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Riassunto Che cos'è il cinema? di Bazin, Sintesi del corso di Teoria Del Cinema

Riassunto libro, capitolo per capitolo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 23/05/2023

serena-gerbino
serena-gerbino 🇮🇹

4.5

(2)

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Scarica Riassunto Che cos'è il cinema? di Bazin e più Sintesi del corso in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! CHE COSA È IL CINEMA? ANDRÈ BAZIN PARTE I : ONTOLOGIA E LINGUAGGIO - Ontologia dell'immagine fotografica Il bisogno di esorcizzare il tempo è da sempre la finalità dell'arte(si pensi al complesso della mummia). Non si tratta più della sopravvivenza dell'uomo ma più in generale della creazione di un universo ideale a immagine del reale è dotato di un destino temporale autonomo. Con la scoperta della PROSPETTIVA (primo sistema scientifico) ci si discosta da finalità spirituali e non imitative e si cerca il 'realismo': momento di impasse per l'arte plastica divisa tra estetica e imitazione, la prima è illusione, la seconda un doppio del reale, entrambi fallaci. La scoperta della fotografia da parte di NIEPCE risolve questa dicotomia: attraverso l'uso di una macchina si è psicologicamente portati a pensare che l'obbiettivo ('impassibile') rifletta la realtà, in quanto l'uomo e la soggettività ne sono esclusi. E difatti nel 19º secolo che comincia veramente la crisi del realismo di cui Picasso è oggi il mito e che metterà in causa a un tempo le condizioni di esistenza formale delle arti plastiche e i loro fondamenti sociologici. Liberato dal complesso della rassomiglianza, il pittore moderno l’abbandona al popolo che lo identifica ormai da una parte con la fotografia e dall'altra con la sola pittura che vi si applichi. L'originalità della fotografia in rapporto alla pittura risiede dunque nella sua oggettività essenziale: per la prima volta, un'immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo dell'uomo, secondo un determinismo rigoroso. Se da una parte, quindi, l'arte eternizza; dall’altra la fotografia ferma il tempo. In questa prospettiva, il cinema appare come il compimento nel tempo dell' oggettività fotografica. Il film non si contenta più di conservare l'oggetto avvolto nel suo istante; esso libera l'arte barocca dalla sua catalessi convulsiva. Per la prima volta, l'immagine delle cose è anche quella della loro durata. - Il mito del cinema totale Poiché il cinema è un fenomeno idealista deve poco della sua nascita alla scienza (i vari Lumiére, Edison non sono altro che 'bricoleur'), questa piuttosto è l'EFFETTO della ricerca di una rappresentazione totale e integrale della realtà (“non è la scoperta della fotografia ma quella della stereoscopia che ha aperto gli occhi e ricercatori; scorgendo i personaggi immobili nello spazio, i fotografi si resero conto che mancava loro il movimento perché fossero immagine della vita e la copia fedele della natura”) che la sua causa. Tutte le scoperte del XIX secolo si muovono in questa direzione, E se le origini di un'arte permettono di cogliere qualcosa della sua essenza, si può considerare il cinema muto e quello parlato con le tacche di uno sviluppo tecnico che realizza poco a poco il mito originale dei ricercatori: quello di un cinema totale. Si capisce in questa prospettiva, come sia assurdo considerare il cinema muto come una sorta di perfezione primitiva da cui lo allontanerebbe sempre di più il realismo del suono e del colore. Il primato dell'immagine e storicamente tecnicamente accidentale. E i pionieri del cinema non sono altro che gente posseduta dalla propria immaginazione(Palissy). - Vita e morte della sovraimpressione L'opposizione tra cinema documentario della realtà e fantastico è ARTIFICIALE; ciò che infatti colpisce il pubblico nel fantastico cinematografico è evidentemente il suo realismo, ovvero la contraddizione tra la oggettività irrecusabile dell'immagine fotografica e il carattere incredibile dell'avvenimento (Meliès). Sono 3 film del dopoguerra (“Tom, Dick and Harry”, “Here comes Mr. 1 Jordan”, “Our town”) che segnano come Hollywood stia abbandonando i trucchi a discapito di un meraviglioso puramente psicologico. Tema centrale del fantastico cinematografico diventa il SOGNO, riconoscibile attraverso la tecnica del RALLENTIO e della SOVRAIMPRESSIONE; esse non sono che pura convenzione: la sovrimpressione sullo schermo è un modo di avvisare lo spettatore che ciò che sta guardando è un mondo irreale e dai personaggi immaginari; mentre il rallenty , suggerisce senza dubbio la difficoltà che abbiamo spesso in sogno realizzare le nostre imprese. quest'ultima addirittura superata in “Our town” : l'introduzione del dunning rende possibile una sovrapposizione opaca e non più trasparente tra due fotografie. Oh in questo modo il fantasma può essere nascosto dagli oggetti in primo piano senza cessare di essere trasparente hai oggetti situati dietro di lui. Questa proprietà sovrannaturali, paradossalmente, sono indispensabili alla verosimiglianza. - A proposito di “Why we fight” (https://www.youtube.com/watch? v=WrKDBFJoo2w&list=PLugwVCjzrJsXwAiWBipTE9mTlFQC7H2rU&index=5) La seconda guerra mondiale è alla base della rivalutazione del reportage documentaristico, in quanto costituisce una messa in scena naturale. Questo risponde ha esigenze psicologiche e morali, ed esprime il gusto dell'attualità, ovvero la volontà di presenza dell'uomo moderno, il cui bisogno è quello di assistere alla Storia. Tra i film americani apparsi in Francia immediatamente dopo la liberazione, si può dire che i soldi che abbiano il ricorso di suffragio unanimi e provocato un' ammirazione senza riserve sono quelli della serie “Why we fight”. Essi non avevano solo il merito di introdurre un tono nuovo nell'arte della propaganda, un tono misurato, convincente senza violenza, didattico e coinvolgente nello stesso tempo; sapevano anche , pur essendo composto unicamente da materiale di repertorio, essere appassionanti come un romanzo poliziesco. Essi hanno creato un genere nuovo : il documentario ideologico di montaggio. Il reportage dei Capra è innovativo secondo due aspetti: 1) è il risultato di un accumulo enorme di materiale di repertorio, raccolto però NON in vista di quest'opera; si pensi alla scena della presa di Mosca: sono state sapientemente scelte riprese di vari momenti del conflitto che ne rispecchiassero le dinamiche. 2) il montaggio ha quindi uno scopo DIMOSTRATIVO. Essi hanno definitivamente stabilito che il montaggio a posteriori di documenti ripresi ad altri fini poteva raggiungere la morbidezza e la precisione del linguaggio punto i migliori documentari di montaggio non erano altro che racconti, questi sono un discorso. E quindi il principio di questo genere di documentario consiste essenzialmente nel prestare alle immagini la struttura logica del discorso e al discorso stesso la credibilità e l'evidenza dell'immagine fotografica. Lo spettatore ha l'illusione di assistere a una dimostrazione visiva, mentre questo non è in realtà che una successione di fatti univoci che stanno insieme solo grazie alle parole che lo accompagnano. L’essenziale del film non sta nella proiezione ma nella colonna sonora. Tuttavia non aiuta le scienze storiche verso l'oggettività, piuttosto verso un potere d'illusione maggiore, attraverso il realismo. - Morte ogni pomeriggio Nel documentario “La course de taureaux”(di Pierre Braunberger) Miryam, il montatore, usa in modo innovativo il montaggio, portandolo oltre la sua funzione: arrivare alla verosimiglianza fisica del decoupage e insieme alla sua malleabilità logica. Essa ha saputo montare i suoi documenti con una diabolica abilità e ci vuole una bella attenzione per accorgersi che il toro che rientra in campo da sinistra non sempre è quello che ne era uscito a destra. Non ha quindi finalità 2 Nel personaggio di Charlot troviamo alcune costanti che lo rendono un caso unico nella storia del cinema: 1. I problemi che gli si pongono innanzi vengono sempre risolti con soluzioni provvisorie che gli permettono sempre di superare agevolmente il momento. Cerca di aggirare la difficoltà invece di risolverla, una soluzione provvisoria gli basta come se l'avvenire non esistesse per lui. Ma se il provvisorio gli basta sempre, dà prova nell’immediato di un' ingegnosità prodigiosa . Nessuna situazione lo lascia mai disarmato. C'è per lui soluzione a tutto, benché il mondo, più ancora quello degli oggetti che quello degli uomini, non sia fatto per lui. 2. Per Charlot gli oggetti non hanno finalità strumentali: a volte è lui stesso a non essere capace di servirsene in modo utilitaristico, altre sono questi a rifiutarsi quasi volontariamente; egli allora ne fa un uso multiforme lontano da quello assegnatogli dalla società. 3. È attraverso i mezzi cinematografici che Chaplin si libera da restrizioni SPAZIO-TEMPORALI tipiche del momento teatrale per superare la compiacenza verso il pubblico. Le gag di Charlot sono spesso di una tale brevità da lasciare strettamente solo il tempo necessario e sufficiente per coglierle, e non sono seguite da alcun tempo morto del racconto che permetterebbe di riflettervi. La tecnica della gang di Charlot giunge a una specie di perfezione al limite, una densità suprema dello stile. È il cinema ad avergli permesso di innalzare la comicità del circo e del Music Hall al più alto livello estetico. Chaplin aveva bisogno dei mezzi del cinema per liberare al massimo la comicità dalle servitù dello spazio e del tempo imposto dal palcoscenico e della pista del circo. Grazie alla macchina da presa, potendo l'evoluzione dell' effetto comico essere presentata in tutta la sua lunghezza con la più grande chiarezza, non solo non c'è più bisogno di gonfiarlo perché tutta la sala lo capisca, ma si può anche al contrario affinare la gag all'estremo, limare e assottigliare gli ingranaggi per farne un meccanismo di alta precisione capace di rispondere immediatamente alle molle più delicate. È del resto significativo che i migliori film di Chaplin possano essere rivisti indefinitamente senza che il piacere ne sia diminuito , al contrario. È senza dubbio perché la soddisfazione causata da certe gag è inesauribile tanto e profonda, ma soprattutto perché la forma comica e il valore estetico non devono sostanzialmente niente alla sorpresa. Questa è esaurita alla prima visione, lascia il posto a un piacere molto più raffinato che è l'attesa e il riconoscimento di una perfezione. 4. La sua tipica 'pedata all'indietro' ne segna il distacco nei confronti del TEMPO: attitudine vitale che mostra la sua preferenza ad aggirare le situazioni piuttosto che affrontarle di petto. Charlot non ama prendere di fronte la difficoltà; preferisci attaccarla di sorpresa voltando le spalle; ma è soprattutto quando cessa di avere un utilità precisa che questa pedata all'indietro esprime perfettamente la cura costante che ha Charlot di non essere attaccato al passato, di non portarsi niente dietro. 5. Tendenza alla MECCANIZZAZIONE: si ha quando Charlot cerca di creare un rapporto di durata con gli oggetti e gli avvenimenti; non avendo la capacità di comprendere e prevedere la società egli postula nel tempo una successione di istanti che scadono nella RIPETIZIONE. Così tutte le volte che Charlot ci fa ridere a sue spese, e non a quella degli altri, è perché ha avuto in un modo o nell'altro l’imprudenza sia di assimilare l’avvenire al presente, sia ancora di rientrare ingenuamente nel gioco degli uomini secondo la società e di credere ad alcune delle loro grandi macchine per fare l'avvenire : macchina morali, religiose, sociali, politiche. 5 6. Uno degli aspetti più caratteristici della libertà di Charlot nei confronti della società è infatti la sua totale INDIFFERENZA PER IL SACRO. In lui non vi è nessuna volontà sacrilega, così riesce a restare nei limiti del tollerabile attraverso un ACLERICALISMO RADICALE. - Montaggio proibito Quando l'essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell'azione, il montaggio è proibito: l'unità spaziale deve essere rispettata, la rottura di questa trasformerebbe la realtà in semplice rappresentazione immaginaria. E per spiegare le virtù e i limiti del montaggio, Bazin prende in esame tre film per ragazzi:  In “Une Fée pas comme les autres”(https://www.youtube.com/watch?v=ilMWiAmemas) Jean Tourane all’ambizione molto ingenua di rifare Walt Disney con dei veri animali. Ora, è evidente che i sentimenti umani prestati alle bestie sono una proiezione della nostra coscienza . Leggiamo sulla loro anatomia o sul loro comportamento solo gli stati d'animo che abbiamo loro più o meno inconsciamente attribuito sulla base di certe somiglianze esteriori con l'anatomia o il comportamento dell'uomo. Questo antropomorfismo, nel caso del film di Tourane, è de livello più basso. Ma, secondo Bazin, se esso inclina nonostante tutto all'indulgenza è perché la sua importanza quantitativa permette una stupefacente esplorazione delle possibilità dell' antropomorfismo comparativamente a quella del montaggio. È importante innanzitutto notare che gli animali di Taurane non sono addestrati, solo addomesticati. E che non realizzano praticamente mai ciò che gli si vede fare: tutta ingegnosità e il talento del regista consistono nel farli restare più o meno immobili nella posizione in cui li ha piazzati per la durata della ripresa; l'ambiente circostante , il travestimento, il commento bastano già a conferire alla natura della bestia un senso umano che l'illusione del montaggio viene poi a precisare e ampliare in maniera così considerevole da crearlo a volte quasi del tutto. In altre parole questo film è stato realizzato in montaggio. È il montaggio, creatore astratto di senso, a mantenere lo spettacolo nella sua realtà necessaria. Il montaggio ha quindi in questo specifico caso una funzione strettamente narrativa.  Al contrario, Ballon Rouge (https://www.youtube.com/watch?v=3tZzQNq3uXE&t=11s) non deve nulla al montaggio, vi fa solo ricorso accidentalmente: il palloncino rosso infatti compie realmente davanti alla macchina da presa i movimenti che i vediamo gli compiere. Si tratta di un trucco(oltre al fatto che si serve di molti palloncini), ma che non deve nulla al cinema come tale. L’illusione nasce qui, come nella prestidigitazione, dalla realtà. Essa è concreta e non è il risultato dei prolungamenti virtuali del montaggio. Il fatto è che appunto , al montaggio, il palloncino magico esisterebbe solo sullo schermo , mentre quello di Lamorisse ci rimanda alla realtà. Ora Ballon rouge è un racconto cinematografico , una pura invenzione dello spirito, ma l'importante è che questa storia deve tutto al cinema appunto perché non gli deve assolutamente niente.  Ugualmente, Crin Blanc (https://www.youtube.com/watch?v=npy-c2FQwFY&t=51s) Era doppiamente mitico poiché di fatto più cavalli dallo stesso aspetto, ma più o meno selvaggi, componevano sullo schermo un cavallo unico. Ciò di cui c'è bisogno per la pienezza estetica dell'impresa è che noi possiamo credere alla realtà degli avvenimenti sapendo che sono truccati. Non c'è affatto bisogno che lo spettatore sappia espressamente che c'erano tre o quattro cavalli o che bisognava tirare l'animale per le narici con un filo di nylon per fargli girare la testa propriamente. Ciò che importa è solo che si possa dire, allo 6 stesso tempo, che la materia prima del film è autentica e che è tuttavia cinema. Allora lo schermo riproduce il flusso e il riflusso della nostra immaginazione che si nutre della realtà alla quale progetta di sostituirsi, la favola nasce dall’esperienza che essa trascende. Ma reciprocamente, bisogna che l'immaginario abbia sullo schermo la densità spaziale del reale. Il montaggio non può essere utilizzato che in limiti precisi, sotto pena di attentare all’ontologia stessa della favola cinematografica. Il montaggio riprende i suoi diritti ogni volta che il senso dell'azione non dipende più dalla contiguità fisica, anche se essa è implicata. Ovviamente questo è vero soprattutto per i film documentari il cui oggetto è di riportare dei fatti che perdono ogni interesse se l’avvenimento non ho avuto luogo realmente davanti alla macchina da presa, ovvero il documentario imparentato al reportage. Ma molto più interessante è il caso dei film di finizione che vanno dalla favola al documentario appena romanzato. Si tratta allora di finzioni che prendono tutto il loro senso o al limite hanno valore solo attraverso la realtà integrata all’immaginario. Il decoupage è allora comandato dagli aspetti di questa realtà. Infine abbiamo il film di puro racconto , equivalente al romanzo o all'opera teatrale: in questo caso è probabile che certi tipi di azioni rifiutino l'impiego del montaggio per raggiungere la loro pianezza. L'espressione della durata concreta è evidentemente contrariata dal tempo astratto del montaggio. - L'evoluzione del linguaggio cinematografico Il passaggio da cinema muto a cinema sonoro, 1928, non è come sostengono alcuni un momento di rottura, infatti è possibile nella maggior parte dei registi successivi notare una sorta di continuità con il passato. Si noti, ad esempio, come il cinema americano(Hollywood e il cinema di genere) e francese negli anni '40 abbiano trovato un equilibro tra immagine e suono rendendo il cinema 'Arte'. Innanzitutto per quanto riguarda il fondo: grandi generi dalle regole ben elaborata e capaci di piacere al più vasto pubblico internazionale e di interessare anche una èlite colta purché a priori non ostile al cinema. Inoltre per quanto riguarda la forma: degli stili di fotografia e di decoupage perfettamente chiari e conformi al loro soggetto; una totale riconciliazione dell'immagine e del suono. In breve , tutti i caratteri della pienezza di un arte classica, fondata da un lato sulla maturità dei generi drammatici elaborati da un decennio o ereditati dal cinema muto, dall’altro sulla stabilizzazione dei processi tecnici. Il cinema dal '20 al '40 è segnato da due tendenze opposte: registi che credono nell'immagine e registi che credono nella realtà.  REGISTI CHE CREDONO NELL'IMMAGINE: sono quei cineasti che credono che l'immagine possa aggiungere alla cosa rappresentata la sua rappresentazione su uno schermo. Questo può avvenire mediante: a) LA PLASTICITA' DELL'IMMAGINE, che comprende lo stile della scenografia, del trucco, l'illuminazione e l'angolazione b) LE RISORSE DEL MONTAGGIO, il quale mira a una creazione di un senso che le immagini oggettivamente non contengono e che deriva soltanto dal loro rapporto che può essere di 3 tipi: - IN PARALLELO: creando il montaggio parallelo Griffith pervenne a esprimere la simultaneità di due azioni lontane nello spazio attraverso il succedersi di inquadrature dell'una e dell'altra. - ACCELERATO: consiste nella moltiplicazione di inquadrature sempre più brevi. - DELLE ATTRAZIONI: Creato da Ejzenstejn, consiste nel rafforzamento del senso di un'immagine mediante l'accostamento di un'altra immagine che non appartiene necessariamente allo stesso avvenimento. Assai vicino al suo principio è la pratica dell' ellissi , del paragone o della metafora. Tu questo tipo di montaggio non mostra l'avvenimento : vi alluda soltanto. Senza dubbio il registi che la utilizzano attingono dalla 7 perfettamente congeniali. È il caso della commedia americana che ha raggiunto la perfezione nella linea di un decoupage dove il realismo del tempo non aveva alcun ruolo. In altri termini , al tempo del muto il montaggio “evocava” ciò che il realizzatore voleva dire, il decoupage nel 1938 “descriveva”, nel cinema dell'epoca di Bazin ('50-'55) è il regista a scrivere direttamente il film; come conseguenza lo stile sarà diverso per ogni regista. E in questa funzione che la nuova cifra stilistica renderà più attivo e più coinvolto lo spettatore e allo stesso tempo il regista si svincola dai dogmi dello studio system. - William Wyler o il giansenista della messa in scena E' Wyler il primo regista americano a interessarsi a storie psicologiche su sfondo sociale. E' un regista totalmente POLIEDRICO, sia dal punto di vista plastico sia dalla messa in scena. Potenzia la struttura drammatica e i personaggi attraverso l'auto-soppressione della messa in scena(come possiamo vedere in “I migliori anni della nostra vita”). In “The little foxes”(adattamento di un’opera teatrale) tutta la struttura drammatica ruoti intorno all'immobilità della macchina da presa(il film onta solo 10 movimenti di macchina); l'essenziale si svolge nello stesso ambiente, di una totale neutralità: il salone al pian terreno di una grande villa di stile coloniale. In fondo, una scala che porta alle camere del primo piano, quella di Bette Davis, contigua a quella di Herbert Marshall . Nessun elemento pittoresco interviene a rendere singolare con una nota realista questo luogo drammatico impersonale quanto un salone tipico del teatro. I protagonisti hanno un pretesto verosimile ma convenzionale per incontrarsi venendo da fuori e scendendo dalle loro camere. La scala in fondo al salone assume esattamente il ruolo di un praticabile teatrale : è un puro elemento di architettura drammatica che servirà a situare i personaggi nello spazio verticale. Ma è in particolare nella scena della morte di Marshall, che notiamo con chiarezza non solo tutto ciò che il cinema aggiunge ai mezzi del teatro, ma che il massimo di coefficiente cinematografico coincide paradossalmente con il minimo di messa in scena possibile. Niente poteva meglio moltiplicare la potenza drammatica di questa scena dell' immobilità assoluta della macchina da presa. Il minimo movimento avrebbe fatto cadere la tensione drammatica. Qui la macchina da presa non è affatto al posto di uno spettatore qualsiasi: è essa stessa , grazie alla cornice dello schermo e alle coordinate ideali della sua geometria grammatica, ad organizzare l'azione. Ne “I migliori anni della nostra vita”, la natura del soggetto (originale) , la sua attualità sociale imponevano per prima cosa uno scrupolo meticoloso di esattezza quasi documentaria. Wyler ha voluto fare con questo film un'opera tanto civica quanto artistica : attraverso una storia , romanzata senza dubbio ma minuziosamente verosimile ed esemplare, si trattava di esporre con tutta la ampiezza e la sottigliezza necessarie uno dei problemi sociali più dolorosi del dopo guerra americano: insensibilità di Hollywood di fronte la guerra (eppure molti registi l’hanno vissuta in prima persona). In “I migliori anni della nostra vita” il regista riesce ad andare oltre il carattere realistico e pedagogico del film in quanto lo scrupolo etico della realtà ha trovato la sua trascrizione estetica nella messa in scena. Niente è in effetti più falso e assurdo che opporre il realismo all’estetismo. La realtà non è arte, ma un arte realista è quella che sa creare un estetica integrante della realtà. Elemento realistico del film è sicuramente la scenografia, costruita dimensioni reali e nella sua interezza. Gli attori e le attrici portavano dei vestiti esattamente simili a quelli che i loro personaggi avrebbero portato nella realtà, e i loro visi non erano più truccati che in città. Non c'è dubbio che questi scrupoli quasi superstiziosi nella verità quotidiana sono particolarmente insoliti a Hollywood, ma la loro importanza non sta forse nel garanzia del tutto materiale che essi apportano allo spettatore bensì nello sconvolgimento che devono fatalmente introdurre nella messa in scena : illuminazione, angolazione della macchina da presa, condotta dall’attore. Ora, la tendenza realista esiste nel cinema dai tempi di Lumiere: non c'è uno, ma dei 10 realismi. Ogni epoca cerca il suo, cioè la tecnica e l’estetica che meglio possono captarlo, trattenere e restituire ciò che si vuole captare della realtà. Il decoupage classico che analizza la scena in un certo numero di elementi corrisponde implicitamente a un certo processo mentale naturale che ci fa ammettere la successione delle inquadrature senza che abbiamo coscienza della loro arbitrarietà tecnica. Nella realtà infatti, il nostro occhio si assesta spazialmente come l'obiettivo sul punto importante dell’avvenimento che ci interessa, procedendo per investigazioni successive. Ma l'avvenimento esiste costantemente nella sua integrità, ci sollecita perpetuamente nella sua interezza: siamo noi a decidere di sceglierne questo quell’aspetto, di leggere questo piuttosto che quello secondo le esigenze dell’azione del sentimento o della riflessione, ma un altro sceglierebbe forse diversamente. In ogni caso, siamo liberi di fare la nostra messa in scena. Per cui è sempre possibile un altro decoupage che può modificare radicalmente l'aspetto soggettivo della realtà. Ora, è il regista che fa il decoupage per noi, fa al posto nostro la discriminazione che ci spetta nella vita reale. Accettiamo inconsciamente la sua analisi perché conforme alle leggi dell’attenzione; ma essa ci priva di un privilegio di libertà perlomeno virtuale di modificare ad ogni istante il nostro sistema di decoupage. Le conseguenze psicologiche e quindi estetiche sono di una certa importanza poiché questa tecnica tende a escludere in particolare l'ambiguità immanente della realtà . Essa soggettivizza l’avvenimento all'estremo poiché ogni particella è dovuta al partito preso dal regista. Essa non implica solo una scelta drammatica, affettiva o morale , ma anche e più profondamente una presa di posizione sulla realtà in quanto tale. Grazie alla profondità di campo lo spettatore ha la possibilità di fare a meno da sé dell'operazione finale del decoupage. La continuità che ne risulta rende le inquadrature più vive: più interessanti per lo spettatore che studia ogni personaggio a sul gradimento e fa da sé i propri tagli. E mentre Welles cerca a volte una sorta di oggettivismo tirannico, a volte una specie di stiramento sistematico della realtà in profondità (le prospettive e sfuggenti e l'inquadratura dal basso di Orson Welles sono delle fionde ben tese), tutt'altra cosa fa Wyler, il quale utilizzava la regia simultanea e laterale soprattutto per rendere sensibile all’interferenza degli intrighi. Si tratta sempre di integrare a decoupage dell'immagine il massimo di realtà, di rendere totalmente e simultaneamente presenti l'ambiente e gli attori di modo che l'azione non sia mai una sottrazione; ma questa somma costante dell’avvenimento nell’immagine mira in questo caso alla più perfetta neutralità. Non si tratta di provocare lo spettatore, di metterlo alla ruota o di squartarlo. Wyler vuole solo permettergli: di vedere tutto e di scegliere a suo gradimento. È un atto di lealtà verso lo spettatore, una volontà di onestà drammatica. La frequenza dei campi totali e la perfetta nettezza degli sfondi contribuisce enormemente a rassicurare lo spettatore e a lasciargli il modo di osservare e di scegliere e anche il tempo di farsi un'opinione, grazie alla lunghezza delle inquadrature. La profondità di campo di William Wyler vuole essere liberale e democratica come la coscienza dello spettatore americano è il protagonista del film. Considerata dal punto di vista della narrazione, la profondità di campo di Wyler è la perfetta neutralità e trasparenza dello stile che non deve interporre alcuna colorazione, alcun indizio di rifrangenza tra lo spirito del lettore e la storia. Questo lo possiamo vedere a partire dall’illuminazione: mentre Orson Welles ricercava le luci contrastate, violente e insieme sfumate, per creare spessi chiaroscuri, Wyler utilizza un' illuminazione il più neutra possibile, un' illuminazione non estetica, neppure drammatica, semplicemente una luce onesta che illumini a sufficienza l'attore e l'ambiente che lo circonda . Ma è nella differenza degli obiettivi impiegati che si coglie meglio l'opposizione delle due tecniche. Gli obiettivi grandangolari di Quarto potere deformavano fortemente le prospettive e Orson Welles traeva partito dagli effetti di fuga del 11 decor. Quelli de “I migliori anni della nostra vita”, più conformi alla geometria di una visione normale, tendevano piuttosto, a causa della loro focale lunga, a schiacciare la scena, cioè a disporla sulla superficie dello schermo . Wyler dunque si proibisce ancora una volta certe risorse di messa in scena per meglio rispettare la realtà, e modificata il meno possibile dall' ottico della macchina da presa. Inoltre l'inquadratura e la sequenza in Wyler tendono ad identificarsi: molte scene de “I migliori anni della nostra vita” sono trattate in una sola unica inquadratura fissa. Anche in questo caso , mentre in Orson Welles le inquadrature lunghe corrispondono nella sua estetica a un certo sistema di cristianizzazione della realtà, al quale si oppongono altre varietà di cristalli, caratterizzate soprattutto dall'astrazione temporale delle serie di dissolvenze incrociate che riassumono lungi brani di racconto; in Wyler l'estetica del decoupage resta costante, i procedimenti di racconto mirano ad assicurargli il massimo di chiarezza e, attraverso questa chiarezza, di efficacia drammatica. Ma sarebbe ingenuo confondere questa neutralità con un assenza d'arte. Difatti il lavoro preparatorio per il film di Wyler è stato molto lungo prima della ripresa di ogni inquadratura , ma esso non riguardava la macchina da presa. Quasi tutte le inquadrature di Wyler sono costruite come un'equazione, costruita sull’attore e la sua performance. All’azione reale si sovrappone l'azione propria della messa in scena che consiste nel dividere contro il suo volere l'attenzione dello spettatore, a dirigerla dove è necessario, per il tempo necessario, e a farla così partecipare per proprio conto al dramma voluto dal regista. Il fatto è che, per Orson Welles, la profondità di campo è in se stessa un fine estetico; per Wyler, essa resta ancora subordinata alle esigenze drammatiche della messa in scena e in particolare della chiarezza del racconto. Wyler ama in particolare costruire la sua regia sulla tensione creata in un inquadratura dalla coesistenza di due azioni di importanza diseguale : lo si vede nella sequenza finale del film. Sono gli sguardi lo scheletro della messa in scena. Lo spettatore non ha che da seguirli come un indice teso per sposare esattamente tutte le intenzioni del regista. L'immenso talento di Wyler sta in questa scienza della chiarezza attraverso la depurazione della forma, la comune umiltà di fronte al soggetto e allo spettatore. Per lui , l'azione è prima di tutto espressa dall’attore. È in funzione dell’attore che Wyler, proprio come un regista di teatro, concepisce il suo lavoro di valorizzazione dell'azione. L'ambiente e la macchina da presa ci sono solo per permettere all'attore di concentrare su di sé il massimo di intensità drammatica senza sviare al loro profitto una significazione parassita. In altre parole, la messa in scena di Wyler si caratterizza per la sua assenza. Ogni sua scelta dal punto di vista plastico o formale è finalizzata alla neutralità: possiamo definire il suo, un cinema puro, l'essenziale della messa in scena teatrale. PARTE II : IL CINEMA E LE ALTRE ARTI - Per un cinema impuro Il cineasta ha sempre avuto la tentazione di fotografare il teatro, visto che questo è già uno spettacolo; ma si conosce il risultato ed è apparentemente giusto che l'espressione “teatro filmato” sia diventato luogo comune dell’obbrobrio critico; almeno il romanzo richiede un certo margine di creazione per passare dalla scrittura all’immagine. Il teatro al contrario è un falso amico; le sue illusorie similitudini col cinema indirizzavano quest'ultimo su di un binario morto, lo attiravano sul pendio di ogni facilità. Ma considerare l'adattamento di romanzi e opere teatrali una scelta senza ritorni per il cinema puro risulta essere un controsenso critico. Innanzitutto c'è da tener conto l'influenza reciproca delle arti e dell’adattamento in genere: il cinema è giovane, ma la letteratura, il teatro, la musica, la pittura sono vecchie quanto la storia. Così l'evoluzione del 12 La condanna del 'TEATRO FILMATO', secondo alcuni critici lontano dal 'cinema puro', risulta essere obsoleta osservando la commedia americana (pochi artifici scenografici, girato in interni, decoupage usa il campo-controcampo per valorizzare i dialoghi), “Piccole volpi” di Wyler e gli adattamenti del teatro comico che riportano in auge Broadway (Keaton, Charlot). Il cinema permette di superare le restrizioni di spazio e tempo che non riuscivano a mettere in contatto il teatro con l'universo circostante. Il cinema ha permesso la metamorfosi di situazioni teatrali che è senza di esso non sarebbero mai arrivate ad uno stato adulto, e ciò ha potuto far credere che il cinema fosse venuto ad inventare e creare dal nulla dei fatti drammatici nuovi. Ora, il problema non è esattamente quello dell’adattamento di un dramma teatrale, ma il fatto drammatico del fatto teatrale: il dramma è l'anima del teatro e questo comincia ad esistere realmente solo in funzione dell'opera d'arte impersonata neppure dall’attore, ma dal testo. Fedra è stata scritta per essere rappresentata, ma esiste già come opera e come tragedia per lo studente che la studia. Se ci fosse lecito conservare di Fedra solo un'azione e riscriverla in funzione delle esigenze romanzesche o di dialogo del cinema , ci ritroveremmo nel teatrale ridotto al drammatico. Così nel cinema, o il film è la fotografa pura e semplice dell’opera teatrale , quindi con il suo testo, e avremo allora precisamente il famoso teatro filmato, oppure l'opera teatrale adatta alle esigenze dell' arte cinematografica, ma allora si tratterà in effetti di un'altra opera. Da qualunque parte la si affronti l'opera teatrale, classica o contemporanea, è irrevocabilmente difesa dal suo testo. Per adattarlo bisognerebbe rinunciare all'opera originale per sostituirla con un'altra , forse superiore, ma che non è più l'opera teatrale. Così, mentre in altri tempi la prima preoccupazione del cineasta sembrava quella di camuffare l'origine teatrale del modello, di adottarlo, di risolverlo nel cinema; ora non solo sembra rinunciarvi, ma tende a sottolineare sistematicamente il carattere teatrale. Non può essere altrimenti dal momento che si vuol rispettare l'essenziale del testo. Concepito in funzione della virtualità del teatro, il testo le porta già tutti in sé. Determina dei modi ed uno stile di rappresentazione; è già in potenza il teatro. Non si può decidere allo stesso tempo di essere fedeli e di sviarlo dall' espressione alla quale tende. Il grande errore del 'teatro filmato' è la preoccupazione di 'fare cinema'. Bazin porta come esempio “Medico per forza”, adattamento cinematografico dell'opera di Molière con finalità didattiche di un professore. Se per il cinema si intende la libertà dell'azione in rapporto allo spazio, e la libertà dal punto di vista in rapporto all’azione, portare sullo schermo un opera teatrale significherà dare alla scenografia l’ampiezza e la realtà che il palco scenico non poteva materialmente offrirle. Significherà inoltre liberare lo spettatore dalla costruzione della sua poltrona e valorizzare col cambiamento di inquadratura la recitazione dell'attore. È evidente come in questo caso non si tratta di messa in scena: l'errore sta nel cercare di iniettare a forza del cinema nel teatro: - il tempo dell'azione teatrale e quello dello schermo non è lo stesso. - il supplemento di drammatizzazione dato dalla macchina da presa fa perdere il primato alla parola. - l'artificiosità della scenografia teatrale è incompatibile con quella realista del cinema. Il cinema deve necessariamente essere più ricco del teatro. Al fondo dell’eresia del teatro filmato sta un complesso ambivalente del cinema di fronte al teatro: complesso di inferiorità riguardo ad un arte più antica e più letteraria, che è il cinema risolve con la superiorità tecnica dei suoi mezzi, confusa con una superiorità estetica. 15 Due registi che non hanno snaturato il teatro portandolo sugli schermi sono Laurence Olivier (“Enrico V”) e Jean Cocteau (“I parenti terribili”). “Enrico V” risolve la dicotomia tra realismo cinematografico e convenzione teatrale, aprendosi con una carrellata che ci porta dentro a una locanda ai tempi stessi di Shakespeare: il film è la rappresentazione teatrale di Enrico v in epoca elisabettiana. Esso non è altro che un espediente per eludere il miracolo del sipario. Facendo del teatro cinema, denunciando in precedenza per mezzo del cinema la recitazione e le convenzioni teatrali invece di cercare di camuffarla, ha eliminato l'ipotesi del realismo che si opponeva all’illusione teatrale. In nessun momento Enrico V è veramente teatro filmato. Il film si situa in qualche modo da una parte dall'altra della rappresentazione teatrale, al di qua e al di là del palcoscenico: non siamo di fronte a un'opera di teatro ma a un film storico sul teatro elisabettiano. “I parenti terribili” non aggiunge niente alla scenografia ma ne intensifica l'efficacia attraverso la macchina da presa, lavora in interni su cui non agisce la luce naturale e non aggiunge intermezzi (scena in cui gli abitanti del carrozzone attraversano Parigi ma noi li lasciamo all'uscita della porta per trovarli sulla soglia dell'altra). Lascia spazio a dettagli che in teatro avrebbero assunto la forma del monologo. Sotto il punto di vista del decoupage si allontana dall'idea di piano e usa solo inquadrature (cristallizzazione passeggera di una realtà di cui non si cessa di sentire intorno la presenza), che implica una scelta d'attenzione da parte dello spettatore, il quale prova la sensazione di una presenza totale dell’avvenimento, non più come in Welles con la profondità di campo, ma per virtù di una rapidità diabolica dello sguardo che per la prima volta ci sembra sposare il ritmo puro dell'attenzione. Di solito il decoupage è visto come un compromesso fra tre sistemi di analisi possibili della realtà: un'analisi puramente logica e descrittiva; un'analisi psicologica interna al film, cioè conforme al punto di vista di uno dei personaggi di una data situazione; infine un analisi psicologica in funzione dell'interesse dello spettatore, interesse spontaneo o provocato dal regista proprio grazie a questa analisi. Pur restando tecnicamente fedele al decoupage classico , il regista gli conferisce un significato originale utilizzando praticamente solo inquadrature della terza categoria. Si realizza finalmente “la macchina da presa soggettiva” ma all'inverso, ovvero attraverso la spietata esteriorità del testimone. La macchina da presa finalmente è lo spettatore e nient'altro che lo spettatore. Il dramma ridiventa pienamente spettacolo. Il regista si riallaccia così al principio stesso dei rapporti fra lo spettatore il palcoscenico. Mentre il cinema gli permetteva di cogliere il dramma da molteplici punti di vista, egli sceglieva deliberatamente di non servirsi che di quello dello spettatore, solo dominatore comune al palcoscenico e allo schermo. Così Cocteau conserva alla sua opera l'essenziale del suo carattere teatrale. Invece di tentare di risolverlo nel cinema, utilizza al contrario le risorse della macchina da presa per denunciare, sottolineare, confermare le strutture sceniche e i loro correlati psicologici. Non si tratta più di adattare un soggetto , ma di mettere in scena per mezzo del cinema un'opera di teatro. Ciò che i critici rimpiangono di più del teatro nel teatro filmato, è il piacere insostituibile che si attribuisce alla presenza fisica dell'attore. Il cinema accoglie tutte le realtà fuor che quella della presenza fisica dell'attore. Se è vero che in questa consiste l’essenza del fenomeno teatrale, il cinema non potrebbe in alcun modo pretendervi. Ora, la presenza si definisce naturalmente in rapporto al tempo e allo spazio. Fino all’apparizione della fotografia e poi del cinema, le arti plastiche , soprattutto nel ritratto, erano il solo intermediario possibile fra la presenza concreta e l'assenza. La giustificazione era data dalla rassomiglianza, che eccita l’immaginazione e aiuta la memoria. Ma la fotografia è tutt’altra cosa. Non è affatto l'immagine di un oggetto o di un essere , ma molto più esattamente la sua traccia. Ma la fotografia è una tecnica inferma nella misura in cui la sua istantaneità la obbliga a cogliere il tempo solo di taglio. Il cinema realizza lo strano paradosso di ricalcarsi sul tempo dell'oggetto e di prendere oltre ciò l'impronta della sua durata. È 16 falso per cui dire che lo schermo sia assolutamente impotente a metterci in presenza dell'attore: lo fa alla maniera di uno specchio, di cui si ammetterà che restituisce la presenza di quello che vi rifletta, ma di uno specchio dal riflesso differito, la cui foglia di stagno trattenga l'immagine. Il cinema placa lo spettatore, il teatro lo eccita. All'origine del disincantamento che segue il film si potrebbe certamente individuare un processo di spersonalizzazione dello spettatore , il quale tende ad identificarsi con il protagonista per un processo psicologico che ha per conseguenza di costituire la sala in folla e di uniformare le emozioni. Il teatro impedisce fino ad un certo punto la formazione di una mentalità di folla, ostacola la rappresentazione collettiva nel senso psicologico, in quanto esige una coscienza individuale attiva, mentre il film non chiede che un’adesione passiva. Queste considerazioni gettano una nuova luce sul problema dell’attore : è nella misura in cui il cinema favorisce un tale processo di identificazione che si oppone al teatro. Teatro e cinema non sarebbero dunque più separati da un abisso estetico insuperabile, ma tenderebbero solamente a suscitare due atteggiamenti mentali su cui i registi mantengono un vasto controllo. Per cui mentre il teatro si costruisce sulla coscienza reciproca della presenza dello spettatore e dell'attore, mai ai fini della recitazione, e agisce in noi attraverso la partecipazione ludica ad un'azione, attraverso la ribalta e come sotto la protezione della sua censura; al cinema, al contrario, restiamo dei contemplatori solitari, nascosti in una camera oscura di uno spettacolo che ci ignora e che partecipa dell'universo. Niente viene ad opporsi alla nostra immaginaria identificazione al mondo che si agita davanti a noi, che diviene mando. Non è più sul fenomeno dell’attore virgola in quanto persona fisicamente presente che ci interessa concentrare in analisi, ma su l'insieme delle condizioni della recitazione teatrale che strappa lo spettatore e la sua partecipazione attiva. Si tratta allora molto meno dell’attore e della sua presenza che dell'uomo e della scenografia. Il cinema può anche fare a meno degli attori: a teatro il dramma parte dall'attore, al cinema va dall'ambiente all'uomo (Jean-Paul Sartre). In ciò bisogna vedere una delle conseguenze del realismo fotografico. Le cause e gli effetti drammatici non hanno per l'occhio della macchina da presa dei limiti materiali: essa libera il dramma da ogni contingenza di tempo e di spazio. Ma questa liberazione dai poteri drammatici tangibili ancora non è che una causa estetica secondaria, che non spiegherebbe radicalmente il ribaltamento dei valori fra l'uomo e l'ambiente. Può capitare infatti che il cinema si privi volontariamente dei ricorsi possibili all'ambiente e alla natura mentre il teatro, al contrario, si serve di un meccanismo complesso per dare allo spettatore l'inclusione dell’ubiquità. È quindi evidente che il problema non consiste nella scenografia in se stessa, ma nella sua natura e funzione. Che cos’è un LUOGO DRAMMATICO? Non può esistere teatro senza architettura, questo infatti non può confondersi con la natura in quanto rappresentazione. Fondato sulla coscienza reciproca dei partecipanti presenti, esso ha bisogno di opporsi al resto del mondo come la recitazione alla realtà, la complicità l'indifferenza, la liturgia la volgarità dell' utile. Il costume, la maschera o il trucco, lo stile del linguaggio, la ribalta concorrono più o meno a questa distinzione, e il segno più evidente ne è il palcoscenico, la cui architettura ha variato senza cessare però di definire uno spazio privilegiato, realmente o virtualmente distinto dalla natura. La scenografia contribuisce semplicemente a distinguere il luogo drammatico e a specificarlo. Ma quale che sia, la scenografia costituisce il palcoscenico. Nessuno ignora che l'attore che “si ritira nei suoi appartamenti” vada in realtà a togliersi il trucco nel suo camerino. La scenografia teatrale è dunque un luogo materialmente chiuso, limitato, circoscritto, le cui sole aperture sono quelle a cui acconsente la nostra immaginazione. Le sue apparenze sono rivolte verso l'interno , verso il pubblico e la ribalta; essa esiste tramite il suo rovescio e la sua assenza di aldilà, come la pittura tramite la cornice. Come il quadro non si confonde con il paesaggio che rappresenta, e non è 17 nozione di quadro è subordinata in questo caso alla nozione più integrante di pittura di cui il quadro non è che un momento. Ma solo il cinema poteva risolvere radicalmente il problema, far passare le approssimazioni grossolane dal discontinuo al realismo temporale della visione continua; far finalmente vedere la durata stessa. Il fatto è che, per Clouzot, è questo il vero ELEMENTO SPETTACOLARE della creazione artistica: il momento di suspense. La suspense in questo caso non può più infatti confondersi con una forma di progressione drammatica , un certo concatenamento dell'azione o il suo parossismo , la sua violenza. Letteralmente qui non succede niente, nient'altro almeno che la durata della pittura; e neppure del suo soggetto, ma del quadro. L ‘azione, se azione c'è, non ha niente a che vedere con le 36 situazioni drammatiche , essa è pura libera metamorfosi, e in definitiva l’apprensione diretta, resa sensibile dall'arte, della libertà dello spirito; l'evidenza anche che questa libertà è durata. Lo spettacolo in quanto tale è allora la fascinazione tramite il sorgere delle forme, libera e allo stato nascente. Bazin, inoltre, giustifica l'uso del montaggio accelerato, in virtù del fatto che questo è tempo astratto, che può essere votato alla spettacolarizzazione, a differenza di quello delle riprese che è concreto. Per quanto riguarda il colore il film è basato su una contraddizione: un film in bianco e nero stampato su pellicola a colori, salvo, esclusivamente, quando lo schermo è occupato dalla pittura. Ma il film non è in bianco e nero salvo che nelle sequenze esclusivamente pittoriche, al contrario, esso è un film a colori degradato a bianco e nero nelle sequenze extrapittoriche. PARTE III : CINEMA E SOCIOLOGIA - “Los olvidados” “Los olvidados” è il film con cui Luis Bunuel si ripropone al grande pubblico 18 anni dopo i suoi capolavori “Un chien andalou” e “L'age d'or”; un film di serie B costato solo 18 milioni,in cui Bunuel era stato libero della sua sceneggiatura e della sua realizzazione e che è stato girato in Messico dove il regista si era stabilito. Due i temi principali trattati, gli stessi che fanno da modello ai film che trattano della gioventù sviata: la miseria cattiva consigliera e l'educazione è possibile attraverso l'amore, la fiducia e il lavoro. È importante nuotare l'ottimismo fondamentale di questo schema : un ottimismo morale che presuppone innanzitutto una bontà primitiva dell'uomo , un paradiso dell'infanzia, devastato dalla società pervertita degli adulti; ma anche un ottimismo sociale, poiché presuppone che la società possa riparare il suo male facendo della casa di rieducazione un microcosmo sociale fondato sulla fiducia, l'ordine e la fraternità, da cui il delinquente era stato indebitamente staccato; situazione sufficiente per ristabilire l'adolescente nella sua innocenza originaria. Ora, la grande novità è che osa alterare lo svolgimento del mito: ripropone il tema della fiducia ma questa volta è l'esterno (la società) che ostacola il protagonista, non se stesso (come invece accade nel “Cammino verso la vita”). Pedro non ritorna con il pacco di sigarette, non perché preferisca rubare il denaro, il resto che doveva riportare al direttore, ma perché se lo fa rubare da Jaibo, il cattivo compagno. Ma l'artista mira più lontano, a una verità che trascende la morale e la sociologia: una realtà metafisica, la crudeltà della condizione umana. La grandezza di questo film è nel fatto che NON SI RIFERISCE MAI ALLE CATEGORIE MORALI, nei personaggi è possibile riscontrare un fondo buono, o nei casi negativi, un orrore che non è in contraddizione con l'amore. Non ci sono infatti tratti volutamente crudeli, il regista più che altro affronta in un pessimismo idealista il tema della profondità dell'infelicità. In questo mondo in cui tutto è miseria, in cui ciascuno lotta con qualsiasi arma, non esiste fondamentalmente uno più infelice di sé. Più ancora che al di là del bene e del male, siamo al di là della felicità e della pietà. l senso morale di cui sembrano dar prova alcuni personaggi non è in fondo che una forma del loro destino, un gusto della purezza , dell'integrità, che altri non hanno. Non viene in mente a questi 20 privilegiati di rimproverare agli altri la loro cattiveria, al massimo di lottare per difendersi da essa. Questi esseri non hanno altri punti di riferimento che la vita, questa vita che pensiamo di aver addomesticato con la morale e l'ordine sociale , ma che il disordine sociale della miseria restituisce alle sue virtualità prime, una sorta di paradiso terrestre infernale da cui una spada di fuoco impedisce di uscire. È assurdo rimproverare a Bunuel un gusto perverso della crudeltà. Il corpo di Pedro ucciso da Jaibo verrà gettato in un campo abbandonato , sullo scarico delle immondizie, fra gatti ammazzati e le scatole di conserva, e quelli, che se ne sbarazzano così com’è, sono proprio fra i rari esseri che gli volevano del bene, una ragazzina e suo padre. Ma la crudeltà non è di Bunuel, che si limita a rivelarla nel mondo. Se egli sceglie ciò che c'è di più atroce, è perché il vero problema non è sapere che esiste anche una felicità ma fin dove può arrivare la condizione umana nell’infelicità; si tratta di sondare la crudeltà della creazione. Il surrealismo di Bunuel non è altro che la preoccupazione di raggiungere il fondo della realtà. Ma la sua crudeltà è sempre oggettiva, non è che lucidità e tutt’altro che pessimismo ; se la pietà è esclusa dal suo sistema estetico è perché essa lo avvolge da ogni parte. Esso è un film d'amore che richiede amore: questa presenza della bellezza nell’atroce, questa perennità della nobiltà umana nella decadenza, ribalta dialetticamente la crudeltà in atto d'amore e di carità. Per questo Los olvidados non suscita nel pubblico compiacenza sadica o indignazione farisea. - In margine a “L'erotismo al cinema” Nell'arte precedente l'erotismo è sempre stato un fatto accidentalmente subordinato all'opera. Del cinema, e solo di esso, si può dire che l'erotismo appare come un progetto e un contenuto fondamentale, dovuto alla alta vendibilità: il sesso è il miglior modo di attirare il pubblico. Lo Duca (“L'érotisme au cinéma”) vede un parallelismo tra cinema e sogno: il cinema riprende le caratteristiche cromatiche del sogno, e dato che questo ha alla base pulsioni erotiche, conseguentemente è costitutivo della settima arte. Bazin approfondisce il pensiero del critico sottolineando come il sogno non sia un universo anarchico ma, come il cinema abbia un fortissimo sistema di censura. L’erotismo, infatti, non risiede solo in ciò che desideriamo profondamente vedere sullo schermo ma anche in ciò che non può esservi mostrato. E la sua realtà positiva risiede nel irresistibile trasgressione degli interpreti del super-io di questa censura onirica. Alla base vi è solo una differenza di natura tra la censura cinematografica, di essenza sociale e giuridica, e la censura onirica. L'erotismo allora, immerso nella puritana Hollywood, in forza di ciò acquista ancora più valore (Marylin e la gonna alzata in “Quando la moglie è in vacanza”). Non dimentichiamoci del fatto che la sessualità sia vissuta ontologicamente allo stesso modo di un omicidio, 'piccola morte'. Ma tuttavia nel cinema, al contrario degli spettacoli dal vivo (in cui la donna ad esempio si spoglia da sola se deve e non può essere avvicinata dal partner, in quanto in questo caso lo strip-tease è fondato sulla polarizzazione e l'eccitazione del desiderio degli spettatori, ognuno dei quali possiede virtualmente la donna che finge di offrirsi, ma se qualcuno si precipitasse sul palco scenico si farebbe linciare, perché il suo desiderio sarebbe in concorrenza e in opposizione), la donna, anche nuda, può essere avvicinata da un partner, espressamente desiderata e realmente accarezzata, perché il cinema si svolge in uno spazio immaginario che richiama la partecipazione e l'identificazione. L'attore che conquista la donna riempe lo spettatore per procura. La sua seduzione, la sua bellezza, la sua audacia non entrano in concorrenza con i suoi desideri, li realizzano. Ma se ci si attenesse a questa sola psicologia, il cinema idealizzerebbe il cinema pornografico. È evidente, al contrario, che se vogliamo restare al livello dell'arte dobbiamo mantenerci nell’immaginario. Devo poter considerare ciò che accade sullo schermo come un semplice racconto, una vocazione che non passa mai sul piano della realtà. Il che significa che il cinema può dire tutto ma non può mostrare tutto. Non ci sono situazioni sessuali la cui 21 espressione sia proibita a priori sullo schermo, ma a condizione di ricorrere alle possibilità di estrazione del linguaggio cinematografico in maniera tale che l'immagine non possa mai assumere valore documentario. In altre parole, l'erotismo al cinema è vissuto come partecipazione e non competizione, attraverso l'attore realizzo i miei desideri, senza che però si esca dai confini dell'irrealtà. - Morte di Humphrey Bogart Nessuno più di Boggy ha incarnato meglio l'imminenza della morte, l'ha interiorizzata dopo averci trionfato svariate volte: in lui vediamo l'immagine stessa della nostra decomposizione. Diffidenza e stanchezza, saggezza e scetticismo: Boggy è uno stoico. La sua caratterizzazione va oltre i ruoli che interpreta, una maturità esistenziale che trasforma la vita in un ironia tenace a spese della morte, attraverso perspicacia e capacità di incassare. - Il mito di Monsieur Verdoux La critica si dichiara molto delusa dall’ultima opera di Chaplin, poiché gli pare ideologicamente, psicologicamente ed esteticamente incoerente. Ma basterebbe inserire Mr. Verdoux nella mitologia chapliniana, perché tutto si chiarisca, o si cristallizzi. Infatti mentre il personaggio di un romanzo o di un lavoro teatrale esaurisce il proprio destino nei limiti di un opera, Charlot, al contrario, trascende sempre i film in cui appare: Charlot semplicemente esiste. In particolare gli si rimprovera a Chaplin la sua interpretazione, di non aver saputo evadere completamente dallo schema il comico del suo vecchio personaggio. Ma Charlot persiste in Verdoux come in sovraimpressione perché Verdoux è Charlot. Bisognava che al momento buono il pubblico potesse riconoscerlo senza equivoco, e questo momento ammirevole giunge all’ultima immagine del film , quando Verdoux , alias Charlot, se ne va in maniche di camicia tra i carnefici. Ma non c'è tratto del vecchio personaggio che non sia qui rovesciato: anzitutto il costume (niente più ridicolo frack, bombetta spelacchiata, scarpe smisurate, bastoncino di bambù, ma un vestito stirato impeccabilmente, una larga cravatta di seta grigia, in feltro molle, un bastone dal pomo d’oro), mentre i baffetti trapezoidali sono scomparsi del tutto. La condizione sociale è diametralmente opposta: Charlot, persino da milionario, resta in eterno mendicante; Verdoux è ricco. Quando a Charlot capita di essere sposato, si tratta di spaventevoli megere che lo terrorizzano e gli etorgono a paga fino all'ultimo soldo; Verdoux poligamo tradisce tutte le proprie mogli, le soggioga, le assassina e vive del loro denaro (eccezion fatta per la giovane invalida e per colei che rinuncia ad avvelenare). D’altra parte, Charlot soffre di un evidente complesso di inferiorità rispetto all'altro sesso mentre Verdoux fa il don Giovanni e ci riesce: Charlotte è un tenero e un ingenuo, Verdoux è cinico . Riassumendo : Charlot è per essenza l’inadattato sociale, Verdoux un iperadattato. Con il rovesciamento del personaggio, anche tutto l'universo chapliniano è rovesciato. I rapporti di Charlot con la società che costituiscono, assieme alle donne, il tema fondamentale e permanente della sua opera, qui hanno tutti cambiato di valore: la polizia che terrorizzava Charlot, per esempio, Verdoux la imbroglia con facilità somma. Anziché fuggire alla vista degli sbirri, egli sfugge loro senza evitarli e quando, dopo che il gioco si è prolungato troppo, deciderà di costituirsi a uno di essi, sarà il poliziotto ad avere paura. Da quando Charlot esiste, la società delega alla sua polizia il compito di rimuoverlo dal suo seno . D'altronde la sua fuga maldestra e precipitosa è sempre stata indice di una vaga colpevolezza che si denuncia da sé, sebbene egli dava loro ben poche preoccupazioni. Era una vittima facile che sfuggiva loro sempre all'ultimo momento, ma che sapeva restare nel suo ruolo di colpevole. Quando però Charlot scompare, non c'è più colpevole e la società inizia soffrire di uno strano malessere: le donne che spariscono e quest'uomo 22 risalire sul palco scenico, preferisce a giocarsela sotto falso nome. La decadenza di Calvero, la crudeltà del pubblico, la rinuncia amorosa del vecchio clown sono l'ombra proiettata dietro Chaplin dalla luce della sua gloria, della sua riuscita, tanto professionale quanto amorosa. Ne sono prova l'ambientazione in una Londra agli albori del '900, quella conosciuta nell'infanzia da Chaplin, il suo rivale amoroso nel film che è suo figlio Sidney Chaplin. Il tema centrale è 'Charlot può morire? Chaplin può invecchiare?', ecco che si crea un rapporto a tra pubblico, film e attore. -Grandezza di “Limelight” Bazin riconosce due cause nello SNOBISMO che circola intorno al film: 1) Manca l'elemento comico 2) L'aspetto melodrammatico è illusorio: il melodramma si definisce per l'assenza di ambiguità dei personaggi, e ciò che avviene nel film è esattamente ciò che non ci si aspetta. Fa parte di quel tipo di opere 'meditate' che per essere comprese devono essere 'impugnate dall'interno', come il “Don Giovanni” di Molière: con una visione interna le loro stesse incoerenze diventano ordine necessario; Limelight è un’opera che esprime senza dubbio le cose più segrete del cuore dell'artista, portata a lungo e forse inconsciamente in sé, ma proiettata all'esterno in un tempo che presuppone pochi sbagli e ripensamenti. Questa rapidità della realizzazione o piuttosto della sua ultima fase apparente, lungi da lasciar sussistere delle macchie o delle debolezze, assicura piuttosto all'opera un armonia infallibile perché proveniente direttamente dall’inconscio. Un altro dei temi centrali è il RAPPORTO TRA ARTISTA E PUBBLICO, il talento e il genio di Calvero non sono una realtà oggettiva ma un fatto relativo al successo stesso. Calvero come clown non esiste che per gli altri. La saggezza di Calvero invecchiando è nello stesso tempo di giungere alla serenità al di là del successo e del fallimento, senza per questo rinnegare l'arte. La vita, lo sa bene, nella sua semplicità è il bene supremo, ma colui che è mercato dall'arte non può rinunciare neppure a quest'ultima. Dice Calvero: io non amo il teatro, ma non sopporto neppure la vista del sangue che scorre nelle mie vane. Ora, se paragoniamo il personaggio di Calvero a Chaplin, notiamo che esso è nello stesso tempo Chaplin e il contrario di Chaplin. Infatti se da una parte i due volti si possono sovrapporre(per la prima volta Chaplin recita senza trucco), dall’altra la realtà di Chaplin è l’esatto opposto del fallimento di Calvero, sia nell’arte che nella vita. Limelight è infatti paragonabile all’esorcismo del destino del suo autore. Calvero è nello stesso tempo la paura di Chaplin e la sua vittoria sulla paura. Chaplin ci dà l'esempio di un creatore che ha totalmente subordinato il cinema a ciò che aveva da dire senza preoccuparsi di conformarsi a una specifica qualità tecnica. Egli è il primo a servirsi del cinema mentre gli altri non facevano che servirlo, raggiungendo così la grandezza stessa del cinema: L'ASTRAZIONE ATTRAVERSO L'INCARNAZIONE. - Evoluzione del western E' indubbio che il genere western abbia già raggiunto un'indubbia perfezione in epoca classica, ma è grazie alla sensibilizzazione in favore della II guerra mondiale voluta da Roosvelt che molti registi tornano al genere americano per eccellenza: Vidor, Lang, Wyler e Ford. Conclusasi questa, vediamo come il genere riesca a superare se stesso inserendo elementi di novità: SUR-WESTERN, si vergogna di essere tale e cerca una validità attraverso VALORI ESTRINSECHI (di natura estetica, sociologica, morale, psicologica, politica, erotica...). La Storia da materia del genere ne diventa il SOGGETTO, come nei casi di “Fort-Apache” e “L'ultimo Apache”. Sono “High Noon” e “Shane” comunque i due film che maggiormente rappresentano questo filone: nel primo Zimmermann 25 combina il dramma morale all'estetismo delle angolazioni, mentre nel secondo Stevens giustifica il western attraverso il western stesso inserendoci 3 temi fondamentali del genere, di cui il più importante è 'l'eroe puro errante alla ricerca del suo Graal'. Se Il genere western fosse in via di sparizione, il sur-western esprimerebbe effettivamente la sua decadenza e la sua esplosione. Ma, il western classico, anche grazie all'avvento della televisione, rimane di una centralità immutata, specialmente a una forte struttura delle produzioni di serie B. Il WESTERN 1950 si allontana da questa intellettualità di fondo riprendendo le caratteristiche classiche, secondo Bazin mantenendo immutata la narrazione, la arricchiscono attraverso una spiccata psicologia dei personaggi e originalità dando un sapore 'romanzesco' (“Run for Cover”, “Sperone nudo” di Anthony Mann, il vero regista simbolo di questa nuova ondata). PARTE IV : UN'ESTETICA DELLA REALTA: IL NEOREALISMO - Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione Come il “Potemkin”, così “Paisà”, “Sciuscià”, “Roma città aperta” realizzano una fase nuova dell'opposizione già tradizionale del realismo e dell'estetismo sullo schermo. Non possiamo pensare che il realismo sia un genere che nasca ex-novo, la scuola italiana di cinema infatti durante il fascismo gode di un'importanza non secondaria, basti pensare all'istituzione del Festival del cinema di Venezia, prima rassegna cinematografica internazionale voluta dal duce, Cinecittà con tutti i suoi teatri di posa. In questo periodo sono ancora i grandi kolossal a farla da padrone (“Scipione l'Africano”, “La corona di ferro”). Nel mercato nazionale invece incomincia ad assumere importanza una commedia sensibile, poetica, il cui realismo sociale non appesantisce l'opera, “Quattro passi fra le nuvole” di Blasetti, “I bambini ci guardano” di Vittorio de Sica, “Uomini sul fondo” di Rossellini, registi di vecchia e nuova generazione che creano le basi per il più alto momento del cinema mondiale. Sicuramente la Resistenza e la Liberazione hanno fornito i principali temi del cinema degli anni '40. Ma mentre in Francia la Resistenza è entrata subito nella leggenda; per quanto vicina nel tempo, essa non era più, all'indomani della Liberazione, che storia. Con la partenza dei tedeschi la vita ricominciava. In Italia, al contrario, la Liberazione, non significava ritorno a una libertà anteriore vicina, ma rivoluzione politica, occupazione alleata, sconvolgimento economico e sociale. In definitiva la Liberazione si è fatta lentamente, lungo mesi interminabili. Essa ha influenzato profondamente la vita economica, sociale e morale del paese. Rossellini ha girato “Paisà” in un periodo in cui il suo racconto era ancora attuale. E a parte alcuni film che sono incontestabilmente dei film di Resistenza, il cinema italiano si caratterizza soprattutto per la sua adesione all’attualità : i film italiani sono prima di tutto dei reportage ricostruiti. L'azione non potrebbe svolgersi in qualsiasi contesto sociale storicamente neutro, quali sono spesso, a vari livelli, quelli del cinema americano, francese o inglese. Ne deriva che i film italiani presentano un valore documentario eccezionale, tanto che è impossibile tirarne via la storia senza trascinarne con essa tutto il terreno sociale nel quale affonda le sue radici. Questa aderenza perfetta e naturale all’attualità si spiega e si giustifica interiormente tramite un' adesione spirituale all'epoca. Il cinema italiano è il solo a salvare, nel seno stesso dell'epoca che dipinge, un umanesimo rivoluzionario. Condannare la realtà non obbliga però alla cattiva fede. I registi italiani non dimenticano che prima di essere condannabile, il mondo semplicemente è. È per questo che nei film neorealisti tutti i personaggi esistono con una verità sconvolgente : nessuno è ridotto allo stato di cosa o di simbolo. 26 Peculiarità del neorealismo è la legge dell' amalgama, ovvero l'utilizzo nei film di attori professionisti insieme ad attori emergenti presi dalla strada. Non è l'assenza di attori professionisti che può caratterizzare storicamente il realismo sociale al cinema e neppure la scuola italiana attuale, ma proprio la negazione del principio delle vedette e l'utilizzazione indifferente di attori di mestiere e attori occasionali. Quel che importa è di non porre il professionista in un ruolo abituale: il rapporto che stabilisce col suo personaggio non deve essere appesantito per il pubblico da nessuna idea a priori. I non professionisti, invece, erano naturalmente scelti per il loro adeguamento al ruolo che dovevano tenere: conformità fisica o biografia. Sembra che la loro adesione comune a una sceneggiatura, che sentono tutti profondamente, e che esige da loro il minimo di menzogna drammatica , sia l'origine di una sorta di osmosi fra gli interpreti. L'ingenuità tecnica degli uni beneficia dell'esperienza degli altri, mentre questi profittano dell'autenticità generale. Ma se tale metodo è stato impiegato solo episodicamente è perché contiene in se stesso il proprio principio di distruzione: per gli attori non professionisti, il continuare la carriera porta alla perdita di inesperienza e ingenuità, per gli altri invece i ruoli non abituali, a causa del piacere del pubblico, diventano tali, rompendo l'equilibrio. Il merito del cinema italiano e stato quello di aver ricordato una volta di più che non c'è stato il realismo in arte che non fosse prima di tutto profondamente estetico punto il reale come l'immaginario appartengono in arte al solo artista, la carne e il sangue della realtà non sono più facili da trattenere nelle maglie della letteratura o del cinema di quanto non lo siano le fantasie più gratuite dell'immaginazione. Se il “Potemkin” ha potuto sconvolgere il cinema non è solo a causa del suo messaggio politico, ma perché la Russia era al centro della riflessione cinematografica, in una parola perché i film realisti che essa produceva nascondevano più scienza estetica che non le scenografie, le luci e l'interpretazione delle opere più artificiali dell'espressionismo tedesco. Lo stesso vale oggi per il cinema italiano. Il suo realismo non comporta affatto una regressione estetica, ma al contrario un progresso dell'espressione, un'evoluzione conseguente del linguaggio cinematografico, un'estensione della sua stilistica. Il cinema moderno non ha mai smesso di tendere verso il realismo: esso vuol dare allo spettatore un illusione il più perfetta possibile della realtà , compatibile con le esigenze logiche del racconto cinematografico e i limiti attuali della tecnica. In questo senso il cinema si oppone nettamente alla poesia, alla pittura, al teatro, per avvicinarsi sempre di più al romanzo. È chiaro che il realismo in arte non può derivare quindi che da artifici. Ogni estetica sceglie necessariamente fra ciò che val la pena di essere salvato, perduto o rifiutato, ma quando essa si propone essenzialmente, come fa il cinema, di creare l'illusione del reale, questa scelta costituisce la sua contraddizione fondamentale a un tempo inaccettabile e necessaria. Necessaria poiché l'arte non esiste che attraverso questa scelta. Senza di essa ritorneremmo puramente e semplicemente alla realtà. Inaccettabile, poiché essa si fa in definitiva a spese di quella realtà che il cinema si propone di restituire integralmente. Di fatto l'arte cinematografica si nutre di questa contraddizione: utilizza come meglio può le possibilità di astrazione e di simbolo che gli offrono i limiti temporanei dello schermo ; ma questa utilizzazione del residuo di convenzioni abbandonato dalla tecnica può essere fatta al servizio o a spese del realismo, può accrescere o neutralizzare l'efficacia degli elementi di realtà catturati dalla macchina da presa. Si possono classificare gli stili cinematografici in funzione del guadagno di realtà che essi rappresentano: chiameremo dunque realista ogni sistema di espressione, ogni procedimento di racconto che tende a far apparire più realtà sullo schermo. Realtà non deve naturalmente essere intesa quantitativamente. Uno stesso avvenimento è passabile di più rappresentazioni diverse. Ognuna di essa abbandona e salva alcune delle qualità che fanno sì che noi riconosciamo l'oggetto sullo schermo, ognuna di essa introduce a fini didattici o estetici delle astrazioni più o meno corrosive cioè non lasciano sussistere tutto dell'originale. Al termine di ciò si è sostituita alla realtà 27 della penisola è stato più tipicamente italiano : piuttosto che di un' influenza, si tratta di un accordo del cinema e della letteratura su degli stessi dati estetici profondi, su una comune concezione dei rapporti dell’arte e della realtà. - Ladri di biciclette Il film di Vittorio De Sica e Zavattini risolve il periodo di involuzione del Neorealismo italiano che a detta di molti era davanti a un impasse estetica che non le avrebbe permesso di essere altro che un super- documentario o un reportage romanzato. L'opera è un intrigo popolare addirittura populista, avvenimento banale che non ha una propria valenza drammatica ma che lo diventa in rapporto alla congiuntura sociale della vittima e del periodo storico: un operaio passa tutto il giorno a ricercare invano a Roma la bicicletta che gli hanno rubato ; questa bicicletta era diventata il suo strumento di lavoro e se non la trova tornerà senza dubbio ad essere disoccupato ; la sera dopo ore di corse inutili, cerca anche lui di rubare una bicicletta, ma viene preso e poi lasciato andare, e si ritrova altrettanto povero, con solo in più la vergogna di essersi abbassato al livello del suo ladro. La stessa scelta della bicicletta come oggetto chiave del dramma e caratteristica sia dei costumi urbani italiani sia di un epoca in cui i mezzi di trasporto meccanici sono ancora rari e onerosi. E' neorealista oltre che per il tema trattato per la tecnica della regia: girato interamente per strada, lontano dai teatri di posa, nessun interprete ha esperienze di teatro o cinema. Il suo messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all’avvenimento, ma è chiaro che nessuno può ignorarlo e ancor meno ricusarlo poiché non è mai esplicito come messaggio. La tesi implicata è però atrocemente semplice : nel mondo in cui vive questo operaio, i poveri per sussistere devono derubarsi fra di loro. Gli avvenimenti non sono nella loro essenza segni di qualcosa, di una verità cui dovremmo convincerci; essi conservano tutto il loro peso, tutta la loro singolarità, tutta la loro ambiguità di fatto. Un film di propaganda cercherebbe di dimostrarci che l'operaio non può ritrovare la sua bicicletta e che è necessariamente preso nel cerchio infernale della sua povertà. De Sica si limita a mostrarci che l'operaio può non ritrovare la sua bicicletta e che perciò tornerà senza dubbio a essere disoccupato: E' IL NOSTRO SPIRITO A RICAVARE LA TESI, IL FILM NON LA MOSTRA. Il neorealismo passa dalla Resistenza alla Rivoluzione, il protagonista infatti è solo abbandonato dalle istituzioni sindacali (che lo aiuteranno solo in virtù dell'amicizia e in maniera privata, in quanto perseguono la giustizia e non si occupano della carità) e dalla Chiesa (il paternalismo invadente dei quaccheri cattolici è intollerabile, poiché la loro carità è cieca di fronte a questa tragedia individuale, la scena dei prelati austriaci che si riparano dall'acquazzone è una delle più anticlericali del cinema). Ladri di biciclette è il primo esempio decisivo della conversione possibile di questo oggettivismo a soggetti interscambiabili. La dimensione drammatica del film è data dalla presenza del figlio nell'avventura del padre:  Nella parte finale, dove la vergogna per il tentato furto più che verso la società è rivolta a lui: è infatti l'ammirazione che il bambino in quanto tale ha per il padre e la coscienza che questi ne ha a conferire al finale del film la sua grandezza tragica. Fino a quel momento l'uomo era un Dio per suo figlio, ma il furto ha compromesso quest’idea, e il loro rapporto. Così il gesto finale del bambino che ridà la mano al padre non è il segno né del perdono né di una consolazione puerile, ma il gesto più grave che possa segnare i rapporti fra un padre e un figlio : quello che li fa uguali.  Nel BIGHELLONARE dei due nelle strade di Roma che li allontanano da un contesto socio- economico per riportarli nella sfera della vita privata. 30  Nel falso annegamento di Bruno, vero momento di impasse drammatica del film che culmina in trattoria, nel quale, Antonio Ricci riconosce la relativa insignificanza della sua disavventura di fronte alla vita. Questa funzione interna alla storia e del resto perfettamente sensibile nell’orchestrazione della camminata del bambino e dell'uomo. De Sica prima di decidersi per questo bambino, non gli ha fatto fare delle prove di recitazione ma solo di camminata: egli voleva accanto alla camminata da lupo dell'uomo, il trotterellare del bambino , essendo l'armonia di questo disaccordo di per sé di un' importanza capitale per l'intelligenza di tutta la messinscena. Che il bambino stia davanti, di lato, a fianco o al contrario come nel broncio dopo lo schiaffo, a una distanza vendicativa, il fatto non è mai insignificante. È al contrario la vera fenomenologia della storia. Allo stesso modo era necessario che l'operaio fosse insieme altrettanto perfetto, anonimo e oggettivo della sua bicicletta. Infatti non è la singolare eccellenza di questo operaio e di questo bambino a valerci la qualità della loro interpretazione, ma tutto il sistema estetico sul quale sono venuti ad inserirsi. Ora, sarebbe poco dire che questi attori improvvisati sono buoni o anche perfetti: essi cancellano addirittura l'idea stessa di attori, di recitazione, di personaggio. Ma il senso primo della formula “cinema senza attori” è superato, è di un cinema senza interpretazione che bisognerebbe parlare, di un cinema in cui non è più neppure una questione che una comparsa reciti più o meno bene, TANTO L'UOMO SI IDENTIFICA CON IL PERSONAGGIO. Alla scomparsa della nozione di attore nella trasparenza di una perfezione apparentemente naturale come la vita stessa, risponde la scomparsa della messa in scena: il film di De Sica è stato lungo da preparare e tutto vi è stato minuziosamente previsto come in una super produzione girata in teatro di posa, ma non vi è una sola inquadratura in cui un effetto drammatico nasca dal decoupage propriamente detto. Come la scomparsa dell'attore è il risultato di un superamento dello stile dell’interpretazione, la scomparsa della messa in scena è usualmente il frutto di un progresso dialettico nello stile del racconto. Se l'avvenimento basta a se stesso senza che il regista abbia bisogno di rischiararlo per mezzo delle angolazioni o i partiti presi della macchina da presa, è perché è appunto arrivato a quella perfetta luminosità che consente all’arte di smascherare una natura che finalmente le somiglia. Per questo l’impressione che ci lascia Ladri di biciclette e costantemente quello della verità. Se la naturalezza suprema, quella sensazione di avvenimenti osservati per caso nel corso delle ore, è il risultato di un sistema estetico presente anche se invisibile, è perché in Ladri di biciclette vi è prima di tutto la scomparsa della storia. Il merito di De Sica e di Zavattini è stato quello di aver costruito una vera e propria tragedia sul piano dell' accidentale puro. La riuscita suprema di De Sica è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell'azione spettacolare (il teatro) e dell'avvenimento (il romanzo): CINEMA PURO. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell'illusione estetica della realtà: NIENTE PIU' CINEMA. -Santi lo si è solo dopo Cielo sulla palude (https://www.youtube.com/watch?v=YbFvdVw6wzc) di Augusto Genina è un film di circostanza, realizzato in occasione della canonizzazione della giovane Maria Goretti , assassinata a 14 anni dal ragazzo a cui essa si rifiutava. La sua biografia è priva di avvenimenti esemplari: è quella di una povera famiglia di operai agricoli nelle paludi pontine, all'inizio del secolo; niente visioni, niente voci, niente segni dal cielo; la assiduità al catechismo e il fervore della prima comunione sono i soli segni, banali, di una pietà comune. Certo c'è il martirio , ma bisogna che il film arrivi a quest’ultimo quarto d'ora perché succeda finalmente qualcosa. Ma questo delitto non è altro che un qualsiasi delitto passionale, un fatto di cronaca senza originalità drammatica. Niente di sorprendente che questa vita di Santa abbia deluso , almeno in Francia, 31 tanto i cristiani quanto i non credenti. I primi infatti non vi trovano nessun apologetica religiosa e i secondi nessuna giustificazione morale. Non c'è che la povera vita di una ragazzina stupidamente infranta senza nessuno dei segni particolari che giustificano tutto. Ma è appunto merito di Genina quello di aver fatto un’agiografia che non prova niente e soprattutto non la santità della Santa. Il suo merito non è solo artistico ma religioso: “Cielo sulla palude” è uno dei rari film cattolici validi. Il suo proposito è quello di una fenomenologia della santità; la sua messa in scena è un rifiuto sistematico non solo di vederla altrimenti che dall'esterno ma anche come la manifestazione ambigua di un fatto spirituale rigorosamente indimostrabile. La volontà apologetica delle agiografie suppone infatti che la santità sia data a priori. Ora in via logica , come in via teologica , un Santo lo è solo dopo , quand'è canonizzato. È alla luce del giudizio per autorità della Sacra Congregazione che la sua biografia diventa un’agiografia. Il problema che si pone in cinema come in teologia è quello della retroattività della salvezza eterna. Ora, al presente non esiste un Santo, ma solo un essere che lo diventa e che peraltro fino alla morte rischia di dannarsi. Il partito preso dal realismo di Genina impediva per di più, sotto pena di tradire lo spirito della sua impresa, di supporre come data, in una qualsiasi delle sue immagini, la santità della sua protagonista. Non è, non deve essere una Santa quella che vediamo vivere, ma una contadina. È come se il regista ci dicesse: ”Ecco Maria Goretti, guardatela vivere e morire. D’altra parte sapete che è una Santa. Che quelli che hanno occhi per vedere leggano in filigrana all'evidenza della grazia così come dovete farlo ad ogni istante negli avvenimenti della vostra vita. I segni che Dio fa ai suoi non sempre sono soprannaturali.” -Europa 51 Europa 51 di Roberto Rossellini (https://www.youtube.com/watch?v=QNO919eqx2M) Racconta di una giovane donna ricca e frivola che ha tarde l'unico figlio che ha tentato di suicidarsi una sera che sua madre, troppo preoccupata dalle mondanità, l'ha mandato a letto con disattenzione pronto lo choc morale così violento da sprofondare la giovane donne in una crisi di coscienza in cui cerca da prima la soluzione nell’azione sociale dopo nella carità nei confronti di una prostituta e di un giovane criminale che ella aiuta a scappare. Quest’ultima iniziativa fa scandalo e lo stesso marito, che la capisce sempre meno, preferisce vederla rinchiusa in una casa di cura con la complicità di tutta la famiglia spaventata dalla sua demenza. Poiché Rossellini è un vero regista, la forma del film non è in lui l'ornamento della sceneggiatura , ne è la materia stessa. L'autore di “Germania anno zero” è personalmente e profondamente ossessionato dallo scandalo della morte dei bambini e più ancora dal loro suicidio. È attorno a questa esperienza spirituale autentica che il film prende corpo; il tema della santità laica, tema eminentemente moderno, vi si sviluppa naturalmente ; la sua organizzazione più o meno abile in sceneggiatura poco importa ; ciò che conta è che ogni sequenza sia una sorta di meditazione, di canto cinematografico, per il tramite della messa in scena, su questi temi fondamentali. Non si tratta di dimostrare ma di mostrare. È vero che è il neorealismo di un Rossellini appare in questo caso ben diverso , se non contraddittorio , da quello di un De Sica. Ci sembra tuttavia corretto accostarli come i due poli di una stessa scuola estetica. Là dove De Sica fruga la realtà con curiosità sempre più tenera , Rossellini al contrario sembra spogliare sempre di più, stilizzare con un rigore doloroso ma impietoso, insomma ritrovare il classicismo dell’espressione drammatica attraverso le regole e attraverso la scelta. Ma a guardare da vicino questo classicismo deriva dalla medesima rivoluzione neorealista : per Rossellini come per De Sica si tratta di ripudiare le categorie della recitazione e della espressione drammatica per costringere la realtà a dare il suo senso a partire dalle sue sole apparenze. Rossellini non fa mai recitare i suoi attori, non gli fa esprimere questo o quel sentimento, li costringe solo ad essere in una certa maniera di fronte alla macchina da presa. In 32
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