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Riassunto "CINEma oltre, donne e pratiche audiovisive in Italia", Sintesi del corso di Storia Della Radio E Della Televisione

Riassunto "CINEma oltre, donne e pratiche audiovisive in Italia"

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 02/07/2024

irene2e
irene2e 🇮🇹

5

(1)

8 documenti

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Scarica Riassunto "CINEma oltre, donne e pratiche audiovisive in Italia" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Radio E Della Televisione solo su Docsity! “CINEMA OLTRE” Gli studi hanno dimostrato come i territori del cinema di ricerca, siano disponibili ad accogliere la creatività femminile. Del resto, l’intrico fra sperimentazioni di linguaggio, produttività dei margini e vivacità delle cineaste è un motivo ritornante nella storia delle immagini in movimento, nello scenario sperimentale. PRIMA PARTE: le immagini baluginanti del cinema si confondono nell’orizzonte del femminismo nascente, nel tumulto di quegli anni, per esempio il progetto di Carla Lonzi di girare dei film sui gesti delle donne, per poi passare ad un linguaggio del tutto nuovo, lontano dalla parola scritta, spogliarsi di tutte le certezze e le rigidità del pensiero teorico, immergendosi nel cinema senza essere una cineasta. Filma se stessa, ha il desiderio di essere una rosa, di venire compresa con le sue fragilità. Sono ancora le rose a punteggiare le sperimentazioni esistenziali e cinematografiche delle donne negli anni ’70. “Amour du cinéma” Rosa Foschi 1969. Simbolo di una genealogia di pratiche sperimentali delle donne nel cinema italiano. Cinema come libertà e prigione, mondo macchine per eccellenza, dove alle donne sono concessi gli spazi non autoriali. Cinema come gioco, travestimento, trucco, ritaglio di forme di carta. “Vogliamo anche le rose” grideranno le femministe in piazza. Da qua iniziano una serie di riflessioni, tra cui l’opera inchiesta di Angela Ricci Lucchi, inviando lettere con scritto “cos’è per te una rosa?”, con Gianikian a partire da una rosa nel 1975 il suo primo film “Alice profumata di rosa” →idea cinema sinestetico Molte artiste si avvicinano all’immagine in movimento negli anni ’60, tra cui Ketty La Rocca e Lucia Marcucci. Quest’ultima fa un esperimento “cinepoesia” in cui la tecnica tipica delle composizioni verbovisive dove la parola e immagine convivono viene declinata attraverso lo strumento cinematografico. Nascono montaggi che impiegano alcuni frammenti di vecchie pellicole, il risultato è ironico e spesso sfocia nel nonsense. Carla Lonzi vede la cinepresa come strumento guida alla liberazione della cultura. La performer Patrizia Vicinelli che affonda negli abissi del linguaggio al grado zero insieme al gruppo 63. Arriva al cinema underground “Errore di gruppo” il suo corpo si sdoppia, da un lato un corpo in viaggio, dall’altra quello nudo ripreso in gesti di libertà. Da una parte una ribellione blasfema, dall’altra il tentativo di spogliarsi da una cultura ormai vuota. Sono gli stessi anni in cui Lina Mangiacapre insieme al gruppo delle Nemesiache trasformano il rovesciamento di un corpo asservito allo sguardo maschile di Binga in un linguaggio oracolare, fatta di parole sibilline, ripetizioni. LE ARTISTE NEGLI ANNI ’70 HANNO SCELTO IL CINEMA E VIDEO COME STRUMENTO CON IL QUALE ASCOLTARE IL MOVIMENTO DEI PROPRI PASSI. Marinella Pirelli “Sole in mano su fili” possibilità di creare immagini direttamente con la luce. Le interessava dare il senso del farsi di un’immagine, di un gesto, di un pensiero. È una riflessione su di sé mediata dall’occhio meccanico. Alcuni suoi film si legano alla sua pittura. Sono quelli girati in natura, in particolare le rose. Emerge una dialettica nei suoi film: al lirismo cosmico, alla bellezza fragile del creato, si contrappone l’irrompere brutale di elementi che hanno a che fare con la violenza, dolore, sofferenza. Può essere un suono acutissimo, come “Inter-vento” che prorompe all’improvviso. Grida e parole impercettibili sono l’accompagnamento sonoro a una sigaretta che entra in campo a “Bruciare”, l’intensità distruttiva del fuoco si mescola alla grazia della natura. Il cinema funge da specchio per il proprio CORPO aprendo la possibilità di ripensare alla propria femminilità. “Indumenti”, “Narciso” il corpo diventa metafora di una identità femminile divisa tra i molti ruoli che la società impone e il proprio desiderio di realizzazione personale. “Luce e Movimento” di Gino Marotta non è una semplice documentazione di una esposizione d’arte, bensì dialoga con le opere più innovative della scena contemporanea proponendosi come una forma artistica autonoma. “Film ambiente” è un bosco di immagini. Si attuano due processi: la dinamizzazione della scultura, grazie alle riprese del film che catturano la luce in MOVIMENTO e la proiezione della stessa pellicola in un ambiente aperto, in cui il visitatore può immergersi, il corpo si fa schermo, parte attiva del film-esperienza. Anche il suono è coinvolto nell’interazione. Scultura, immagini e suono si fondono in un’unica esperienza percettiva. In “Ombra Luce” il movimento si ottiene per via delle modificazioni di forma e colore date dalla successione dei disegni in dissolvenza incrociata. Nel suo ultimo film “Doppio ritratto” l’artista torna a riprendere se stessa, il proprio corpo, rinunciando al controllo della cinepresa. Si abbandona all’idea di un cinema che non si può dominare, un linguaggio automatico che la oggettivista, facendola sparire dal suo autoritratto. Di fronte al proprio farsi in immagine, al proprio oggettivarsi mediati dalla tecnologia, non si è più se stessi, non si è più soggetti, bensì OGGETTI che si offrono allo sguardo altrui. Ketty La Rocca aveva sperimentato le possibilità di incontro tra IMMAGINE e PAROLA in una chiave ironico-situazionista che sembrava mappare, nella psicogeografia di una donna in cerca di sé, le tappe di un’autodeterminazione per negazione. Francesca Gallo ne indaga e contestualizza le sperimentazioni video e ricorda che la negazione significa impossibilità di far proprio un linguaggio avvertito come estraneo, desiderio di ripartire da una COMUNICAZIONE PRE-VERBALE. Non c’è modo secondo La Rocca di muoverci in questo linguaggio svuotati dalla società dell’informazione e dei media che sembra aver scollato la tenuta tra soggetto e realtà. La Rocca interessata alla comunicazione di massa. Inizierà le sue sperimentazioni con il videotape “Appendice per una supplica” 1972, “Opera o comportamento”. “Immagine” l’immagine di una goccia. La sua metodologia è da collegarsi alla dimensione temporale, spiega il passaggio da un medium all’altro. Parla di “tempo della visione” e “tempo dell’immagine” “Resemblances” 1976 torna la goccia ma tridimensionalmente. Tale goccia è bloccata nella sua caduta, la forza di gravità è arrestata nel suo compiersi. Non solo il tempo, ma anche il luoghi diventano virtuali. Lo spazio è lo spazio psicologico, spostato dalla naturale fenomicità, dove possiamo cogliere non le cose in sé ma le tracce. Disegno, fotocopia, calco, gioco di trasparenze, mettono lo spettatore di fronte ad un’immagine che è sempre inconoscibile nella sua interezza. “Le mensole” è il punto d’arrivo. L’immagine è rotta, frammentata, a deflagrare è l’identità molteplice, non restituibile con un’unica immagine. Svincolarsi dalla rappresentazione è una forma di liberazione. “Imago” è la pellicola che meglio esplicita i discorsi sul desiderio profondo dell’immagine e sulla possibilità di afferrarla, ma anche sul rapporto tra somiglianza e somiglianza. Riprende le sue stesse mani mentre compiono i gesti dello sviluppo fotografico. La sua non è solo ricerca del senso dell’immagine, ma anche il proposito di utilizzare l’immagine come ricerca del TUO senso, come se non esistesse nessun al di là delle immagini. La sua riflessione sulla somiglianza ci fa capire come le immagini, passando da un medium all’altro non sono altro che il banco di prova di tale CONSAPEVOLEZZA. L’identità e il riconoscimento del soggetto si trovano nelle pause, nelle fratture. Ritorno alla DIFFERENZA Lina Mangiacapre, con il suo gruppo Nemesiache a Napoli, punta a liberare la creatività delle DONNE. Il ritorno alla differenza per lei è il punto di approdo di una concezione dell’arte fiorita nell’unione del molteplice. Sperimentatrice diretta a cercare la misura adatta alla realizzazione della creatività femminile originaria, più che a seguire correnti o mode. La storia delle donne non si restituisce esclusivamente per il tramite della narrazione classica, ma si impone per mezzo dell’IMMAGINAZIONE stimolata dalle possibilità metamorfiche del mito, materia fluttuante, mai uguale a se stessa. Cerca una comunicazione che aderisca pienamente alla civiltà dell’immagine, definitivo superamento di quella del concetto filosofico-logico. Sul corpo il collettivo sperimenta il MITO (pensiero mitosofico), disposto alla costante trasformazione dei travestimenti. “Cenerella”, “Le Sibille” Il cinema completa il percorso di analisi del sé, perché è per intero un metodo di autocoscienza epifania. Città e donna sono un tutt’uno e procedono nelle potenzialità metamorfiche del linguaggio cinematografico. “Didone non è morta” regina fenicia, emblema della donna ferita e abbandonata, portata alla morte dal rifiuto di un uomo. Il superamento dei confini spaziali e temporali è completo, il cinema può dare alla fusione di dimensioni apparentemente distanti, ma nella realtà pronte a compenetrarsi. “Faust-Fausta” Faust soffre perché avverte i limiti della conoscenza umana, la sua ricerca fallimentare lo porta all’abbrutimento. La mancata accettazione della condizione mutante (androgino) in un’epoca in cui essa è il presupposto per inaugurare una nuova epoca creativa, comporta la distruzione. SECONDA PARTE: paesaggi più recenti animati da artiste contemporanee, ci si imbatte in un fascinoso prato, percorso dalle luci intermittenti delle lucciole. A evocarlo è Elena Marcheschi, innescando una sorta di staffetta botanica che trasforma, con un trucco di montaggio, l’immagine del giardino nello spazio selvaggio e illimitato di una natura tanto resistente quanto residuale. Ciò che a prima vista appare come una massa verdeggiante e uniforme, si rivela subito, come un territorio vivificato da una miriade di specie distinte. Per comprendere spazi ignori le mappe consuete devono lasciare il posto a strumenti di orientamento non ancora testati, per sviluppare nuove forme di apprendimento, nuovi codici espressivi e modelli di comunicazione. Huberman scrive un libro sulla scorta di una riflessione che vuole fungere anche come riabilitazione e rivalutazione del pensiero non correttamente inteso o sottovalutato. Riprende l’immagine poetica della lucciola delineata da Pasolini, ma ribalta la questione e punta l’attenzione non tanto sulle condizioni del reale quanto sulla nostra capacità di vedere: le lucciole non sono scomparse, è la nostra capacità di osservare, il nostro sguardo che è cambiato, incapace di riconoscere la loro intermittenza e carica di poesia, poiché sottoposto a un inquinamento visivo di immagini-flusso che ci frastornano, ci disorientano. Questo per dire che se è vero che per lungo tempo gli studi e la critica hanno dedicato uno spazio marginale all’osservazione e all’interpretazione della ricerca audiovisiva sperimentale femminile è anche vero che recentemente c’è uno sguardo più vigile, sensibile, tuttavia rimane difficile immaginare questo fenomeno come la manifestazione di un fenomeno compatto e coerente. La natura “fuori norma” dell’universo audiovisivo sperimentale si apre su tracciati reticolari che vedono la compresenza di dispositivi diversi per la creazione di immagini. Il video ha determinato la fine di specificità. Ha rappresentato un territorio di incontro e osmosi delle tante discipline artistiche. Processi che si sono rafforzati con il digital turn. In questo scenario diventa protagonista il computer. Il testo di Giuliana Cunéaz solleva la questione sulla New Media Art, che si innesta sul concetto di postmedialità. Postmediale è tutto quello che riguarda la relazione tra naturale e artificiale, tra leggenda, arte e scienza, in un dialogo che si dipana tra immaterialità digitale e concreta tangibilità. Lischi sottolinea come non ci sia un’attenzione rispetto alla presenza femminile. Eleuteri Servirei mostra con le sue opere una vasta quantità di tecnologie. La memoria in particolare come ricerca del proprio passato familiare, nonché l’osservazione del corpo e dei volti delle donne, a partire dal contesto della famiglia. Rintraccia brandello di storia e memoria che tra presenze e assenze, tra storia personale e storia collettiva, le consentono una maggiore comprensione e ricostruzione del sé. Per Chiara Cremaschi il punto d’approdo è il documentario di creazione, la produzione dell’autrice interroga la storia che emerge dalla tracce filmiche attraverso un avvicinamento, un lavoro corpo a corpo con i materiali di archivio quasi a trasformarne la dimensione temporale in un atto restituito di profonda rigenerazione. Il saggio di Deborah Toschi sul lavoro di Giorgia Lupi mette in evidenza una analoga propensione alla ricerca e allo scandaglio di materiali esistenti. Il territorio esplorato da Lupi è quello della data visualization, ovvero una disciplina che consente di tradurre una mole imponente di informazioni digitali in una visualizzazione. Silvia de Gennaro attraverso un minuzioso lavoro di ritaglio e cucitura di immagini fotografiche, le città che rappresenta appartengono solo in parte al contesto reale, attestandosi sul piano dell’immaginario, come se ogni dettaglio, ogni particella dei vari luoghi fosse entrata in un sistema di filtraggio emotivo e artistico. Pazientemente raccoglie dati, osserva, scompone la realtà per ricomporla in piccole sinfonie urbane dettate dal ritmo del suo viaggio interiore, vivendo l’incontro con l’altrove anche come un’opportunità di riflessione sulle diverse realtà sociali. Giuliana Cunéaz utilizza tanti media e linguaggi, dalla pittura al video alla fotografia. Pioniera dell’uso artistico dell’immagine di sintesi e del 3D in Italia, esplora le geometrie naturali nei rapporti con la tecnologia, forme visibili che diventano astrazioni suggestive e perfette. Oggi è definita “New Media Art”, tecnologie di medie coniugati con le recenti ricerche proposte dalla scienza. “Angeli” videoinstallazione 1989 la LUCE e la cattura del quasi invisibile vengono esplorati attraverso fotografie in bianco e nero di sculture. 
 “Il silenzio delle fate” 1990, 24 leggii musicali in ferro, ciascuno è collocato in un luogo caratterizzato dalla memoria di una leggenda sulle fate. Sono opere in cui la dimensione scultorea, fotografie di varie dimensioni, superfici, ombre interagiscono con lo spazio in cui sono collocate e con la luce. Si aggiunge l’elemento del dialogo fra epoche e fra materie, quella MATERIALE e quella IMMATERIALE, quella materiale si manifesta nell’uso di ferro, marmo e quella immateriale nelle ombre, tracce, invisibile. Al tema della luce si aggiunge lo SPIAZZAMENTO PERCETTIVO, l’illusione ottica e la disposizione anomala ed eretica degli schermi nello spazio. L’avvento del DIGITALE alla fine del secolo influisce sulle possibilità di nuove rappresentazioni. Le simulazioni consentite dall’immagine numerica stabiliscono un dialogo con le immagini della scienza. I territori di ricerca sono: condizione femminile, il corpo, il potere, la memoria, l’identità, l’autorappresentazione, le insidie di un’immagine distorta e stereotipata. Per esempio Maria Klonaris e Katerina Thomadaki guardano criticamente alla scienza e alla tecnologia attraverso le riflessioni sul corpo e le sue mutazioni, sul sogno, vi giocano un ruolo il mito, il cosmo e la dimensione onirica. Dear data racconta la possibilità di una amicizia nata e basata sulla condivisione di informazioni personali, raccolte e organizzate attraverso registri di visualizzazione→concetto Data Humanism “Bruises-The Data We Don’t See” 2017 l’opera nasce dalla necessità di confrontarsi con l’esperienza della malattia e i dati da comprendere e tradurre i referti clinici e il diario patologico di Kaki King, la quale aggiunge delle note personali sulle sue paure, ansie, speranze. Sottolinea la propria fiducia nei confronti dei dati e del monitoraggio come strumenti di comprensione della realtà, di controllo “Ma poi, che cos’è un nome?” Nasce da una ricerca sui dogli del censimento degli ebrei. Floria Sigismondi realizza dei music video. Ci troviamo in un panorama in cui forme e stilemi si ibridano, si sovrappongono e si rimediano. Sigismondi ispirata dal Surrealismo, attinge alle visioni più intime che prendono forma nella finestra spazio-temporale tra conscio e inconscio, sonno e veglia. La sua estetica si rifà al post-human, disturbante, la pulsione per la morte, il mostruoso, straniamento. (Es: Marilyn Manson, David Bowie, Katy Perry) La presenza centrale è data al corpo del performer pronto a sedurre. Nel 2010 pubblica il suo primo film “The Runaways” e poi “Twilight” Avvia poi un progetto che va in una direzione più sperimentale della tendenza a creare l’immaginario di una weirdness seducente, quello scarto dalle idee precostituite di bellezza e di normalità. Ha fatto tornare il televisore lo strumento creativo per eccellenza, medium alle origini delle sperimentazioni dell’arte video. Silvia De Gennaro realizza opere di videoarte e animazione. La emozione nei suoi lavori si traduce in quei dettagli che l’artista sceglie di isolare per raccontare la sua esperienza. Il movimento attraverso lo spazio, vagare in aspetti più o meno turistici delle città, ci apre le porte su un mondo ricostruito attraverso il suo sguardo. Le tematiche centrali sono legate principalmente alla società in cui viviamo, alle contraddizioni quotidiane del mondo che ci circonda e vengono raccontate dall’artista ricorrendo anche all’animazione. Il progetto Travel Notebooks= il suo lavoro assume i tratti di un diario di viaggio sul quale vengono segnati gli appunti di un’esperienza. Realizza dei collage digitale. Le città coinvolte sono 11 (Perugia, Amsterdam, Pechino, Taranto, Praga, Barcellona, Venezia, Kardzhali, Bilbao, Marsiglia, Dubai, Roma), come un viaggio nel viaggio, un movimento tra gli spazi cittadini così come sono stati colti dall’artista. Per i suoi video-viaggi utilizza una varietà di formati, coincide con la trasmissione delle sensazioni legate alla città: formati più estesi permettono un respiro maggio delle immagini, lasciano più spazio ai movimenti; i video in verticale permettono un raccoglimento maggiore e trasmettono oppressione e claustrofobia, in altri senso di protezione e conservazione del ricordo. Le foto più significative vengono isolate e assemblate tra loro per ricostruire una nuova immagine di una città. Il richiamo al surrealismo affiora soprattutto nell’accostamento di immagini e dettagli che non seguono necessariamente una logica, ma si lasciano andare a libere associazioni mentali ed emotive. I dettagli selezionati diventano portavoce della memoria dell’artista. Il viaggio non è solo una forma di sightseeing ma si fa veicolo di tematiche sociali che affiorano in particolare nel video di Taranto e Dubai. La modernità ha fagocitato lo spazio urbano, lasciando la prima in uno stato di abbandono e precarietà, rendendo l’altra territorio abitato solo dalla logica del denaro e della speculazione edilizia, dove il deserto è soprattutto quello dell’assenza di relazione umane.
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