone. Tutti nel paese sono svegliati dai rintocchi e molti abitanti afferrano dei forconi. I rintocchi vengono uditi da Agnese e Perpetua, ma anche dai bravi: l'autore fa un passo indietro e spiega che i tre hanno raggiunto il Griso e gli altri appostati presso il casolare abbandonato. Il capo dei bravi indossa un cappellaccio e un mantello da pellegrino, impugna un bastone e si muove seguito dagli altri, avvicinandosi alla casa delle due donne. Giunto all'uscio di strada, il Griso ordina a due sgherri di calarsi oltre il muro di cinta e nascondersi dietro un fico nel cortile, mentre lui bussa per fingersi un pellegrino smarrito che chiede ricovero per la notte. Poiché non riceve risposta, il Griso forza la serratura ed entra con cautela, chiamando con sé i due bravi nascosti dietro il fico e facendo luce con una debole lanterna. Non trovando nessuno, egli pensa che qualcuno abbia fatto la spia. Intanto i due bravi rimasti a sentinella dell'uscio di strada sentono dei piccoli passi frettolosi che si avvicinano: si tratta di Menico, inviato da padre Cristoforo ad avvisare Lucia e Agnese di scappare per via del rapimento e di rifugiarsi al convento. Il ragazzo entra titubante ed è subito afferrato per le braccia dai bravi che gli intimano con tono minaccioso di far silenzio. All'improvviso il silenzio della notte è rotto dai rintocchi delle campane a martello e i due bravi, allarmati, lasciano andare Menico (che si affretta a fuggire via e a dirigersi verso la chiesa) ed entrano in casa. Il Griso cerca di tenerli insieme e di calmarli, come il cane che fa la guardia a un branco di maiali. Dopodichè il gruppo esce dalla casa e si allontana dal paese. L'autore torna ad Agnese e Perpetua, che nel frattempo continuano a parlare. Quando le due donne sono a poca distanza dalla casa del curato, si sente all'improvviso il primo grido di don Abbondio che chiama aiuto. Perpetua riesce a divincolarsi e si precipita verso l'uscio, avendo capito che sta accadendo qualcosa. Una volta usciti da casa di don Abbondio, Renzo, Lucia e Agnese incontrano Menico che invita tutti ad andare al convento di padre Cristoforo, poiché "C'è il diavolo in casa" (il ragazzo allude ai bravi che hanno tentato di ucciderlo). I quattro così si allontanano in fretta, dirigendosi al convento di Pescarenico. Intanto un gran numero di abitanti del paese, allarmati dalle campane a martello, raggiungono la chiesa e chiedono ad Ambrogio cosa stia succedendo, al che il sagrestano risponde che c'è qualcuno in casa del curato. Il curato si affaccia da una finestra e tranquillizza tutti, dicendo che gli intrusi sono fuggiti e invitando i presenti a tornare a casa. La folla sta per disperdersi, quando arriva trafelato un uomo che abita vicino alla casa di Agnese e ha visto i bravi armati nel cortile di questa ed esorta il gruppo ad andare subito là: la folla raggiunge la casa e non tarda ad accorgersi che l'abitazione è stata violata e le due donne sono scomparse. Il mattino dopo il console del paese riceverà la visita di due bravi che gli intimeranno di non rendere testimonianza su quanto è avvenuto la sera prima e di non sollevare scandali, se intende morire di malattia e non di morte violenta. Frattanto Renzo, Agnese e Lucia proseguono la loro fuga insieme a Menico, finché i quattro raggiungono un campo isolato dove non c'è nessuno. Renzo informa Agnese del triste esito dello stratagemma, mentre Menico racconta dell'avvertimento ricevuto da padre Cristoforo e racconta cosa è successo a casa delle due donne. Dopo che Agnese gli dà quattro monete 15 d'argento e Renzo una berlinga, Menico torna a casa, esortato a non dire nulla di quanto appreso dal frate. I tre giungono al convento e ne aprono la porta, trovando padre Cristoforo che è in attesa insieme a fra Fazio, il laico sagrestano dei cappuccini. Lucia è turbata all'idea di non rivelare la verità al frate, ma questa è la "notte degl'imbrogli e de' sotterfugi". Cristoforo afferma che il paese non è più un posto sicuro per loro e che, per quanto la cosa sia difficile da accettare, se ne dovranno andare: forse presto potranno tornare, ma nel frattempo egli provvederà a trovare ai tre un rifugio sicuro e a soddisfare le loro necessità. Le donne dovranno andare a Monza, presentando una lettera al padre guardiano del convento dei cappuccini che penserà a trovar loro una sistemazione. Renzo invece andrà a Milano, dove presenterà a sua volta una lettera a padre Bonaventura da Lodi, al convento di Porta Orientale, il quale gli troverà un lavoro in attesa di tempi migliori. Il frate invita i tre a raggiungere la riva del lago, nei pressi dello sbocco del torrente Bione, dove troveranno un barcaiolo al quale dovranno rivolgersi con un segnale convenuto (essi diranno "barca" e alla domanda "per chi?", risponderanno "San Francesco"); questi li trasporterà alla riva opposta, dove un calesse li porterà sino a Monza. Renzo e Agnese consegnano al frate le chiavi delle rispettive case, perché qualcuno badi a custodirle in loro assenza. A questo punto i tre si congedano da padre Cristoforo e raggiungono in fretta la barca nel luogo indicato. Renzo, Agnese e Lucia trovano subito il barcaiolo e questi, dopo i segnali convenuti, li fa salire sull'imbarcazione e si stacca dalla proda, iniziando a remare verso la riva opposta. I tre sono silenziosi e guardano il paesaggio, in cui si distingue il profilo delle montagne, il paese, il palazzotto di don Rodrigo. Lucia vede da lontano la sua casa ed è presa da una grande commozione, piangendo segretamente: la giovane dice addio ai monti, il cui aspetto le è familiare come quello delle persone care, ai torrenti, il cui suono le è noto come la voce di chi ama, alle case che biancheggiano qua e là sul pendio. Colui che si allontana volontariamente dal paese natio, per fare fortuna altrove, parte a malincuore e vorrebbe tornare indietro, all'idea di perdersi nelle tumultuose e caotiche città; Lucia, che parte costretta da una prepotenza, che pensava di trascorrere in quel luogo tutta la sua vita, dice tristemente addio alla sua casa, dove Renzo veniva a trovarla, alla casa del promesso sposo, in cui pensava di entrare come sua moglie, alla chiesa, dove il rito del matrimonio era stato preparato e si sarebbe dovuto celebrare nella santità del sacramento. Capitolo 9 Il barcaiolo fa scendere Renzo, Agnese e Lucia sulla sponda opposta dell'Adda. Il calesse è lì ad attenderli con il suo conduttore e i tre partono subito alla volta di Monza. Il baroccio giunge a Monza poco dopo l'alba e i tre vengono portati dal conduttore in una locanda, dove possono riposare e rifocillarsi (l'uomo rifiuta qualsiasi ricompensa come già il barcaiolo). Renzo vorrebbe trattenersi lì tutto il giorno per essere d'aiuto alle due donne, ma queste lo esortano a partire subito alla volta di Milano. Il giovane si congeda dunque da Agnese e Lucia 16 trattenendo a stento le lacrime, mentre la ragazza piange mostrandosi addolorata per la separazione. Il conduttore del calesse conduce Agnese e Lucia al convento dei padri cappuccini, che si trova poco fuori Monza e dove, una volta arrivati, l'uomo fa subito chiamare il padre guardiano. Questi si presenta sull'uscio e legge la lettera scritta da padre Cristoforo, in cui ci sono dettagli sulla vicenda, invitando poi le due donne a seguirlo al convento delle monache dove le presenterà alla Signora. Il frate raccomanda tuttavia ad Agnese e Lucia di seguirlo a una certa distanza in strada, per non dare adito a chiacchiere. Lucia e Agnese chiedono al conduttore del calesse che le accompagna chi sia questa "Signora" e l'uomo spiega che si tratta di una monaca, figlia di un nobile molto potente a Milano e a Monza. Poco dopo i tre giunge al monastero, che sorge non distante dalla porta del borgo. Il padre guardiano prega il conduttore di tornare dopo un paio d'ore a ricevere la risposta e l'uomo si congeda dalle due donne con saluti e ringraziamenti. Il frate fa entrare Agnese e Lucia nel cortile del convento e le fa attendere nelle stanze della fattoressa, mentre lui va a chiedere udienza alla "Signora"; torna poco dopo e le accompagna al parlatorio dando loro indicazioni su come comportarsi con la monaca. Lucia non è mai stata in un convento. Una volta dentro il parlatorio, vede poi il padre guardiano avvicinarsi a una finestrella protetta da una grata che si apre sulla parete, al di là della quale si presenta in piedi Gertrude, la "Signora" del monastero. Il padre guardiano presenta alla "Signora" le due donne che si fanno avanti inchinandosi. La monaca ha parole di apprezzamento per i cappuccini e così chiede ulteriori dettagli sulla storia di Lucia: la giovane arrossisce e Agnese inizia a parlare, ma il frate le lancia un'occhiataccia e spiega poi a Gertrude che Lucia ha dovuto lasciare il suo paese a causa di imprecisati pericoli, precisando che Lucia ha subìto la persecuzione di un nobile prepotente. Gertrude invita Lucia a farsi avanti e a dire se quel cavaliere era davvero per lei un "persecutore odioso". Lucia, sconvolta dall'imbarazzo, inizia a balbettare senza dir nulla, quando interviene in suo aiuto Agnese che spiega a Gertrude che la figlia odiava quel cavaliere ed era promessa sposa a un giovane perbene, di cui sarebbe già la moglie se il curato del loro paese avesse avuto un po' più di coraggio. Gertrude interrompe stizzita Agnese e la rimprovera di parlare senza essere interrogata. Nel rivolgersi a Lucia, Gertrude insinua il "dubbio maligno" che la giovane potesse essere innamorata di don Rodrigo e che la madre l'abbia costretta a sposare Renzo per toglierle quel partito dalla testa. Gertrude agisce sotto la spinta della sua morbosa curiosità, ma anche dalla triste esperienza che, spesso, i genitori impongono le proprie scelte ai figli come è accaduto a lei. Lucia conferma la versione della madre, dicendo che lei prendeva in marito Renzo di sua volontà e preferirebbe morire piuttosto che cadere nelle mani di quel "cavaliere". Gertrude crede a Lucia e si dice pronta ad aiutarla, così decide di ospitare le due donne nell'alloggio lasciato libero dalla figlia della fattoressa che si è sposata, le cui mansioni saranno ricoperte da loro nei giorni seguenti. In seguito Gertrude congeda il padre e Agnese, trattenendo presso di sé Lucia e prendendo gli accordi necessari con la badessa, mentre il frate va a scrivere una lettera in cui fornirà ragguagli a padre Cristoforo su 17 alla domestica. A Gertrude viene quindi assegnata un'altra anziana cameriera e questa non esita a felicitarsi a sua volta con la giovane per la sua decisione di entrare in convento. Il mattino dopo Gertrude è svegliata assai presto dalla cameriera, che la invita ad affrettarsi poiché la madre è già in piedi e anche suo fratello la attende, impaziente come al solito e secondo il suo carattere. La giovane si alza e si lascia vestire e pettinare, quindi è condotta alla presenza dei familiari in una sala dove le è offerta una tazza di cioccolata, gesto che vuol sottolineare la sua raggiunta maturità (si tratta infatti di una bevanda rara e preziosa). Prima di partire alla volta del convento di Monza, il principe si rivolge alla figlia e la ammonisce a comportarsi bene e a rivolgere la sua supplica di essere ammessa al convento con fare sicuro, con naturalezza, per non dare adito a dubbi e incertezze. In seguito Gertrude raggiunge l'ingresso del convento dove l'attende la madre badessa che chiede alla giovane cosa sia venuta a chiederle in quel luogo. Gertrude è colta da un'incertezza ed è sul punto di dire una cosa diversa da quella che tutti si attendono, ma poi lo sguardo severo e impaziente del padre spegne in lei ogni velleità di ribellione e la ragazza rivolge alla badessa la supplica di essere ammessa a vestire l'abito monacale in quel convento. La badessa conferisce in privato con il principe e, in modo imbarazzato, gli ricorda che se mai avesse forzato la figlia a quel passo incorrerebbe nella scomunica, dicendosi comunque sicura che ciò non sia avvenuto. Poco dopo la famiglia si congeda dalle suore e lascia il convento per rientrare a palazzo, a Milano. Durante il viaggio di ritorno Gertrude ripensa alla sua debolezza e alla difficoltà di recedere dal passo che ormai appare inevitabile. Al termine della cena il principe inizia a parlare della scelta della madrina, ovvero la dama che dovrà accompagnare Gertrude sino al momento della monacazione facendole visitare chiese, monumenti e ville che rappresentano lo splendore del mondo che lei abbandona. Benché la scelta sia normalmente assegnata ai genitori, il principe la rimette alla decisione della figlia fingendo che questa sia una gran concessione: Gertrude indica il nome della dama che, durante la sera, l'ha lodata e vezzeggiata più delle altre, scelta che trova d'accordo tutti i suoi familiari (è a lei che ha già pensato il padre, tanto più che la dama in questione mira a far sposare sua figlia col principino). Il giorno dopo Gertrude si sveglia di buon'ora in attesa del vicario delle monache che verrà ad esaminarla. Il principe la esorta abilmente a completare l'opera tanto bene intrapresa e a non guastare tutto mostrandosi esitante col vicario o, peggio, facendogli capire che la sua vocazione non è sincera: ciò getterebbe discredito sull'onore della famiglia e del principe stesso, il quale sarebbe costretto a quel punto a rivelare a tutti il "fallo" commesso da Gertrude (la ragazza, al solo sentirne parlare, diventa rossa dall'imbarazzo). Il vicario è già abbastanza convinto delle intenzioni di Gertrude, dal momento che il principe ne ha tanto lodato la vocazione, pure il prete inizia a chiederle se per caso non abbia subìto minacce o lusinghe per essere forzata alla monacazione. Gertrude vorrebbe dire la verità al vicario, ma per far questo dovrebbe scendere in dettagli che la imbarazzano troppo, quindi risponde che si fa monaca per sua volontà e senza subire costrizioni. In seguito dice di aver sempre avuto questo desiderio e nega che a spingerla a ciò sia qualche disgusto o delusione 20 passeggera per la vita mondana. Gertrude sa bene che il vicario potrebbe forse impedirle di entrare in convento, ma non potrebbe far nulla per proteggerla dalla collera del padre all'interno di quella casa, dunque continua a mentire e alla fine convince il prete della bontà della sua vocazione. Il vicario, uscendo dalla stanza del colloquio, si imbatte nel principe e si congratula con il nobile per la buona disposizione d'animo in cui ha trovato la figlia. Ciò solleva il principe dall'incertezza in cui era rimasto sino a quel momento, perciò l'uomo si precipita a complimentarsi con Gertrude e a riempirla di lodi e promesse. La giovane chiede a quel punto di entrare nel convento prima possibile, per porre fine a quello strazio di feste e divertimenti che sono per lei ragione di sofferenza, e il suo desiderio è presto esaudito: dopo dodici mesi di noviziato giunge il momento di pronunciare solennemente i voti, diventando così monaca per sempre. La giovane, una volta indossato il velo, prova avversione e ripulsa per la vita che è costretta a fare, invidiando la sorte di qualunque altra donna che, liberamente, possa godere dei doni della vita; inoltre detesta le consorelle che hanno avuto una parte nel complotto che l'ha condotta al convento, verso le quali usa numerosi dispetti e sgarbi, mentre disprezza le altre che si mostrano amabili verso di lei. Poca soddisfazione trae infine dall'essere riverita da tutti in monastero e nell'esser chiamata la "Signora". Poco dopo il suo ingresso in monastero, Gertrude diventa maestra delle educande: la donna pensa al fatto che molte di loro sono destinate a quella vita nel mondo che a lei è stata negata, perciò le tiranneggia e le tratta duramente. In altre occasioni la monaca è presa da uno stato d'animo affatto opposto e in quei momenti eccita la chiassosità delle sue allieve, si mescola ai loro passatempi, ne diventa la confidente e la complice. La monaca ha il privilegio di alloggiare in un quartiere a parte del convento, che da quel lato è attiguo a una casa laica dove vive Egidio, un giovane scapestrato che si circonda di sgherri e si fa beffe delle leggi e della giustizia grazie alle sue amicizie potenti. Costui da una finestrella che dà sul chiostro un giorno nota Gertrude che passeggia solitaria in un piccolo cortile e le rivolge la parola: la sventurata risponde a quel giovane, iniziando in seguito con lui una relazione clandestina. Gertrude prova molta felicità per la sua nuova condizione e molte consorelle notano un cambiamento nei suoi modi. Un giorno, però, Gertrude ha una violenta discussione con una conversa e la maltratta in modo eccessivo: la donna si lascia sfuggire il fatto che lei è a conoscenza di un segreto sulla monaca, manifestando l'intenzione di svelare tutto al momento opportuno. Gertrude ne è molto turbata e non molto tempo dopo la conversa svanisce nel nulla, finché non viene scoperta una buca nel muro dell'orto che lascia pensare a tutti che la donna sia scappata da lì; le ricerche a Monza e a Meda, donde la conversa è originaria, non approdano a nulla e forse, osserva l'autore, anziché cercare tanto lontano si sarebbe dovuto scavare vicino (la conversa è stata uccisa da Egidio con la complicità di Gertrude e il corpo è stato sepolto nel convento). In seguito si sparge la voce che la conversa è forse fuggita in Olanda e non si parla più di lei, anche se Gertrude è spesso tormentata dal ricordo della donna. 21 È trascorso circa un anno da quei terribili avvenimenti, quando Agnese e Lucia sono state presentate a Gertrude: nel suo colloquio privato con Lucia, la "Signora" moltiplica le domande riguardo alla persecuzione di don Rodrigo e trova strano il ribrezzo che la giovane mostra per il signorotto, con un atteggiamento che sembra davvero singolare a Lucia visto che una monaca non dovrebbe avere familiarità con simili argomenti. Appena può parlare con la madre, Lucia le confida l'imbarazzo per quelle domande ed Agnese le spiega che i signori, chi più chi meno, sono tutti un po' matti. Gertrude in realtà è molto ben disposta verso Lucia ed è davvero intenzionata a proteggerla, perciò lei e la madre vengono alloggiate nelle stanze lasciate libere dalla figlia della fattoressa e adibite al servizio del monastero. A questo punto l'autore torna a mostrarci il signorotto quando, la sera prima, attende al palazzotto l'esito della spedizione che doveva portare al rapimento della giovane. Capitolo 11 Il Griso e i bravi fanno ritorno al palazzotto di don Rodrigo, la notte in cui hanno tentato di rapire Lucia, simili a un branco di segugi con i musi bassi e la coda tra le zampe. Il signorotto cammina nervosamente in una sala all'ultimo piano, buia, mentre attende l'esito della spedizione. Quando sente dei passi in strada, affacciandosi dalla finestra, vede con sorpresa che i bravi sono tutti rientrati senza Lucia. Il Griso va subito a fargli rapporto e riferisce fedelmente al padrone tutto quanto è avvenuto nelle ore precedenti. Don Rodrigo sospetta che ci possa essere una spia a palazzo, come del resto pensa anche il bravo, il quale rassicura tuttavia il padrone sul fatto che, come spera, lui e i suoi uomini non sono stati riconosciuti. Il mattino seguente don Rodrigo cerca il conte Attilio e questi lo prende in giro ricordandogli che è S. Martino e che ormai la scommessa è perduta. Il cugino gli rivela cosa è accaduto la notte scorsa e Attilio osserva che padre Cristoforo è certamente coinvolto. Il conte promette che penserà lui a punire come si deve il cappuccino, rivolgendosi al conte zio del Consiglio Segreto di Milano dove Attilio si recherà di lì a due giorni. Il conte esce poi dal palazzo per andare a caccia, mentre don Rodrigo attende il ritorno del Griso con le informazioni raccolte sulla notte precedente. La confusione in paese della notte precedente è stata troppa perché coloro che ne sono informati non si lascino sfuggire qualche dettaglio, a cominciare da Perpetua che rivela a molte persone il fatto che Renzo, Agnese e Lucia hanno tentato il "matrimonio a sorpresa" ai danni di don Abbondio. Anche Gervaso e Tonio si lasciano scappare qualche dettaglio sulla notte precedente. Solo Menico osserva il silenzio, in quanto i suoi genitori, atterriti all'idea che il ragazzo abbia sventato una trama di don Rodrigo, lo tengono chiuso in casa per qualche giorno. Gli abitanti del villaggio non sanno tuttavia spiegare l'incursione dei bravi nella casa di Agnese e Lucia, né la presenza degli altri all'osteria. 22 Il 1628, secondo anno di carestia, è stato un anno ancora più scarso per colpa del cattivo tempo e dell'azione degli uomini. Tutto è da ricondurre alla guerra di Mantova e del Monferrato, a causa della quale sono state imposte tasse troppo alte e si sono sottoposte le terre alle devastazioni delle truppe alloggiate nei paesi. Lo scarso raccolto dell'annata non è stato ancora riposto nei granai che subito esso è depredato dalle tasse. La conseguenza inevitabile di essa è il rincaro, ovvero l'aumento del prezzo del grano e del pane. Quando però il rincaro è ingente nasce nel popolo l'idea che la causa di tutto non sia la scarsezza di grano, ma gli accaparratori che ne fanno incetta per rivenderlo a prezzo maggiorato: fornai e proprietari terrieri vengono accusati un po' da tutti di far questo. Si comincia a credere di conseguenza che la carestia non esista e che la colpa sia dei fornai che nascondo il grano. Il popolo di Milano chiede a gran voce ai magistrati dei provvedimenti contro i presunti incettatori e qualcosa viene fatto, come fissare il prezzo massimo di alcune merci, imporre a tutti di vendere, ma questo ovviamente non risolve il problema della carestia e non fa saltare fuori il grano che non c'è. Il popolo reclama altri provvedimenti più incisivi e purtroppo trova un uomo disposto ad assecondare i suoi voleri. Il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, è impegnato nell'assedio di Casale e in sua vece la città è amministrata da Antonio Ferrer, gran cancelliere spagnolo. Ferrer pensa che sia giusto far sì che il pane abbia un prezzo ribassato, quindi fissa per legge un calmiere (un tetto massimo) sul prezzo del grano, e stabilisce che si debbe vendere a 33 lire il moggio (fino a quel momento si vendeva a 80 lire). Il popolo affamato, pretendendo l'immediata esecuzione, accorre in massa ai forni, per acquistare il pane a prezzo ribassato. I fornai ovviamente protestano, ma le pene minacciate dai magistrati e l'assillo della folla li obbligano a produrre pane in continuazione. I fornai tentano di far capire ai magistrati che la cosa prima o poi sarà impossibile per la penuria del grano e della farina e chiedono che il calmiere venga revocato, minacciando di smettere di produrre il pane, ma Ferrer non intende acconsentire e il prezzo del pane resta ribassato in forza di legge. I decurioni, magistrati cittadini che si occupano di queste faccende, informano per lettera don Gonzalo e invocano il suo intervento per risolvere la situazione che sta diventando insostenibile. Il governatore, impegnato negli affari della guerra, nomina una commissione di magistrati alla quale dà il compito di fissare il giusto prezzo al pane: i deputati si riuniscono e prendono la decisione di rincarare il pane secondo le leggi di mercato. La cosa acquieta i fornai, ma fa imbestialire il popolo, che la sera del 10 novembre 1628, prima dell'arrivo di Renzo, si riversa in strada. Il giorno seguente (S. Martino, l'11 novembre) le strade si riempiono nuovamente di popolo brulicante e irritato, in cerca di un'occasione per dare inizio alla sommossa. Alle prime luci del giorno i garzoni escono dalle botteghe dei fornai con le gerle di pane sulle spalle, per portarlo nelle case dei nobili, e un ragazzo viene notato dalla folla che subito inveisce contro di lui accusando i fornai di nascondere il pane. Il bottino è comunque assai misero e sono ancora molti quelli rimasti a bocca asciutta, per cui il popolo in rivolta si muove deciso a dare l'assalto ai forni della città. Nella strada chiamata Corsia dei Servi c'è un forno che ai tempi dell'autore ha ancora lo stesso nome, ovvero il forno delle Grucce. Il popolo in tumulto corre verso questa bottega, 25 dove il garzone è appena tornato privo del suo carico. I proprietari si affrettano a sprangare porte e finestre e qualcuno va a chiedere l'intervento del capitano di giustizia. Poco dopo sopraggiunge con una squadra di alabardieri al comando del capitano di giustizia, che tenta invano di disperdere la folla e di indurre i presenti a tornare a casa. L'ufficiale e i soldati si appostano di fronte all'uscio del forno, ma gli inviti del capitano ad avere giudizio e ad andarsene non valgono a nulla, anche perché la folla si ingrossa ogni momento e preme contro la porta della bottega. Il capitano dà ordine di respingere i rivoltosi e picchia alla porta, gridando che aprano e lo facciano entrare; la porta si apre, così lui e gli alabardieri riescono a entrare nella bottega e il capitano sale al piano di sopra, affacciandosi a una finestra. Il capitano si rivolge alla folla e tenta di placarla con parole diplomatiche, invitando i rivoltosi a tornare a casa in cambio del perdono giudiziario, ma quelli intanto stanno già sconficcando la porta e togliendo le inferriate dalle finestre. Alcuni di loro lanciano pietre contro il capitano e una lo colpisce alla fronte, per cui l'ufficiale muta d'improvviso il tono del suo discorso e grida improperi alla folla. L'uomo si ritira all'interno e poco dopo i proprietari del forno iniziano a gettare di sotto delle pietre, colpendo più di un rivoltoso (due ragazzi muoiono nella calca). La folla riesce a penetrare nella bottega mentre quelli all'interno si rifugiano in soffitta o escono dagli abbaini sui tetti. I popolani saccheggiano il forno portando via il pane, oppure rubando il denaro dalla cassa, mentre altri afferrano i sacchi di farina spargendone una gran quantità in terra e sciupandola. Mentre la folla in tumulto dà l'assalto al forno delle Grucce, molte altre botteghe a Milano sono bersaglio della rivolta, ma qui le cose vanno diversamente in quanto i proprietari respingono i malintenzionati con l'aiuto di altri uomini, oppure distribuiscono pane. È proprio in questo momento che Renzo arriva sgranocchiando il pane che aveva trovato in terra, al suo ingresso in città. Il giovane osserva incuriosito il tumulto e ascolta vari discorsi della folla, che inveisce contro il governo di Milano accusandolo di nascondere il grano e il pane. Alcuni popolani iniziano anche ad accusare il vicario di Provvisione, ovvero il magistrato che sovrintende all'approvvigionamento della città, affermando che la colpa della scarsezza di grano e della carestia è sua; altri prendono le difese del gran cancelliere Ferrer, considerato al contrario un benefattore del popolo in quanto ha imposto il calmiere sul prezzo del pane. Renzo ascolta questi discorsi e giunge finalmente al forno delle Grucce, che ormai è semidistrutto dal furore della folla: il giovane contadino trova la cosa inopportuna, dal momento che i forni sono l'unico posto dove è possibile produrre il pane, poi vede molti rivoltosi che escono dalla bottega ciascuno con in mano un pezzo del mobilio o una suppellettile, dirigendosi tutti nella stessa direzione. Renzo è curioso e decide di seguirli, quindi vede che vanno tutti lungo la strada che costeggia il duomo e sbocca nella piazza dove altri popolani hanno acceso un gran falò, nel quale ognuno getta ciò che ha in mano per bruciarlo. L'autore osserva con amara ironia che distruggere i forni non è il mezzo migliore per produrre il pane, ma questo è un pensiero troppo sottile per la folla in tumulto: anche Renzo ovviamente lo pensa, benché si tenga certe idee per sé temendo che i rivoltosi possano reagire in modo violento. Intanto il falò si spegne lentamente e si sparge d'improvviso la voce 26 che nella piazza del Cordusio si dà l'assalto a un altro forno, per cui la massa dei rivoltosi inizia a dirigersi in quella direzione a piccoli gruppi. Il giovane decide di seguire la sommossa per osservare da una certa distanza gli avvenimenti (tira fuori dalla tasca il secondo pane raccolto e inizia a sbocconcellare anche questo). Il gruppo dei rivoltosi ha imboccato la strada di Pescheria Vecchia ed è entrato nella piazza dei Mercanti, dove passa di fronte alla statua che raffigura re Filippo II che ha il braccio teso e l'atteggiamento minaccioso (l’autore osserva che circa 170 anni dopo, a questa statua fu cambiata la testa e al posto dello scettro gli fu messo un pugnale in ricordo del congiurato di Cesare, Marco Bruto, morto il 15 marzo del 44 a.C. e considerato simbolo della lotta per la libertà). Dalla piazza la folla si dirige per la via dei Fustagnai e sbocca infine al Cordusio, ma qui rimane delusa in quanto il forno è ben chiuso e protetto da gente armata all'interno. A un tratto qualcuno propone di dirigersi alla casa del vicario di Provvisione, che si trova poco distante, per assediarla e linciare il povero funzionario. Tutti accolgono la proposta come se fosse una decisione già presa in precedenza e la folla si mette subito in cammino. Capitolo 13 Il vicario di Provvisione è a casa sua a riposarsi, quando alcuni cittadini giungono a informarlo che la folla si dirige alla sua abitazione per linciarlo. I servi lo avvertono che i rivoltosi sono in arrivo e la fuga è ormai impossibile, così sprangano porte e finestre. Il pover'uomo, in preda al terrore, si rifugia in soffitta. Intanto i rivoltosi hanno raggiunto la porta della casa iniziando a sconficcarla in tutti i modi e Renzo si trova in mezzo al tumulto: il giovane non ha disapprovato il saccheggio dei forni, tuttavia non condivide l'intento della folla di mettere a morte il vicario ed è contrario all'idea di spargere sangue e si è unito alla sommossa col fine di dare una mano a salvare il vicario dal linciaggio. I magistrati di Milano che sono stati informati dell'accaduto avvertono a loro volta il comandante della guarnigione del Castello Sforzesco, presso porta Giovia, il quale invia sul posto alcuni soldati. Sparare sulla folla sarebbe crudele e pericoloso, poiché aizzerebbe i più violenti contro i soldati. Tra gli esagitati si nota un vecchio dall'aspetto trasandato e lo sguardo pieno di odio, il quale agita in aria un martello, una corda e quattro chiodi coi quali dice di voler attaccare il corpo del vicario a un battente della porta, quando il funzionario sarà stato ucciso. Renzo è inorridito da tali parole e, vedendo che altri sembrano condividere la sua disapprovazione, si lascia sfuggire delle esclamazioni con cui incita i rivoltosi a non abbandonarsi ad atti insensati di violenza, contrari alla volontà di Dio. Renzo condivide il fatto che il vicario fosse responsabile della carestia, ma rinnega la violenza e il sangue ricordando i principi della morale cristiana. Uno dei rivoltosi vicino a lui sente le sue parole e lo accusa con rabbia di essere un traditore, mentre in men che non si dica si diffonde tra la folla la voce che lì in mezzo c'è una spia del vicario, o un suo servo, o addirittura il vicario che scappa travestito da contadino. Viene 27 Renzo aggiunge che le gride ci sono, ma non vengono applicate e non viene fatta giustizia ai poveri, perché c'è una "lega" di birboni che si proteggono l'un con l'altro. Molti alla fine si complimentano e applaudono, anche se alcuni disapprovano e osservano che tutti i montanari vorranno dir la loro e questo, alla lunga, si volgerà in peggio per i poveri. Renzo chiede a qualcuno della folla di indicargli un'osteria dove ricoverarsi, al che un tale, che ha ascoltato attentamente il suo discorso senza dir nulla, si fa avanti dicendosi pronto ad accompagnarlo in una locanda. Renzo accetta volentieri e si incammina con l'estraneo che in realtà non è altri che un poliziotto travestito, che ha intenzione di condurlo al palazzo di giustizia. Il giovane è molto stanco e non intende camminare oltre, perciò quando vede un'insegna di osteria con sopra il simbolo della Luna Piena decide di entrare lì: l'uomo tenta di convincerlo a seguirlo oltre, ma Renzo non sente ragioni ed entra nel locale. L'oste siede accanto al camino, attento a tutto quel che succede nel locale, poi si alza e si avvicina ai due nuovi arrivati, riconoscendo il poliziotto e imprecando tra sé poiché gli capita sempre tra i piedi quando meno lo vorrebbe: quanto a Renzo, l'uomo è convinto che sia un altro sbirro o una sua preda e da come il giovane parlerà lo capirà subito. L'oste chiede ai due cosa vogliano e Renzo ordina un fiasco di vino. Ordina poi dello stufato e l'oste dichiara che non potrà servirgli del pane, al che Renzo tira fuori l'ultima delle pagnotte che aveva trovato vicino alla croce di S. Dionigi, al suo arrivo a Milano, chiamandolo “pane della provvidenza”. Il giovane dichiara di aver avuto quel pane gratis, ma si affretta a precisare di averlo trovato e non rubato, dicendosi pronto a pagarlo al proprietario qualora lo incontrasse. Renzo spiega al poliziotto che ha davvero trovato quel pane, quindi inizia a mangiarlo e a bere vino, mentre lo sbirro dice all'oste che il giovane ha intenzione di dormire nella locanda. L'oste si avvicina con in mano un foglio di carta e una penna, chiedendo a Renzo di dirgli nome, cognome e città di provenienza. Renzo non intende dire il proprio nome all'oste e, bevendo un altro bicchiere di vino, impreca contro tutte le gride e le leggi scritte. L'oste non sa che fare e chiede indicazioni al poliziotto, il quale gli suggerisce di non insistere oltre, tanto più che Renzo ha attirato l'attenzione di tutti gli avventori che applaudono alle sue parole contro le gride. L'oste si allontana, dopo che Renzo gli ha consegnato il fiasco vuoto e gli ha chiesto di portargliene un altro con lo stesso vino: mentre si allontana, l'oste impreca tra sé contro l'ingenuità di Renzo, che è finito nelle mani della giustizia e si sta mettendo nei guai senza neppure rendersene conto. Renzo torna a predicare contro l'abitudine dei potenti di usare sempre la penna e la parola scritta, suscitando la battuta sarcastica di un avventore secondo il quale ciò dipende dal fatto che i signori mangiano oche e si ritrovano dunque con tante penne di cui non sanno che fare. Tutti ridono e Renzo osserva che chi ha parlato è un poeta, cioè un cervello balzano, aggiungendo poi che la parola scritta è un inganno usato dai potenti per esercitare soprusi contro i più deboli, specie quando parlano in latino per confondere le idee a un povero contadino che a malapena capisce il volgare. Il poliziotto si trattiene ancora in compagnia di Renzo, ricominciando a un tratto il discorso del pane a buon mercato e dicendo di avere un suo progetto grazie al quale sarebbe possibile assicurare a tutti il giusto quantitativo di pane. L'uomo afferma che si dovrebbe imporre un 30 prezzo massimo che vada bene per tutti, badando a distribuire il pane a seconda delle necessità di ogni famiglia. Per ottenere questo bisognerebbe dare a ciascuno un biglietto, con scritto il nome, la professione e il numero di bocche da sfamare, in modo da poter comprare il pane in proporzione adeguata: a lui, per esempio, ne dovrebbero dare uno con scritto "Ambrogio Fusella, professione spadaio, una moglie e quattro figli a carico". L'uomo chiede poi a Renzo cosa ci dovrebbe essere scritto sul suo biglietto e il giovane dice ingenuamente di chiamarsi Lorenzo Tramaglino, non ancora sposato e dunque senza figli, al che il poliziotto sembra soddisfatto e si affretta ad alzarsi, accomiatandosi da Renzo e dicendo che la sua famiglia lo sta aspettando a casa. Renzo tenta invano di trattenere il poliziotto e di fargli bere un altro bicchiere di vino, ma l'uomo si libera di lui con uno strattone e si affretta a uscire in strada. Renzo non è avvezzo al bere e quei pochi bicchieri sono stati sufficienti a dargli alla testa, specie in quella giornata in cui ha vissuto forti emozioni. Renzo comincia a dire cose confuse e, così facendo, diventa lo zimbello di tutti gli avventori dell'osteria, che fanno a gara a prenderlo in giro e a stuzzicarlo con domande canzonatorie. Per buona sorte, osserva amaramente l'autore, Renzo non fa mai il nome di Lucia, giacché sarebbe un peccato vederlo diventare oggetto di burla da parte di quegli ubriaconi. Capitolo 15 L'oste si avvicina e prega gli altri clienti di lasciarlo stare, ripetendo al giovane che è il momento di andare a dormire. L'oste accompagna Renzo alla camera, lo aiuta a spogliarsi e gli chiede di saldare il debito. A quel punto esce dalla stanza, chiudendone la porta a chiave, poi chiama la moglie per dirle di scendere in cucina a badare all'osteria, mentre lui dovrà uscire a sbrigare una faccenda urgente. Sceso in cucina con la moglie, l'oste indossa il mantello, prende un robusto bastone ed esce dalla locanda. Uscito in strada, l'oste cammina ripensando tra sé alla stupidità mostrata dal povero Renzo. L'oste pensa che ha voluto sapere il nome di Renzo non certo per sua curiosità, ma dal momento che le gride che impongono obblighi agli osti sono applicate e prevedono pene molto severe, ad esempio un'ammenda di trecento scudi che devono essere versati in parte al fisco, in parte a chi abbia denunciato alle autorità l'oste trasgressore. Alla fine del suo soliloquio l'oste entra nel palazzo di giustizia. Qui gli esponenti dell'autorità pubblica cercano di prevenire ulteriori disordini, prendendo dei provvedimenti, come mettere una sorveglianza intorno alla casa del vicario di Provvisione, abbassare il prezzo del pane, e arrestare qualche popolano accusato di essere fra i capi della sommossa per dare l'esempio alla folla con una condanna esemplare. Il capitano di giustizia, ha sguinzagliato in città i suoi sbirri per cercare di prendere qualche capo della rivolta: Ambrogio Fusella incontrato da Renzo era appunto uno di questi. Il poliziotto è riuscito a riferire il nome di Renzo, così, quando l'oste va a rendere la sua deposizione a un notaio criminale, questi ne sa già più di lui. Il notaio lo accusa di non dire tutta la verità: gli rammenta che Renzo ha portato nella sua osteria un pane rubato durante i saccheggi e che ha proferito 31 parole ingiuriose nei confronti delle gride e dello stemma del governatore. L'oste riferisce che il giovane sta dormendo e il magistrato gli ordina di non lasciarlo scappare. Dopo alcune raccomandazioni del notaio, l'oste può finalmente tornare alla sua locanda. Il mattino dopo Renzo sta ancora dormendo profondamente, quando si sente afferrare per le braccia ed è svegliato da qualcuno che lo chiama col nome di "Lorenzo Tramaglino". Apre gli occhi e vede ai piedi del letto il notaio criminale in cappa nera e al suo fianco due birri armati. Renzo, ancora stordito per la sbornia della sera prima, tenta di chiedere spiegazioni e di chiamare l'oste in aiuto, ma il notaio gli ordina di alzarsi e vestirsi, perché dovrà essere condotto dal capitano di giustizia. Il giovane cerca debolmente di discolparsi dicendo di essere un galantuomo e chiedendo al notaio di essere condotto da Ferrer. Il notaio sente un gran chiasso in strada, per cui si affaccia dalla finestra e vede un gruppo di popolani che ignora le intimazioni di una pattuglia di soldati, segno evidente che la giornata promette disordini. Renzo intanto si è vestito e, tastando nel farsetto che tiene in mano, si accorge che mancano il denaro e la lettera di padre Cristoforo, che reclama a gran voce al notaio: questi tenta debolmente di dirgli che riavrà tutto dopo le formalità, ma Renzo insiste e il magistrato per evitare guai gli restituisce ogni cosa. Una volta giunti in cucina, gli sbirri mettono i "manichini" intorno ai polsi del giovane: si tratta di due cordicelle con nodi che avvolgono i polsi dell'arrestato, con due stanghette di legno alle estremità che vengono tenute tra il medio e l'anulare dei birri, i quali possono, al bisogno, stringere la corda per procurare dolore al prigioniero. Il notaio invita Renzo ad aver pazienza e gli raccomanda, una volta che saranno usciti in strada, di camminare diritto senza guardare in giro, per non mostrare di essere arrestato e non guastare il proprio onore, mentre ai birri intima di trattare Renzo con rispetto, dal momento che è un giovane perbene che sarà presto libero. Renzo naturalmente ha capito che il notaio teme che possa trovare aiuto da parte di qualche popolano in strada, per cui non crede neppure a una parola di quanto detto dal magistrato e si ripromette, una volta uscito dalla locanda, di far tutto il contrario di quanto raccomandatogli. Una volta che i quattro sono usciti in strada, Renzo inizia a voltarsi da una parte e dall'altra, in cerca di un aiuto da parte della folla. A un tratto Renzo vede arrivare tre popolani che parlano di farina nascosta, di forni, di giustizia, perciò inizia a tossire in modo insistente per attirare la loro attenzione: i tre si fermano e si uniscono a loro altri passanti. Gli sbirri danno una stretta ai "manichini" e Renzo urla di dolore, attirando infine una piccola folla che circonda con fare minaccioso la comitiva: il notaio dice che si tratta di un ladro colto sul fatto, ma Renzo, che ha visto i birri impallidire, coglie al volo l'occasione e grida che è portato in prigione perché il giorno prima ha gridato "pane e giustizia", chiedendo infine l'aiuto dei popolani. I birri, vista la mala parata, lasciano andare i "manichini" e cercano di allontanarsi, mescolandosi ai rivoltosi. Il notaio cerca di fare lo stesso, ma la cappa nera che indossa gli rende difficile passare inosservato: un popolano lo indica come un "corvaccio" (un magistrato) e aizza la folla contro di lui, anche se il notaio riesce per miracolo a scappare e a evitare il linciaggio. 32 tutto il tumulto è nato dalle trame del cardinal Richelieu, per dar briga al re di Spagna nell'ambito della guerra, e ciò sarebbe dimostrato dal fatto che tra i rivoltosi c'erano molti forestieri che non si erano mai visti in città. Tra questi, prosegue il mercante, ne era stato arrestato uno in un'osteria, che certamente era fra i capi della sommossa: Renzo, che sa bene che si sta parlando di lui, ha un fremito anche se riesce a controllarsi, senza far capire a nessuno che è il protagonista di quel racconto. Costui racconta che il fantomatico rivoltoso aveva incitato la folla a uccidere tutti i signori ed era poi stato arrestato dalla giustizia che gli aveva trovato un fascio di lettere, ma il giovane è stato liberato dai suoi compagni ed è riuscito a fuggire senza lasciare traccia di sé. Le lettere, secondo lo scombinato resoconto del mercante, sono ora nelle mani della giustizia e in esse è descritta tutta la trama della sommossa. Renzo ascolta tutto con attenzione ed è tentato all'idea di andarsene subito dal locale, anche se poi si trattiene per non destare sospetti: aspetta che il mercante cambi discorso e infatti poco dopo gli avventori iniziano a rallegrarsi di non essere andati a Milano, anche se prima avevano idee del tutto diverse. Il giovane coglie l'occasione per chiamare l'oste e saldare in fretta il conto. Dopodiché va dritto alla porta ed esce dal locale, imboccando una strada che conduce nella direzione opposta a quella per cui è arrivato poco prima. Capitolo 17 Sono circa le cinque e mezzo di pomeriggio e Renzo lascia il paese di Gorgonzola, dirigendosi a piedi verso l'Adda. Imbocca un sentiero sulla sinistra e inizia a pensare tra sé, non incontrando nessuno. Il giovane ripensa alle parole del mercante sul suo conto ed è in collera per le falsità che ha sentito, specie riguardo ai suoi presunti propositi di "ammazzare tutti i signori": ricorda a se stesso di aver solo aiutato Ferrer e il vicario di Provvisione, rischiando oltretutto di essere linciato dalla folla, mentre il "fascio di lettere" che, secondo il mercante, sarebbe nelle mani della giustizia, è in realtà la sola lettera scritta da padre Cristoforo e ancora in possesso di Renzo, e contiene le parole di un religioso che, secondo il giovane, vale assai più del mercante che va in giro a parlare dei fatti altrui senza conoscerli. Renzo prosegue il cammino e a un certo punto si ferma: è buio ed è stanco. Quando passa accanto a case o cascinali vede solo dei lumicini attraverso le finestre chiuse. Potrebbe bussare a una porta per chiedere asilo, ma teme di suscitare domande curiose o di far credere di essere un ladro, per cui decide di continuare a camminare fino a giungere al fiume, per non essere costretto a cercarlo anche alla luce del sole. Il giovane abbandona l'abitato per addentrarsi in una fitta boscaglia. Procede ancora e si accorge di entrare in un vero e proprio bosco, passo che affronta non senza un qualche ribrezzo: la sagoma oscura degli alberi gli sembra spettrale e mostruosa, ogni minimo rumore lo fa sobbalzare, le gambe sembrano non reggere più e, come se non bastasse, la brezza notturna lo rende intirizzito dal freddo. Si ferma e resta in silenzio per qualche attimo, finché sente lo scroscio d'acqua: capisce con enorme sollievo che si tratta dell'Adda e procede 35 senza paura verso il rumore. Dopo pochi attimi Renzo raggiunge la riva dell'Adda e vede l'acqua del fiume che scorre luccicante in basso. Poiché non vede né sente nulla decide di attendere l'indomani prima di fare qualunque cosa. Il giovane si ricorda di aver visto poco prima un capanno di paglia e fango usato dai contadini per custodire il raccolto d'estate e abbandonato d'autunno, per cui decide di passare lì la notte e si rimette in marcia per raggiungerlo. Una volta arrivato al capanno, ne apre facilmente l'uscio e vi entra. Vede in terra poca paglia e decide di stendersi lì per dormire le poche ore che lo separano dal mattino. Renzo si inginocchia sulla paglia ringraziando la Provvidenza di avergli fatto trovare quel ricovero, quindi recita le preghiere. Renzo vede davanti a sé tutti i personaggi da lui incontrati negli ultimi due giorni (il mercante, il notaio criminale, i birri, il poliziotto, l'oste della Luna Piena, Ferrer, il vicario...), nonché don Abbondio e don Rodrigo, tutta gente con cui ha dei conti in sospeso; vede anche nella sua mente i volti delle persone care, Agnese, Lucia, padre Cristoforo, specie gli ultimi due che sono strettamente associati in lui a ricordi piacevoli. Ma anche questo pensiero ha qualcosa di doloroso, sia per il rammarico di non aver seguito i saggi consigli del frate, sia per i sentimenti che il giovane prova per la sua promessa. Tra i pensieri angosciosi e il freddo, Renzo dispera di prender sonno e attende con impazienza la venuta del giorno, misurando lo scorrere delle ore grazie ai rintocchi del campanile di un paese vicino, probabilmente Trezzo d'Adda. Quando il campanile batte le cinque del mattino (11° rintocco), Renzo decide che è il momento di alzarsi, esce dal capanno e si dirige alla sponda del fiume, dove vede un pescatore che si avvicina alla sponda con la sua barchetta remando controcorrente. Renzo chiama il pescatore e gli fa cenno di approdare, e dopo che l'uomo ha accostato con mille cautele il giovane salta dentro il battello, chiedendo di essere traghettato sull'altra sponda in cambio di una ricompensa. Il pescatore accetta e inizia a muovere la barca verso la riva opposta. Una volta approdati sull'altra sponda, Renzo dà al pescatore una berlinga e si allontana, mentre l'uomo intasca la moneta e augura al giovane buon viaggio. Il pescatore è solito svolgere un servizio simile ai contrabbandieri e ai banditi che chiedono di essere traghettati sulla sponda veneta del fiume. Renzo si incammina poi verso Bergamo, chiedendo lungo la strada con disinvoltura ai viandanti come raggiungere il paese del cugino Bortolo, apprendendo che gli restano da percorrere nove miglia. Si mette in marcia inoltrandosi nel territorio e non tarda a rendersi conto che la carestia è tristemente presente anche qui: attraversando i villaggi vede molti accattoni che non sono soliti esercitare questo mestiere e contadini impoveriti che chiedono l'elemosina insieme alle loro famiglie. Mentre cammina si rende conto di essere affamato e perciò entra in un'osteria (dopo aver pagato il conto, gli rimane ancora qualche moneta). Mentre esce dall'osteria in cui ha mangiato, Renzo vede due donne accasciate in terra, una anziana e l'altra più giovane con un bambino fra le braccia che tenta inutilmente di allattare, mentre in piedi accanto a loro c'è un uomo. Tutti e tre stendono la mano per chiedere qualcosa e Renzo esclama che c'è la Provvidenza, estraendo dalla tasca le ultime monete e mettendole nella mano più vicina, riprendendo subito dopo il suo cammino. 36 Renzo arriva finalmente al paese del cugino e vede un edificio alto con più ordini di lunghe finestre, che riconosce subito come un filatoio: entra e chiede se si trova lì Bortolo Castagneri, al che un lavorante gli indica il "signor Bortolo" poco lontano. Dopo uno scambio di affettuosi saluti Bortolo porta Renzo in una stanza appartata, lontano dalle macchine e dai curiosi, dove lo rimprovera bonariamente di averlo raggiunto solo ora, in un momento critico per la produzione delle seta. Renzo spiega le circostanze in cui ha dovuto compiere quel passo e il cugino lo rassicura dicendogli che, se anche il lavoro è scarso e non c'è grande richiesta di operai, lui farà in modo di aiutarlo grazie al favore che gode presso il padrone del filatoio, di cui è il factotum. Renzo dice di aver fatto colazione e di aver finito gli ultimi soldi, ripromettendosi di farsi inviare quelli che ha a casa, quindi Bortolo afferma che sarebbe inutile per lui aver messo da parte del benessere se non lo usasse per aiutare parenti e amici. Chiede inoltre a Renzo ragguagli sulla rivolta avvenuta a Milano e aggiunge che, quanto alla carestia, nel Bergamasco le cose vanno diversamente e la città ha acquistato da un mercante di Venezia del grano proveniente dalla Turchia, per provvedere alla popolazione; le città di Verona e Brescia hanno cercato di imporre dazi doganali, ma un avvocato di nome Lorenzo Torre è andato di persona a Venezia per convincere il doge dell'insensatezza del provvedimento ed esso è stato revocato. In seguito il senato veneziano ha spedito una quantità di miglio nel Bergamasco, per provvedere alle necessità delle popolazioni rurali. Bortolo spiega poi a Renzo che lo presenterà al padrone del filatoio, che gli troverà certamente un impiego. Bortolo informa il giovane che i Milanesi vengono chiamati dai Bergamaschi col titolo non molto onorevole di "baggiani" (sciocchi), sia pure in senso affettuoso. Renzo non accoglie bene la notizia e si mostra irritato da questa bizzarra abitudine, ma Bortolo gli spiega che la cosa è normale in quel territorio e se un Milanese vuol vivere lì ci si deve rassegnare, altrimenti dovrebbe venire alle mani tutto il tempo. Bortolo accompagna poi Renzo dal padrone e fortunatamente riesce a sistemarlo in modo dignitoso. Capitolo 18 Il 13 novembre il podestà di Lecco riceve un dispaccio da Milano, in cui gli si ordina di accertare se Renzo sia tornato al suo paese e di perquisire la sua casa. Il magistrato va a perquisire la sua casa insieme al console, a un notaio criminale e ai birri, che mettono a soqquadro l'abitazione e sottraggono tutto ciò che vi trovano, compreso il denaro lasciato lì dal giovane. La cosa arriva all'orecchio di padre Cristoforo, il quale scrive subito a padre Bonaventura a Milano per avere informazioni. Intanto i parenti e amici di Renzo vengono interrogati e si diffonde la voce che il giovane sia sfuggito all'arresto e abbia fatto perdere le proprie tracce, anche se nessuno crede alle accuse mosse nei suoi confronti. Gli abitanti del paese tendono invece ad attribuire tutto a don Rodrigo, che avrebbe ordito tutto questo per liberarsi del suo rivale. Don Rodrigo, pur non essendo intervenuto nelle faccende di Renzo, se ne compiace parlandone col conte Attilio, il quale ha rinunciato di recarsi a Milano per parlare col conte zio. Poco dopo giunge il Griso di ritorno da Monza, il quale informa il padrone di avere scoperto 37 zio per ottenere il suo intervento. Attilio suggerisce all'uomo politico di esercitare pressioni sul padre provinciale dei cappuccini per fare trasferire Cristoforo da Pescarenico e salvare così l'onore del casato. Capitolo 19 Il conte zio decide di rivolgersi al padre provinciale, per ottenere l'allontanamento di Cristoforo dal convento. Egli conosce il padre provinciale in modo superficiale, tuttavia tra i due c'è un rapporto basato sul reciproco ossequio. Un giorno il conte zio invita il prelato a pranzo e lo fa sedere a una tavolata i cui commensali sono stati scelti con estrema cura: parenti titolati, che col loro atteggiamento di superiorità ricordano all'interlocutore la loro grandezza aristocratica, e clienti legati al padrone di casa da antichi legami di servilismo, abituati ad assentire come cortigiani a qualunque cosa egli dica durante il pranzo. Tutti i convitati ascoltano i racconti del padrone di casa, finché questi inizia a parlare col padre provinciale che gli siede accanto, il quale, dopo averlo sentito per un po', cambia argomento e inizia a discorrere del cardinal Barberini, cappuccino e fratello di papa Urbano VIII, cosicché anche l'uomo politico deve tacere e ascoltare l'interlocutore come impone la regola della conversazione. Alla fine del pranzo il conte zio invita il padre ad appartarsi con lui in un'altra stanza, per parlargli da solo a solo. Il conte zio fa sedere con ogni riguardo il padre provinciale, quindi entra subito in argomento accennando con fare serio a una questione che sarebbe opportuno chiudere senza troppo rumore, chiedendo poi al prelato se nel convento di Pescarenico vi sia un padre chiamato Cristoforo. Il prelato accenna di sì e l'uomo politico inizia a parlare del frate come di un soggetto turbolento. Questi dal canto suo comprende che il conte zio vuole coinvolgerlo in una briga e si rammarica di aver lasciato padre Cristoforo troppo tempo in un convento di campagna, invece di spostarlo di frequente per evitare che si scontrasse con dei nobili. Il prelato tenta di difendere la reputazione del frate, al che il conte zio lo informa che Cristoforo proteggeva Renzo Tramaglino, uno dei rivoltosi coinvolto nel tumulto di S. Martino a Milano: il padre accusa il colpo, ma difende ancora Cristoforo ricordando che compito dei frati è appunto quello di prendersi cura degli uomini traviati. Il conte rincara la dose ricordando con malizia il passato turbolento del frate e aggiungendo che, probabilmente, l'uomo non ha perso le sue antiche abitudini, dal momento che di recente egli è venuto a scontrarsi nientemeno che con suo nipote don Rodrigo, cosa della quale il prelato non può che rammaricarsi sinceramente. Il padre provinciale deplora il fatto che padre Cristoforo abbia provocato in qualche modo don Rodrigo, dicendosi pronto a prendere i provvedimenti del caso qualora il frate avesse sbagliato, ma il conte zio ribadisce che sarebbe assai meglio chiudere la faccenda senza schiamazzi, onde evitare conseguenze che potrebbero coinvolgere altre persone. Il conte propone al prelato di stroncare la cosa sul nascere, allontanando il frate dal convento. Il provinciale è in cuor suo rammaricato di dover prendere un partito del genere e tenta debolmente di opporre qualche obiezione, cui il conte zio è abile a ribattere che lo scontro tra il frate e don Rodrigo potrebbe coinvolgere l'intera famiglia e in tal caso l'affare diventerebbe 40 serio, poiché il casato del conte zio può vantare delle aderenze politiche che, come il prelato non manca di riconoscere, sono cospicue. Il padre provinciale inizia a cedere, dicendo che padre Cristoforo è predicatore e ne servirebbe uno in un'altra città, anche se è riluttante all'idea di prendere un provvedimento che potrebbe apparire una punizione: il conte zio ribatte che la cosa sarebbe piuttosto un atto di convenienza politica per l'ordine, al che il prelato esprime il timore che don Rodrigo potrebbe intendere comunque la cosa come una vittoria personale e vantarsene nel paese, cosa che nuocerebbe al prestigio dei cappuccini. Il prelato, dal canto suo, chiede che don Rodrigo compia qualche gesto di amicizia verso l'ordine, cosa che il conte dà per scontata in quanto, a suo dire, il rispetto per i padri cappuccini è un'abitudine inveterata della famiglia. Il conte zio si augura che il trasferimento di padre Cristoforo avvenga prima possibile, pone fine al colloquio e accompagna il prelato fuori della sala, non prima di avergli rivolto molti cerimoniosi complimenti e non senza cedergli il passo prima di uscire dalla porta, per sottolineare il suo rispetto verso di lui. I due si riuniscono poi al resto degli invitati. L'arte diplomatica del conte zio ha sortito i suoi effetti, dacché l'uomo politico è riuscito a fare andare padre Cristoforo da Pescarenico fino a Rimini, viaggio che l'autore definisce ironicamente "una bella passeggiata". Infatti, poche sere dopo un cappuccino di Milano giunge al convento e consegna un plico al padre guardiano, ovvero l'ordine in base al quale padre Cristoforo deve recarsi a Rimini dove predicherà la Quaresima. Il padre guardiano, il mattino dopo, lo fa chiamare e gli mostra la lettera, ordinandogli di prendere sporta, bastone e sudario per mettersi subito in marcia alla volta di Rimini. Padre Cristoforo prende tutte le sue cose (incluso il "pane del perdono") e lascia il convento dopo aver salutato i confratelli, insieme al frate latore della lettera. Per venire a capo della sua impresa don Rodrigo ha deciso di chiedere l'aiuto di un uomo famigerato, del quale l'autore non è in grado di dire né il nome né il titolo, e neppure dare una vaga idea della sua identità: il personaggio non è indicato chiaramente neppure dagli storici dell'epoca, probabilmente per evitare vendette da parte di quell'uomo dalla fama terribile. L'autore cita la testimonianza di scrittori quali Francesco Rivola e Giuseppe Ripamonti, che parlano del personaggio anche in attinenza col cardinal Borromeo, ma senza farne mai il nome e limitandosi a descriverlo come un potente bandito mandante ed esecutore di spietati delitti, che si faceva beffe della legge e della giustizia vivendo trincerato in un imprendibile castello situato lungo il confine dei due Stati, milanese e veneto. L'autore ricorda che costui fin dall'adolescenza ha gareggiato coi tiranni della sua città (Milano) e della sua regione, mettendosi di traverso alle loro trame e riuscendo in molti casi a vincerli o a farli divenire suoi amici subordinati, essendo tra l'altro superiore a molti di loro per ricchezza e amicizie e a tutti per coraggio e temerarietà. Poco a poco gli altri signori iniziano a rivolgersi a lui per avere il suo aiuto nelle loro imprese scellerate, aiuto che l'innominato non nega ma, anzi, concede con generosità, per non venir meno alla fama oscura di cui è ormai circondato: commette una serie spaventosa di delitti e di atrocità tali che neppure la sua potente famiglia o le amicizie altolocate possono più proteggerlo e, alla fine, deve uscire dallo Stato in seguito a un bando. 41 Il modo in cui l'innominato lascia Milano è degno del personaggio, dal momento che egli attraversa la città a cavallo a suon di tromba e con un seguito di cani, passando davanti al palazzo del governatore al quale lancia degli insulti infamanti. Durante il periodo del bando egli non interrompe i contatti con i suoi amici e continua le sue attività criminose, compiendo nuovi omicidi anche su mandato di principi stranieri, in una trama sempre più oscura di delitti e segrete alleanze; e dopo qualche tempo torna nello Stato, o perché il bando è stato revocato in seguito a pressioni di uomini potenti, o semplicemente perché l'innominato è talmente temuto che può farsi beffe di tutto ciò che riguarda la legge o la giustizia. Tuttavia non torna a Milano ma si stabilisce in un castello situato al confine con il Bergamasco, allora appartenente alla Repubblica di Venezia, da dove il bandito continua una girandola sinistra di delitti e assassini circondato da una schiera di sgherri e bravi senza scrupoli. Tutti i signori che vivono nel territorio tra i due Stati controllato dall'innominato devono scendere a patti con lui, giacché i pochi che hanno tentato di resistergli sono finiti male. Si rivolgono a lui anche persone che hanno ragione in qualche controversia, al fine di ottenere il suo aiuto prima dei loro avversari, e spesso dei deboli oppressi hanno invocato il suo intervento contro la prepotenza di qualche signorotto locale, ottenendo soddisfazione e diventando suoi debitori. È tale la sua reputazione di brigante e assassino che, spesso, alcuni delitti rimasti impuniti gli vengono attribuiti senza alcuna prova, mentre la gente crede che egli abbia suoi sicari e sgherri disseminati ovunque, esercitando un potere praticamente illimitato sul territorio che controlla. Dal castello dell'innominato al palazzotto di don Rodrigo non ci sono più di sette miglia e il signorotto non ha tardato a rendersi conto che, per esercitare la sua tirannia sul proprio territorio, doveva diventare amico del potente bandito. Così una mattina don Rodrigo lascia il suo palazzo a cavallo, accompagnato dal Griso e da altri quattro bravi armati fino ai denti, diretto al castello dell'innominato. Capitolo 20 Il castello dell'innominato sorge in una valle posta sul confine dello Stato di Milano e del Bergamasco, in cima a un colle accessibile solo da un lato e che dall'altro presenta dirupi impervi e scoscesi; sulle falde ci sono alcune casupole sparse, mentre in basso scorre un torrente che fa da confine naturale tra i due territori. Nella sua imprendibile fortezza il signore domina dall'alto l'intera valle, poiché l'unica strada percorribile si inerpica a giravolte verso l'alto ed è tale che nessuno può salirvi senza essere visto dal castello, quindi questo è una roccaforte inespugnabile. L'anonimo non fornisce alcuna notizia che consenta di identificare con precisione il luogo e don Rodrigo arriva presto ai piedi della valle, dove c'è un'osteria con sopra l’insegna disegnato un sole che funge da corpo di guardia, che viene chiamata la "Malanotte". Non appena il cavallo di don Rodrigo si avvicina alla Malanotte, ne esce un ragazzaccio armato fino ai denti che rientra subito dopo ad avvisare tre bravi, intenti a giocare a carte. Uno di loro si affaccia alla porta dell'osteria e riconosce il signorotto come amico del suo 42 Rodrigo. Poi manda a chiamare una vecchia donna che vive nel castello da quando è nata e che è cresciuta nella concezione del potere e della malvagità del suo padrone. Avvezza ad accettare tutto ciò che avviene in quel luogo funesto, ha sposato uno degli sgherri dell'innominato che è poi rimasto ucciso in un'azione, lasciandola vedova nel castello ad occuparsi degli altri bravi (la donna rattoppa i loro cenci, prepara da mangiare e cura alla meglio i feriti, ricevendo in cambio insulti e improperi cui lei solitamente risponde in modo ancor più feroce e irridente). Appena la vecchia giunge dal padrone, questi le indica la carrozza che si avvicina al castello e le ordina di allestire subito una portantina e di farsi portare alla Malanotte, badando di arrivare prima della carrozza: in essa c'è una giovane, quindi la vecchia dovrà ordinare al Nibbio di metterla sulla portantina e di venire subito dall'innominato, mentre la donna dovrà accompagnare la ragazza al castello e condurla nella sua camera. L'uomo raccomanda alla vecchia di non rivelare il suo nome alla giovane e, soprattutto, le ordina di farle coraggio. Capitolo 21 La vecchia giunge con la portantina alla Malanotte poco prima dell'arrivo della carrozza, quindi ferma il cocchiere e sussurra gli ordini del padrone all'orecchio del Nibbio. La ragazza è spaventata e vorrebbe urlare, ma il Nibbio la minaccia di soffocarle di nuovo il grido col fazzoletto, quindi Lucia viene fatta scendere dalla carrozza e sale sulla portantina, seguita subito dopo dalla vecchia. Il Nibbio inizia a salire velocemente lungo l'erta, con gli altri due bravi che gli vanno dietro. La donna cerca di consolarla e di "farle coraggio" come il padrone le ha comandato, anche se Lucia non si tranquillizza affatto e la prega più volte di liberarla, invocando anche il santo nome di Maria. In breve Nibbio raggiunge il padrone e, appartandosi con lui in una sala all'interno della fortezza, fa il suo rapporto sull'azione compiuta, sottolineando che tutto si è svolto secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia anziché vederla in viso e sentirla parlare: l'innominato chiede spiegazioni e il Nibbio afferma che la giovane gli ha ispirato compassione. Il Nibbio dichiara che la compassione è come la paura e quando uno ne è preda non è più uomo, come ha sperimentato egli stesso nel lungo viaggio da Monza in cui ha sentito Lucia piangere e disperarsi, e l'ha vista impallidire dal terrore e quasi morire.. Rimasto solo, il bandito inizia a chiedersi quale demonio protegga quella ragazza che ha sconvolto a tal punto il suo uomo, ripromettendosi di mandarla via il mattino dopo e pensando che ha servito don Rodrigo perché lo ha promesso e perché questo in fondo è il suo destino, mentre medita di chiedere al signorotto una ricompensa scabrosa a compenso di questa inquietudine che lo tormenta. L'innominato continua a pensare alla compassione ispirata da Lucia al Nibbio ed è preso dal desiderio di vederla, perciò si reca a passi rapidi alla camera della vecchia dove la giovane è tenuta prigioniera. Giunge alla porta e bussa con un calcio, al che la vecchia corre ad aprire e il bandito si affaccia sulla soglia, vedendo Lucia rannicchiata a terra in un punto lontano dalla porta: irritato, l'uomo rimprovera la vecchia per aver lasciato la ragazza in quelle condizioni, 45 ma la donna si difende dicendo che Lucia si è messa dove ha voluto. L'innominato ordina con voce severa a Lucia di alzarsi, anche se la giovane non si muove e resta tremante con la testa tra le mani, ancor più spaventata dall'arrivo di quell'uomo. Lucia si scuote e si inginocchia a mani giunte di fronte al bandito, invitandolo a ucciderla. L'innominato torna a dire che non vuol farle del male e Lucia si lamenta del fatto di essere stata rapita e condotta in quel luogo, dove patisce le pene dell'inferno. Lucia crede di vedere un'ombra di compassione sul volto del suo rapitore e lo invita a dire solo una parola per liberarla, poiché "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia". L'innominato si rammarica del fatto che Lucia non sia figlia di uno dei suoi nemici e la giovane, rincuorata dalla sua esitazione, torna a pregarlo di liberarla, venendo poi consolata dal bandito con un tono talmente raddolcito che la vecchia non crede alle proprie orecchie. L'uomo non promette nulla e si limita a dire "domattina", quindi conforta Lucia dicendo che una donna presto le porterà da mangiare e poi si rivolge alla vecchia, ordinandole con tono imperioso di tenere "allegra" la giovane e di farla mangiare. Lucia prega chiede alla sua carceriera di dirle il nome di quel signore: la vecchia, irritata dalle domande della prigioniera, rifiuta di rispondere per non avere guai e tra sé maledice le giovani donne, che suscitano la commozione negli uomini e hanno sempre ragione. Poi sente Lucia singhiozzare e cerca di consolarla, dicendole che molti sarebbero felici di sentire le parole che il padrone le ha appena rivolto. Lucia rimane immobile nella semi-oscurità, con il volto nascosto tra le mani e raggomitolata su se stessa, in preda a uno stato intermedio tra la veglia e un sonno popolato da torbide immagini e pensieri. Dopo un lungo periodo di angoscia, la ragazza cade a terra stremata e sembra addormentarsi, anche se subito dopo si scuote per riprendere padronanza di sé: tende l'orecchio e sente il russare regolare della vecchia. Riacquista così piena coscienza della sua terribile situazione e si rammenta di tutto ciò che è successo nella giornata, provando una tale angoscia che desidera di morire; poi però è presa da una nuova volontà di preghiera e, riguadagnando speranza, prende la corona del rosario e inizia a sgranarlo recitando sottovoce le orazioni. A un tratto Lucia si rende conto che forse le sue preghiere sarebbero più facilmente accolte se promettesse qualcosa in cambio e poiché si rende conto che ciò che ha o ha avuto di più caro è l'amore per Renzo, decide di fare sacrificio di esso con un voto alla Madonna. Inginocchiandosi sul pavimento, solleva gli occhi al cielo e chiede a Maria di salvarla da questo pericolo facendola tornare dalla madre, promettendo in cambio di restare vergine e di rinunciare a sposare Renzo, proposito per il quale pronuncia un voto di castità. Stremata da tante emozioni, alla fine si addormenta quando ormai sta spuntando il giorno e con il nome di Maria tra le labbra. Anche l'innominato vorrebbe dormire come Lucia, in un'altra stanza del suo castello, tuttavia non vi riuscirà per tutta la notte. Dopo essere quasi scappato dalla camera in cui è prigioniera la ragazza, il bandito ha ordinato di portarle la cena e poi ha fatto il consueto giro a certi posti di guardia della fortezza, chiudendosi infine nella sua stanza come se volesse sfuggire una squadra di nemici. Tuttavia, il pensiero fisso di Lucia tremante e le parole che la giovane gli 46 ha rivolto continuano a tormentarlo ed è chiaro che non riuscirà a prendere sonno: maledice la sua decisione di vedere Lucia, rimproverandosi di essersi lasciato impietosire come una donnicciola. È tentato dall'idea di liberare Lucia e di vedere il suo volto rasserenato, per provare sollievo dall'inquietudine che sembra divorarlo, anche se subito dopo è quasi atterrito dalla propria debolezza e si dice certo che la cosa passerà. Inzia a passare in rassegna tutte le malefatte degli anni precedenti, a pensare a tutti i delitti commessi, pensiero che gli sembra insopportabile e che gli si presenta in tutta la sua mostruosità, portandolo in breve alla disperazione. Afferra una pistola dalla parete accanto al letto ed è sul punto di uccidersi, quando pensa al suo cadavere che verrebbe trovato il giorno dopo e allo scompiglio nel castello, alla gioia dei suoi nemici e di chi gli sopravvivrà; suicidarsi nel buio della notte gli sembra un'azione vile e continua ad alzare e abbassare il cane della pistola, mentre lo assale anche il pensiero angoscioso che, forse, quella vita dopo la morte esiste davvero. Il dubbio getta l'innominato in una nera disperazione, che lo porta a lasciar cadere la pistola e a mettersi le mani nei capelli, tremando dalla paura: a un tratto gli tornano in mente le parole di Lucia ("Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia") e inizia a vedere Lucia non già come la sua prigioniera, bensì come colei che può dispensargli una grazia. Decide così di liberarla ed è disposto addirittura a portarla lui stesso dalla madre. Sul far dell'alba, quando Lucia si è da poco addormentata, l'innominato sente un rumore confuso e festoso giungere dall'esterno e, affacciandosi dalla finestra, vede una gran folla di gente in cammino sul fondo della valle verso una destinazione sconosciuta al bandito. L'innominato non riesce a spiegarsi le ragioni di quella marcia e, soprattutto, della gioia che traspare dagli atti delle persone, il che accende in lui un fortissimo desiderio di saperne di più: per questo chiama uno dei bravi e lo incarica di informarsi in proposito. Capitolo 22 Il bravo giunge poco dopo a riferire all'innominato che il giorno prima il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, è arrivato in visita pastorale al paese vicino e che la notizia ha spinto moltissime persone ad affluire lì nella speranza di vedere il prelato. Rimasto solo, il bandito decide su due piedi di andare anche lui a parlargli, nella speranza che possa liberarlo dal tormento interiore che lo ha tenuto sveglio tutta la notte. Così prende il cappello ed esce dalla sua camera, recandosi a quella della vecchia dove ha lasciato Lucia e alla cui porta bussa. L'innominato le comanda di lasciar dormire la giovane e di non disturbarla, mentre al suo risveglio le dovrà dire che lui se n'è andato ma tornerà presto, disposto a fare tutto quello che lei vorrà. La vecchia resta stupefatta, poi il bandito esce riprendendo la carabina e mandando Marta (la donna della sera prima) in una stanza vicina, mentre un bravo ha l'ordine di fare la guardia e impedire a chiunque altro di entrare nella camera della prigioniera. In seguito l'innominato esce dal castello e scende rapidamente la discesa. Un passante, alla sua domanda dove si trovi il cardinale, gli indica la casa del curato, al che l'innominato vi si reca ed entra nel cortile, dove sono radunati molti preti, e da qui passa in un salottino dentro l'abitazione, dove sono altri religiosi che lo guardano tutti con stupore e una certa inquietudine. Il bandito posa la carabina a terra e chiede a uno dei preti dove sia il 47 Lucia abbia dei parenti e il curato risponde che ha solo la madre Agnese, che si trova al loro paese. Il cardinale incarica don Abbondio di provvedere a far portare subito la donna lì con un calesse e il curato ne approfitta per proporre di andare lui stesso al paese, adducendo come pretesto la sensibilità di Agnese che, dice, potrebbe impressionarsi con un estraneo. Il cardinale ribatte che don Abbondio è più utile altrove, ovvero al castello ove dovrà consolare Lucia: il prelato intuisce facilmente che don Abbondio è spaventato all'idea di viaggiare solo con il bandito, e per evitare di parlare col curato in disparte si rivolge all'innominato per mostrare l'avvenuta conversione, chiedendogli di tornare a trovarlo presto in compagnia dello stesso curato, al che l'altro promette che lo farà senz'altro in quanto bisognoso dell'assistenza spirituale del cardinale. Il cardinale si appresta a uscire insieme al bandito e si rivolge al curato temendo che si senta trascurato, sottolineando la straordinaria conversione dell'innominato: don Abbondio ostenta la sua approvazione e fa un profondo inchino a entrambi, quindi il cardinale esce e tutti gli sguardi si concentrano su quella incredibile coppia. Il primo servitore del cardinale gli si avvicina e lo informa che la lettiga e le mule sono pronte, mentre il curato del paese è in arrivo con la donna che dovrà recarsi al castello con don Abbondio e l'innominato. Federigo si accommiata dal bandito con una stretta di mano e gli dice che lo aspetta di lì a poco. Don Abbondio resta solo con l'innominato, che ha il volto corrucciato al pensiero che presto potrà liberare Lucia. Don Abbondio pensa tra sé che avrebbe potuto evitare di recarsi lì a omaggiare il cardinale e se la prende con Perpetua che quella mattina lo ha spinto ad andare, mentre ora potrebbe essere al sicuro nella sua casa. Finalmente giungono il curato del paese e il servitore del cardinale, che informano che tutto è pronto per la partenza, al che don Abbondio incarica il parroco di provvedere a far venire lì Agnese. I due raggiungono le due mule e la lettiga, montano in sella e la comitiva inizia ad attraversare il paese. Don Abbondio, l'innominato e la lettiga passano di fronte alla chiesa gremita di folla e attraversano una piazzetta anch'essa piena di gente, che si fa largo per il desiderio di vedere il famoso bandito la cui conversione, frattanto, si è risaputa in paese. L'innominato si toglie il cappello inchinandosi di fronte al popolo. Poco dopo la comitiva lascia l'abitato ed entra in aperta campagna, dove il curato è preda di cupi pensieri e rivolge lo sguardo solo al conducente della lettiga, certo che si tratti di un uomo onesto in quanto al servizio del cardinale. Vorrebbe parlare con l'innominato, anche per sincerarsi dell'avvenuto ravvedimento, ma lo vede talmente assorto nei suoi pensieri che non osa aprir bocca e inizia invece a pensare tra sé agli avvenimenti di cui è protagonista. Se la prende coi santi e i malfattori, che vogliono sempre coinvolgere nelle loro imprese le persone quiete come lui, che vorrebbe solo starsene tranquillo senza far male a nessuno; maledice don Rodrigo, che essendo ricco e potente potrebbe vivere senza pensieri e invece cerca solo di molestare le donne, volendo andare all'inferno anziché in paradiso. Guarda di sottecchi l'innominato e si chiede se si sia davvero convertito, accusandolo in cuor suo di aver commesso in passato ogni genere di delitto invece di vivere quietamente, mentre ora ha 50 coinvolto anche lui in questa sorta di penitenza che avrebbe potuto svolgere a casa sua senza tanti schiamazzi. Don Abbondio accusa anche il cardinale di aver subito accolto il bandito a braccia aperte, credendo troppo facilmente al suo pentimento, al punto di affidargli la vita di un povero curato senza alcuna garanzia: sospetta che sia tutto un inganno e non riesce a immaginare in che modo sia coinvolta Lucia, lamentando il fatto che lo abbiano tenuto all'oscuro dei dettagli. Il curato prova pena per la ragazza e si rallegra che possa esser liberata, ma accusa anche lei in cuor suo di essere l'origine di tutti i suoi guai. Di lì a poco entrano nella valle che porta al castello e don Abbondio è assalito dalla paura al ricordo delle terribili storie udite su quel luogo famigerato, specie quando iniziano a incontrare i bravi che si inchinano rispettosi al loro padrone. Il povero curato rimpiange quasi di non aver sposato Renzo e Lucia. Il gruppo raggiunge in breve la cima della salita e, dietro l'innominato che fa da guida, la lettiga e don Abbondio entrano nel castello attraverso due cortili interni, finché arrivano a un uscio e il bandito smonta dalla mula. L'uomo la lega a un'inferriata e comanda a un bravo di non far passare nessun altro, quindi si rivolge alla donna dentro la lettiga esortandola a consolare subito Lucia, facendole capire che sta per essere liberata e consegnata a persone fidate. L'innominato si rivolge poi a don Abbondio con sguardo sereno e lo rassicura accennando all'opera di misericordia che sta per compiere, per poi aiutarlo a smontare dalla mula. Capitolo 24 Poco dopo che Lucia si è svegliata si sente bussare e la vecchia apre al bandito, il quale fa uscire la donna e fa entrare nella stanza don Abbondio e la moglie del sarto. Lucia è in ansia poiché non sa cosa aspettarsi, poi si rincuora vedendo un prete e una donna e le sembra di riconoscere il proprio curato: lo guarda a lungo senza sapersi convincere, finché la moglie del sarto inizia a confortarla e le dice che sono venuti a liberarla. Anche il curato tenta, sia pur goffamente, di consolare Lucia, la quale è incredula all'idea di poter lasciare il castello. L'innominato entra nella stanza e Lucia è colta dalla paura, per cui si stringe alla moglie del sarto e nasconde il viso: il bandito, alla vista della giovane che sembra aver molto patito, abbassa lo sguardo e le chiede umilmente perdono, mentre la donna sussurra all'orecchio di Lucia che l'uomo è diventato buono e vuole davvero liberarla. Lucia, vedendolo sinceramente addolorato, lo ringrazia della sua misericordia e gli augura la benevolenza divina. A questo punto il bandito esce dalla stanza e fa strada agli altri tre, che lo seguono e, scesa una scala, sbucano nel cortile esterno, dove l'innominato aiuta Lucia e la donna a salire sulla portantina e poi monta sulla sua mula. La comitiva riprende il cammino e inizia a scendere l'erta per lasciare il castello. La moglie del sarto tira le tende della portantina e inizia poi a confortare Lucia tenendole le mani, dicendole anche che sono dirette al suo villaggio che si trova poco lontano dal paese della ragazza. La donna racconta poi a Lucia della straordinaria conversione dell'innominato e della parte avuta in essa dal cardinal Borromeo Lucia chiede poi chi sia il bandito che l'ha 51 fatta rapire e quando la donna ne fa il nome la ragazza è colta da un fremito di orrore, al ricordo delle terribili storie udite in passato sul suo conto. Don Abbondio è certo molto meno angosciato di quando non fosse durante il viaggio di andata al castello, tuttavia, se anche la paura del presente si è attenuata, viene tormentato da molti altri pensieri relativi all'avvenire. La comitiva giunge al paese e si divide, poiché don Abbondio e l'innominato si dirigono verso la casa parrocchiale, mentre la portantina va verso la casa della moglie del sarto. Appena smontato dalla mula, don Abbondio prega l'innominato di scusarlo col cardinal Borromeo e dice di dover tornare subito al suo paese, dove lo attendono affari improrogabili. Intanto la buona donna ha accolto Lucia nella cucina della sua casa, dove riattizza il fuoco nel camino sotto una pentola in cui cuoce un cappone, mentre si schermisce alle scuse e ai ringraziamenti della ragazza. La donna riempie una scodella con del brodo e la porge a Lucia, che beve e sembra riacquistare un aspetto migliore. Ripensando al voto, Lucia è quasi pentita. Tuttavia soffoca ogni pentimento riguardo al voto, supplicando la Madonna di darle la forza di adempierlo e pregandola di allontanare da lei ogni occasione che possa costituire un ostacolo sulla via della promessa fatta, mentre è quasi sollevata all'idea che Renzo sia forzatamente lontano, costretto a nascondersi dalla legge. Il pensiero di Renzo è comunque fonte di turbamento e di sofferenza per Lucia. A un tratto si sentono delle voci ed entrano in casa il sarto e i suoi figli, di ritorno dalle funzioni in chiesa che sono state officiate dal cardinal Borromeo: i tre bambini si stringono intorno alla madre e fanno molte domande a proposito di Lucia, mentre il padrone di casa accoglie la giovane con aria cordiale. L'autore riferisce che si tratta del sarto del villaggio e dei luoghi vicini, un uomo che sa leggere e che possiede alcuni libri popolari e di genere agiografico e avventuroso, tanto che passa per essere un uomo dotto ed è inoltre di carattere aperto e gioviale. Egli era presente quando la moglie è stata pregata di andare a prendere Lucia e aveva dato la sua approvazione, poi ha sentito in chiesa la predica del cardinale sulla conversione dell'innominato. L'uomo dà un caloroso benvenuto a Lucia, poi si rallegra con lei della miracolosa conversione del bandito e del fatto che lei ne sia stata, pur suo malgrado, all'origine. Una volta messi a tavola, Il sarto osserva che, nonostante la carestia che affligge la regione, è possibile porvi rimedio con la carità e l'elemosina, come il cardinale dimostra in prima persona levandosi il pane di bocca e facendo una vita semplice e non da ricco signore come potrebbe. Poco dopo il curato del paese si reca in casa del sarto per informarsi su incarico del cardinale circa le condizioni di Lucia, dicendo alla giovane che il prelato intende incontrarla e ringraziando l'uomo e la moglie del servizio reso. Il curato chiede inoltre di Agnese e Lucia si scuote al nome della madre, scoppiando a piangere quando le viene spiegato che il cardinale ha disposto di farla accompagnare al villaggio Agnese, intanto, è già in viaggio su un baroccio verso il paese. Lungo la strada il baroccio incrocia don Abbondio di ritorno al paese e il curato ha modo di parlare un momento con la donna. Più tardi il baroccio arriva alla casa del sarto e Agnese può finalmente ritrovare Lucia, 52 nemmeno lui sa spiegarsi come possa essersi messo nei guai con la giustizia. Federigo chiede se Lucia possa tornare a vivere sicura in paese, al che don Abbondio ribatte che al momento non c'è pericolo per lei, data l'assenza del suo persecutore, ma bisognerebbe che il cardinale fosse sempre presente. Federigo afferma di voler trovare per la ragazza un rifugio sicuro e dispone di far venire lei e la madre in paese il giorno dopo, congedandosi poi dal curato. In realtà le preoccupazioni del cardinale riguardo a Lucia sono inutili, perché nei giorni precedenti sono accadute alcune cose che l'autore riferisce facendo un passo indietro: Lucia e Agnese sono ospiti nella casa del sarto, nel villaggio vicino al castello dell'innominato, dove la ragazza chiede di lavorare e passa tutto il tempo a cucire. Con i padroni di casa è nata un'affettuosa amicizia e Agnese chiacchiera amabilmente con la moglie del sarto, mentre quest'ultimo racconta talvolta alle due donne delle storie che trae dai libri popolari che ama leggere. Poco lontano dal paese, in una casa di villeggiatura, è presente in quei giorni una coppia di nobili milanesi, don Ferrante e donna Prassede: quest'ultima è una gentildonna che sente il bisogno di fare del bene a tutti, non tanto per inclinazione caritatevole quanto piuttosto per capriccio personale. La donna ha sentito parlare di Lucia e delle sue traversie, quindi decide di incontrarla e un giorno manda una carrozza alla casa del sarto per portare madre e figlia alla sua villa, cosa che imbarazza non poco la ragazza che vorrebbe rifiutare l'invito: il sarto, tuttavia, insiste con la giovane perché non faccia un torto a una signora potente che potrebbe esserle d'aiuto, per cui alla fine Lucia si convince e si reca con la madre alla casa di donna Prassede. I modi di donna Prassede, per quanto ispirati da una certa superiorità, risultano alquanto accattivanti agli occhi di Lucia e Agnese, tanto più che la nobildonna, avendo sentito dire che il cardinal Borromeo sta cercando un rifugio per la ragazza, propone di ospitarla nella sua casa di Milano, dove la giovane potrà dare una mano alla servitù senza essere addetta a nessun lavoro in particolare. Donna Prassede si offre di comunicare la cosa al cardinale ed è determinata in questo suo progetto non solo perché vuole giovare a Lucia, ma soprattutto perché è convinta che la ragazza, promessa a un poco di buono e ricercato dalla giustizia come Renzo, sia su una cattiva strada e dunque ha preso l'impegno di rimetterla sulla retta via, benché ovviamente non dica nulla in proposito. Lucia e Agnese si guardano in viso e convengono sull'opportunità di accettare la proposta, se non altro in quanto la villa di donna Prassede è molto vicina al loro paese, quindi rispondono di sì e la nobildonna promette che invierà una lettera al cardinale per informarlo della cosa. La lettera viene poi scritta dal marito don Ferrante, che passa per un letterato e la compone con la consueta maestria, quindi la missiva viene mandata a casa del sarto (di lì a pochi giorni giunge la portantina mandata dal cardinale, che porta le due donne al loro paese). Lucia e Agnese arrivano al paese e smontano alla casa parrocchiale, dove il cardinale le attende e dove il cappellano crocifero si affretta a dare loro qualche ragguaglio su come dovranno comportarsi col prelato. Il cardinale sta parlando con don Abbondio, che dunque deve allontanarsi; in seguito Agnese, dopo uno scambio di cortesie con Federigo, gli mostra 55 la lettera di don Ferrante e il prelato, dopo averla letta, conviene che l'invito di donna Prassede è benevolo e che la casa dei due nobili sarà un rifugio sicuro per Lucia. Alla fine delle funzioni don Abbondio corre a vedere se Perpetua ha predisposto tutto per la cena, ma viene chiamato dal cardinale. Il prelato gli chiede per quale motivo non abbia celebrato il matrimonio tra Renzo e Lucia. Don Abbondio capisce con amarezza che Agnese deve aver raccontato tutto e tenta di opporre al suo superiore delle deboli giustificazioni. Questi rivela di aver ricevuto delle minacce e non vorrebbe aggiungere altri dettagli, ma poiché il cardinale torna a chiedere conto di quanto avvenuto don Abbondio è costretto a raccontare tutta la storia e il solo particolare che omette è il nome di don Rodrigo, da lui definito un "gran signore". Il cardinale si mostra assai stupito delle giustificazioni del curato e don Abbondio ribadisce che era in pericolo la sua vita, al che tuttavia Federigo lo rimprovera ricordandogli che il ministero del sacerdozio non dà certo alcuna garanzia di incolumità e, anzi, i parroci sono come agnelli tra i lupi, inviati a predicare il Vangelo anche a chi obbedisce alle leggi della violenza e dell'odio, chiamati ad addossarsi tutti i rischi connessi a questa funzione. Don Abbondio resta a capo chino di fronte ai discorsi del cardinale: vistosi costretto a rispondere qualche cosa, il curato ribadisce che ha agito così per timore della propria vita e non sa proprio cosa avrebbe potuto ottenere opponendosi a un signore potente, che può raggiungere qualunque obiettivo grazie alla forza e alla violenza. Il cardinale ribadisce a sua volta che nessuno pretendeva che don Abbondio avesse la meglio su chi ha la forza e agisce da prepotente, ma il suo dovere era di fare ciò che prescriveva il suo abito e in questo egli ha mancato. Il curato pensa tra sé che, in fin dei conti, al suo superiore sta più a cuore l'amore dei due promessi che non la vita di un suo sacerdote e torna poi a dire che forse ha avuto torto, ma che uno non può darsi il coraggio se ne è privo: il Borromeo ribatte che don Abbondio non avrebbe dovuto abbracciare il sacerdozio se non ha quel coraggio che gli è così necessario, ma che in ogni caso avrebbe potuto implorarlo e ottenerlo da Dio. E comunque, prosegue il cardinale, se anche don Abbondio ha temuto per la propria vita, come può non aver temuto anche per i fedeli affidati alle sue cure? Capitolo 26 Don Abbondio resta senza parole di fronte alle domande insistenti del cardinal Borromeo. Il cardinale osserva che don Abbondio resta in silenzio in quanto è consapevole di aver mancato al suo dovere, dal momento che non solo egli ha piegato il capo di fronte alle minacce subite di non celebrare il matrimonio, ma ha accampato futili pretesti per sottrarsi alle sue incombenze e ha in tal modo tenuto all'oscuro i due promessi della minaccia che gravava sul loro capo. Don Abbondio capisce che Lucia e Agnese devono aver riferito al cardinale anche delle sue scuse per rimandare le nozze. Il curato pensa tra sé che il cardinale non ha esitato ad abbracciare l'innominato nonostante i suoi delitti, mentre ora accusa lui per una piccola innocente bugia detta per salvarsi la vita, lamentandosi che è destinato ad essere perseguitato da tutti: chiede poi ancora al superiore cosa avrebbe dovuto fare in una simile circostanza, al che il cardinale ribadisce, irritato per la caparbietà di don 56 Abbondio, che avrebbe dovuto amare e pregare, facendo il proprio dovere senza timore di perdere quella vita che prima o poi deve naturalmente finire. In ogni caso, afferma ancora il cardinale, don Abbondio avrebbe potuto informare di tutto il suo superiore, che sarebbe prontamente intervenuto a proteggere i due promessi e la sua stessa vitai. Don Abbondio osserva con amarezza tra sé che questi erano proprio i consigli che Perpetua gli aveva dato dopo l'incontro coi bravi, benché continui a pensare che un giorno don Rodrigo tornerà in paese e il cardinale non potrà proteggerlo dalla sua ira. Il cardinale ribadisce che don Abbondio ha agito così in quanto troppo attaccato alla vita terrena che deve finire, al che il curato si lascia sfuggire l'obiezione che in realtà è toccato a lui trovarsi di fronte i bravi che lo minacciavano, per cui è fin troppo facile per il cardinale parlare senza essersi trovato in un simile frangente. Don Abbondio si pente subito delle sue parole troppo franche e teme di subire un duro rimprovero da parte del cardinale, ma con suo stupore vede che il porporato ha assunto un aspetto pensieroso: Federigo ribatte che, in effetti, la sua condizione di superiore è assai penosa, dal momento che è costretto a rimproverare agli altri quelle debolezze che, forse, egli stesso ha dimostrato in occasioni simili. Egli deve comunque dare il buon esempio e non può pretendere dagli altri ciò che lui stesso non sarebbe pronto a fare, cosicché esorta don Abbondio a fargli notare francamente le sue eventuali manchevolezze. Don Abbondio riconosce che tutto è contro di lui, benché anche i due promessi abbiano le loro colpe in quanto, come si affretta a riferire, hanno tentato l'insidia del "matrimonio a sorpresa": Federigo ribatte di essere a conoscenza della cosa, tuttavia è ben triste che il curato tenti di difendersi accusando i suoi fedeli, poiché i due giovani non avrebbero certo tentato quel sotterfugio se avessero potuto sposarsi regolarmente come era dovere di don Abbondio consentirgli. Inoltre, prosegue il cardinale, quale vantaggio avrebbe portato al curato il loro silenzio, dal momento che il mondo corrotto e perverso si compiace di costringere le vittime dei soprusi a non rivelare a nessuno le ingiustizie subite? Don Abbondio resta in silenzio ascoltando il discorso del cardinale, ma il suo silenzio non più quello stizzito e impaziente di prima, bensì quello di un uomo che è portato a riflettere sui rimproveri che ha ricevuto per la sua condotta: Federigo lo ha portato a considerare gli insegnamenti del Vangelo che egli ben conosce e che solo per paura è stato indotto a trascurare, mentre il male subìto dal prossimo ora acquista una nuova impressione ai suoi occhi. Il curato prova un po' di rimorso e si mostra abbastanza commosso perché il cardinale comprenda che le sue parole hanno sortito un qualche effetto. Federigo afferma che, purtroppo, ora Renzo e Lucia sono lontani e separati l'uno dall'altra, con un incerto avvenire di fronte a sé, dunque non hanno bisogno dell'aiuto di don Abbondio, ma questi viene incitato comunque a stare in attesa degli eventi, in quanto la Provvidenza potrebbe ancora dargli modo di essere utile ai suoi fedeli e farsi perdonare le sue mancanze. Il curato promette con sincerità che, in tal caso, non mancherà di fare il suo dovere e il cardinale si scusa in parte della durezza dei suoi rimproveri, augurandosi che don Abbondio ripaghi la sua fiducia nel mantenerlo nel posto. 57 Fiandra, smania per iniziare le ostilità e conclude un trattato col duca Carlo Emanuele per invadere e spartire il Monferrato, salvo poi ottenerne la ratifica dal primo ministro spagnolo facendogli credere molto facile la conquista di Casale, la piazzaforte più difesa di quel territorio. Don Gonzalo non intende tuttavia occupare il Monferrato, almeno fino a quando l'imperatore Ferdinando II non si sarà pronunciato sulla questione della successione di Mantova, feudo imperiale, dal momento che il sovrano ha intimato a Carlo di Nevers di non occupare il feudo, mentre quest'ultimo non ha voluto piegarsi a questa volontà. Carlo di Nevers gode dell'appoggio del cardinal Richelieu, dei Veneziani e di papa Urbano VIII, ma il primo è impegnato nell'assedio di La Rochelle e in un conflitto con l'Inghilterra, senza contare l'opposizione della regina Maria de' Medici, per cui non può impegnarsi attivamente nel sostegno all'alleato; i Veneziani non intendono schierarsi se non dopo la discesa in Italia di un esercito francese, limitandosi perciò ad aiutare il Nevers in modo surrettizio e senza dare nell'occhio; il papa, da parte sua, sostiene Carlo a parole e cerca di stipulare una pace, senza tuttavia impegnare truppe. Don Gonzalo e Carlo Emanuele di Savoia possono così attuare il loro piano, ovvero l'invasione del Monferrato da parte del duca sabaudo e l'assedio di Casale da parte del governatore di Milano, anche se le operazioni belliche non vanno come quest'ultimo aveva sperato: la corte non gli dà l'aiuto richiesto, il duca di Savoia sottrae territori spettanti al re di Spagna, costringendo Gonzalo a tacere per non irritare l'alleato e perdere il suo aiuto prezioso. L'assedio procede poi lentamente, sia per la strenua resistenza dei Casalesi, sia (a detta di molti storici) per l'incapacità di don Gonzalo, cosa che all'autore sembra bellissima visto che in tal modo è stato limitato il numero di morti, feriti, uomini storpiati nel corso di quell'assurda guerra. È proprio in questo frangente che scoppia il tumulto di S. Martino a Milano, alla notizia del quale don Gonzalo rientra precipitosamente in città. A don Gonzalo viene riferito sommariamente anche della clamorosa fuga di Renzo, nonché dei fatti veri o presunti di cui si sarebbe macchiato durante la sommossa e della sua fuga nel Bergamasco: teme che la Repubblica di Venezia possa approfittare della rivolta per schierarsi con la Francia, tanto più che pochi giorni prima (il 25 ottobre) è giunta la notizia, paventata dal governatore, che La Rochelle è caduta, perciò coglie ogni occasione per far capire ai Veneziani che egli non è affatto preoccupato per l'accaduto e che non ha perso nulla dell'antica gagliardia. È questo il motivo che lo spinge a lamentarsi col residente di Venezia allorché questi viene a rendergli visita a Milano, protestando per l'asilo offerto nel Bergamasco a Renzo e causando così le ricerche della giustizia veneta in quel territorio, che poi non portano a nulla. Intanto don Gonzalo torna a Casale e qui, molto tempo dopo, gli viene riferito con un dispaccio l'esito negativo delle ricerche del fuggitivo Renzo, al che sulle prime non ricorda neppure di che si tratti, poi si rammenta confusamente della faccenda e passa subito ad altro, senza pensarci oltre. Nel frattempo Renzo, che ovviamente non può immaginare che le autorità di Milano siano così poco interessate a trovarlo, resta nascosto nel suo nuovo rifugio e per un certo tempo non può dare notizie ad Agnese, specie perché non sa scrivere e dovrebbe quindi rivolgersi a qualcuno che rediga una lettera per suo conto, trovando poi qualcun altro che faccia da 60 corriere e la recapiti a destinazione. L'autore precisa inoltre che Renzo sa leggere in modo stentato lo "stampato", come aveva dimostrato nello studio del dottor Azzecca-garbugli, ma non sa leggere le parole scritte a penna, senza contare che non è assolutamente in grado di scrivere di suo pugno. Finalmente trova un uomo fidato che possa fargli da scrivano e gli fa redigere una lettera per Agnese, che però fa recapitare al convento di Pescarenico non sapendo dove si trovino la donna e Lucia: la lettera arriva a destinazione, ma data l'assenza di padre Cristoforo la missiva si perde e non se ne sa più nulla. Renzo fa scrivere una seconda lettera e la fa pervenire a un suo amico di Lecco, che la fa avere ad Agnese: la donna si reca a Maggianico e la fa leggere dal cugino Alessio, incaricandolo poi di scrivere una risposta che viene indirizzata ad Antonio Rivolta (la nuova identità di Renzo) al domicilio da lui indicato. Inizia tra i due una sorta di bizzarra corrispondenza epistolare, che avviene però in modo stentato a causa dell'analfabetismo dei due personaggi. Digressione sulla corrispondenza dei contadini. L'autore spiega che il contadino analfabeta che ha bisogno di scrivere una lettera si rivolge a uno che possa fargli da scrivano, possibilmente della sua stessa condizione sociale poiché diffida degli altri, spiegandogli pressappoco come stanno i fatti e cosa deve scrivere. Lo scrivano capisce le cose in parte e in parte le fraintende, propone dei cambiamenti, stende infine la lettera un po' a suo genio e non accettando di essere un mero strumento della volontà altrui. In tal modo, tuttavia, la lettera non sempre dice in modo chiaro e preciso quel che dovrebbe e quando la missiva giunge al destinatario, questi deve portarla a sua volta da un lettore che la interpreti e che non sempre riesce a intendere perfettamente il contenuto dello scritto, per cui nascono delle controversie con chi l'ha ricevuta e che si aspetta che la lettera dica altre cose da quelle riferite. In seguito il destinatario fa scrivere una risposta al suo scrivano, il quale si comporta più o meno come l'autore della prima lettera, e quando la seconda missiva giunge al destinatario essa è soggetta a una simile interpretazione e a più o meno numerosi fraintendimenti. Se poi i due corrispondenti non dicono tutto chiaramente perché si tratta di affari scabrosi o segreti, come nel caso appunto di Agnese e Renzo, la logica conseguenza è che essi si intendano con grande fatica. La corrispondenza tra Agnese e Renzo è appunto di questo tipo e nella prima lettera il giovane spiega le circostanze della sua fuga e della sua latitanza, senza tuttavia che la donna e Alessio riescano a capire granché. Renzo chiede poi con ansia di Lucia, delle cui vicende ha avuto qualche notizia confusa, e raccomanda di confidare nell'avvenire, poiché ci saranno condizioni favorevoli per un possibile ricongiungimento dei due promessi. Dopo qualche tempo Agnese trova il modo di fare arrivare una risposta a Renzo, insieme alla metà dei cento scudi d'oro ricevuti dall'innominato: il giovane è stupito di vedere tanto denaro e non sa che pensare, quindi chiede con ansia allo scrivano di leggergli la lettera, apprendendo così, in modo non troppo chiaro, del rapimento di Lucia e dell'origine del denaro, nonché del voto pronunciato dalla giovane e della necessità per lui di mettersi l'animo in pace. Renzo è inorridito e attonito da quanto ha sentito. In seguito detta subito con animo alterato una risposta, in cui dichiara che non si metterà mai l'animo in pace e che non intende toccare i cinquanta scudi, che serberà come dote di Lucia, giacché tra i due c'è una promessa di 61 matrimonio che lui non vuole assolutamente dimenticare. Renzo fa scrivere inoltre che, a suo dire, la Madonna aiuta i poveri e non induce a mancar di parola, quindi lui è ben deciso a sposare Lucia e a usare il denaro per mettere su casa nel Bergamasco quando le cose saranno accomodate. Agnese riceve la lettera e risponde a sua volta, per cui il carteggio prosegue in questo modo per un po' di tempo. Agnese riesce in qualche modo a informare Lucia, ospite presso la casa di donna Prassede a Milano, che Renzo è in salvo e che è stato avvertito della questione del voto, per cui la giovane prova sollievo e desidera soltanto che il promesso sposo cerchi di dimenticarsi di lei. La ragazza per parte sua si sforza con tutta se stessa di non pensare a Renzo. Lucia riuscirebbe certo a pensare di meno a Renzo, se donna Prassede non le parlasse spesso di lui nel tentativo alquanto goffo di indurla a dimenticarlo. Lucia spesso scoppia a piangere, ma neppure le lacrime fermano la nobildonna, proprio come i gemiti e le suppliche possono trattenere le armi di un nemico ma non il ferro di un chirurgo (Prassede pensa di fare "del bene" a Lucia e perciò è indotta a perseverare con insistenza). La ragazza non serba comunque astio verso la predicatrice, tanto più che la nobildonna la tratta per il resto con molta dolcezza, anche se quelle discussioni lasciano la poverina in uno stato di grande agitazione. Fortunatamente per Lucia, donna Prassede deve esercitare la sua "carità" anche verso altri bersagli, come gli elementi della servitù che sono per lei tutti meritevoli di essere raddrizzati. Ha inoltre cinque figlie, tre delle quali sono monache e due sposate, per cui donna Prassede si sente in obbligo di interferire anche negli affari di tre conventi e due famiglie. La casa è il luogo dove l'autorità di donna Prassede è pressoché assoluta, anche se essa non si estende sul marito don Ferrante, con cui ha un rapporto alquanto particolare. Il nobile è un uomo di studio e non gli piace comandare né ubbidire, per cui concede alla moglie la signoria completa sulla casa ma se ne sottrae volentieri e l'unica concessione che fa a donna Prassede è di scrivere per lei qualche lettera, quando non si rifiuta anche di far questo per via delle richieste assurde della moglie. Sino all'autunno del 1629 tutti rimangono dove si trovano senza che accada loro nulla di veramente rilevante, finché un grandioso avvenimento storico manda all'aria i progetti di Agnese e Lucia di ritrovarsi così come contavano di fare: quel fatto (la calata dei lanzichenecchi in Lombardia) fu solo il presagio di un evento ben più tragico (la peste del 1630), che avrebbe coinvolto personaggi grandi e umili. Capitolo 28 Nei giorni seguenti al tumulto di S. Martino (11 e 12 novembre 1628) il prezzo del pane a Milano torna ad essere abbassato per effetto di nuove gride e i rivoltosi che hanno preso parte alla sommossa ne sono soddisfatti, persuasi che ciò sia un risultato dei disordini: tutti però temono che la cosa non durerà a lungo e perciò c'è una vera corsa ai forni ad acquistare pane a prezzo ribassato, cosicché ben presto pane e farina iniziano a scarseggiare. Per questo il gran cancelliere Antonio Ferrer il 15 novembre pubblica una nuova grida con cui si 62 unicamente come deposito di quelle merci che devono essere tenute in contumacia, cioè trattenute in quanto si sospetta che possano essere infette. Le autorità cittadine decidono di liberare il lazzaretto in fretta e furia, facendone uscire tutte le merci in seguito a controlli sommari, quindi si mette della paglia in tutte le stanze e si acquistano viveri per sfamare gli accattoni che subito dopo, con provvedimento pubblico, vengono invitati a recarsi in quel luogo. Molti di loro vi accorrono spontaneamente e quelli che giacciono moribondi nelle strade vi vengono portati di peso, raggiungendo in totale il numero di circa tremila persone; molti altri mendicanti restano fuori, forse nella speranza di ottenere maggiori elemosine dato il numero ridotto di concorrenti, o forse solo per diffidenza verso le autorità pubbliche e la ripugnanza ad essere rinchiusi in uno spazio malsano in cui la vita non può che essere molto dura. Molti mendicanti lasciano la città, mentre il numero di quelli ammassati nel lazzaretto, tra gli ospiti volontari e prigionieri, arriva al numero spaventoso di diecimila persone. Dormono tutti accalcati a terra dentro le piccole stanze, a venti o trenta per volta, o sotto il portico, stesi su paglia putrida o sulla nuda terra. Il pane è scarso e di pessima qualità, cosa inevitabile in simili circostanze, per di più alterato con sostanze poco nutrienti, mentre persino l'acqua scarseggia e dev'essere attinta dall'acqua stagnante del fossato circostante. Alle cause già tanto numerose di mortalità si aggiunge anche la cattiva stagione, le piogge frequenti seguite da periodi di siccità intensa e da un caldo violento e improvviso: la vita all'interno del lazzaretto si fa di giorno in giorno più difficile. Tra la popolazione del lazzaretto si diffondono ben presto malattie contagiose ed epidemiche, naturalmente favorite dall'ammasso in un luogo così ristretto di tante persone, nonché dalle condizioni di privazione e debolezza in cui si trova quella gente a causa della fame e della carestia. Forse il contagio nasce nel lazzaretto o forse vi viene portato dall'esterno e si propaga con straordinaria rapidità, fatto sta che il numero giornaliero di morti supera ben presto il centinaio; il Tribunale di Provvisione non sembra in grado di prendere provvedimenti e quello di Sanità propone di aprire le porte del lazzaretto e di mandar fuori tutti gli accattoni che non siano manifestamente malati, i quali corrono via con gioia furibonda. Fortunatamente nell'estate del 1629 il raccolto di grano è abbondante e questo fa cessare la terribile carestia, consentendo agli accattoni di lasciare Milano per tornare nel contado: il cardinal Borromeo fa consegnare a ogni contadino che si presenti all'arcivescovado una moneta d'argento e una falce per mietere, mentre nelle settimane seguenti scema anche la moria dovuta alle malattie epidemiche, anche se i decessi si prolungano sino all'autunno. A questo punto, però, un nuovo terribile flagello si abbatte sul ducato di Milano, già duramente provato dalla carestia, poiché nei mesi precedenti sono avvenuti alcuni fatti storici molto importanti: anzitutto il cardinal Richelieu ha espugnato la roccaforte della Rochelle e concluso una pace col re d'Inghilterra, proponendo al re di Francia di dare aiuti militari al duca di Nevers; a quest'ultimo l'inviato dell'imperatore Ferdinando II ha nel frattempo intimato di lasciare subito Mantova, cosa che tuttavia il Nevers si è guardato bene dal fare sperando proprio nell'aiuto francese, cosicché il commissario imperiale ha minacciato un intervento armato per cacciarlo. Un esercito francese ha intanto valicato le Alpi e il Richelieu ha 65 concluso un accordo col duca di Savoia, ottenendo che don Gonzalo tolga l'assedio da Casale del Monferrato. In quest'occasione, ricorda l'autore, Claudio Achillini scrive il celebre verso Sudate, o fochi, a preparar metalli dedicato al re di Francia Luigi XIII, e un altro con cui lo incita a intraprendere la liberazione della Terrasanta, anche se in realtà l'esercito francese torna subito in patria incurante delle richieste dei Veneziani, ansiosi di entrare in guerra con la Spagna. Mentre l'esercito francese si allontana da una parte, dall'altra si avvicina minaccioso quello delle soldatesche imperiali dirette ad assediare Mantova, le quali attraversano il Cantone dei Grigioni e la Valtellina e si apprestano a entrare nel territorio di Milano. Il passaggio dei lanzichenecchi spaventa per le ruberie e i saccheggi, ma anche perché la peste cova tra le file di quelle armate, perciò il Tribunale di Sanità incarica uno dei suoi funzionari, il medico Alessandro Tadino di comunicare il pericolo imminente al governatore don Gonzalo, il quale però non sembra comprendere la minaccia e si limita a rispondere che il passaggio dell'esercito imperiale avviene per ragioni di alta politica, dunque non si può impedire. Il governatore invoca per il pericolo della peste l'aiuto della Provvidenza divina e i due medici che fanno parte della Sanità, il Tadino stesso e Senatore Settala cercano di imporre provvedimenti che vietino sotto minaccia di pene severe di acquistare qualunque cosa dai soldati tedeschi, per scongiurare il pericolo del contagio, anche se il presidente del Tribunale non comprende la gravità della situazione e non dà seguito alla richiesta. Poco dopo l'episodio citato, del resto, il governatore don Gonzalo lascia Milano essendo stato rimosso dall'incarico da parte del re di Spagna: gli viene rimproverato il cattivo esito della guerra e dell'assedio di Casale, mentre il popolo milanese lo accusa di averlo affamato e neppure comprende le sue enormi responsabilità nell'aver sottovalutato il pericolo della peste. In seguito alla triste partenza di don Gonzalo il suo posto viene preso dal genovese Ambrogio Spinola, all'epoca già famoso per le sue imprese militari nella guerra di Fiandra. Intanto le soldatesche dell'esercito imperiale, al comando del generale italiano Rambaldo di Collalto, nel settembre 1629 penetrano nel Ducato di Milano con l'ordine di raggiungere Mantova: all'epoca le milizie erano quasi sempre composte da mercenari, arruolati da capitani di ventura su commissione di qualche principe o anche per proprio conto, e tali soldati erano attirati dalle paghe e, soprattutto, dalla speranza di ottenere un ingente bottino grazie ai saccheggi cui si abbandonavano senza freni e a cui erano spesso incoraggiati dai loro stessi comandanti, incuranti della disciplina e spesso impossibilitati a mantenerla. Inoltre i principi arruolavano simili soldatesche in gran quantità e spesso non avevano denaro sufficiente per pagarle, quindi le paghe arrivavano in ritardo o in modo discontinuo e ciò favoriva la spogliazione di quei territori in cui gli eserciti di ventura andavano ad alloggiare, fatto deprecabile ma tacitamente accettato da sovrani e comandanti. I soldati mercenari dell'esercito imperiale sono i famigerati lanzichenecchi, che già hanno desolato la Germania durante la guerra dei Trent'anni tuttora in corso, e molti di quelli che calano in Lombardia sono al comando del famoso generale boemo Albrecht von Wallenstein, accompagnato da vari luogotenenti che di lì a quattro anni lo tradiranno e ne causeranno la morte. L'armata è 66 composta di circa ventottomila fanti e settemila cavalieri e scende dalla Valtellina per seguire il corso dell'Adda, trattenendosi circa otto giorni nel Ducato di Milano. Molti abitanti dei paesi del Milanese lasciano le loro case e si rifugiano sui monti, spesso portando con sé le bestie, mentre altri restano a custodire le abitazioni e i pochi averi, alcuni nella speranza di unirsi ai saccheggi. Quando una squadra di lanzichenecchi arriva in un paese lo mette a soqquadro e sottopone al saccheggio tutto il territorio circostante, depredando quel che c'è da portar via e distruggendo tutto il resto: il mobilio delle case viene bruciato, le abitazioni diventano stalle e gli abitanti subiscono percosse, quando non sono oggetto di stupri e brutali uccisioni. Gli stratagemmi attuati per nascondere le ricchezze risultano inutili, poiché i soldati sono fin troppo astuti a scovare i nascondigli dentro e fuori le case, arrivando persino a razziare il bestiame sui monti e stanando i ricchi nascosti nelle grotte, i quali sono poi costretti tra minacce e torture a consegnare tutti i loro averi. La cosa si ripete per vari giorni (le squadre dei lanzichenecchi sono in tutto venti) e la prima terra ad essere invasa è Colico, seguita poi da Bellano e dalla Valsàssina, finché le soldatesche entrano nel territorio di Lecco. Capitolo 29 Le notizie dell'arrivo dei lanzichenecchi nel territorio di Lecco e delle loro scorrerie si spargono e giungono ben presto anche al paese di don Abbondio, dove il curato è in preda a un autentico terrore. L'uomo vorrebbe fuggire, ma non sa che partito prendere: i monti non sono sicuri, poiché i lanzichenecchi arrivano anche lì nella speranza di far bottino, il lago è in tempesta e le poche barche disponibili sono già partite cariche di gente, col pericolo di affondare. Non ci sono carri o calessi in paese e don Abbondio a piedi non potrebbe far molta strada; il territorio di Bergamo non sarebbe lontano, ma si sa che il confine è presidiato da uno squadrone di mercenari inviati dal governo di Venezia e dunque quella direzione non è sicura. Don Abbondio cerca inutilmente di consigliarsi con Perpetua, la quale dal canto suo è indaffarata a nascondere gli oggetti di valore in vista di una prossima fuga e mal sopporta la paura e l'irresolutezza del suo padrone. La donna è decisa ad andarsene al più presto e a trascinare con sé il curato. Perpetua gli ordina di andare a prendere il denaro perché lei possa sotterrarlo nell'orto insieme all'argenteria. Il curato, pur titubante, obbedisce e poco dopo la donna ripone in una gerla delle provviste e della biancheria, risoluta ad andare in strada per unirsi ai compaesani nella fuga. In quel momento entra in casa Agnese per fare una proposta importante: la donna è in angustie per via dei lanzichenecchi, tanto più che ha ancora con sé parecchi degli scudi avuti a suo tempo dall'innominato e teme perciò sia gli invasori stranieri, sia le insidie dei compaesani. Si rammenta che l'innominato le aveva promesso aiuto in caso di bisogno e il suo castello sarebbe un rifugio perfetto dove trovare riparo dalle scorrerie; don Abbondio potrebbe aiutarla a farsi riconoscere dall'ex-bandito, per cui la donna propone al curato e a Perpetua di unirsi a lei nel viaggio verso il confine col Bergamasco. La proposta viene accolta con entusiasmo da Perpetua. 67 ospiti al suo castello e, strada facendo, scambia alcune parole con don Abbondio circa l'avvicinarsi delle bande di lanzichenecchi, rassicurandolo sul fatto che la fortezza è ben difesa. L'innominato accompagna Agnese e Perpetua nel quartiere del castello riservato alle donne, nella parte posteriore dell'edificio, mentre gli alloggi degli uomini sono in quella anteriore, di fronte all'ingresso: qui ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a prenderne possesso. Nella fortezza ci sono anche molti viveri ed è stato predisposto uno spazio in cui i rifugiati possono ammassare la roba eventualmente messa in salvo dalle loro case. I tre restano al castello ventitré o ventiquattro giorni, senza che accada nulla di particolare, salvo frequenti allarmi per l'arrivo di lanzichenecchi o "cappelletti" che si rivelano spesso infondati (in molti casi l'innominato esce in perlustrazione a capo di un drappello armato e mette in fuga soldati sbandati e retroguardie degli eserciti tedeschi). Solo una volta, durante una di queste azioni, giunge voce che i lanzichenecchi stanno saccheggiando un paesetto vicino, al che l'innominato decide di accorrere coi suoi uomini in soccorso. L'arrivo degli armati coglie i soldati tedeschi del tutto impreparati e li induce a una fuga precipitosa, mentre l'innominato li insegue per un tratto col suo piccolo esercito e poi desiste quando capisce che non torneranno indietro. Il drappello ripassa nel paesetto e viene accolto con applausi e benedizioni dagli abitanti per lo scampato pericolo. La convivenza nel castello di tante persone diverse per provenienza e condizione sociale non crea particolari problemi, anche perché l'innominato e i suoi uomini vigilano affinché non si creino disordini, opera alla quale su sua richiesta collaborano anche gli ecclesiastici presenti. Le persone rifugiate al castello sono del resto scappate dai lanzichenecchi e quindi possiedono un'indole quieta, senza contare che molti vivono nell'apprensione di quanto sta accadendo nei propri paesi; quelli di carattere più spensierato cercano di vivere in allegria e di stringere nuove amicizie, mentre gli ospiti che hanno danari da spendere cenano spesso nelle osterie della valle. Agnese e Perpetua passano gran parte della giornata occupandosi di servizi vari e ripagando in tal modo l'ospitalità, a differenza di don Abbondio che non ha nulla da fare e, tuttavia, non si annoia mai perché troppo spaventato. Durante la sua permanenza non si allontana mai dal castello e, tutt'al più, ne osserva i dirupi dall'alto, in cerca di una via di fuga in caso di una battaglia; non frequenta nessuno dei compagni di soggiorno e si sfoga sovente con Agnese e Perpetua, venendo non di rado rimbrottato da entrambe le donne. Ad aumentare l'inquietudine del curato sono le notizie dei tremendi saccheggi che giungono al castello dal circondario. Le voci circa il passaggio delle soldatesche diventano ogni giorno più frequenti. La terribile cavalcata dei lanzichenecchi si apre con le truppe di Albrecht von Wallenstein e si chiude con quelle di Mattia Galasso, dopo il quale il pericolo sembra ormai cessato; si allontanano intanto anche i mercenari veneti, per cui dal castello iniziano a partire un po' tutti i rifugiati ansiosi di tornare alle loro case, tranne don Abbondio il quale si trattiene ancora nel timore di incontrare nel viaggio di ritorno degli sbandati nella retroguardia dell'esercito. Alla fine l'innominato prepara una carrozza alla Malanotte perché riporti i tre al loro paese e si congeda quindi dai suoi ospiti, non prima di aver donato ad Agnese un corredo di biancheria e del denaro per 70 riparare i guasti che troverà nella sua casa. L'ex-bandito prega anche la donna di ringraziare Lucia, quando la rivedrà, per le preghiere che certo la giovane rivolge a Dio per la sua anima. La carrozza lascia la Malanotte e i tre fanno una sosta di nuovo a casa del sarto, dove si fermano solo il tempo necessario per apprendere nuovi e più coloriti racconti delle imprese dei lanzichenecchi. Man mano che la carrozza si avvicina al paese, i tre cominciano a vedere i tristi segni del passaggio dei fanti tedeschi: le vigne sono spogliate come da una bufera, gli alberi tronchi, gli usci delle case sfondati e gli abitanti intenti a ripulire l'interno del sudiciume lasciato dai mercenari; al passaggio della carrozza molti popolani tendono la mano a chiedere l'elemosina, finché i viaggiatori rientrano al loro paese trovando quello che si aspettavano. Agnese inizia subito a ripulire la sua abitazione e a far riparare i danni più seri, mentre si rallegra tra sé di avere la biancheria e il denaro donati dall'innominato, per cui nella disgrazia ha avuto un po' di fortuna. Don Abbondio e Perpetua trovano a loro volta la devastazione nella loro casa, con il pavimento insozzato dal sudiciume dei soldati, le stoviglie in pezzi, nel camino i segni del bivacco e i rimasugli di varie suppellettili bruciate, mentre coi carboni spenti i lanzichenecchi si sono divertiti a disegnare sul muro delle grottesche caricature di preti cattolici. I due imprecano contro i saccheggiatori e poi escono a respirare nell'orto, dove però li attende un'amara sorpresa: qui, ai piedi del fico dove Perpetua aveva seppellito il denaro, trovano la terra smossa e una buca, segno evidente che i mercenari si sono portati via tutto. Il ritorno in paese provoca poi nuovi guai per il povero don Abbondio, poiché Perpetua viene a sapere che molti oggetti della casa che si credevano preda dei soldati sono stati invece rubati da alcuni paesani, per cui la donna insiste col padrone perché vada a farseli restituire. Il curato non ne vuole sapere, in quanto gli autori dei furti sono persone prepotenti con cui evita di avere a che fare, e questo suscita le dure rimostranze di Perpetua, che accusa continuamente il curato di essere un uomo dappoco e di non saper far valere le proprie ragioni. Le discussioni sono talmente noiose che don Abbondio arriva al punto di non lamentarsi più quando si accorge della mancanza di qualcosa, pur di non sentire la propria governante ricominciare con la solita ramanzina. Don Abbondio teme inoltre che gli ultimi fanti tedeschi attardati possano compiere ulteriori saccheggi e si preoccupa di tenere sempre l'uscio di casa sprangato, anche se fortunatamente una simile eventualità non si verifica; in effetti il pericolo rappresentato dai lanzichenecchi è ormai cessato, mentre si avvicina minaccioso quello assai più grave e diffuso, ovvero la peste. Capitolo 31 Giunto al punto della narrazione in cui l'epidemia di peste si diffonde a Milano e in buona parte d'Italia a causa del passaggio dei lanzichenecchi, l'autore si ripropone di raccontarne per sommi capi la storia, concentrandosi pressoché unicamente sui fatti milanesi. Manzoni osserva che in nessuno scritto del Seicento sul tema della peste vi è un resoconto dettagliato e ordinato della calamità, ma molte notizie confuse e imprecise, errori ed omissioni, e questo 71 riguarda anche la fonte principale del tempo, ovvero l'opera di Giuseppe Ripamonti sulla peste di Milano del 1630. Nessuno storico dell'epoca successiva ha cercato di mettere ordine in questa materia, perciò lo scrittore è il primo a tentare di ricostruire una storia parziale di quella tragedia, anche se - afferma - il lettore è comunque invitato a farsene un'idea più diretta esaminando le relazioni del sec. XVII, le quali, pur se imprecise e incomplete, conservano una forza viva e immediata quale non può ritrovarsi negli scritti successivi. Il fine di Manzoni sarà solo quello di ricostruire per quanto possibile le ragioni dell'epidemia e le conseguenze che essa ha prodotto nel Milanese, non omettendo di denunciare i molti e gravi errori compiuti dalle pubbliche autorità che hanno facilitato e addirittura alimentato la diffusione del morbo. Lungo la striscia di territorio lombardo percorsa dall'esercito dei Lanzichenecchi già nell'autunno del 1629 la peste inizia a diffondersi e a provocare vittime sporadiche, con i malati che manifestano sintomi sconosciuti ai più ma non a quelli che rammentano la cosiddetta "peste di S. Carlo" del 1576, che aveva spopolato buona parte del nord Italia. Il famoso medico Lodovico Settala, ora ottantenne e che in gioventù aveva curato quella peste, il 20 ottobre riferisce al Tribunale di Sanità milanese che il contagio si sta diffondendo nel territorio di Lecco, anche se le autorità non prendono alcun serio provvedimento. Giungono altre notizie simili da altri centri, al che il Tribunale manda un commissario e un medico a visitare i luoghi colpiti, ma questi si lasciano persuadere da un barbiere di Bellano che non si tratta di peste, bensì di febbri dovute alle esalazioni delle paludi, rassicurazioni che tranquillizzano la Sanità. Solo quando arrivano nuove e più preoccupanti segnalazioni da varie zone del Milanese vengono inviati in zona il medico Alessandro Tadino e un magistrato del Tribunale di Sanità, i quali non tardano a rendersi conto che la peste è diffusa in tutto il territorio di Lecco, in Valsassina e sulle coste del lago di Como, dove essi trovano case abbandonate, persone rifugiatesi in campagna e un numero spaventoso di morti. I due informano subito il Tribunale, che il 30 ottobre si prepara a formare un cordone sanitario per impedire ai forestieri di entrare a Milano e impedire così che il contagio penetri in città. Il 14 novembre Tadino e l'altro inviato del Tribunale di Sanità ricevono l'ordine di presentarsi al governatore di Milano, Ambrogio Spinola, per esporgli la situazione riguardo all'epidemia. Il governatore si dice molto addolorato, tuttavia le preoccupazioni della guerra sono più pressanti e perciò non intende prendere alcun provvedimento. Pochi giorni dopo, il 18 novembre, lo stesso governatore indice pubblici festeggiamenti per la nascita del primogenito di re Filippo IV di Spagna, senza curarsi del fatto che un grande afflusso di gente per le strade potrebbe facilitare la diffusione del contagio, come se i tempi fossero assolutamente normali. L'autore ricorda che lo Spinola aveva sostituito don Gonzalo Fernandez de Cordoba sulla poltrona di governatore e sarebbe morto pochi mesi dopo nel corso della guerra di Mantova, non per le ferite sul campo ma per il dolore delle critiche ricevute durante il suo sfortunato comando militare (gli storici farebbero meglio a sottolineare invece i suoi errori nel fronteggiare l'epidemia). Del resto il governatore non è certo l'unico a sottovalutare il rischio della peste: la popolazione di Milano sembra disinteressata e nessuno crede che le vittime siano da attribuire al terribile 72 di Milano ungere un'asse che fa da parete divisoria tra i fedeli dei due sessi, per cui essa e le panche vicine vengono portate fuori dalla chiesa ed esaminate poi dal presidente della Sanità e alcuni suoi ufficiali, che non rilevano nulla di sospetto. L'asse e le panche per eccesso di cautela vengono lavate accuratamente e tale operazione desta molto allarmismo tra il popolo, che inizia a raccontare storie incredibili sul fatto che tutto nel duomo sia stato "unto" per diffondervi la peste, cosa che viene data per scontata in molti documenti dell'epoca e creduta anche da persone istruite. La mattina del 18 maggio si verifica un nuovo inquietante episodio, che seppure inspiegabile contribuisce ad avvalorare l'ipotesi dell'esistenza degli "untori": un lungo tratto delle mura di Milano appare imbrattato di una strana sostanza giallastra, come se qualcuno l'avesse sparsa appositamente con delle spugne. Il fatto è attestato nei documenti dell'epoca in modo tale da lasciare pochi dubbi sulla realtà dell'episodio, anche se è impossibile stabilire se fu un macabro scherzo o il deliberato tentativo di diffondere il terrore tra i Milanesi; fatto sta che la città ne è sconvolta e molti abitanti bruciano con paglia accesa i luoghi unti, mentre una specie di psicosi si impadronisce delle persone che sospettano di tutti gli stranieri e ne catturano molti per semplici sospetti, conducendoli poi alla giustizia (sulle prime, tuttavia, nessuno viene trovato colpevole). Le inchieste del Tribunale di Sanità sul momento non approdano a nulla, mentre tra le persone comuni si inizia a parlare di "untori" e si favoleggia del fatto che questi individui siano emissari mandati dall'ex-governatore don Gonzalo, per vendicarsi degli insulti ricevuti al momento della partenza da Milano, o dal cardinal Richelieu nell'ambito della guerra di Mantova, o ancora dal Wallenstein o dal Collalto per imprecisati motivi. Alcuni pensano che il fatto sia da attribuire a uno scherzo di cattivo gusto praticato da scolari o ufficiali annoiati, per cui nonostante il generale spavento la cosa viene per ora lasciata cadere e ciò anche perché vi è ancora qualcuno che, assurdamente, non crede che la peste sia davvero presente a Milano. La plebe non è ancora del tutto convinta della peste poiché nel lazzaretto e altrove alcuni malati guariscono, mentre si crede che tutti i colpiti dovrebbero morirne; la cosa è incredibilmente sostenuta anche da alcuni medici, che si ostinano a non credere al contagio. Per fugare ogni dubbio, il Tribunale di Sanità ricorre a un macabro espediente: durante le feste della Pentecoste, quando i cittadini sono soliti recarsi al cimitero di S. Gregorio per pregare per i morti della peste del 1576, nell'ora di maggior afflusso viene condotto un carro con i corpi di un'intera famiglia morta di peste, i cui cadaveri nudi e ricoperti degli orribili segni della malattia creano orrore e ribrezzo in tutti i Milanesi presenti. Da quel giorno la peste viene creduta da tutti, benché da tempo ormai siano pochi quelli che avanzano dubbi, ed è certo che quel macabro spettacolo contribuisce notevolmente a diffonderne il contagio per la concentrazione di persone. Manzoni osserva infine che all'inizio dell'epidemia nessuno voleva credere alla peste ed era proibito anche solo pronunciare la parola; poi si comincia a parlare di febbri pestilenziali e ad ammettere che la malattia esiste, anche se non è proprio una vera peste; infine si ammette senza remore l'esistenza del morbo, anche se ormai si è insinuata tra il popolo l'idea che esso è propagato appositamente tramite unguenti venefici e pratiche criminali. Lo scrittore 75 dichiara che spesso nella storia umana le parole vanno incontro a una simile evoluzione, anche se si potrebbero evitare tristi conseguenze se, prima di parlare senza conoscere i fatti, si utilizzasse il metodo più "scientifico" di osservare e ragionare, benché sotto questo aspetto gli uomini siano piuttosto da compatire. Capitolo 32 L'epidemia continua a diffondersi a Milano e il 4 maggio 1630 i magistrati cittadini decidono di rivolgersi al governatore, nel frattempo ripartito a porre l'assedio a Casale. Due emissari lo raggiungono sul campo di battaglia e gli chiedono provvedimenti fiscali urgenti per far fronte all'emergenza, tra cui la sospensione delle imposte governative e la cessazione di nuovi alloggiamenti militari, pregandolo inoltre di informare il re della situazione. Ambrogio Spinola risponde con una lettera in cui manifesta profondo dispiacere e promette alcuni vaghi provvedimenti, di fatto però non assumendo alcuna decisione concreta. Il gran cancelliere Antonio Ferrer gli scrive manifestandogli il disappunto della città, tuttavia il carteggio non sortisce effetti e poco dopo il governatore gli trasferisce ogni potere riguardo alla peste, dal momento che lui deve occuparsi delle questioni militari. Lo scrittore osserva incidentalmente che la guerra finirà con un nulla di fatto, poiché dopo un milione di morti causati principalmente dalla peste, dopo le devastazioni compiute dai soldati tedeschi in Lombardia e il tremendo saccheggio di Mantova, alla fine i belligeranti riconosceranno il duca di Nevers come signore di quella città, mentre altri trattati politici verranno conclusi tra le parti in causa portando a cessioni inconcludenti di territori. I magistrati di Milano prendono anche un'altra decisione, ovvero chiedere al cardinal Borromeo di indire una processione solenne per portare il corpo di S. Carlo per le vie della città, al fine di stornare la minaccia della peste. Federigo sulle prime rifiuta, dal momento che, in caso di insuccesso, la cittadinanza potrebbe perdere la propria fiducia nella protezione del santo, inoltre teme che il radunarsi della folla dia modo ai cosiddetti "untori" di spargere più facilmente le loro sostanze venefiche, ammesso che tali personaggi esistano, mentre in ogni caso l'afflusso di gente per le strade aumenterebbe il rischio di contagio. A Milano infatti il sospetto delle "unzioni" è tornato a diffondersi e molti credono di vedere le mura e gli usci delle case imbrattati da strane sostanze, per cui tali notizie volano di bocca in bocca e ben presto tutti o quasi sono convinti dell'esistenza degli untori, cosa che accresce il furore popolare. Si pensa che gli unguenti venefici siano composti di rospi, serpenti, bava degli appestati, che gli untori si servano di incantesimi e magie; le prime unzioni non avevano dato effetto solo perché gli scellerati non erano ancora esperti, trattandosi delle prime prove. Nessuno osa negare apertamente che esista una sorta di complotto per spargere la peste, chi lo facesse passerebbe per pazzo o, peggio, per complice degli untori. I cittadini iniziano a sospettare di chiunque e, ben presto, si verificano i primi casi di linciaggio e di giustizia sommaria. Il Ripamonti cita nella sua storia della peste due fatti che provano il crescente furore popolare contro i presunti untori, non perché tali episodi siano più gravi di altri ma solo perché lo 76 scrittore secentesco vi aveva assistito di persona. Un giorno, nella chiesa di S. Antonio, un vecchio ottantenne prega in ginocchio per qualche tempo e poi, prima di mettersi a sedere, spolvera la panca col proprio mantello. Alcune donne gridano che il vecchio "unge" le panche e gli uomini presenti gli si gettano contro, prendendolo per i capelli e tempestandolo di calci e pugni, per poi trascinarlo fuori dalla chiesa e portarlo al palazzo di giustizia (è improbabile che l'uomo sia sopravvissuto). L'altro caso ha per protagonisti tre giovani francesi presenti a Milano, i quali sono visti mentre si accostano al Duomo e ne toccano le mura, probabilmente solo per curiosità o studio. La folla li riconosce come francesi dal vestiario e ciò è sufficiente a dar loro la taccia di untori: vengono circondanti, malmenati e trascinati al palazzo di giustizia, dove per loro fortuna vengono riconosciuti innocenti e liberati. La psicosi degli untori non si sparge solo in città, ma anche nelle campagne intorno a Milano e un po' dappertutto in Lombardia, al punto che chiunque appaia solo sospetto, come il viandante uscito dalla strada principale o il forestiero dall'aspetto bizzarro, viene immediatamente accusato dalla folla e preso a calci e pugni, oppure portato in prigione dove, almeno in un primo tempo, questi sventurati possono trovare la salvezza. In questo stato di cose i magistrati di Milano rinnovano al cardinal Borromeo la loro richiesta relativa alla processione e il prelato alla fine accetta, probabilmente per le pressioni del popolo che chiede a gran voce l'esposizione della salma di S. Carlo o forse per debolezza umana, cosa che è impossibile stabilire con certezza. Il cardinale non solo acconsente alla solenne processione, ma anche al fatto che in seguito le reliquie del santo rimangano esposte per otto giorni in una cassa sull'altare maggiore del Duomo. Il Tribunale di Sanità, pensando al rischio del contagio, non oppone alcuna obiezione alla processione e si limita a prescrivere regole più restrittive per l'ingresso in città dall'esterno e ordina di inchiodare gli usci delle case dei malati di peste, per impedire agli infetti di mescolarsi alla folla. Dopo tre giorni di preparativi, l'11 giugno 1630 la processione si avvia dal duomo alle prime luci dell'alba, preceduta da una lunga schiera di popolani tra cui molte donne; seguono le corporazioni cittadine coi loro gonfaloni, gli ordini monastici, i preti che portano in mano una torcia; in mezzo, portata da quattro canonici, avanza la cassa contenente le spoglie di S. Carlo Borromeo, in cui si intravede il corpo vestito di splendidi abiti e il teschio con la mitra, con alcune fattezze che ancora ricordano l'aspetto del santo quale appare nei dipinti d'epoca. Dietro la reliquia segue il cardinal Federigo e il resto del clero, quindi i magistrati e i nobili, alcuni dei quali vestiti con sfarzo e altri, al contrario, che indossano cappe nere col cappuccio sul viso, in segno di penitenza. Il corteo è chiuso da una coda di popolani e avanza tra le strade parate a festa, con le case abbellite da stemmi, fiori, oggetti variopinti; molti malati sequestrati in casa osservano la processione dalle finestre, mentre le altre vie restano in silenzio, con un'atmosfera quasi spettrale. La processione passa per quasi tutti i quartieri di Milano e compie delle soste nei carrobi (i crocicchi delle strade) per deporre la cassa con la reliquia accanto alle croci erette al tempo della peste del 1576, per cui il corteo ritorna in duomo quando mezzogiorno è passato da un pezzo. Fin dal giorno successivo alla processione, che secondo molti dovrebbe aver fatto cessare la peste, al contrario il contagio cresce furiosamente in ogni punto della città e in ogni classe 77 denaro o dietro la promessa di onori, adesso si è convinti che essi siano spinti da una volontà diabolica, per incarico dello stesso demonio; i vaneggiamenti degli ammalati, che nel delirio accusano se stessi di aver fatto ciò che temevano facessero gli altri, i loro gesti inconsulti, tutto alimenta la certezza che gli untori esistano, non diversamente dai processi per stregoneria in cui, non di rado, gli accusati confessano crimini mai commessi in modo spontaneo e senza subire la tortura, semplicemente perché la superstizione li ha convinti che certi atti siano possibili a tutti, quindi anche a loro stessi. Tra le leggende che la paura degli untori diffonde a Milano ce n'è una che merita di essere ricordata, se non altro per la rinomanza che acquista all'epoca: si racconta che un tale, passando sulla piazza del Duomo, vede arrivare una carrozza trainata da sei cavalli, con all'interno un uomo dal volto acceso, i capelli dritti e il viso minaccioso. La carrozza si ferma e il cocchiere invita a salire il passante, il quale è soggiogato e non può rifiutare. Viene condotto in un palazzo che mostra all'interno deserti e giardini, caverne e sale, nonché spettri e fantasmi; gli vengono mostrate casse piene di denaro e viene invitato a prenderne quanto ne vuole, a patto però che accetti un vasetto di unguento e che si impegni a imbrattare con esso i muri della città. L'uomo rifiuta e, prodigiosamente, si ritrova subito nel luogo dove era stato prelevato. Questa assurda favola circola non solo a Milano ma in tutta Italia e anche all'estero; in Germania si realizza una stampa che raffigura la vicenda e l'elettore arcivescovo di Magonza scrive addirittura al cardinal Borromeo per chiedergli se c'è qualcosa di vero in quel racconto, ricevendo come risposta che ovviamente sono tutte assurdità. Non solo il popolo farnetica a proposito della peste e degli untori, ma vaneggiamenti simili circolano anche fra i dotti e provocano danni ancora peggiori: molti studiosi infatti credono che l'epidemia sia stata causata da una cometa apparsa nel 1628 e da una congiunzione astrale di pianeti, foriera di terribili calamità, mentre un'altra cometa, apparsa nello stesso 1630, sembra confermare l'infausta previsione. Scrittori antichi e moderni vengono citati a sostegno di varie teorie, inclusa quella sugli untori, e fra questi specialmente gli autori di libri e trattati di magia nera, nel Seicento tanto di moda tra i dotti; tra essi spicca Martino Delrio, autore di Disquisizioni magiche divenute poi il testo più autorevole in fatto di pratiche magiche, fonte di torture e processi per stregoneria ai tempi dell'Inquisizione (il narratore osserva che l'opera funesta di Delrio è costata la vita a moltissime persone e se la fama di uno scrittore si dovesse misurare col bene o col male prodotto, egli sarebbe tra i più celebri). Persino i medici avvalorano l'ipotesi dell'esistenza degli untori e fra questi il Tadino, che pure era stato tra i primi a mettere in guardia sul rischio del contagio e che ora, invece, sostiene la veridicità delle unzioni prendendo come prova le farneticazioni dei malati nel delirio, come l'assurda storia di un appestato che aveva visto in camera un'apparizione diabolica e gli era stata promessa la guarigione e danari, se avesse accettato di ungere le case (al suo rifiuto, erano apparsi un lupo e tre gatti, animali diabolici). Del resto il Tadino, uno degli studiosi più rinomati del suo tempo, non è l'unico a ragionare in tal modo e si può concludere che la follia degli untori coinvolge ormai l'intera popolazione milanese, dai più umili ai più assennati. Secondo alcuni, il cardinal Borromeo avrebbe dubitato della realtà degli untori: Manzoni vorrebbe poter dire che Federigo, in questa come in altre cose, si distingueva dai 80 contemporanei, invece purtroppo è costretto ad ammettere che il prelato subiva la forza del pregiudizio e se anche riteneva che ci fosse molto di esagerato nella paura degli untori, pure ammetteva che il fatto avesse un fondo di verità. Molti all'epoca ritenevano che la storia delle unzioni non fosse reale, tuttavia non osarono mai dirlo apertamente e noi conosciamo la loro opinione grazie a quegli autori che la deridono o a quelli che citano tali posizioni in quanto riportate dalla tradizione: tra questi Ludovico Antonio Muratori in uno scritto sulla peste del 1714, lo stesso in cui pure accenna all'opinione in merito del Borromeo. Il buon senso, conclude Manzoni, c'era ancora in molte persone, ma stava nascosto per timore del senso comune, del pregiudizio che ormai dominava incontrastato nelle menti della maggioranza. I magistrati, man mano che il contagio cresce e miete sempre più vittime, iniziano a usare le poche energie residue per dare la caccia agli untori e in alcuni casi si crede di averne individuato alcuni: tra i documenti del tempo della peste c'è una lettera inviata dal gran cancelliere Ferrer al governatore, in cui lo informa di aver saputo che in una casa di campagna di due nobili fratelli milanesi si produce il mortale unguento e di voler prendere tutti i dovuti provvedimenti per assicurare gli autori del fatto alla giustizia (fortunatamente la cosa non sortisce poi alcun effetto). In altri casi, invece, si istruiscono dei processi a carico di presunti untori ed essi sono solo gli ultimi di una lunga serie di procedimenti simili, celebrati già nel XVI sec. in varie parti d'Italia e conclusisi per lo più con l'esecuzione degli accusati a mezzo di atroci supplizi. I processi che si sono svolti a Milano sono tuttavia i più noti e anche quelli più facili da studiare data la presenza di documenti, come dimostra il trattato Osservazioni sulla tortura di cui è autore Pietro Verri: nonostante quell'opera tratti ampiamente il caso, sia pure al fine di argomentare contro la pratica criminale della tortura, Manzoni ritiene che ci sia materiale sufficiente per scrivere un nuovo trattato, che ovviamente non può trovare spazio nel romanzo e che sarà perciò pubblicato a parte, con l'estensione che merita. Per il momento il narratore intende tornare alle vicende dei protagonisti, col proposito di non abbandonarle più sino alla fine. Capitolo 33 Una notte verso la fine di agosto, quando l'epidemia di peste è al culmine, don Rodrigo sta tornando alla sua casa di Milano accompagnato dal Griso, uno dei pochi bravi rimasti al suo servizio. Il nobile si ritira dopo una serata passata in compagnia di alcuni amici, durante la quale è stato molto allegro e ha divertito tutti facendo un bizzarro elogio funebre del conte Attilio, morto due giorni prima di peste: ora però accusa strani malesseri, tra cui la pesantezza delle gambe, una difficoltà a respirare e un'arsura interna che vorrebbe attribuire al vino e alla calura estiva. Arrivati a casa, ordina al Griso di fargli luce per arrivare in camera e il bravo obbedisce tenendosi a distanza dal padrone, poiché il suo volto indica i segni della malattia e in questi tempi anche i criminali hanno affinato le capacità mediche. Si caccia quindi sotto le coperte e ordina al Griso di venire subito nel caso lui suonasse un campanello che tiene vicino a sé, anche se il signorotto è certo che non ci sarà bisogno. Il bravo augura la buonanotte al padrone e si ritira. 81 Le coperte sembrano una montagna a don Rodrigo, il quale ben presto si addormenta per poi svegliarsi come per uno scossone, mentre sente aumentare il caldo e l'arsura. Rigirandosi nel letto, in preda all'ansia, pensa che vorrebbe attribuire tutto al caldo e al troppo vino bevuto, anche se l'idea della peste lo assale di continuo e diventa un pensiero impossibile da scacciare. Finalmente si addormenta e inizia a fare sogni confusi, angosciosi; in uno di questi gli sembra di trovarsi in chiesa, circondato dalla folla, senza sapere come è arrivato lì e arrabbiato di esserci andato. Intorno a lui vede gente con i segni del morbo e i bubboni che traspaiono attraverso i vestiti sudici, per cui ordina loro di allontanarsi cercando al contempo di arrivare alla porta della chiesa, che però è troppo lontana. La folla lo stringe sempre più e a don Rodrigo sembra che qualcuno gli prema sotto l'ascella sinistra, dove sente un forte dolore; cerca di afferrare la spada e gli pare che l'elsa sia salita in alto, premendogli contro il fianco e producendo quel dolore così fastidioso. A un tratto gli sembra che tutti guardino verso l'alto e, facendo lo stesso, intravede un pulpito e una strana figura che si sporge da esso, una figura che non tarda a prendere le sembianze di padre Cristoforo. Il frate rivolge un'occhiata fulminea su tutti i presenti, quindi alza la mano e punta il dito come aveva fatto quel giorno in quella sala del palazzotto del nobile: don Rodrigo, terrorizzato, cerca di afferrare quella mano tesa in aria, ma lascia prorompere un grande urlo e si sveglia improvvisamente. È confuso e spaventato, la luce del giorno entra dalla finestra e lo infastidisce come il lume la sera prima; capisce di aver sognato e realizza che tutto è svanito, tranne il dolore che sente sotto l'ascella sinistra, mentre è evidente che sta molto peggio di quando è andato a dormire e avverte una forte palpitazione, un ronzio nelle orecchie, una pesantezza di tutte le membra. Esita a lungo prima di guardarsi sotto l'ascella e quando trova il coraggio di farlo vi scorge un bubbone di colore livido e rossastro. Don Rodrigo è invaso del terrore di morire e, soprattutto, di essere preso dai monatti e trascinato al lazzaretto: suona il campanello per chiamare il Griso, che infatti accorre subito pur tenendosi a distanza dal padrone, avendo capito benissimo che è malato di peste. Il nobile si rivolge al bravo in modo insolitamente cortese e, dopo aver detto che si fida solo di lui, lo prega di andare a chiamare il Chiodo chirurgo, un medico noto per non denunciare gli appestati in cambio di denaro. Don Rodrigo è disposto a pagarlo bene in cambio di cure e chiede al Griso di farlo venire subito, facendo in modo che nessuno se ne accorga. A questo punto il Griso esce di casa e don Rodrigo rimane solo con le sue paure, in attesa del ritorno del suo servo col medico. A un tratto don Rodrigo sente il tintinnio di un campanello in lontananza, che tuttavia sembra provenire dall'interno della casa e non dalla strada: resta attento e lo sente ancora e più forte, insieme a un rumore di passi affrettati, seguito da una specie di tonfo nella stanza attigua. È colto da un orrendo sospetto e cerca di buttarsi giù dal letto, quando vede entrare nella stanza due luridi figuri vestiti di rosso con facce da criminali, riconoscendoli subito come monatti. Il Griso rimane nascosto dietro un battente della porta e il nobile capisce che il bravo lo ha tradito: chiama a gran voce altri uomini al suo servizio e cerca di afferrare una pistola che tiene a portata di mano, ma uno dei monatti è rapido a gettarsi addosso a lui e a disarmarlo, tenendolo fermo mentre gli dice parole di scherno. Intanto il suo compagno si 82 trasandato. Renzo, sconsolato, non pensa neppure di entrare in quella che è stata la sua vigna e procede verso la sua casa, attraversando l'orto ed entrando dalla soglia principale. Al suo arrivo, i topi che popolano l'abitazione corrono a nascondersi e Renzo vede tutto anche qui in stato di abbandono, col pavimento ricoperto del sudiciume lasciato dai lanzichenecchi, le pareti affumicate, il soffitto invaso da ragnatele. Se ne va ancor più amareggiato e si dirige alla casetta del suo amico, che dista pochi passi dalla sua. È quasi buio e Renzo si avvicina alla casetta del suo amico, che siede pensieroso con le braccia conserte: il giovane sente qualcuno avvicinarsi e scambia Renzo per il becchino del paese, che viene sempre a tormentarlo perché lo aiuti a seppellire i morti. Renzo si fa riconoscere e, una volta chiarito l'equivoco, i due scambiano affettuosi saluti, mentre l'amico lamenta il fatto di essere rimasto solo a causa dell'epidemia. I due entrano in casa e l'amico di Renzo inizia a preparare della polenta, procurandosi poi carne secca, formaggio, fichi e pesche e dar qualcosa da mangiare al suo ospite. Il giovane informa Renzo di varie cose, incluso il fatto che don Rodrigo ha lasciato il paese in seguito alla liberazione di Lucia, poi gli dice precisamente il nome del casato di don Ferrante nella cui casa di Milano è ospite Lucia, informazione preziosa giacché Renzo non lo aveva capito bene nella lettera ricevuta da Agnese e senza indicazioni più precise non saprebbe trovare la casa del nobile milanese. L'amico rassicura Renzo circa il fatto che non deve temere della giustizia, anche perché il podestà è morto di peste e i pochi birri rimasti hanno altro da occuparsi che dar la caccia ai ricercati come lui. L'amico ospita Renzo per la notte e il mattino dopo, alle prime luci dell'alba, il giovane filatore si prepara a partire alla volta di Milano, per appurare il destino di Lucia e accertarsi della questione del voto, prima di andare da Agnese a portarle notizie. Lascia il suo fagotto all'ospite e promette di ritornare nel caso trovi Lucia ancora in vita, in caso contrario non sa cosa farà ma di certo non tornerà in paese. L'amico gli dà qualcosa da mangiare e lo accompagna per un breve tratto di strada, quindi i due si separano e Renzo si mette in viaggio. Il progetto di Renzo è di arrivare prima di sera nelle vicinanze di Milano, per poi entrare in città il giorno seguente. Verso sera Renzo giunge in un paesino poco distante da Milano, Greco, di cui ignora il nome: il giovane tuttavia ricorda i luoghi dal tempo del suo primo viaggio due anni prima e intuisce che la città debba essere non lontana. Decide pertanto di lasciare la strada principale e andare nei campi in cerca di un cascinale abbandonato dove passare la notte, dal momento che non intende rivolgersi a un'osteria. Trova una siepe che circonda una cascina e che ha un'apertura, vi si inoltra e, senza incontrare nessuno, trova un portico con del fieno ammucchiato e una scala a pioli che conduce al piano superiore. Dà un'occhiata in giro e poi sale, accomodandosi alla meglio per dormire e prendendo subito sonno. Si sveglia all'alba e si affaccia fuori per vedere se c'è qualcuno in giro; non vedendo anima viva, scende lungo la scala e poi esce dalla siepe da dove era entrato, riprendendo il viaggio lungo i sentieri e cercando di scorgere il Duomo come indicazione della strada da seguire. Non passa molto tempo prima che veda in effetti le mura di Milano e giunge ben presto vicino ad esse, tra Porta Orientale e Porta Nuova. 85 Capitolo 34 Il suo intento è tentare dunque di passare per la prima porta trovata e costeggia la cinta delle mura in cerca di un'indicazione; non trova però nessuno e vede solo una colonna di fumo nero e denso che si alza da un terrapieno, proveniente da un rogo di masserizie e abiti infetti. Renzo si avvicina senza saperlo a Porta Nuova, che vede solo dopo aver superato un baluardo difensivo: il varco è presidiato da una guardia dall'aria stanca e il cancello è aperto, occupato in quel momento da una barella su cui due monatti depongono il capo dei gabellieri, caduto vittima della peste. Renzo attende che la barella si allontani, quindi pensa di attraversare il cancello: viene subito richiamato dalla guardia, che però acconsente a farlo passare quando il giovane gli lancia una moneta. Renzo entra in città e, fatti pochi passi, viene chiamato da un'altra guardia, alla quale non risponde e che lo lascia andare senza curarsi troppo di lui. Renzo percorre una strada che conduce al canale del Naviglio e al cui centro c'è la croce di S. Eusebio, che troneggia in mezzo alla desolazione della città. Arrivato a un crocicchio, il giovane vede arrivare da destra un uomo che percorre la strada di Santa Teresa, al quale pensa di chiedere un'indicazione per raggiungere la casa di don Ferrante. Gli va incontro e si toglie il cappello in segno di rispetto, tenendolo con la mano sinistra e mettendo la destra all'interno del copricapo: il passante si spaventa, fa un passo indietro e minaccia Renzo con un bastone appuntito, gridandogli di allontanarsi subito. Il giovane montanaro non capisce il motivo di quel gesto e tuttavia se ne va senza esitare, continuando a camminare per la sua strada. Il passante torna a casa e racconta la sua disavventura, ovvero di avere incontrato un untore che aveva tentato di gettargli addosso dell'unguento o della polvere che teneva nascosta in una scatola dentro il cappello. Renzo continua a camminare, pensando all'inspiegabile comportamento dell'uomo e ignorando il pericolo corso, concludendo che il passante era probabilmente un mezzo matto. Imbocca la strada di S. Marco e prosegue cercando in cerca di qualcun altro cui rivolgersi, senza peraltro vedere nessuno se non un cadavere deforme che giace in un fosso. A un tratto si sente chiamare da una donna, che vede affacciata dal terrazzino di una modesta casa isolata insieme a diversi figli: si avvicina e la donna gli spiega che lei e i bambini sono chiusi in casa per ordine del Tribunale di Sanità, poiché il marito è morto di peste e l'uscio è stato inchiodato, ma i commissari l'hanno dimenticata e dal mattino precedente nessuno è venuto a portar loro da mangiare. Lamenta che i figli rischiano di morire di fame, al che Renzo, colpito, decide di donare loro i due pani che ha acquistato il giorno prima e glieli porge in un paniere, che la donna cala dall'alto con una fune. Il giovane è soddisfatto dell'opera di misericordia compiuta, che gli sembra una riparazione per non aver restituito i pani trovati in strada durante il primo viaggio a Milano, durante il tumulto. Si scusa col dire che è straniero e che non saprebbe dove trovare un commissario di Sanità, ma promette che parlerà della donna alla prima persona ragionevole che incontrerà; la donna lo ringrazia e gli dice il nome della strada, perché possa indicarla per i soccorsi. Renzo le chiede a sua volta un'indicazione per la casa di don Ferrante, ma la donna non è in grado di aiutarlo. A quel punto il giovane si allontana. 86 Renzo sente un rumore di ruote e cavalli, accompagnato da tintinnii di campanelli, urla e schioccare di fruste, per quanto ancora non veda nessuno. Percorre tutta la strada e arriva in piazza S. Marco, dove vede ergersi al centro dello spiazzo l'orribile macchina della tortura. Ve ne sono in tutte le piazze e gli spazi vuoti di Milano e servono a incutere timore a tutti quelli che infrangono la legge. Mentre osserva lo strumento, Renzo sente avvicinarsi sempre più il rumore e a un tratto vede un apparitore che avanza scuotendo un campanello, seguito da due cavalli che trainano a fatica un carro coi cadaveri degli appestati. Dietro il primo carro ce ne sono molti altri e alle ali del triste corteo ci sono monatti che spingono e frustano i cavalli tra le bestemmie. I poveri corpi sono in gran parte nudi o avvolti in luridi cenci, intrecciati tra loro. Renzo osserva quel triste spettacolo e prega per i morti, cercando di allontanare il pensiero che, forse, insieme a quei cadaveri potrebbe esserci anche il corpo di Lucia. Una volta passato il convoglio funebre, Renzo attraversa la piazza e imbocca la strada alla sua sinistra, senza altra ragione se non quella che i carri sono andati dalla parte opposta. Renzo supera il ponte Marcellino e sbuca in Borgo Nuovo, sempre in cerca di qualcuno cui chiedere un'indicazione: a un certo punto vede un prete che indossa un farsetto e tiene in mano un bastone, intento a confessare qualcuno attraverso l'uscio socchiuso di una casa. Decide pertanto di rivolgersi a lui e si avvicina con cautela. Renzo gli domanda della casa di don Ferrante e il prete non solo gli fornisce precise indicazioni, ma gli spiega anche un itinerario che gli consenta di arrivare all'abitazione. Renzo ringrazia e riferisce al sacerdote della povera donna sequestrata in casa che ha incontrato poco prima, al che l'uomo promette che si rivolgerà a chi di dovere e poi si allontana. Anche Renzo si rimette in marcia e se anche ha ottenuto l'indicazione sperata, tuttavia il fatto di poter trovare la casa di don Ferrante lo riempie di inquietudine, in quanto lì saprà la verità, ovvero se Lucia è ancora viva o meno. Renzo attraversa il carrobio di Porta Nuova, ormai una delle zone più squallide e desolate di tutta Milano: la furia del contagio è stata tale che i cadaveri hanno ammorbato le strade per molti giorni e i vivi se ne sono dovuti andare, mentre le orribili tracce della pestilenza sono ancora visibili nelle vie. Dopo pochi passi il giovane arriva in un'altra zona meno spopolata ma non meno triste a vedersi, dove infatti gli usci sono in gran parte inchiodati, altri sono segnati con una croce fatta col carbone per indicare ai monatti la presenza di cadaveri da portare via; in ogni angolo vi sono cenci, fasce piene di marciume, paglia infetta, lenzuola buttate dalle finestre; si vedono cadaveri ammassati in strada, di persone morte all'improvviso, o cadute dai carri, o gettate dalle finestre delle case; per tutto regna un silenzio spettrale, rotto solo dal rumore dei carri funebri, dai lamenti dei malati, dalle urla dei monatti. Del resto i due terzi dei cittadini sono morti e i pochi rimasti girano in strada sospettosi, inselvatichiti; tutti camminano con vesti corte senza mantelli, per non toccare niente e soprattutto per non esporsi alle aggressioni dei temuti untori. Gli uomini portano le barbe incolte e i capelli lunghi, non solo per trascuratezza ma anche perché i barbieri sono individui sospetti, specie dopo l'arresto di Gian Giacomo Mora poi condannato come untore. Molti tengono in una mano un bastone o una pistola e nell'altra pastiglie odorose e spugne intrise d'aceto che si crede possano tenere lontano il contagio, così come ampolle di argento vivo che molti tengono appese al collo; i conoscenti si salutano frettolosamente e da lontano, tutti camminano badando a non 87 ultimi ostinati a voltarsi e a scappare di corsa. I monatti prorompono in risa fragorose e Renzo, timidamente, li ringrazia dell'aiuto ricevuto, mentre loro si congratulano con lui credendolo davvero un untore e gli dicono che fa bene a spargere la peste e a sterminare la popolazione di Milano. Renzo si guarda intorno e riconosce il luogo in cui passa il carro, ovvero il corso di Porta Orientale da dove era entrato a Milano due anni prima, e da dove era dovuto fuggire in seguito al suo arresto. Gli viene in mente che quella strada conduce al lazzaretto e infatti dopo un po' il carro si ferma e un commissario si fa avanti iniziando a discutere con un monatto, mentre un altro salta giù dal mezzo. Il giovane coglie al volo l'occasione per scendere anche lui, non prima di aver ringraziato i monatti per l'aiuto ricevuto, quindi si allontana in tutta fretta. Renzo, intanto, ha percorso la strada sino al borgo di Porta Orientale e passa ora di fronte al convento dei cappuccini, raggiungendo in breve il recinto esterno del lazzaretto. Già lì, ancor prima di entrare in quel luogo di sofferenza, si vede un'anticipazione delle miserie che deve contenere: ci sono gruppi di malati che entrano nel recinto, altri che siedono privi di forze sulle sponde del fossato che lo costeggia; altri appestati sono in preda al delirio, tra cui uno che dice cose senza senso a un compagno di sventura e un altro che osserva la scena con viso sorridente, come privo di senno. Lo spettacolo forse più assurdo e penoso è poi quello di un ammalato che siede in fondo al fossato, intento a cantare a squarciagola una allegra canzone contadinesca di tema amoroso, che stride in modo grottesco con lo squallore della scena. C'è anche un forsennato che è saltato in groppa a un cavallo e lo sprona a forza di pugni, inseguito tra le bestemmie dai monatti che tentano inutilmente di fermarlo, in un nugolo di polvere. Renzo si avvicina alla soglia del lazzaretto e resta un attimo lì fermo, come se esitasse a entrare in quello spazio di indicibili sofferenze. Capitolo 35 Renzo entra nel lazzaretto, un recinto contenente qualcosa come sedicimila appestati con al centro un ammasso di capanne, baracche, carri, persone; i portici ai lati sono piene di malati o di cadaveri stesi sulla paglia, mentre dappertutto è come un brulicare di gente che va e che viene, di uomini deliranti che si agitano, di medici o religiosi che corrono dagli infermi. Il giovane resta per un po' a osservare il tutto sbalordito, fermo sulla porta da dove parte una specie di via sgombra che taglia lo spazio in due e procede sino alla cappella centrale. Qui molti laici e cappuccini sono impegnati a liberare la strada dagli ingombri e tengono alla larga chi li intralcia; Renzo, temendo di venire scacciato a sua volta, preferisce andare tra le capanne alla sua destra, camminando a fatica in mezzo ad esse e sbirciando alla meglio in ognuna, per vedere se all'interno ci sia la sua amata Lucia. Dopo una lunga e infruttuosa ricerca tra le capanne, dove Renzo ha pure visto moltissimi malati e cadaveri già irrigiditi nella morte, il giovane si accorge di non aver trovato donne e immagina che queste debbano stare in un luogo separato del lazzaretto. 90 A un tratto Renzo, in mezzo al frastuono del lazzaretto, sente un suono misto di vagiti e belati, proveniente da un recinto interno protetto da uno steccato sconnesso in più punti. Il giovane si avvicina e sbircia all'interno attraverso lo spiraglio tra due assi, vedendo uno spiazzo occupato da molti bambini piccoli adagiati su materassi, guanciali, lenzuola distese; tra di essi vede aggirarsi molte balie, aiutate da delle capre che non solo porgono le mammelle a questo o quel lattante, ma addirittura accorrono ai vagiti, quasi chiedendo aiuto agli esseri umani presenti. Molte balie hanno i bambini al petto e dai loro atti spira una tale affezione che chi guarda è incerto se siano state attirate lì dalla paga o, piuttosto, da una carità spontanea verso la sofferenza altrui. Una di loro stacca il bambino dal petto ormai senza latte e cerca una capra che possa sostituirla; un'altra accarezza il neonato che dorme sul suo petto, mentre lo porta in una capanna per adagiarlo su un giaciglio; un'altra ancora, mentre allatta un bambino che non è il suo, guarda pensierosa il cielo, forse pensando a un proprio figlio da poco spirato sul suo petto o dopo averne preso il latte. Altre donne più anziane si preoccupano di portare i bambini a una capra, facendo in modo che l'animale assolva il compito cui è chiamato, oppure evitano che le capre calpestino i neonati che non stanno allattando. A un certo punto arriva un cappuccino dalla barba bianca che porta in braccio due bambini che strillano, le cui madri sono evidentemente morte da poco, e una donna corre a prenderli, per poi cercare con lo sguardo dove trovare una balia o una capra che possa occuparsi di loro. Alla fine Renzo si allontana da lì e prosegue costeggiando lo steccato, finché un gruppo di capanne lo costringe a svoltare; decide di superare l'ostacolo e di continuare a seguire il recinto, fino a trovare un nuovo settore del lazzaretto. A un tratto, mentre guarda di fronte a sé, il giovane vede padre Cristoforo: ne è quasi sconvolto e prende a correre verso quella direzione, cercando il frate. Lo vede sedersi sull'uscio della capanna, benedire la scodella e mettersi a mangiare, stando però sempre attento a quanto accade intorno a sé. Il cappuccino, dopo essere stato trasferito a Rimini, è sempre rimasto lì e non ha mai pensato di andarsene, finché è scoppiata la peste e ha visto la possibilità di far ciò che ha sempre desiderato, ovvero sacrificare la sua vita per il prossimo. Ha chiesto di essere rimandato in Lombardia per accudire gli appestati e la sua istanza è stata accolta, specie perché il conte zio nel frattempo è morto e c'è ora bisogno assai più di infermieri che di politici. Si trova nel lazzaretto da circa tre mesi e Renzo, che pure è felice di averlo ritrovato, deve però constatare che è cambiato moltissimo e che il suo portamento è curvo e affaticato, il viso pallido e smunto, il fisico duramente provato e sorretto unicamente da una grandissima forza d'animo. Renzo si avvicina senza parlare e facendosi riconoscere dal frate, finché il suo sguardo si incrocia con quello del cappuccino e lo chiama per nome. Padre Cristoforo posa a terra la scodella e si alza per andare verso Renzo, col quale scambia affettuosi saluti: la voce del frate è fioca, diversa da quella d'un tempo, mentre lo sguardo è rimasto lo stesso, solo reso più vivo dall'ardore della carità presente in lui. Renzo spiega al cappuccino di aver avuto la peste e di essere lì per cercare Lucia, che non è sua moglie come crede il religioso. Cristoforo invita poi Renzo a entrare nella capanna e a prendere della minestra in una scodella, dal momento che il giovane è ancora digiuno; lo fa sedere su un 91 saccone che gli fa da letto, prende un bicchiere di vino da una botte in un angolo e la propria scodella, quindi si mette a sedere accanto al giovane. Renzo racconta al frate tutte le vicissitudini di Lucia dopo essere andata a Monza, il rapimento da parte dell'innominato, la sua liberazione e la sistemazione presso donna Prassede; il frate è costernato a sentire i pericoli corsi dalla ragazza nel luogo dove lui l'aveva indirizzata, benché sia sollevato al pensiero che si sia poi salvata. Renzo gli racconta poi tutto quanto è successo a lui a Milano, durante la sommossa, la successiva fuga e la latitanza nel Bergamasco, fino a quando ha appreso che Lucia è nel lazzaretto, anche se ignora come e quando ci sia stata portata. Il giovane immagina che le donne siano ospitate in un quartiere separato e chiede al frate di indicargli dove si trova, al che il cappuccino oppone qualche resistenza giacché, com'è ovvio, in quel luogo è vietato l'accesso agli uomini che non siano religiosi o funzionari della Sanità. Renzo obietta che Lucia dovrebbe essere sua moglie e che i due sono stati separati con la violenza, dunque ritiene di avere il diritto di cercarla per sapere se è ancora viva, un argomento al quale fra Cristoforo non può opporre altre ragioni. Padre Cristoforo porta Renzo sull'uscio della capanna, che guarda a settentrione, mostrandogli la cappella che sorge al centro del recinto: gli spiega che quel giorno padre Felice, capo dei cappuccini del lazzaretto, porterà a far la quarantena altrove i pochi guariti dalla peste, che adesso si stanno radunando presso la chiesa per uscire in processione dalla porta da dove il giovane è entrato. Renzo dice infatti che ha sentito un rintocco di campana e il frate spiega che era il secondo e che al terzo tutti i guariti saranno radunati lì, perciò il giovane dovrà avvicinarsi e guardare se, per grazia di Dio, Lucia si trovi tra i guariti della processione. Se non dovesse esserci, Renzo dovrà allora recarsi al quartiere delle donne che è protetto da uno steccato in parte sconnesso, dove il giovane non avrà difficoltà a introdursi. Una volta dentro, non facendo nulla che crei fastidi non dovrebbe incontrare difficoltà, e se qualcuno dovesse ostacolarlo potrà sempre fare il nome del cappuccino e dire che lui risponde delle sue azioni. Renzo potrà cercare Lucia in quel luogo nella speranza di trovarla, benché essa sia molto debole e dunque il giovane dovrà essere pronto anche a un sacrificio. Renzo, al pensiero di non trovar viva Lucia, cambia improvvisamente espressione e, con viso stravolto, dice di essere pronto a cercare la ragazza in ogni luogo, ma nel caso in cui non ci fosse più sarà pronto a cercare qualcun altro a Milano, o nel suo palazzotto, o in capo al mondo, a cercare quel prepotente a causa del quale lui e la sua promessa sposa sono stati separati e non hanno avuto la consolazione di morire insieme, se a ciò erano destinati. Padre Cristoforo capisce che Renzo manifesta il proposito di uccidere don Rodrigo e afferra il giovane per un braccio, guardandolo severamente: Renzo non se ne dà per inteso e prosegue dicendo che, nel caso in cui il signorotto non sia morto di peste, ci penserà lui a fare giustizia. A questo punto il frate rimprovera duramente Renzo. Renzo, costernato, supplica il padre di non lasciarlo in quella maniera, ma il religioso ribatte che non può certo sottrarre tempo ai sofferenti per ascoltare i progetti di vendetta del giovane, che ha ascoltato quando gli chiedeva consolazione e aiuto, mentre adesso non ha davvero più nulla da dirgli. A questo punto Renzo, quasi per scusarsi delle sue parole, si dice pronto a perdonare don Rodrigo, ma padre Cristoforo fa notare al giovane che tale proposito, espresso in quel modo, 92 Lo steccato è in effetti sconnesso in alcuni punti e Renzo riesce senza difficoltà a passare per una delle aperture, inoltrandosi nel quartiere femminile: fatti pochi passi, vede in terra un campanello perso da uno dei monatti e decide di attaccarselo al piede, per fingersi uno di loro e poter girare liberamente senza che nessuno lo ostacoli. A questo punto il giovane inizia a guardare dappertutto in cerca di Lucia. A un tratto Renzo si sente chiamare da qualcuno e, voltatosi, vede un commissario che gli dice di andare in alcune capanne dove c'è bisogno di aiuto; il giovane capisce che a causa del campanello al piede è stato scambiato per un monatto e questo gli può procurare più fastidi di quelli che può evitargli, dunque decide che è meglio liberarsene. Fa cenno al commissario che ha capito, si toglie rapidamente dalla sua vista e si caccia tra le capanne, andando poi a mettersi in uno spazio tra due capanne che si voltano in un certo senso la schiena, chinandosi per togliersi il campanello dal piede: mentre compie l'operazione con la testa appoggiata alla parete della baracca, sente una voce che, incredibilmente, sembra quella di Lucia e che in effetti riconosce come tale, sentendosi quasi mancare il respiro. Renzo riacquista subito le forze e guadagna in un balzo l'uscio della capanna, affacciandosi e vedendo Lucia in piedi, chinata su un lettuccio dove è distesa un'altra ammalata: lei si volta e lo vede, restando attonita per la sorpresa. Renzo avanza tremante verso Lucia, felice di averla ritrovata viva e guarita: i due si salutano e scambiano alcune brevi parole (lui le dice di essere guarito dalla peste, che sua madre Agnese è ancora in vita), poi la giovane chiede al suo promesso perché è venuto a cercarla, visto che la madre lo ha informato per lettera del voto. Renzo ribatte che la cosa non poteva fermarlo e che il voto non conta nulla, perché la Madonna vuole aiutare i tribolati ma non accetta le promesse che si fanno a danno del prossimo. Secondo lui sarà sufficiente dare alla loro prima figlia il nome Maria e questa sarà una devozione assai più gradita alla Vergine che non il voto di Lucia, che per lui non ha valore perché vien meno a un'altra promessa fatta in precedenza. Lucia protesta ricordando le circostanze drammatiche in cui lei si è votata alla Madonna, tuttavia Renzo le chiede se, tralasciando il voto, lei provi ancora per lui gli stessi sentimenti e la ragazza lo accusa di non avere cuore, di volerla indurre a dire parole che la farebbero solo soffrire. Lo prega di andarsene e di tornare da Agnese, di informarla che lei sta bene e che ha trovato una brava donna (l'ammalata stesa nel lettuccio) che le fa da madre e che spera di riabbracciarla presto. Renzo deve andarsene e mettersi l'animo in pace, pensando a lei solo quando prega il Signore. Lucia si allontana da Renzo per avvicinarsi al letto, quando il giovane la informa che padre Cristoforo è al lazzaretto e di avergli parlato poco prima, lasciandogli il dubbio che sia ammalato di peste. Renzo aggiunge che il frate è vicino a loro, non più distante delle loro case al paese, poi le dice di aver visto nella capanna don Rodrigo, che lui ha perdonato e che forse può ravvedersi, se loro due pregassero insieme per lui come il frate si è augurato che succeda. Lucia afferma che il cappuccino non può sapere in che circostanze lei ha pronunciato il voto, anche se Renzo ribatte che fra Cristoforo ha parlato da santo ed è destino che loro due tornino insieme, poiché questo sarebbe il suggello ideale al pentimento e alla salvezza del loro persecutore. Il giovane intende ora tornare dal religioso e consigliarsi con lui sulla questione e a Lucia dichiara che non si metterà mai il cuore in pace, come lei gli aveva 95 fatto scrivere per lettera, poiché da quando si sono separati ogni suo pensiero è stato per lei e tutto quel che ha patito è stato per lei, tanto che alla prima occasione è subito venuto a cercarla. Lucia prega la Vergine di aiutarla a superare questo momento per lei drammatico, poi prega ancora Renzo di andarsene e di non tornare più, dal momento che la sua presenza lì la riempie di dolore. Il giovane dice che andrà da padre Cristoforo ma tornerà, dovesse andare in capo al mondo. Appena Renzo è uscito, Lucia torna verso il lettuccio e si lascia cadere a terra, abbandonandosi a un pianto dirotto: l'altra donna, che ha assistito a tutto il drammatico confronto senza dire una parola, si chiede di cosa si tratti ed è a dir poco sorpresa. È una mercantessa di circa trent'anni, che in pochi giorni ha perso il marito e tutti i figli a causa della peste e si è poi a sua volta ammalata, finendo al lazzaretto in quella capanna insieme a Lucia. La ragazza si stava allora riprendendo dalla malattia, che aveva contratto in casa di don Ferrante restando nel delirio, e aveva in seguito assistito la donna in preda al male, mentre ora sta guarendo anche lei. Tra le due è nata un'amicizia e una confidenza particolare, aiutata dalla sofferenza di cui quel luogo è colmo, e si sono promesse di uscire dal lazzaretto insieme e di non separarsi neppure per l'avvenire. La mercantessa è ricca e si ritrova sola al mondo, per cui sarebbe sua intenzione tenere presso di sé Lucia come figlia o sorella, cosa che la giovane accetterebbe dopo aver saputo notizie della madre Agnese e averla consultata sulla questione. Lucia non le ha mai fatto parola di Renzo, o del promesso matrimonio o del voto, ora però il bisogno di confidarsi è tale che le racconta ogni cosa, parlando a stento tra i singhiozzi e le lacrime. Renzo intanto è tornato nel quartiere dove si trova padre Cristoforo, che non è nella sua capanna ma in un'altra baracca, chino su un moribondo che sta assistendo. Renzo attende in silenzio e, dopo che il povero ammalato è morto e che il frate ha pronunciato un'orazione, lo vede uscire e gli va incontro: gli dice di aver trovato Lucia, viva e guarita, tuttavia c'è un altro impedimento costituito dal voto, di cui ora informa il frate sperando che lui gli dica che la promessa è nulla. In realtà il padre non può pronunciarsi prima di aver parlato con la giovane, per cui prega Renzo di aspettarlo e poi di seguirlo, così potranno andare insieme da Lucia. Il frate chiede ancora a padre Vittore di sostituirlo per qualche momento, quindi torna nella sua capanna e prende una sporta, per poi andare nuovamente alla baracca in cui c'è don Rodrigo per sincerarsi delle sue condizioni. Entra da solo e ne esce poco dopo, dicendo che il nobile è ancora incosciente e bisogna pregare per lui, quindi si fa condurre da Renzo alla capanna in cui ha visto Lucia. Renzo e padre Cristoforo entrano nella capanna e il frate viene accolto da Lucia con grande affetto, ricambiato dal religioso che è sempre affezionato a lei. Il vecchio porta la giovane in un lato della capanna e le chiede di confidarsi con lui, cosa che lei accetta di buon grado: Lucia parla dunque del voto e padre Cristoforo osserva che la promessa di verginità fatta da lei contrastava con quella di matrimonio fatta in precedenza a Renzo, anche se la Madonna avrà certamente bene accolto il voto in quanto fatto di cuore. Il frate chiede a Lucia se si è consigliata con qualcuno sulla questione e la ragazza risponde di no, e alla domanda se ci siano altri ostacoli a sposare Renzo oltre al voto, lei risponde che i suoi sentimenti sono 96 immutati. Il padre spiega che in speciali circostanze la Chiesa conferisce a tutti i religiosi i poteri che normalmente sono riservati alle alte gerarchie, quindi, se Lucia lo chiede, lui è in grado di scioglierla dal voto e di dispensarla da qualunque obbligo lei abbia contratto in seguito ad esso. Lucia è incerta e incredula, giacché le sembra sacrilego rompere una promessa fatta di cuore, ma il frate la rassicura col dirle che la cosa avrebbe tutti i crismi della regolarità, aggiungendo che se due persone sono destinate ad essere unite in matrimonio quelli sono Renzo e Lucia. Lucia, col viso rosso di pudore, lo chiede e fra Cristoforo invita Renzo ad avvicinarsi, quindi recita la formula con cui scioglie il voto di Lucia grazie all'autorità della Chiesa, perdonandola per la sconsideratezza che ha avuto nel pronunciarlo. Padre Cristoforo si rivolge ancora a Lucia, dicendole di tornare a pensare serena al suo matrimonio con Renzo, poi parla a quest'ultimo e gli raccomanda di accogliere la restituzione della sua sposa non come una consolazione materiale, ma come l'inizio di una vita insieme che un giorno dovrà finire, invitando entrambi ad allevare gli eventuali figli nella carità e nell'amore di Dio. Chiede poi ai due di pregare per l'anima di don Rodrigo e per la sua, quindi prende la sporta che ha con sé e ne tira fuori una scatola di legno: essa contiene il "pane del perdono", avuto tanti anni prima dal fratello dell'uomo ucciso, e il frate lo dona ai due giovani, dicendo di serbarlo gelosamente e di farlo poi vedere ai loro figli, insegnando loro a perdonare sempre tutte le provocazioni che subiranno in questo triste mondo. Porga la scatola a Lucia, che la prende come una reliquia, quindi chiede alla ragazza cosa pensa di fare a Milano dopo aver lasciato il lazzaretto: lei risponde che si affida alla mercantessa e la vedova, dal canto suo, si dice pronta a riportare Lucia da sua madre al paese, una volta guarite entrambe, e a donarle il corredo approfittando della molta roba rimastale che, ora, non può condividere con nessuno. A questo punto il frate invita Renzo a lasciare con lui quel luogo e i due promessi si scambiano un ultimo saluto, con Lucia che raccomanda al giovane di informare Agnese di quanto accadutole e augurandosi di potersi rivedere presto tutti insieme. Pressato dal religioso, Renzo esce con lui dalla capanna. Ormai è quasi sera e il tempo minaccia seriamente un temporale, per cui padre Cristoforo propone a Renzo di ospitarlo al coperto nella sua capanna: il giovane però rifiuta, soprattutto perché ha fretta di lasciare il lazzaretto in cui, tra l'altro, non potrà più vedere Lucia. Dice al frate di voler andare subito in cerca di Agnese e il religioso si congeda da lui, raccomandandogli di salutare in suo nome la madre di Lucia e di pregare per lui. Renzo chiede se lo rivedrà e il frate risponde che spera ciò possa avvenire in Cielo. Padre Cristoforo si allontana e Renzo lo guarda finché è scomparso, poi si affretta a uscire dal lazzaretto in cui tutti, monatti, malati, assistenti, si preparano a ripararsi dalla burrasca che incombe. Capitolo 37 Renzo esce dal lazzaretto e svolta a destra, per ritrovare la strada percorsa al suo arrivo a Milano quella mattina, quando inizia a piovere in modo via via più impetuoso e ben presto l'acqua cade abbondantemente. Il giovane non se ne preoccupa e, anzi, è rallegrato e rinfrescato dalla pioggia, come se lo spezzarsi dell'afa per il temporale sottolineasse la 97
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved