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Riassunto "Compendio di procedura penale" Conso Grevi, Sintesi del corso di Diritto Processuale Penale

Sintesi precisa ed efficace del libro "Compendio di procedura penale" di Conso e Grevi, utile per la preparazione dell'esame di Procedura penale. Esame passato con ottimi voti.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 13/09/2023

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Scarica Riassunto "Compendio di procedura penale" Conso Grevi e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! I COMPENDIO DI PROCEDURA PENALE Giovanni Conso – Vittorio Grevi INTRODUZIONE 1 1. La procedura penale italiana tra le incertezza della XVIII legislatura repubblicana 1 2. La necessità di concentrare l’attenzione sulla disciplina via via in vigore 1 3. Prima chiave di lettura: il passaggio da una legislazione nata per delega a una legislazione divenuta estremamente composita 1 4. Seconda chiave di lettura: i rapporti tra rito ordinario e riti speciali 1 5. Terza chiave di lettura: l’introduzione del giudice unico togato di primo grado e poi, anche, del giudice di pace 2 6. Quarta chiave di lettura: l’inserimento in Costituzione dei princìpi del “giusto processo”, a cominciare dalla sua “ragionevole durata” 2 IL SISTEMA DELLE “FONTI” DEL DIRITTO PROCESSUALE PENALE 3 1. Dalla dogmatica processuale al sistema 3 2. Le fonti legislative sovraordinate 3 3. Le fonti normative ordinarie primarie e secondarie 4 4. Le fonti giurisprudenziali 5 5. Le fonti letterarie 6 6. I nuovi orizzonti del diritto processuale penale 6 7. L’attuazione delle decisioni quadro del Consiglio dell’Unione europea 6 8. Navigazione a vista 6 CAPITOLO I. I SOGGETTI 7 1. Premessa 7 2. La giurisdizione penale 7 4. Questioni pregiudiziali e sospensione del processo 8 5. La competenza: per materia, per territorio e per connessione 8 6. Segue: la c.d. competenza funzionale 10 7. Le “attribuzioni” del tribunale 10 II 8. La disciplina della riunione e della separazione dei processi 11 9. I procedimenti di verifica della giurisdizione e della competenza 11 10. Il controllo sul corretto riparto di “attribuzioni” fra tribunale “monocratico” e tribunale “collegiale” 12 11. Le cause personali di estromissione del giudice: incompatibilità, astensione e ricusazione 13 12. La rimessione del processo 14 13. La posizione di parte del P.M. e la sua funzione tipica 16 17. Uffici del P.M. distrettuale 16 18. Le funzioni e i soggetti di polizia giudiziaria 18 19. L’organizzazione della polizia giudiziaria e la sua dipendenza funzionale dall’autorità giudiziaria 18 20. I rapporti di subordinazione 19 21. L’imputato e la persona sottoposta alle indagini 19 22. Le dichiarazioni rese dall’imputato 20 23. L’interrogatorio 21 24. L’identificazione e l’esistenza in vita dell’imputato 22 25. Infermità mentale e partecipazione cosciente 23 26. La parte civile: legittimazione, costituzione ed esodo dal processo penale 24 27. Segue: i rapporti tra azione civile da reato e azione penale 25 28. Il responsabile civile 25 29. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l’ente responsabile per l’illecito amministrativo dipendente da reato 26 30. La persona offesa dal reato 27 31. I diritti e le facoltà della persona offesa 27 32. Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato 28 34. Il difensore di fiducia dell’imputato 29 35. Il difensore d’ufficio 30 39. Le garanzie di libertà del difensore 31 43. Gli ausiliari del giudice e del P.M. 31 CAPITOLO II. ATTI 31 1. Premessa 31 V 25. L’applicazione provvisoria di misure di sicurezza 78 26. La riparazione per l’ingiusta detenzione 79 27. Le misure cautelari reali: a) il sequestro conservativo; b) il sequestro preventivo; c) i rimedi avverso i provvedimenti di sequestro 80 CAPITOLO V. INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE 81 1. Le indagini preliminari: finalità e caratteri essenziali 81 2. I protagonisti dell’attività investigativa 82 3. Il segreto sugli atti di indagine 83 4. I diritti della difesa e il ruolo delle parti private 84 5. Il ruolo del g.i.p. 84 6. L’avvio del procedimento: la notizia di reato 85 7. Segue: l’iscrizione della notizia di reato nel registro ex art. 335 85 8. Segue: denuncia dei pubblici ufficiali, denuncia dei privati, referto 86 9. Gli ostacoli alla progressione: le condizioni di procedibilità 87 10. Segue: il difetto di una condizione di procedibilità e la riproponibilità dell’azione penale 87 11. Segue: querela, istanza e richiesta di procedimento 87 12. Segue: autorizzazione a procedere e autorizzazioni ad acta 88 13. L’attività di indagine della polizia giudiziaria: l’obbligo di riferire la notizia di reato 89 14. Segue: le attività investigative tipiche e atipiche 90 15. Segue: l’identificazione della persona sottoposta alle indagini e delle altre persone 91 16. Segue: le sommarie informazioni 91 17. Segue: perquisizioni, accertamenti urgenti, acquisizione di plichi 92 18. L’attività di indagine del P.M.: atti diretti e atti delegati 93 18. Segue: il coordinamento investigativo 93 20. Segue: attività di indagine tipica e atipica 94 21. Segue: i consulenti tecnici del P.M. e gli accertamenti tecnici non ripetibili 94 22. Segue: il prelievo di campioni biologici e le indagini genetiche 95 23. Segue: l’assunzione di informazioni e l’individuazione di persone e di cose 96 24. Segue: l’interrogatorio dell’indagato 97 VI 25. La documentazione degli atti della polizia giudiziaria e del P.M. 98 26. Le misure precautelari 98 27. Segue: l’arresto in flagranza 99 28. Segue: il fermo di indiziato di delitto 100 29. Segue: l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare 100 30. Segue: il procedimento di convalida 100 31. Il diritto di difesa nelle indagini: la conoscenza dell’accusa e l’accesso al registro delle notizie di reato 102 32. Segue: la nomina del difensore e il ruolo della difesa tecnica 103 33. Segue: l’assistenza del difensore agli atti di indagine del P.M. e della polizia giudiziaria 103 34. Segue: le investigazioni difensive 104 35. Segue: l’acquisizione di notizie dalle persone informate sui fatti 104 36. Segue: la richiesta di documenti alla p.a. e l’accesso ai luoghi 105 37. Segue: gli atti irripetibili 106 38. Segue: il valore probatorio degli atti compiuti dal difensore 106 39. L’intervento del giudice per la prova: l’ambito applicativo dell’incidente probatorio 107 40. Segue: il procedimento 108 41. La chiusura delle indagini preliminari: ragionevole durata del procedimento e limiti al potere investigativo 109 42. Segue: i termini di durata massima delle indagini e il procedimento di proroga 110 43. Segue: un nuovo e autonomo termine “finale” per la chiusura della fase preliminare 111 44. Le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale e l’avviso di conclusione delle indagini preliminari 111 45. L’archiviazione della notizia di reato: i presupposti 112 46. Segue: l’archiviazione per particolare tenuità del fatto 112 47. Segue: il procedimento di archiviazione 113 48. Segue: l’opposizione dell’offeso dal reato alla richiesta di archiviazione 113 49. Segue: il procedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto 114 50. Segue: l’impugnazione del provvedimento di archiviazione 114 51. Segue: i poteri di controllo del g.i.p. sull’obbligo di agire 114 52. Segue: il controllo sull’obbligatorietà dell’azione del procuratore generale presso la corte di appello e il potere di avocazione 115 VII 53. Segue: la riapertura delle indagini 116 54. Segue: l’archiviazione per essere ignoto l’autore del reato 116 55. L’udienza preliminare: premessa 117 56. Segue: la richiesta di rinvio a giudizio e gli atti introduttivi 117 57. Segue: gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti 118 58. Segue: lo svolgimento dell’udienza e le integrazioni probatorie 120 59. Segue: la modifica dell’imputazione 120 60. Segue: la sentenza di non luogo a procedere e la sua revoca 120 61. Segue: il decreto che dispone il giudizio e la formazione dei fascicoli 122 62. L’attività integrativa di indagine 123 CAPITOLO VI. PROCEDIMENTI SPECIALI 124 1. Considerazioni introduttive sulla nozione di “specialità” 124 2. Ragioni della “specialità” 124 3. Rapporti fra i procedimenti speciali 125 4. Giustizia “consensuale” e corrispondenti forme di specialità 125 5. Procedimento di oblazione 126 6. Offerta riparatoria finalizzata alla declaratoria di estinzione del reato 126 7. Applicazione della pena su richiesta delle parti 126 8. Segue: introduzione e svolgimento procedurale 128 9. Segue: la sentenza 129 10. Segue: azione civile e patteggiamento 130 11. Giudizio abbreviato. Ambito di applicazione, presupposti e contenuto della richiesta 130 12. Segue: termini per la richiesta e decisioni sull’ammissibilità 130 13. Segue: svolgimento procedurale 132 14. Segue: la sentenza 133 15. Sospensione del processo con messa alla prova 134 16. Segue: fase introduttiva 135 17. Segue: durata e vicende della sospensione del procedimento con messa alla prova 136 18. Segue: decisioni conclusive 136 X 22. La cognizione del giudice di appello: a) il principio del tantum devolutum quantum appellatum e le sue eccezioni 172 23. Segue: b) rapporti fra cognizione del giudice di appello e contenuto della decisione; il divieto della reformatio in peius 173 24. Giudizio di appello in camera di consiglio e concordato anche con rinuncia ai motivi di appello 173 26. Atti preliminari al giudizio di appello 174 27. Dibattimento di appello: a) linee generali 175 28. Segue: b) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale 175 29. Sentenze conclusive del giudizio di appello 176 30. Il ricorso per cassazione: premessa 178 31. Ricorribilità oggettiva e soggetti legittimati 178 32. Motivi di ricorso e cognizione della Corte di cassazione 179 33. Problematiche relative all’art. 606, co. 1, lett. e 180 38. Sentenze conclusive del giudizio di cassazione: a) deliberazione e tipologia 181 39. Segue: b) annullamento senza rinvio 182 40. Segue: c) annullamento con rinvio 183 42. Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto 183 43. Il giudizio di rinvio: a) poteri del giudice di rinvio e loro limiti 185 44. Segue: b) svolgimento del giudizio di rinvio e impugnazione della decisione conclusiva 186 46. La revisione: premessa 187 47. Soggetti legittimati, casi “classici” di revisione e relativi limiti 188 48. “Revisione europea” e regole peculiari 189 49. Competenza e verifica preliminare di ammissibilità della richiesta di revisione 190 50. Il giudizio di merito 190 51. La sentenza di rigetto o di accoglimento 191 54. La rescissione del giudicato 191 1 INTRODUZIONE 1. La procedura penale italiana tra le incertezza della XVIII legislatura repubblicana L’ossatura del sistema processualpenalistico italiano si regge sul Codice di procedura penale del 1988, en- trato in vigore nell’Ottobre del 1989. Esso si divide in due parti (quella statica e quella dinamica) e in 11 libri (“Soggetti”; “Atti”; “Prove”; “Misure cautelari”; “Indagini preliminari e udienza preliminare”; “Procedimenti speciali”; “Giudizio”; “Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica”; “Impugnazioni”; “Esecuzione”; “Rapporti giurisdizionali con autorità straniere”): una scansione rivelatasi felice, e che ha potuto reggere ai mutamenti arrecatigli senza posa per oltre tre decenni. 2. La necessità di concentrare l’attenzione sulla disciplina via via in vigore [1] 3. Prima chiave di lettura: il passaggio da una legislazione nata per delega a una legisla- zione divenuta estremamente composita La prima chiave di lettura rimanda alla “vera” origine del codice del 1988 che, in quanto legato a una legge delega (l. 81/1987), impone di distinguere ciò che del testo iniziale è rimasto inalterato da ciò che è frutto di successiva legislazione diretta o di statuizioni della Corte costituzionale. Il ripetuto sovrapporsi di piani così diversi rende l’interpretazione sistematica non certo semplice. Tipico in proposito è il continuo variare della stessa impostazione di fondo, che avrebbe dovuto condurre il nuovo codice ad attuare non solo “i princìpi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”, ma anche “i caratteri del sistema accusatorio”, inteso secondo i princìpi di “massima semplificazione nello svolgimento del processo”, “adozione del metodo orale” e “partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento”: princìpi e criteri coinvolti dal vortice di modificazioni apportate dal legislatore, dalla Corte costituzionale o dalla giurisprudenza. 4. Seconda chiave di lettura: i rapporti tra rito ordinario e riti speciali Un’altra chiave di lettura conduce a dedicare massima attenzione ai rapporti tra il rito ordinario e i riti speciali. Si intende “ordinario” il procedimento che, dopo le indagini preliminari del P.M. non concluse dall’ar- chiviazione della notizia di reato, giunge all’udienza preliminare e, non potendosi chiudere con sentenza di non luogo a procedere, sfocia nel giudizio imperniato sul dibattimento. Vi sono, poi, i riti etichettati dal codice come “speciali” (il giudizio abbreviato, il patteggiamento, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato, il procedimento per decreto, il procedimento di oblazione, la sospensione del procedimento con messa alla prova). Essi si collocano nel cuore del sistema, come emerge dal confronto tra il progetto di codice del 1978 e il nuovo codice: il secondo amplia notevolmente i riti speciali. Il progetto del 1978 aveva mirato a esaltare il dibattimento, suscitando però non poche critiche soprattutto su due fronti: la persistenza dell’ipoteca istruttoria sul giudizio, e l’iperbolica utilizzazione del dibattimento. Con il codice del 1988 i residui dell’istruzione e la figura del giudice istruttore sono stati spazzati via, ma il dibattimento non è stato valorizzato al punto di tradursi nella finalità preminente del sistema: in alternativa vi si pongono i riti speciali. Per meglio evidenziare la funzione e il ruolo dei riti speciali, si parla anche di deflazione dibattimentale, di risparmio di costi e di effi- cienza del sistema. In relazione alla prima, il codice del 1988 vira verso il dibattimento “soltanto” quando nessuna delle vie che ne prescindono si sia rivelata percorribile: un rito quasi residuale, diffusamente discipli- nato, ma non privilegiato. Inoltre, i riti alternativi vanno distinti in due categorie: alla deflazione dibattimentale sono preordinati il giudizio abbreviato, il patteggiamento, il procedimento per decreto penale, la sospensione del procedimento con messa alla prova e il procedimento di oblazione; ben diversa collocazione spetta al giu- dizio immediato e al giudizio direttissimo, che anzi si identificano col dibattimento anticipandolo. I procedi- menti speciali trovano perciò il loro comune denominatore non nell’alternativa al dibattimento, ma nello snel- limento processuale, nell’economia dei giudizi e nella riduzione dei costi, nella contrazione del processo. Il codice si è spinto molto avanti lungo questa strada, facendo largo posto all’istituto del consenso e riducendo le possibilità di esercizio dell’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno ex art. 185 c.p. Da un 1 Il paragrafo è un’indicazione della finalità dell’opera e una presentazione delle seguenti quattro chiavi di lettura 2 punto di vista processuale, persegue scopi deflattivi del dibattimento anche la causa di esclusione della puni- bilità per particolare tenuità del fatto – quando la sua sussistenza comporta la richiesta di archiviazione da parte del P.M. – e l’istituto dell’estinzione del reato per condotte riparatorie. 5. Terza chiave di lettura: l’introduzione del giudice unico togato di primo grado e poi, anche, del giudice di pace Nel 1999 è stato istituito il giudice unico togato di primo grado, sopprimendo la pretura – e il relativo, neoistituito, ufficio del P.M.: le relative competenze sono state assorbite da parte del tribunale e della relativa procura della Repubblica, nell’intento di pervenire a una gestione più “economica” della giustizia, così rivo- luzionando strutture ordinamentali, prassi organizzative, distribuzione di compiti tra i vari giudici, normative processuali. Lo snellimento perseguito è stato sensibilmente minore di quanto qualcuno avrebbe potuto rite- nere: alla tradizionale distinzione tra procedimenti per reati di competenza del tribunale e procedimenti per reati di competenza del pretore, è subentrata la distinzione tra procedimenti per reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale e quelli attribuiti al tribunale in composizione monocratica; lo stesso libro VIII del codice, da “Procedimento davanti al pretore”, è stato semplicemente rinominato “Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica”, pur rimanendo quasi invariato nel contenuto – rinviando, per il resto alla disciplina dei procedimenti per i reati attribuiti alla composizione collegiale. L’ampliamento delle ipotesi criminose sottratte al collegio ha reso necessario la ricerca di nuove garanzie, condensatesi nella nuova udienza di comparizione su citazione diretta da parte del P.M. Ne emerge una sensazione di pesantezza suscitata dalla pluralità di binari offerti in prospettiva dai procedimenti ordinari di tribunali, col rischio di errori e confusioni. Considerazioni in parte analoghe si possono ripetere con riguardo alla competenza penale devoluta al giudice di pace, nell’intento di sottrarre al giudice togato di primo grado il carico costituito da quei reati di minore gravità non ritenuti passibili di depenalizzazione. 6. Quarta chiave di lettura: l’inserimento in Costituzione dei princìpi del “giusto pro- cesso”, a cominciare dalla sua “ragionevole durata” Essa è la più problematica delle chiavi di lettura, per quel bisogni di concretizzazione a livello di normativa ordinaria che le previsioni di natura costituzionale comportano e per le difficoltà insite in quest’operazione, anche data la novità assoluta degli specifici enunciati introdotto nell’art. 111 Cost. Mentre i due attuali commi iniziali di quest’ultimo hanno portata generalissima, riferendosi a ogni tipo di processo avente natura giurisdi- zionale, gi altri tre appaiono riferiti al solo processo penale, perdipiù con enunciazioni talora sin troppo detta- gliate. Il che non toglie che spazi di valutazione restino a disposizione della dialettica “giudici a quibus-Corte costituzionale”. L’auspicio è che vi sia parsimonia nel sollevare questioni di legittimità costituzionale con riferimento ai nuovi 5 commi dell’art. 111 Cost. e ancora più nell’accoglierle. La Corte costituzionale dovrà poi superare il troppo semplicistico schema che l’aveva portata a intendere per “equo processo” l’insieme dei parametri allora dedicati dalla Costituzione al problema della giustizia: ciò non è ormai più possibile, a causa dell’autonomia riconosciuta al concetto. Finalmente, potrà avere maggiore considerazione quanto le conven- zioni internazionali impongono da tempo al nostro Paese in tema di osservanza dei diritti umani: la giurispru- denza delle corti di Strasburgo e di Lussemburgo sono destinate a diventare strumenti di riferimento sempre più ineludibili per il nostro legislatore. Ostacolo di non lieve peso a questa osmosi sovranazionale potrà pro- venire dalla non piena coincidenza di contenuti, in entrambe le direzioni, tra l’art. 111 Cost. e l’art. 6 CEDU. In ogni caso, la crescita di garanzie attorno al nucleo rappresentato dal principio del contraddittorio consente di affermare che il nostro processo si sta caratterizzando in senso accusatorio. Il legislatore dovrà assicurare a ogni processo la sua ragionevole durata (art. 111, co. 2, Cost.): conseguentemente, le garanzie non potranno dilatarsi fino a rendere irragionevoli i tempi processuali. La stessa CEDU sottintende che, essendo oggetto di un diritto della persona umana, la ragionevole durata del processo va assicurata all’imputato tanto se innocente quanto se colpevole, data anche la presunzione di non colpevolezza. Incombe un vero paradosso sul nostro processo penale: la prescrizione del reato si trasforma, per chi ha torto, in una “ancora di salvezza”. Special- mente dopo che la l. 251/2005 ha ridotto i termini di prescrizione per molte fattispecie, e dopo che la l. 89/2001 (c.d. legge Pinto) ha spesso dato luogo a ritardi e contenziosi, occorrevano innovazioni che comportassero autentici mutamenti di rotta. Un tentativo in questo senso era stato effettuato dalla l. 103/2017, di modifica dell’art. 159 c.p.: il corso della prescrizione rimaneva sospeso dal termine per il deposito della sentenza di 5 disciplinato dal d.P.R. 448/1988, secondo cui, tra l’altro, “il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni”, e il d.lgs. 272/1989, che contiene le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del testo normativo di base. Il sistema della giustizia penale minorile è strutturato in modo da favorire il recupero della personalità deviata del minore, attraverso istituti che non si incentrano sulla componente repressiva della pena, ma che si caratterizzano per la loro funzione educativa. Andava poi superata la tradizionale logica assistenzia- lista della vecchia legge sul “gratuito patrocinio” (r.d. 3282/1923): si è così introdotta una disciplina che ga- rantisse il patrocinio a spese dello Stato per la “difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, con- dannato, persona offesa da reato, danneggiato, che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria” (d.P.R. 115/2002). Ciò non ha risolto del tutto i problemi per i “non abbienti”, ma è certamente un tentativo da parte del legislatore di attuare il principio di eguaglianza sostanziale ex art. 3, co. 2, Cost. La l. 69/2005 contiene poi le disposizioni adottate dall’Italia per conformare il diritto interno alla disciplina sul mandato d’arresto europeo. D’altro canto, molte importanti disposizioni si rintracciano nella legge sull’ordinamento penitenziario (l. 354/1975) e sul relativo regolamento. Per quanto riguarda il regime giuridico del trattamento carcerario degli indagati o degli imputati sottoposti a cu- stodia cautelare in carcere, il c.p.p. si ferma, con le sue previsioni garantistiche, alle soglie del carcere; le disposizioni sull’ordinamento penitenziario, le oltrepassano. Per coloro che invece sono condannati a pena detentiva con sentenza irrevocabile, per effetto della progressiva giurisdizionalizzazione della fase esecutiva, le varie previsioni concernenti l’intervento del giudice dell’esecuzione o della magistratura di sorveglianza nei confronti della posizione dei detenuti condannati hanno proiettato l’intervento del giudice ben oltre la forma- zione del giudicato penale. Tutti gli atti di buona volontà messi in atto si scontrano però col problema del sovraffollamento delle carceri. Il legislatore ha varato, nel 2010 e nel 2012, due leggi svuota-carceri, con le quali, nell’ipotesi in cui la pena da scontare non superi i 18 mesi, la detenzione in carcere può essere sostituita con la detenzione domiciliare – segnando però così un fallimento della funzione rieducativa della pena. Infine, la materia penitenziaria è stata riformata da tre decreti legislativi (d.lgs. 121, 123 e 124/2017). 4. Le fonti giurisprudenziali Le regole di diritto fissate dalle autorità dotate di potere giurisdizionale a conclusione di un procedimento principale o incidentale, in linea di massima, sono vincolanti solo per le parti in senso stretto; tuttavia, nella prassi del “diritto vivente”, esse costituiscono un dictum che fa da precedente, punto di riferimento per il con- solidamento degli ambiti interpretativi della norma. Per altro verso, le giurisdizioni superiori esprimono sta- tuizioni con valore vincolante diverso rispetto ai giudici di merito, da intendere come fonti del diritto. Le sentenze della Corte costituzionale declaratorie di incostituzionalità hanno un’efficacia immediata, dal mo- mento che la norma dichiarata in contrasto coi dettami costituzionali cessa di avere vigore, per tutti, dal giorno successivo a quello della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza. Invece, le sentenze interpreta- tive di rigetto, con cui la Corte costituzionale non accolgono la questione, ma interpretano in senso conforme a Costituzione le norme sottoposte al suo vaglio, non hanno efficacia erga omnes. La Corte di cassazione ha tra le sue attribuzioni essenziali quella di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale (c.d. funzione nomofilattica), che si evidenziano in particolar modo con le decisioni delle sezioni unite: l’art. 618, co. 1, c.p.p. dice che “se una sezione della corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurispru- denziale, su richiesta delle parti o di ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle sezioni unite”; altret- tanto deve fare se ritiene di non condividere un principio già enunciato dalle stesse sezioni unite. Importanza notevole hanno le decisioni della Corte EDU, che hanno valore vincolante per le altre parti contraenti, le quali si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parte. Si tratta di un impegno politico spesso disatteso nel nostro Paese. La Corte costituzionale, smentendo il proprio orien- tamento precedente, ha dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU. È inoltre in atto uno sforzo dei giudici ordinari di merito e della stessa Corte di cassazione per escogitare strumenti compatibili coi princìpi generali del nostro sistema processuale: o per dichiarare inefficace, in ipotesi del genere, il giudicato 6 definitivo, oppure per superarlo, attraverso una nuova pronuncia che tenga conto delle decisioni di Strasburgo. Anche le decisioni della CGUE hanno valore vincolante. 5. Le fonti letterarie Commentari, trattati, manuali, articoli, note a sentenza e dibattiti su riviste specializzate vengono presi in con- siderazioni nella prassi forense assai sporadicamente, e hanno perso il potere formale di consulenza legale che detenevano un tempo. Eppure, la qualità dei prodotti scientifici è molto apprezzabile, sicché non meriterebbe di essere ridotta a semplice flatus vocis. 6. I nuovi orizzonti del diritto processuale penale L’analisi de futuro si può compiere secondo tre linee principali. Si consoliderà certamente il fenomeno dell’in- ternazionalizzazione delle “fonti” della procedura penale ̧dopo l’entrata in vigore del Trattato dio Lisbona, l’applicazione delle norme sovranazionali da parte degli organi giudiziari italiani deve rappresentare un prius inderogabile. Si rafforzerà la cooperazione internazionale, per affrontare la c.d. criminalità transnazionale (es.: mandato di arresto europeo, coordinamento tra Stati per l’esecuzione delle pene detentive, assistenza giuridica internazionale). Secondo fenomeno è quello dell’espansione del diritto processuale penale in settori che ne erano distanti, come quello delle misure di prevenzione. Infine, si formalizzerà un diritto processuale penale speciale, l’insieme di norme che si possono ricavare da leggi speciali e che consentono di identificare funzioni e ruolo non riconducibili puramente e semplicemente a quelli previsti dal c.p.p. Le fonti tradizionali del diritto processuale penale, al contrario, si presentano sempre più datate, necessitando di aggiornamenti e allargamenti in molte direzioni. La rilevanza della dimensione sovranazionale e internazionale del diritto processuale penale impone di considerare tra le fonti de quibus almeno quelle che disciplinano il funzionamento della CGUE e della Corte EDU, e i relativi bollettini ufficiali. I problemi che alimentano il diritto penitenziario, poi, hanno incidenza diretta sul diritto processuale penale: quest’ultimo si ferma alla soglia del carcere, mentre la vera compromissione della salute fisica o mentale del detenuto, in esecuzione di pena detentiva o di una misura di sicurezza o di un’ordinanza di custodia cautelare, inizia una volta varcata la soglia. Bisogna spostare lo sguardo sulla “persona” privata della sua libertà personale, onde affidarne uno status che garantisca un regime peniten- ziario rispettoso della dignità e scevro da trattamenti inumani e degradanti. La Corte EDU ha più volte con- dannato l’Italia su questo fronte, e il legislatore ha risposto con varie leggi. La l. 10/2014 reca misure in tema dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, e oltre a modificare il c.p.p. e l’ord. penit., ha istituto il “garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”. La successiva l. 67/2014 ha conferito al Governo deleghe in materia di pene detentive non carce- rarie e di riforma del sistema sanzionatorio, e ha introdotto l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. La legislazione è ulteriormente aumentata, e con la l. 7/2016 il legislatore ha abrogato alcuni reati e modificato il c.p., oltre a introdurre la categoria dei cc.dd. “illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili”. La l. 8/2016 ha provveduto poi a un’ampia “depenalizzazione”. Tutte queste modifiche non rispec- chiano né il principio di stretta legalità processuale, né quello della garanzia effettiva della presunzione di innocenza. È inoltre in movimento il fronte relativo al coordinamento tra le Corti regolatrici europee e na- zionali. La Corte EDU ha affermato che allorché il giudice nazionale di ultima istanza si rifiuti di effettuare un rinvio pregiudiziale interpretativo alla CGUE deve motivare tale rifiuto, altrimenti viola l’art. 6 CEDU. È infine in atto il progetto di adesione dell’UE alla CEDU. 7. L’attuazione delle decisioni quadro del Consiglio dell’Unione europea Il legislatore italiano si è finalmente orientato a dare attuazione, con altrettanti decreti legislativi, alle decisioni quadro adottate dal Consiglio dell’Unione europea3. 8. Navigazione a vista [4] 3 Il paragrafo prosegue con un’elencazione di alcuni dei decreti legislativi intervenuti nel biennio 2016-2017. 4 Il paragrafo costituisce di un’elencazione delle riforme in discussione tra XVII e XVIII legislatura 7 CAPITOLO I. I SOGGETTI 1. Premessa La distanza del c.p.p. del 1988 dal codice previgente si misura anche sul piano sistematico. Lo stesso libro iniziale del codice, il primo della c.d. parte “statica” (libri I-IV), disciplina i “soggetti”, e si apre col titolo dedicato al giudice – a differenza del codice previgente, il quale invece disciplinava anzitutto le azioni. Questa scelta mette in risalto la centralità della giurisdizione nell’ambito di un processo concepito come un sistema di garanzie. Negli altri sei titoli del libro I vengono presi in considerazione il P.M., la polizia giudiziaria, la parte civile col responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la persona offesa dal reato e il difensore. Restano comunque esclusi numerosi soggetti che compaiono sulla scena processuale (ausiliari del giudice, testi…). È inoltre opportuno tra “soggetto” e “parte”: solo quest’ultima vanta il diritto a una decisione giurisdizionale in rapporto a una pretesa fatta valere nel processo. Non sono parti il giudice, la polizia giudi- ziaria, la persona offesa e il difensore. 2. La giurisdizione penale In linea con l’art. 102, co. 1, Cost., l’art. 1 c.p.p. riserva l’esercizio della giurisdizione penale ai “giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario”. Soltanto il giudice può dunque essere titolare di funzioni giurisdizionali penali. La qualità di giudice è il risultato di un atto di investitura di potere regolato dalle leggi di ordinamento giudiziario. La normativa ordinamentale e quella codicistica sono in stretto raccordo: il valido esercizio della funzione giurisdizionale è fortemente condizionato dalla ritualità dell’investitura. Ex art. 178, “è sempre prescritta a pena di nullità [assoluta] l’osservanza delle disposizioni concernenti: a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessari per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordina- mento giudiziario”. La rilevanza che tali elementi assumono ai fini della validità degli atti di esercizio della funzione giurisdizionale è normativamente regolata: l’art. 33, co. 1, si limita a prevedere che le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi giudicanti sono stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario; nei 2 commi successivi, tuttavia, si individuano una serie di ipotesi dichiarate processualmente irrilevanti. Alla base di tale disposizione, sta anzitutto la difficoltà di costruire una disciplina di individuazione del giudice tanto rigorosa da eliminare qualsiasi spazio di discrezionalità in capo a organi amministrativi-giudiziari; in secondo luogo, le pesanti ipoteche e le complicazioni che graverebbero sulla vi- cenda processuale se si prevedesse la sanzione della nullità assoluta anche per questioni sottoponibili al sinda- cato degli organi amministrativi. Per queste ragioni si considerano non attinenti alla capacità del giudice (art. 33, co. 2) le disposizioni sulla sua “destinazione […] agli uffici”, sulla “formazione dei collegi” e sulla “asse- gnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici”. Quest’ultima categoria attiene non tanto alla capacità del giudice, quanto alla distribuzione delle cause tra giudici parimenti legittimati all’esercizio della funzione giu- risdizionale: l’art. 7-ter ord. giud. garantisce che l’assegnazione degli affari è operata dal dirigente dell’ufficio alle singole sezioni e dal presidente della sezione ai singoli collegi o giudici sula base di criteri oggettivi e predeterminati, indicati in via generale dal CSM. Anche le disposizioni relative alla formazione dei collegi non pertengono al requisito della capacità del giudice. La locuzione in esame sembra riguardare: a) le disposizioni che regolano la composizione dell’organo giudicante in caso di assegnazione di un numero di giudici superiori a quello necessario per la costituzione dell’ufficio; b) le disposizioni relative alle “supplenze” e alle “applica- zioni”. Per quanto attiene infine alle disposizioni sulla destinazione del giudice all’ufficio, esse sono sicura- mente riferibili al concetto di capacità. Tolto il limite del soggetto che non sia investito del potere giurisdizio- nale (es.: mancato conferimento delle funzioni giurisdizionali), che comporta l’inesistenza degli atti posti in essere dal non iudex, l’unico attributo rilevante ai fini di un’eventuale incapacità del giudice sembra essere quello della qualifica richiesta per l’esercizio delle funzioni giudiziarie che è chiamato a svolgere: tale vizio ricade nell’ambito di operatività dell’art. 178, co. 1, lett. a), dando luogo a una nullità assoluta. L’art. 33, co. 3, sancisce che l’attribuzione degli affari al giudice in composizione collegiale o monocratica non si considera attinente alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante: anche in questo caso ci si trova in presenza di disposizioni che attengono all’organizzazione interna dell’ufficio. 10 commesse in luoghi diversi e dal fatto è derivata la morte di una persona, si attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui si è verificato l’evento. Criteri particolari sono, inoltre, dettati per la connessione di procedi- menti di competenza di giudici ordinari e speciali (art. 13): nell’ipotesi di competenza concorrente tra Corte costituzionale e giudice ordinario, prevale la competenza della prima; nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario, vale la regola opposta – ma la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare. Per i procedimenti relativi a imputati che, al momento del fatto, erano minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni, la connessione non opera. 6. Segue: la c.d. competenza funzionale I giudici si diversificano inoltre non solo in base a coordinate esterne, ma anche in ragione della funzione che gli stessi svolgono nell’ambito di un medesimo procedimento. A tali suddivisioni, dottrina e giurisprudenza ricollegano il concetto di competenza funzionale. Partendo dalla suddivisione per gradi, si può distinguere tra giudice di pace, tribunale ordinario e corte di assise (giudici di primo grado), tribunale (in composizione monocratica), corte di appello e corte di assise di appello (giudici di secondo grado), corte di cassazione (giu- dice di legittimità). Per quanto riguarda l’articolazione in fasi: nella fase anteriore al giudizio, si trovano il g.i.p. e il g.u.p.; segue la fase del giudizio, con riferimento alla quale sono funzionalmente competenti il tribu- nale, la corte di assise, la corte di appello, la corte di assise di appello, la corte di cassazione; infine, la fase dell’esecuzione, in cui è competente la magistratura di sorveglianza, ulteriormente suddivisa in magistrato di sorveglianza (primo grado) e tribunale di sorveglianza (sia primo che secondo grado). 7. Le “attribuzioni” del tribunale Stabilito che in relazione a un certo reato deve giudicare il tribunale, si impone un ulteriore passaggio logico che permetta di stabilire se sia richiesta la composizione monocratica ovvero quella collegiale: si parla di riparto non più basato sul concetto di competenza, ma su quello di attribuzione. Il d.lgs. 51/1998, attuativo della deroga concessa dal Parlamento con l. 254/1997, nel dichiarato intento di realizzare una più razionale distribuzione delle competenze degli uffici giudiziari, ha previsto l’istituzione del giudice unico di primo grado. Alla soppressione dell’ufficio del pretore e alla conseguente possibilità per il tribunale di funzionare sia nella sua tradizionale composizione, sia nell’inedita composizione monocratica, ha fatto seguito una decisa valorizzazione di questa sua seconda dimensione, eletta a regola (come emerge anche dalla maggiore am- piezza del criterio quantitativo, da 4 a 20 anni nel massimo). È dunque risultato palesemente inadeguato il precedente rito pretorile, che implicava minori garanzie per l’imputato. La successiva l. 479/1999 ha dettato la nuova regolamentazione del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, nel cui conte- sto risulta di particolare importanza l’indicazione di un determinato numero di casi nei quali l’imputato può essere rinviato direttamente a giudizio dal P.M. Inoltre si è proceduto a un nuovo riparto delle attribuzioni riservate alle due composizioni del tribunale. La riformulazione degli artt. 33-bis e 33-ter è stata determinata dal proposito di ridimensionarle le attribuzioni originariamente previste per il giudice monocratico, come si ricava dalla correzione del criterio quantitativo, che attualmente consente di devolvere al tribunale collegiale i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni, anche nell’ipotesi di delitto tentato. Il limite dei 10 anni va calcolato applicando le regole ex art. 4. Il criterio va poi coordinato con quello qualitativo, che implica deroghe importanti: per un verso, risultano sottratti al tribunale collegiale taluni delitti puniti con la reclusione superiore a 10 anni (es.: reati in materia di sostanze stupefacenti); per altro verso, gli vengono attribuiti reati che dovrebbero essere giudicati, in base al suddetto criterio, dal tribunale in composizione mo- nocratica (es.: delitti commessi per finalità di terrorismo, delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a., reati mini- steriali…). Quanto alle attribuzioni del tribunale in composizione monocratica, vale la regola della comple- mentarità: sui reati non espressamente attribuiti al tribunale collegiale, giudica il tribunale in composizione monocratica (art. 33-ter). Per quanto riguarda l’incidenza di un eventuale vincolo connettivo, l’art. 33-quater dispone che, quando il vincolo riconducibile a taluna delle ipotesi ex art. 12 intercorre tra procedimenti dei quali alcuni appartengono alla cognizione del tribunale collegiale e altri a quella del tribunale monocratico, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, cui sono attribuiti tutti i pro- cedimenti connessi. 11 8. La disciplina della riunione e della separazione dei processi La riunione e la separazione sono istituti che operano a partire dal momento in cui, in seguito all’esercizio dell’azione penale, il procedimento si sia evoluto in “processo”. La riunione dei processi produce come risul- tato la trattazione congiunta di processi in precedenza pendenti a diversi giudici, sezioni o composizioni dello stesso ufficio giudiziario, preventivamente individuato in base ai normali criteri di competenza. Dall’art. 17, co. 1, si ricava che per la riunione dei processi debbono sussistere i seguenti presupposti: a) la pendenza davanti al medesimo ufficio giudiziario dei processi da riunire; b) uno sviluppo omogeneo di questi ultimi, che deb- bono trovarsi nello stesso stato e grado; c) una prognosi negativa circa un possibile ritardo nella definizione delle singole vicende processuali; d) la sussistenza di uno dei casi tassativamente indicati dalla legge (connes- sione ex art. 12, o reati commessi in occasione di altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza). Qualora venga esclusa la sussistenza di un pregiudizio, in termini di ritardo nella definizione, per i processi pendenti, la riunione costituisce un atto dovuto. Negli stessi casi e alle stesse condizioni si procede alla riunione configurata dall’art. 17, co. 2: se alcuni dei processi pendono davanti alle due diverse composi- zioni del tribunale, viene disposto l’accorpamento in capo al tribunale in composizione collegiale, il quale si pronuncerà su tutte le regiudicande anche qualora esse siano oggetto di un successivo provvedimento di sepa- razione. Se vengono attratti più processi di primo grado pendenti davanti al tribunale in composizione mono- cratica, dovrà essere designato il giudice o la sezione collegale cui è stato assegnato per primo uno dei processi. Speculare è l’istituto della separazione, disciplinato dall’art. 18 che, al co. 1, elenca una serie di ipotesi in cui il giudice deve scindere un processo cumulativo, per nascita o per riunione. Si tratta di ipotesi accomunate dal fatto che per taluni imputati o imputazioni si versa in una situazione di attesa, mentre per altri è possibile l’immediata trattazione. Ciò può accadere con riferimento alla decisione conclusiva del dibattimento o dell’udienza preliminare. Si deve inoltre procedere alla separazione allorché sia stata disposta la sospensione del procedimento, oppure quando, in seguito alla “incolpevole” assenza in sede dibattimentale di un imputato o del suo difensore, bisogna rinnovare a favore dell’uno o dell’altro la citazione o l’avviso. Ulteriore ipotesi di separazione si ha quando il processo abbia come protagonisti uno o più imputati chiamati a rispondere di reati di elevata gravità, sempre che tali imputati siano prossimi a essere rimessi in libertà per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, data la mancanza di altri titolo di detenzione. Alla base della separazione vi sono dunque esigenze di celerità che, tuttavia, soccombono di fronte alle esigenze di accertamento. La separa- zione è infatti esclusa qualora il giudice ritenga che la riunione sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti. Al di fuori di queste ipotesi, la separazione dei processi può essere disposta altresì sulla base di un accordo tra le parti, sempre che il giudice la reputi utile sotto il profilo della speditezza (art. 18, co. 2). Per i provvedimenti in tema di riunione e di separazione dei processi è prevista la forma dell’ordinanza, emessa anche di ufficio, sentite le parti (art. 19). 9. I procedimenti di verifica della giurisdizione e della competenza La disciplina dettata in tema di controllo del difetto di giurisdizione e di competenza persegue un duplice obiettivo: anticipare la risposta definitiva sulla giurisdizione e sulla competenza, e scongiurare i rischi di re- gressione di procedimenti giunti in stadi avanzati. Gli artt. 20 e 21, indicano i momenti in cui può essere sollevata la relativa questione. Quanto al difetto di giurisdizione, assoluto o relativo, esso può essere rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del “procedimento”. Se il difetto di giurisdizione è rilevato nel corso delle indagini preliminari, il giudice provvede con ordinanza e dispone la restituzione degli atti al P.M. Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in ogni stato e grado del processo, il giudice pronuncia, invece, sentenza e ordina, eccettuata l’ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, che gli atti vengano trasmessi all’autorità competente. Per quanto concerne l’incompetenza, l’incompetenza per materia, considerata più grave, può essere rilevata in ogni stato e grado del “processo”; l’incompetenza per territorio e per connessione, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o, in mancanza, entro il termine ex art. 491, co. 1, per la trattazione delle questioni preliminari. In caso di giudizio abbreviato richiesto in sede di udienza preliminare, è preclusa ogni questione sulla competenza territoriale del giudice. Due situazioni comportano una deroga all’ordinario regime dell’incompetenza per materia: la prima ricorre quando il giudice conosce di un reato che appartiene alla cognizione di un giudice inferiore (incompetenza per 12 eccesso), che deve essere rilevata di ufficio o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’art. 491, co. 1; la seconda concerne l’ipotesi dell’incompetenza per materia derivante da connessione, che deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini stabiliti per l’incompetenza per territorio. Gli artt. 22-25 definiscono la forma e gli effetti del provvedimento con cui viene dichiarata l’incompetenza: a) nel corso delle indagini preliminari, il giudice che riconosca la propria incompetenza pronuncia con ordi- nanza e dispone la restituzione degli atti al P.M.; b) dopo la chiusura delle indagini preliminari e in sede di dibattimento di primo grado, il giudice dichiara con sentenza la propria incompetenza e ordina la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice competente; c) in grado di appello, se il giudice rileva che su un reato di competenza della corte di assise ha giudicato il tribunale (oppure tribunale-giudice di pace), pronuncia sen- tenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice di primo grado – nell’ipotesi inversa, il giudice di appello, salvo che si tratti di decisione inappellabile, pronuncia invece nel merito, anche quando l’eccezione di incompetenza sia stata riproposta coi motivi di appello. Con riferimento all’incompe- tenza per territorio o per connessione, è prevista la pronuncia di una sentenza di annullamento da parte del giudice di appello e la conseguente trasmissione degli atti, rispettivamente, al P.M. presso il giudice di primo grado e direttamente a quest’ultimo. È tuttavia indispensabile che l’incompetenza, dopo essere stata eccepita in primo grado entro i termini, sia stata denunciata coi motivi di appello – altrimenti il giudice di appello deve pronunciare nel merito; d) nel giudizio davanti alla Corte di cassazione, quest’ultima è tenuta a dichiarare, anche di ufficio, l’incompetenza per materia derivante dall’avere il tribunale giudicato un reato di competenza della corte di assise. Può essere eventualmente dichiarata anche l’incompetenza per territorio o per connes- sione, purché la relativa eccezione sia stata tempestivamente proposta in primo grado, in appello e in cassa- zione. La decisione della Corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza è vincolante, e può essere superata solo se, per nuovi fatti, muti il nomen delicti e, con esso, la competenza o la giurisdizione. Per il principio della conservazione degli atti assunti dal giudice incompetente (artt. 26 e 27), il mancato rispetto delle norme sulla competenza non determina l’inefficacia delle prove acquisite, e le misure cautelari, di- sposte da un giudice dichiaratosi incompetente, cessino di avere efficacia qualora entro 20 gg. dall’ordinanza di trasmissione degli atti al giudice competente non siano confermate da quest’ultimo. Gli artt. 28-32 si occu- pano dei conflitti tra giudici e dettano un’apposita regolamentazione idonea a consentire il loro superamento. Il conflitto è la situazione che si determina quando, in qualsiasi stato e grado del processo, due o più giudici contemporaneamente prendono o rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona. Si ha conflitto di giurisdizione quando il contrasto intercorre tra giudici ordinari e giudici speciali; si ha conflitto di competenza, quando a essere coinvolti sono due o più giudici ordinari. È esclusa la possibilità di un conflitto tra il g.u.p. e il giudice del dibattimento, in quanto questo prevale sempre. Il legislatore ha fatto ricorso alla categoria dei conflitti “analoghi”, i quali sono sottoposti alla regolamentazione ex art. 28, co. 1. Ipotesi a sé stante, ma riconducibile alla categoria de qua, è il conflitto fra tribunale in composizione mono- cratica e tribunale in composizione collegiale. Si è escluso che nel corso delle indagini preliminari possa essere proposto conflitto positivo per ragione di competenza territoriale determinata dalla connessione: il P.M. com- petente per il reato meno grave resta libero di svolgere le indagini concernenti tale reato, oppure di trasmettere gli atti all’ufficio del P.M. presso il giudice competente. A originare il procedimento di conflitto è una “de- nuncia” di parte o una “rilevazione” di ufficio del giudice. L’elevazione del conflitto non ha effetti sospensivi sul processo in corso. Lo sviluppo del procedimento incidentale è scandito dagli artt. 30-32, i quali, oltre a indicare l’organo cui spetta la risoluzione – la Corte di cassazione –, delineano un meccanismo di comunica- zione, notificazione e trasmissione di copie di atti. La Corte decide con sentenza in camera di consiglio, ex art. 127. Il conflitto cessa per effetto dell’iniziativa di uno dei giudici, che dichiari, anche di ufficio, la propria competenza o la propria incompetenza. Se ciò non si verifica, deve attendersi la sentenza della Cassazione, che è vincolante. Quanto agli atti compiuti dal giudice risultato incompetente, bisogna rifarsi agli artt. 26-27, con un adeguamento; relativamente ai provvedimenti cautelari, il termine di 20 gg. decorre dalla comunica- zione della sentenza della corte al giudice che ha disposto la misura cautelare. 10. Il controllo sul corretto riparto di “attribuzioni” fra tribunale “monocratico” e tri- bunale “collegiale” Il capo VI-bis si adegua al mandato del legislatore delegante, che ha inteso circoscrivere entro limiti contenuti la rilevanza delle questioni relative all’investitura delle composizioni del tribunale. Anzitutto, l’inosservanza 15 dell’organo – la Corte di cassazione – cui è demandata tale decisione: la translatio iudicii era consentita quando la sicurezza o l’incolumità pubblica, ovvero la libertà di determinazione delle persone partecipanti al processo, risultassero pregiudicate in conseguenza di gravi situazioni locali non altrimenti eliminabili. Così facendo, però, si sarebbe indebitamente escluso dai casi di rimessione l’ipotesi del “legittimo sospetto”. Perciò, la l. 248/2002 ha modificato l’art. 45 c.p.p., ampliando i casi di rimessione: è rimasta invariata la normativa incen- trata sul nesso causale tra le “gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altri- menti eliminabili” e il conseguente pregiudizio alla “libera determinazione delle persone che partecipano al processo”, ovvero alla sicurezza o all’incolumità pubblica. Per un altro verso, tuttavia, si è ampliata la prece- dente casistica, ammettendo la rimessione del processo anche nell’ipotesi in cui tali gravi situazioni locali determinino “motivi di legittimo sospetto” – formula molto indeterminata. Venendo meno il carattere eccezio- nale dell’istituto, emergono perplessità circa la conformità del testo novellato dell’art. 45 al canone del giudice naturale precostituito per legge. Dall’art. 45 si ricava altresì che la rimessione può essere richiesta in ogni stato e grado del processo di merito dall’imputato, dal procuratore generale presso la corte di appello e dal P.M. presso il giudice procedente (non è pertanto legittimata la parte civile). Ex art. 46, la richiesta di rimessione proveniente dall’imputato deve essere, a pena di inammissibilità, sottoscritta da lui personalmente o dal suo procuratore speciale, depositata nella cancelleria del giudice unitamente ai documenti che la giustificano e notificata, entro 7 gg., alle altre parti. La richiesta e la documentazione sono immediatamente trasmesse alla Corte di cassazione a opera del giudice procedente, che può formulare proprie osservazioni. L’art. 47 dispone che è lo stesso giudice procedente a poter disporre la sospensione del processo fino a che non sia intervenuta l’ordinanza di inammissibilità o di rigetto e che, analogamente, la Corte di cassazione può disporre la sospen- sione (sospensione facoltativa) – al sussistere dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora. È comunque prevista la sospensione obbligatoria: in seguito alla comunicazione, da parte della Cassazione, dell’assegnazione della richiesta a una sezione della Corte o alle sezioni unite, il giudice procedente deve sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni o della discussione, e resta preclusa la pro- nuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia della sentenza, finché non sia pronunciata l’ordinanza della corte che dichiari inammissibile o rigetti la richiesta. La sospensione è esclusa quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile. Finché dura la sospensione, restano sospesi i termini della prescrizione del reato e, se la richiesta di rimessione proviene dall’imputato, anche i termini della durata massima della custodia cautelare ex art. 303, co. 1, finché la Corte non dichiara inammissibile o non rigetta la richiesta di rimessione oppure, nell’ipotesi di un suo accoglimento, dal giorno in cui il processo perviene al medesimo stato in cui si trovava all’intervenire della sospensione. Anche durante la sospensione possono essere compiuti atti urgenti. La decisione della Corte di cassazione, che procede in camera di consiglio ex art. 127 dopo aver eventualmente acquisito le necessarie informazioni (art. 48), assume la forma dell’ordinanza di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento. In quest’ultimo caso, l’ordinanza contiene l’indicazione del nuovo giudice da individuarsi ex art. 11, ed è immediatamente comuni- cata al giudice designato e al giudice originariamente competente, il quale è tenuto a trasmettere al primo gli atti del processo e a disporre che l’ordinanza della Corte sia comunicata, per estratto, al P.M. e alle parti. Quando rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di rimessione, la Cassazione può condannare l’imputato al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende. Quanto alla conservazione degli atti del processo oggetto di rimessione, il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quando una delle parti ne faccia richiesta, a meno che non si tratti di atti di cui è divenuta impossibile la ripetizione o si versi in una delle situazioni contemplate dall’art. 190-bis, co. 1 e 1-bis. Davanti al nuovo giudice, le parti esercitano gli stessi diritti e facoltà a esse riservati davanti al primo giudice. Una nuova richiesta di rimessione (art. 49) è possibile per ottenere un ulteriore spostamento del processo, o per ottenere per la prima volta il relativo prov- vedimento, precedentemente rigettato o dichiarato inammissibile. L’ulteriore spostamento del processo può essere richiesto quando nella sede designata si ripresenta una situazione riconducibile all’art. 45 ovvero quando, venute meno le ragioni dell’originaria rimessione, se ne chiede una revoca. Nel caso in cui sia già intervenuto un provvedimento negativo della Corte di cassazione, se l’ordinanza ha rigettato o dichiarato l’inammissibilità per manifesta infondatezza, la nuova richiesta deve essere fondata su elementi nuovi, anche se proveniente da un altro imputato; se invece la richiesta è dichiarata inammissibile per motivi diversi dalla manifesta infondatezza, essa può essere sempre riproposta. 16 13. La posizione di parte del P.M. e la sua funzione tipica Il P.M., pur rivestendo la qualità di parte del processo, costituisce al tempo stesso un organo dell’apparato statale incaricato di vegliare all’osservanza delle leggi e all’amministrazione della giustizia, nonché di iniziare ed esercitare l’azione penale e di far eseguire i giudicati. Si profila dunque la questione circa il ruolo istituzio- nale del P.M. Abbandonata la concezione napoleonica che ne faceva un “rappresentante” del potere esecutivo presso gli organi giurisdizionali, il P.M. non solo è affrancato da questo potere, ma gode di una posizione di indipendenza (c.d. esterna) rispetto a tutti gli altri poteri costituzionali. Un peso assorbente riveste poi, in ordine alla posizione del P.M., il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale: questo principio postula l’indipen- denza dagli altri poteri dell’organo a cui l’azione stessa è demandata, anche in quanto non facente valere inte- ressi particolari ma agente nell’interesse all’osservanza della legge. Il P.M. risponde del suo operato solo di fronte alla legge, godendo delle stesse garanzie attribuite al giudice circa il reclutamento, l’inamovibilità dalla sede e la soggezione al potere di controllo del CSM. Sul piano ordinamentale, i magistrati del P.M. sono accomunati ai giudici dei tribunali e delle corti nell’appartenenza all’ordine giudiziario. Il conferimento delle funzioni giudicanti e requirenti avviene all’esito di un concorso unitario, ma vi sono diverse misure intese a rafforzare la distinzione tra le due funzioni (es.: il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, e viceversa, è disposto, a seguito di concorso, previa partecipazione a un corso di qualificazione professionale e subordinatamente a un giudizio di idoneità espresso dal CSM, su parere del Consiglio giudiziario; tale passag- gio non è però consentito all’interno dello stesso distretto o di un altro distretto della stessa regione. L’aspira- zione accusatoria del sistema e la parità tra accusa e difesa trovano primo sviluppo nel titolo II del libro I dedicato al P.M. colto quale soggetto del procedimento (art. 50-54-quater), in cui si trovano disposizioni che regolano i rapporti tra i diversi uffici e all’interno di ogni ufficio in modo tale da evidenziare la natura di parte acquisita dal titolare dell’accusa e l’autonomia delle soluzioni rispetto a quelle dettate per il giudice. L’art. 50, co. 1, conferisce al P.M. la titolarità dell’azione penale. Sebbene nulla impedisca alla legislazione speciale di affidare la medesima titolarità anche ad altri soggetti, l’art. 231 disp. att. sancisce il monopolio dell’azione penale in capo al P.M. (escludendo sia l’azione penale privata, sia l’azione penale popolare). È enunciato poi il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: il doveroso esercizio dell’azione rinviene quale suo unico limite la richiesta di archiviazione. La lettura coordinata con l’art. 405 permette di individuare il momento di inizio del processo penale in senso proprio, riservando la fase delle indagini preliminari al mero procedimento. Al contempo, la lettura coordinata con l’art. 60 chiarisce come l’assunzione della qualità di imputato discenda unicamente dalla formulazione dell’impugnazione, che segna l’avvenuto esercizio dell’azione penale. L’art. 50, co. 2, ribadisce il tradizionale principio dell’officialità dell’azione penale, circoscrivendo l’efficacia delle condizioni di procedibilità alle figure ivi richiamate. L’elenco così fornito (querela, richiesta, istanza, autoriz- zazione a procedere) non è, però, esaustivo. Il co. 3 esprime poi il tradizionale principio dell’irretrattabilità dell’azione penale: questa, una volta esercitata, esce dalla sfera del suo autore e comporta l’insorgere di un dovere decisorio in capo al giudice; l’oggetto del processo penale è indisponibile, ed esso si può chiudere solo con l’emissione di una sentenza o di un atto equivalente. Le cause di sospensione o di interruzione dell’azione penale sono dunque sottoposte al principio di tassatività, e non possono essere integrate analogicamente. La l. 67/2014 ha immesso nel sistema altri due casi di sospensione del processo riconducibili entrambi a esigenze di economia processuale. Il primo si determina quando non sia certa o non sia presumibile la conoscenza del processo da parte dell’imputato: se così è, il giudice all’udienza preliminare o a quella dibattimentale, dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente. Il secondo caso consegue all’ap- plicazione dell’istituto della messa alla prova. Il sistema conosce anche cause di sospensione del procedimento inteso come fase delle indagini preliminari: accanto a quella obbligatoria dopo l’accertata incapacità della persona sottoposta alle indagini di partecipare coscientemente al procedimento, sempre che l’infermità di mente non presenti carattere irreversibile, è pure prevista la sospensione conseguente all’insorgere di indizi del reato di false informazioni rese al P.M. o di false dichiarazioni al difensore; analoga ipotesi di sospensione si ha con riguardo all’estinzione del reato per condotte riparatorie. 17. Uffici del P.M. distrettuale Per accrescere l’efficienza degli apparati giudiziari nei confronti di taluni gravissimi reati di criminalità orga- nizzata di stampo mafioso, erano state introdotte una serie di deroghe alla divisione del lavoro e ai rapporti tra gli uffici del P.M., così da creare una sorta di procedimento speciale per tali reati (c.d. doppio binario). La 17 disciplina speciale concernente il P.M. opera nei procedimenti ex art. 52, co. 3-bis, cioè quelli relativi ai delitti, consumati o tentati, di cui all’art. 12, co. 1, 3 e 3-ter t.u.imm., di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i delitti di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi, di introdu- zione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, dei delitti in materia di schiavitù, di associazioni di tipo mafioso, di scambio elettorale politico-mafioso, di sequestro di persona a scopo estorsivo, di reati-fine o reati-mezzo rispetto ad altri reati di stampo mafioso, di traffico di sostanze stupefacenti. Il legislatore ha incre- mentato poi le fattispecie per cui è prevista la legittimazione dell’ufficio del P.M. presso il tribunale del capo- luogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, includendovi i delitti, consumati o tentati, con finalità di terrorismo, in tema di sfruttamento sessuale di minori e della c.d. criminalità informatica (art. 52, co. 3-quater). Per tutti questi reati le funzioni di P.M. nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono attribuite all’ufficio istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte di appello nel cui ambito ha sede il giudice competente. Inoltre, il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capo- luogo del distretto costituisce, sempre nell’ambito del suo ufficio, una direzione distrettuale antimafia (Dda) per la trattazione dei soli procedimenti ex art. 52, co. 3-bis, designando, sulla base delle specifiche attitudini o esperienze professionali, i magistrati che debbono farne parte per almeno 2 anni. Inoltre, negli uffici delle procure distrettuali può essere comunque istituito un procuratore aggiunto, per specifiche ragioni riguardanti lo svolgimento dei compiti della direzione distrettuale. Lo stesso procuratore distrettuale è preposto all’attività della direzione e cura che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempe- stività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini, eseguendo le direttive impartite per il coor- dinamento delle investigazioni e per l’impiego della polizia giudiziaria. Salvi casi eccezionali, il procuratore distrettuale designa per l’esercizio delle funzioni di P.M. nei procedimenti in discorso i magistrati addetti alla direzione. La continuità nella designazione può venire meno: il procuratore generale presso la corte di appello, per giustificati motivi, può disporre che le funzioni di P.M. per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente. La concentrazione dell’attività inve- stigativa presso le direzioni distrettuali accresce l’efficienza del sistema non solo per la tendenziale specializ- zazione dei magistrati addetti, ma anche per la conduzione unitaria delle indagini preliminari. In caso di con- trasti, positivi o negativi, l’art. 54-ter muove da due ipotesi: se il contrasto si verifica tra diverse direzioni distrettuali, la risoluzione è affidata al procuratore generale presso la Corte di cassazione (il procuratore nazio- nale antimafia e antiterrorismo ha funzione consultiva); se, invece, il contrasto insorge all’interno del mede- simo distretto, il compito tocca al procuratore generale presso la corte di appello. Vi è poi la Direzione nazio- nale antimafia e antiterrorismo (Dnaa), cui sono preposti un magistrato con funzione di procuratore nazio- nale, due procuratori aggiunti e magistrati sostituti. Tutti i magistrati della direzione sono scelti tra coloro che hanno svolto funzione di P.M. per almeno 10 anni e che abbiano specifiche attitudini ed esperienze in materia. L’incarico di procuratore nazionale o aggiunto ha durata quadriennale, rinnovabile per una sola volta. Dato che al procuratore nazionale sono attribuite unicamente le funzioni previste dall’art. 371-bis e dato che esse investono i soli procedimenti per i reati di cui all’art. 51, co. 3-bis e 3-quater e di prevenzione antiterrorismo, si può cogliere nella Dnaa la fisionomia di un ufficio del P.M. specializzato – sotto la sorveglianza del procu- ratore generale presso la Corte di cassazione. Nei procedimenti ex art. 51, co. 3-bis, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo si avvale della direzione investigativa antimafia (Dia) e dei servizi centrali e inter- provinciali delle forze di polizia; in quelli ex art. 51, co. 3-quater, il procuratore nazionale può servirsi solo del personale dei servizi centrali e interprovinciali delle forze di polizia. Comunque, questi si avvale di un apposito nucleo nell’ambito della polizia penitenziaria. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo ha due nuclei di funzioni: quelle di impulso al coordinamento e quelle di impulso alle investigazioni. Al nucleo dell’impulso al coordinamento è ascrivibile il compito di assicurare il collegamento investigativo, anche tra- mite i magistrati della Dnaa. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo può poi impartire ai procuratori distrettuali specifiche direttive, per prevenire e risolvere contrasti sulle modalità di coordinamento delle attività di indagine; indice riunioni tra i procuratori distrettuali interessati per risolvere i contrasti; può ricorrere allo strumento dell’avocazione. L’impulso alle investigazioni si risolve, anzitutto, nell’acquisizione e nell’elabo- razione di notizie attinenti alla criminalità organizzata e ai delitti di terrorismo, ai fini anche della repressione dei reati. Il procuratore gode di libero accesso ai registri delle notizie di reato, a tutti gli altri registri utili e alle banche dati; può procedere a colloqui personali con detenuti e internati senza necessità di autorizzazione; cura, 20 procedimento) e la fase dell’esercizio dell’azione penale (il processo). Nella prima fase, l’attribuzione del reato presenta un carattere precario connaturato allo stato fluido delle indagini; in sede processuale, l’addebito si cristallizza nella formulazione dell’imputazione, che si risolve nella richiesta dell’indefettibile accertamento giurisdizionale. Facendo coincidere l’assunzione della qualità di imputato con l’avvenuto esercizio dell’azione penale, l’art. 60 enumera (non esaustivamente) gli atti tipici dai quali tale assunzione scaturisce: richieste di rinvio a giudizio, di giudizio immediato e di decreto penale di condanna; richiesta di applicazione della pena o consenso prestato dal P.M. nel corso delle indagini preliminari; il decreto di citazione diretta nel giudizio davanti al tribunale “monocratico” o, nel giudizio direttissimo, la contestazione orale dell’imputazione in di- battimento o il decreto di citazione a giudizio; la contestazione del reato commesso o del fatto nuovo nell’udienza preliminare o nel dibattimento; la formulazione coatta dell’imputazione in caso di non accogli- mento della richiesta di archiviazione dal g.i.p.; il consenso prestato dal P.M. alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. In un sistema dove l’azione penale è irretrattabile, la perdita della qualità di imputato può derivare solo da una sentenza o da un provvedimento a esso assimilabile (sentenza di non luogo a procedere non più impugnabile, sentenza di proscioglimento o di condanna irrevocabili, decreto penale divenuto esecutivo, ordinanza di inammissibilità dell’impugnazione, sentenza di difetto di giurisdizione o di competenza). Per contro, la qualità di imputato risorge per effetto della revoca della sentenza di non luogo a procedere (con l’ordinanza che fissa l’udienza preliminare, allorché siano già state acquisite le nuove fonti di prova; con la formulazione dell’imputazione, altrimenti) o dell’emissione del decreto di citazione a dibatti- mento per il giudizio di revisione. Vi è poi il caso della rescissione del giudicato (art. 629-bis), mezzo straor- dinario di impugnazione che scatta quando sia stata emessa una sentenza di condanna ovvero applicativa di una misura di sicurezza, passata in giudicato e pronunciata all’esito di un processo celebratosi in assenza dell’imputato: se questi dimostra che l’assenza è stata causata da un’incolpevole mancata conoscenza del pro- cesso, la corte di appello dispone la revoca della sentenza e la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, e il condannato riassume la qualità di imputato. In ordine all’estensione alla “persona sottoposta alle indagini preliminari” (l’indagato) delle garanzie e dei diritti attribuiti all’imputato, è sufficiente la semplice sottoposi- zione della persona alle indagini preliminari, indipendentemente dalla loro iscrizione nel registro delle notizie di reato o dall’invio dell’informazione di garanzia. Più precisamente, taluno diviene persona sottoposta alle indagini in seguito della ricezione da parte della polizia giudiziaria o del P.M. di una notizia qualificata di reato contenente un’incolpazione nei confronti di un soggetto determinato. Se trattasi di notizie non qualificate, la persona può dirsi indagata a seguito di una valutazione di attendibilità delle medesime, espressa dall’ufficiale o agente di polizia giudiziaria o dal P.M. Allorché tale valutazione abbia esito positivo, scatta per i primi l’obbligo di riferire la notizia al P.M. Riguardo la valutazione dei dati emergenti dalle indagini e ritenuti idonei a fornire un principio di conoscenza circa l’attribuibilità a taluno di un fatto di reato, emerge la nozione di indizio: un risultato conosciuto indispensabile per adottare alcune misure nel corso delle indagini preliminari o per farne scaturire determinati effetti diversi dalla decisione sul dovere di punire. Conta, infine, il fatto og- gettivo dell’esecuzione dell’arresto in flagranza, mentre non rileva il fermo ex art. 384, né la richiesta di una misura cautelare personale. 22. Le dichiarazioni rese dall’imputato L’art. 62 prescrive che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall’imputato e dall’in- dagato non possono formare oggetto di testimonianza. La norma investe non solo le dichiarazioni sollecitate, ma anche quelle che il soggetto rilasci di propria iniziativa. Essa vale anche nei confronti di coloro a carico dei quali, per effetto delle dichiarazioni rese, emergano indizi di reità e di coloro che, fin dall’inizio, dovevano essere sentiti in qualità di imputato o di indagato. Sono coperte dall’art. 62 le dichiarazioni rese nel procedi- mento dinanzi all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e alle altre persone abilitate a riceverle, oltre che nei confronti di ogni altra persona che abbia inteso le dichiarazioni rese durante la fase procedimentale (sono escluse dunque quelle rilasciate prima o al di fuori del procedimento). Infine, stante la natura oggettiva del divieto, è inibito l’ingresso alla testimonianza di chi riferisca, anche avendolo appreso da altri, il contenuto delle dichiarazioni dell’imputato o dei soggetto a lui assimilati. La regola probatoria esplica la sua funzione precipua nei confronti delle dichiarazioni che la persona sottoposta alle indagini o i soggetti individuabili ex art. 63 rendono alla polizia giudiziaria al di fuori dell’assistenza del difensore, specie per le dichiarazioni spontanee, perché suscettibili di essere utilizzate, anche nel dibattimento, ai fini delle contestazioni: il 21 legislatore ha inteso dare efficacia rappresentativa solo alla documentazione appositamente redatta e utilizza- bile entro i limiti stabiliti in funzione dello sviluppo procedimentale. L’inosservanza del divieto porta all’inu- tilizzabilità della testimonianza. Il principio del “nemo tenetur se detegere” (esteso anche alle sommarie infor- mazioni assunte dalla polizia giudiziaria, ma non al giudice civile o alle conversazioni telefoniche) emerge anche qualora emergano indizi di reità a carico di chi non è ancora imputato o indagato (art. 63, che viene in gioco nei confronti di chi abbia già commesso il reato e non già di chi lo ponga in essere il reato mediante le dichiarazioni che sta rendendo). Profilatisi gli indizi, si determinano, in capo all’autorità procedente, tre obbli- ghi distinti: l’obbligo di interrompere l’esame (e l’eventuale assunzione di informazioni), fino alla nomina del difensore; l’obbligo di avvertire la persona che potranno essere svolte indagini nei suoi confronti per effetto della mutata veste processuale (ma non l’obbligo di avvertire l’indiziato che le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti, cosa però prevista dall’art. 64, co. 3); l’obbligo di invitare la persona che ha rilasciato le dichiarazioni indizianti a nominare un difensore. La disciplina si perfeziona col divieto di utilizzare, contro la persona autoindiziatasi, le dichiarazioni rese prima dell’avvertimento. La norma vuole tutelare l’autodeterminazione di chi, se fosse stato consapevole del proprio status, avrebbe potuto esercitare il diritto al silenzio. La delimitazione in senso soggettivo (“contro la persona che le ha rese”) viene meno qualora taluno, già imputato o indagato, sia sentito, fin dall’inizio, senza che l’autorità procedente faccia risultare sif- fatta qualità. 23. L’interrogatorio Il sistema distingue nettamente l’esame dell’imputato dall’interrogatorio dell’indagato e dell’imputato stesso: il primo è collocato tra i mezzi di prova, il secondo è disciplinato dagli artt. 64 e 65 (e da altre disposizioni riferite all’udienza dibattimentale). Nella fase delle indagini preliminari, il P.M. procede all’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale, dell’arrestato o del fermato, e di chi si trova mediante a piede libero mediante invito a presentarsi (l’accompagnamento coattivo è disponibile solo a seguito di auto- rizzazione del giudice). Il titolare delle indagini è libero di scegliere il momento in cui assumere l’atto, salvo nel caso della persona sottoposta a custodia cautelare: in tal caso l’interrogatorio del giudice deve precedere quello del P.M. Il titolare dell’accusa è libero di non procedervi nel corso delle indagini preliminari. Tuttavia, il P.M., ove non intenda formulare richiesta di archiviazione, deve notificare, prima della scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, un avviso di conclusione delle medesime indirizzandolo all’indagato e al difensore. Tale avviso contiene l’avvertimento che l’indagato ha la facoltà, entro 20 gg., di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto a interrogatorio, a pena di nullità della richiesta di rinvio a giudizio o del decreto di citazione a giudizio del P.M. Il titolare dell’accusa, se vuole inscenare il giudizio immediato, deve procedere all’interrogatorio sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova o deve averlo disposto ex art. 375, co. 3, a meno che l’indagato non sia comparso a causa di legittimo impedimento, o risulti irreperibile. In questa fase, essendo il g.i.p. tendenzialmente privo di poteri ufficiosi, il relativo inter- rogatorio si atteggia come attività semplicemente doverosa. Dal punto di vista funzionale, all’interrogatorio condotto dal P.M. si suole attribuire un prevalente carattere investigativo ̧mentre a quello svolto dal giudice si suole ricollegare un significato di controllo e di garanzia, sebbene nella pratica i distinguo siano molto sfu- mati. Lo svolgimento dell’interrogatorio è disciplinato in guisa da assicurarne la natura di strumento di di- fesa. Quanto all’assistenza tecnica, un dato comune è rappresentato dal diritto del difensore di essere avvisato del compimento dell’atto così da potervi sempre assistere. Quanto alla difesa personale, l’interrogatorio è mo- dellato per garantire una partecipazione libera e cosciente del soggetto. Quanto al luogo di svolgimento, l’ar- restato, il fermato e l’imputato in stato di detenzione debbano essere interrogati nell’istituto penitenziario in cui si trovano; nondimeno il giudice può disporre, al sussistere di motivi di necessità e urgenza, che i soggetti in discorso siano trasferiti davanti a sé. La persona assoggettata al regime di custodia cautelare o detenuta per altra causa (art. 64, co. 1) interviene libera in contraddittorio: all’accompagnamento e alla traduzione sono sostituiti dall’autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di arresto o di detenzione per il tempo strettamente ne- cessario. Nel corso dell’interrogatorio (art. 64, co. 2) non possono essere impiegati metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà dell’autodeterminazione. In questo quadro (art. 64, co. 3) si colloca la disciplina del diritto al silenzio della persona sottoposta all’interrogatorio. Prima che questo inizi, l’organo procedente deve rivol- gere alla persona interrogata un triplice avvertimento: il soggetto deve essere edotto che le dichiarazioni che renderà potranno essere sempre utilizzate nei suoi confronti; deve essere avvertito che gli compete “la facoltà 22 di non rispondere ad alcuna domanda”, ma che, in ogni caso, il procedimento proseguirà il suo corso; deve essere avvertito che se renderò dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà in ordine a tali fatti l’ufficio di testimone. L’art. 64, co. 3-bis, oltre a imporre un dovere informativo, assolve anche il compito di dettare i presupposti da cui scaturiscono gli obblighi testimoniali in capo all’imputato: al mancare dei primi due avvertimenti, le dichiarazioni sono inutilizzabili; al mancare del terzo, la dichiarazione non è utilizzabile e l’imputato non può assumere la qualifica di testimone. Il d.lgs. 101/2014 impone ora di somministrare l’avviso della facoltà di non rispondere subito dopo l’esecuzione delle più severe restrizioni della libertà personale, onde evitare che l’arrestato o il fermato renda dichiarazioni avventate. Dall’esercizio del diritto di non rispondere l’organo procedente non può ricavare conseguenza alcuna in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale. Una volta somministrati gli avvertimenti preliminari, è disciplinato l’interrogatorio nel merito (art. 65). La disposizione opera esclusivamente per l’atto assunto dall’autorità giudiziaria e prevede puntuali obblighi: contestare all’indagato in forma chiara e precisa il fatto attribuitogli, rendergli noti gli elementi di prova esistenti a suo carico e comunicargliene le fonti. L’invito a presentarsi, dal canto suo, deve contenere la sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini, nonché, se il P.M. vuole fare richiesta di giudizio immediato, l’indicazione degli elementi e delle fonti di prova e dell’avverti- mento circa il rito prescelto. La dimensione dell’interrogatorio quale strumento difensivo emerge dall’invito a esporre quanto la persona ritenga utile per discolparsi e dalla mancata riproduzione dell’invito a indicare le fonti di prova a proprio favore, nonché dall’assenza dell’obbligo di dire la verità. Ne è segno la facoltà di non rispondere a singole domande sul merito, benché di ciò debba farsi menzione nel verbale. Le domande sono poste direttamente e dal solo organo procedente. 24. L’identificazione e l’esistenza in vita dell’imputato Per quanto concerne l’identità personale o anagrafica dell’imputato (art. 66), nel primo atto del procedimento in cui è presente l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere a identificarlo, ammonendolo sulle conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o chi le dà false – la polizia giudiziaria deve rivolgere detti inviti e ammonizioni anche all’indagato. L’autorità giudiziaria deve poi chiedere all’imputato o all’indagato, nel primo atto cui sono presenti, una serie di infor- mazioni relative all’identità personale, alla vita di relazione, alla posizione patrimoniale, ai ruoli pubblici rico- perti e ai precedenti penali. L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità è irrilevante e non pregiudica il compimento di alcun atto da parte della polizia giudiziaria o dell’autorità giudiziaria, purché sia certa l’identità fisica della persona. L’attribuzione di generalità erronee è trattata alla stregua di un mero errore materiale, così da far luogo alla rettificazione mediante il relativo procedimento in camera di consiglio. Ex art. 66-bis, l’autorità giudiziaria deve, in ogni stato e grado del procedimento, comunicare a quella competente ai fini dell’applicazione della legge penale la circostanza che l’indagato o l’imputato è già stato segnalato, magari sotto diverso nome, all’autorità giudiziaria quale autore di un reato commesso antecedentemente o successi- vamente a quello per il quale si procede. Si distingue il profilo dell’identità fisica, la coincidenza tra la persona nei cui confronti è esercitata l’azione penale e quella che in effetti è assoggettata al processo (es.: omonimia). Tocca al P.M., nella fase delle indagini preliminari, disporre gli accertamenti del caso, sulla base dei quali saranno formulate le conseguenti richieste al giudice. Se il dubbio insorge nel processo, le determinazioni in materia saranno trattate dal giudice. In caso di errore sull’identità fisica (c.d. errore di persona) nel corso della fase delle indagini preliminari, il P.M. può richiedere il decreto di archiviazione. Se l’errore di persona risulta evidente, l’arrestato in flagranza o il fermato deve essere immediatamente liberato; se esso risulta invece nel processo, il giudice, sentiti il P.M. e l’imputato, pronuncia sentenza ex art. 129. La sentenza è meramente processuale. L’incertezza circa la minore età dell’imputato è sciolta dal giudice minorile con le forme carat- teristiche di quel rito: qualora l’autorità giudiziaria abbia ragione di ritenere che l’imputato o l’indagato sia minorenne, trasmette gli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale minorile. Per quanto riguarda l’incertezza sull’esistenza in vita dell’imputato, premesso che non conta la dichiarazione di morte presunta pronunciata dal giudice civile, se il dubbio è risolto nel senso della morte, il P.M. nel corso delle indagini preliminari chiede l’archiviazione per estinzione del reato, mentre, nel corso del giudizio, il giudice proscio- glie. La morte dell’imputato si risolve in una causa estintiva del reato, e la relativa declaratoria rimane subor- dinata all’art. 129, co. 2: pertanto, l’accertata morte dell’imputato non impedisce al giudice, se già risulti evi- dente che il fatto non sussiste, che l’imputato non l’ha commesso o che il fatto non costituisce reato, di adottare 25 periti o consulenti tecnici. La costituzione di parte civile non implica una stabile permanenza della medesima nel processo penale. La sua esclusione può, anzitutto, essere la conseguenza di una richiesta, con cui possono essere denunciati svariati profili di illegittimità, per cui il giudice è tenuto a pronunciarsi senza ritardo con un’ordinanza inoppugnabile. Anche per la richiesta di esclusione occorre rispettare dei termini perentori che variano a seconda della fase processuale in cui è avvenuta la costituzione di parte civile: se la parte civile si è costituita per l’udienza preliminare, la richiesta di esclusione va effettuata, in forma scritta fuori dell’udienza oppure oralmente in sede di udienza preliminare o dibattimentale, prima che siano terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; se, invece, la parte civile si è costituita nella fase degli atti preliminari al dibattimento o nel corso degli atti introduttivi del medesimo, la richiesta di esclusione deve essere avanzata in sede di trattazione delle questioni preliminari ex art. 491, co. 1. L’eventuale rigetto della richiesta di esclusione in sede di udienza preliminare non ne preclude la riproposizione tempestiva in dibattimento. Seconda ipotesi di esclusione della parte civile è quella disposta ex officio dal giudice (art. 81) il quale, quando accerti l’inesi- stenza dei requisiti stabiliti per la costituzione di parte civile, può provvedere in conformità finché non sia stato aperto il dibattimento di primo grado. Le ordinanze con cui la parte civile viene ammessa o esclusa dal processo penale sono di carattere meramente processuale. Si può anche verificare uno spontaneo recesso del danneg- giato, che revoca la costituzione di parte civile (art. 82). Nel caso di revoca espressa, che può avere luogo in ogni stato e grado del procedimento e riguardare taluno soltanto degli imputati, occorre un’apposita dichiara- zione, resa personalmente o per mezzo di un procuratore speciale. La suddetta dichiarazione può assumere forma orale, se fatta in udienza, o essere contenuta in un atto scritto, da depositare nella cancelleria del giudice procedente e notificare alle parti. La revoca è tacita (o presunta) al ricorrere di ipotesi tassative (art. 82, co. 2): la mancata presentazione, in sede di discussione dibattimentale, delle conclusioni riservate al difensore della parte civile; il promovimento dell’azione di danno davanti al giudice civile. La revoca della costituzione di parte civile non preclude il successivo esercizio dell’azione aquiliana nella sede propria. 27. Segue: i rapporti tra azione civile da reato e azione penale L’art. 75, co. 1, disciplina la trasferibilità, nel processo penale, dell’azione che il danneggiato dal reato abbia promosso davanti al giudice civile, subordinandolo a due condizioni: l’attore è vincolato alla sua scelta iniziale dopo la pronuncia in sede civile di una sentenza di merito anche non definitiva; non è più consentito l’inseri- mento dell’azione civile nel processo penale una volta spirato il termine finale ex art. 79, co. 1. Il cambiamento di sede processuale comporta l’estinzione del giudizio civile per rinuncia agli atti e la conseguente devoluzione al giudice penale della decisione sulle spese. L’art. 75, co. 2, dispone che l’azione di danno, esercitata nella sede naturale, procede in assoluta autonomia rispetto al parallelo processo penale e, letto combinatamente agli artt. 651 e 652, regola così i loro rapporti: nell’ipotesi in cui il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, il danneggiato può sfruttare nel giudizio civile l’efficacia di giudicato a essa ricono- sciuta, mentre non può accadere il contrario. Solo in via di eccezione alla regola, l’art. 75, co. 3, dispone che il processo civile rimanga sospeso in attesa del giudicato penale qualora l’azione sia stata proposta in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile del processo penale, fatte salve le eccezioni previste dalla legge (sospensione del processo penale per incapacità dell’impu- tato; esclusione della parte civile; impossibilità di notifica personale all’imputato assente dell’avviso dell’udienza preliminare; abbandono del processo penale da parte della civile in seguito a mancata accettazione del rito abbreviato; accoglimento della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova; dichiara- zione di estinzione del reato per avvenuta oblazione). 28. Il responsabile civile Oltre che contro l’imputato, il soggetto danneggiato dal reato può agire per le restituzioni e il risarcimento del danno nei confronti della persona fisica o dell'ente che è tenuto, a norma delle leggi civili, a rispondere per il fatto dell'imputato. A questo soggetto, obbligato in solido col protagonista del processo penale, il codice riserva il nome di “responsabile civile”. La presenza del responsabile civile è strettamente collegata all'inserimento e al mantenimento, da parte del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all'interno del processo pe- nale: non è ipotizzabile un intervento del responsabile civile antecedente alla costituzione di parte civile, e al recesso o all'esclusione di quest'ultima consegue l'estromissione del responsabile civile. Il responsabile civile viene citato su richiesta di parte, oppure può intervenire volontariamente nel processo penale. Ex art. 83, co. 26 1, legittimati a richiedere la citazione sono esclusivamente la parte civile e il P.M., limitatamente all'ipotesi in cui abbia esercitato l'azione civile a favore dell'infermo di mente o del minore. Ferma restando l'incompatibilità tra il ruolo di imputato e quello di responsabile civile, è tuttavia consentito chiedere la citazione di un imputato come responsabile civile per il fatto dei coimputati. Quanto ai tempi della richiesta, l’art. 83, co. 2, stabilisce solo il termine finale, ovverosia che venga “proposta al più tardi per il dibattimento”. Verificato il fumus boni iuris della richiesta, il giudice procedente ordina la citazione con un decreto (art. 83, co. 3), contenente le generalità della parte civile, l’indicazione delle domande avanzate nei confronti del responsabile civile, l’invito a costituirsi, data e sottoscrizioni del giudice e dell’ausiliario. Copia del decreto è notificata a cura della parte civile alle parti che potrebbero avere interesse all'estromissione del responsabile civile. La citazione è nulla qualora, per omissione o per erronea indicazione di qualche elemento essenziale, il responsabile civile non sia stato in grado di esercitare i suoi diritti nell'udienza preliminare o nel giudizio, ovvero qualora risulti nulla la relativa notificazione. Il responsabile civile, regolarmente citato, non è per ciò solo tenuto a intervenire nel processo (art. 84, co. 1): può optare per una scelta rinunciataria, che peraltro non neutralizza il potere del giudice di addebitargli la responsabilità per il fatto dell'imputato; viceversa, può decidere di costituirsi, fermo restando che solo in questa seconda ipotesi assume la qualità di parte e si può avvalere delle relative facoltà. Premesso che sta in giudizio col ministero di un difensore, il responsabile civile, al quale è estesa la regola dell'immanenza della costituzione, può costituirsi in ogni stato e grado del processo, anche per mezzo del procuratore speciale, depositando nella cancelleria del giudice procedente o presentando in udienza una di- chiarazione che deve contenere, a pena di inammissibilità, gli elementi indicati nell’art. 84, co. 2. Anche se non è stato citato, il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale, sembra che vi sia stata costituzione di parte civile. Relativamente alla forma, per l'intervento volontario del responsabile civile, vale quanto disposto dall’art. 84, co. 1 e 2, nonché dell’art. 85, co. 3 (in caso di dichiarazione presentata fuori udienza, questa deve essere notificata alle altre parti, a cura del responsabile civile). È previsto un termine finale, a pena di decadenza, coincidente con l’effettuazione, nel dibattimento di primo grado, degli accerta- menti relativi alla costituzione delle parti ex art. 484. Non possono però essere presentate liste di testimoni, periti e consulenti tecnici qualora l’intervento volontario sia avvenuto al di là del limite ex art. 468, co. 1. Va tenuta presente la possibilità di un’esclusione (art. 86) del responsabile civile, su richiesta di parte (imputato, parte civile, P.M.) o di ufficio. Il responsabile civile, a sua volta, può chiedere la propria esclusione anche qualora gli elementi di prova raccolti prima della citazione possano r3ecare pregiudizio alla sua difesa: accolta la richiesta, viene meno il presupposto per il riconoscimento dell’efficacia extrapenale del giudicato penale. La richiesta di esclusione, sulla quale il giudice decide con ordinanza, deve essere proposta, a pena di deca- denza, “non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare o nel dibattimento”. In realtà, il riferimento alla fase dibattimentale è impreciso: ne consegue una coincidenza col termine riservato al giudice per l’esclusione di ufficio del responsabile civile; l’esclusione sarà disposta, con ordinanza inoppugnabile, qualora manchino i requisiti per la citazione o per l’intervento del responsabile civile, o quando venga accolta dal giudice la richiesta di giudizio abbreviato. Vale per il responsabile civile quanto si è precisato circa la rilevanza meramente processuale dei provvedimenti di ammissione e di esclusione della parte civile (art. 88). Inoltre, se l’esclusione del responsabile civile è stata deliberata su richiesta della parte civile, viene meno, per il soggetto danneggiato dal reato, la possibilità di esercitare l’azione riparatoria ex delicto in sede propria. 29. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l’ente responsabile per l’illecito am- ministrativo dipendente da reato Se si rientra in una delle ipotesi ex artt. 196 e 197 c.p. o ex alcune leggi speciali, una persona può essere assoggettata, in via sussidiaria ed eventuale, a un'obbligazione civile pecuniaria pari all'importo della multa o dell'ammenda inflitta al condannato, nel momento in cui questi risulti insolvibile. Non è prevista la possibilità di un intervento volontario; può essere, invece, citata per l'udienza preliminare o per il giudizio, su richiesta del P.M. o dell’imputato. Per quanto concerne la citazione, la costituzione e l’esclusione della persona civil- mente obbligata per la pena pecuniaria, l’art. 89, co. 2, rinvia alla normativa dettata per il responsabile civile (escludendo però l’applicabilità dell’art. 87, co. 3). Il d.lgs. 231/2001 prevede l’irrogazione di sanzioni ammi- nistrative a carico degli enti forniti di personalità giuridica, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, qualora vengano accertati reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da parte 27 di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente, nonché di persone che ne esercitino la gestione e il controllo e di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi soggetti. La responsabilità amministrativa collegata al reato-presupposto e le relative sanzioni pos- sono venire in rilievo solo se espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. La cognizione dell’illecito amministrativo addebitabile all’ente appartiene al giudice penale compe- tente per il reato dal quale l’illecito amministrativo dipende. Se intende partecipare al procedimento penale col proprio rappresentante legale, l’ente – cui si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni valide per l’in- dagato – deve costituirsi depositando in cancelleria una dichiarazione contenente la denominazione e le gene- ralità del legale rappresentante, il nome e la sottoscrizione del difensore, la dichiarazione o l’elezione di domi- cilio. La partecipazione è peraltro solo eventuale: in sua mancanza si applica la disciplina della contumacia – abrogata però nel 2014. 30. La persona offesa dal reato Alla persona offesa dal reato, quale titolare dell’interesse protetto dalla norma penale che si assume violata, è attribuibile la qualifica di soggetti, anziché quella di parte. Anche attualmente, nel nostro ordinamento, alla persona offesa dal reato è riservato un ruolo non particolarmente incisivo. Il panorama è invece molti diverso se si prendono in considerazioni le indicazioni desumibili dalle fonti sovranazionali europee, dove è stabilito a carico dei singoli Stati il compito di assicurare un ruolo effettivo e appropriato alla vittima che intervenga nel processo penale. La direttiva 2012/29/UE detta norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, onde evitare la c.d. vittimizzazione secondaria. È soprattutto grazie all’influenza delle direttive europee che il legislatore italiano ha integrato la normativa codicistica, considerando più attentamente le esigenze della persona offesa. Si possono ricordare: il d.l. 93/2023 in materia di violenza di genere; il d.lgs. 24/2014, che ha introdotto l’incidente probatorio c.d. protetto; il d.lgs. 9/2015, in materia di ordine di prote- zione europeo; il d.lgs. 212/2015, che indica criteri alla luce dei quali la persona offesa può versare in una condizione di “particolare vulnerabilità” (età, infermità, tipo e modalità di reato), e abbisognare così di parti- colari forme di tutela… Infine, la l. 122/2016 garantisce un indennizzo da parte dello Stato alle vittime di un reato intenzionale violento, qualora si tratti di un reato doloso commesso con violenza alla persona e del reato previsto dall’art. 603 c.p. (con indennizzo parametrato alle spese mediche e assistenziali), nonché dei reati di omicidio, violenza sessuale, lesione personale gravissima e deformazione dell’aspetto mediante lesioni per- manenti al viso (con indennizzo liquidato sulla base di importi determinati da un decreto interministeriale). Questi interventi, oltre che privi di sistematicità, si sono rivelati inadeguati rispetto alle direttive europee cui intendevano dare attuazione. Dalla trama complessiva del codice emerge il proposito del legislatore di tenere ben distinta la posizione della parte offesa da quella della parte civile. Sul piano dei risultati, l’operazione è riuscita per quanto concerne la fase delle indagini preliminari; a partire da tale momento, tuttavia, l’organicità del disegno risulta affievolita, visto che alla persona offesa dal reato in quanto tale vengono riconosciuti poteri assai ridotti. È vero che a quel punto in un’alta percentuale di ipotesi quest’ultima sarà in grado di costituirsi parte civile, ma ciò da un lato perpetua la confusione dei due ruoli, e dall’altro disincentiva l’offeso-danneg- giato a esercitare l’azione civile nella sua sede naturale. 31. I diritti e le facoltà della persona offesa L’art. 90, co. 1, rinvia ai “diritti” (se corrisponde in capo al destinatario un dovere di iniziativa) e alle “facoltà” (se non gli corrisponde) della persona offesa garantiti da specifiche previsioni legislative e puntualizza che, a prescindere da tali attribuzioni, l’offeso del reato è legittimato, in via generale, a “presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, a indicare elementi di prova”. La persona offesa è legittimata a presen- tare, lungo l’intero arco del procedimento, memorie, vale a dire elaborati scritti di vario contenuto, mediante i quali possono essere avanzate istanze, illustrate questioni o toccati temi rilevanti per il processo in corso. A seconda dei casi, le memorie saranno indirizzate al P.M. o al giudice procedente, sebbene in entrambe le ipotesi manchi un dovere di tali soggetti di deliberare sulle medesime. Alla persona offesa è altresì riconosciuto, in ogni stato e grado del procedimento, il potere di indicare elementi di prova: la sede naturale per l’esercizio di tale potere è quella delle indagini preliminari, ma non si può escludere che esso venga esercitato nei confronti del giudice. Anche relativamente alla persona offesa si pone la questione della capacità processuale: l’art. 90, co. 2, prende in considerazione il soggetto minorenne e quello interdetto per infermità di mente o inabilitato, 30 di operare non appena l’interessato manifesti una diversa volontà. È vietato agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, nonché ai dipendenti dell’amministrazione penitenziaria, di dare consigli sulla scelta del difensore di fiducia. Per quanto ne concerne i poteri, al difensore sono riconosciuti i diritti e le facoltà spettanti all’im- putato (art. 99), quelli che presuppongono esclusivamente l’imputato come soggetto agente e gli atti che, se non eseguiti personalmente, necessitano di procura speciale. L’imputato può, con espressa dichiarazione con- traria, togliere effetto all’atto compiuto dal difensore, ma solo anteriormente alla pronuncia del giudice inerente all’atto controverso. 35. Il difensore d’ufficio Qualora l’imputato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo deve essere assistito da un difensore di ufficio (art. 97, co. 1), con le seguenti caratteristiche: a) la sua presenza è da correlare all’im- putato; b) il suo ruolo è sussidiario rispetto a quello del difensore di fiducia, tant’è vero che cessa dalle funzioni non appena l’imputato proceda alla nomina di quest’ultimo; c) ha l’obbligo di prestare il patrocinio salvo che in presenza di un giustificato motivo (in tal caso, se non ha nominato un sostituto, deve avvisare immediata- mente l’autorità giudiziaria specificando le ragioni ostative, così che si possa procedere a una nuova designa- zione). Si è avvertita l’esigenza di garantire l’effettività dell’istituto della difesa d’ufficio, sia alla luce della novella dell’art. 111 Cost., che ha esplicitato che il contraddittorio deve svolgersi tra le parti in condizioni di parità, e che la persona accusata deve disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa, sia per la compiuta disciplina delle indagini difensive. La l. 60/2001 è dunque intervenuta sulle dispo- sizioni del c.p.p. e della corrispondente normativa di attuazione. Ulteriori modifiche, hanno innalzato il livello qualitativo della difesa d’ufficio, e reso più selettivi i requisiti necessari per l’iscrizione nell’elenco nazionale dei difensori d’ufficio. Oggi, a tal fine, l’avvocato deve dimostrare di essere in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti: a) partecipazione a un corso biennale di formazione e aggiornamento professionale in ma- teria penale; b) iscrizione all’albo da almeno 5 anni e documentata esperienza nella materia penale; c) conse- guimento del titolo di specialista in diritto penale. La predisposizione e l’aggiornamento trimestrale dell’elenco dei difensori sono stati trasferiti dai singoli ordini forensi al CNF, il quale è tenuto altresì a fissare annualmente i criteri generali per la nomina dei difensori d’ufficio sulla base della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità. Emerge la diffusa aspirazione a un più alto tasso di automatismo, e lo sforzo di ridurre il più possibile le scelte discrezionali degli organo procedenti. Il perno del nuovo sistema va individuato nell’uf- ficio, con recapito centralizzato, che deve essere istituito presso l’ordine forense del capoluogo del distretto di ogni corte di appello: tale ufficio fornisce, sulla base di una selezione automatica, il nominativo del difensore d’ufficio, ogniqualvolta gli pervenga la relativa richiesta da parte dell’autorità giudiziaria o della polizia giu- diziaria. Tuttavia, in determinate circostanze, l’automatismo della nomina si potrebbe ritorcere contro il sog- getto a favore del quale è stato progettato. Si può dunque non fare ricorso alla procedura informatizzata nell’ipotesi in cui la materia oggetto della notitia criminis riguardi competenze specifiche. Si è poi operato in modo da rendere più vincolata la scelta del destinato a subentrare nelle ipotesi in cui il difensore non sia stato reperito o non sia comparso o abbia abbandonato la difesa (art. 97, co. 4). Se, in una di queste tre circostanze, l’iniziativa deve essere assunta dal P.M. o dalla polizia giudiziaria, si attiva la procedura informatizzata stabi- lita per la prima nomina del difensore d’ufficio – ma, nei casi di urgenza, l’autorità procedente può discrezio- nalmente designare un difensore immediatamente reperibile; quando, invece, la situazione di stallo deve essere affrontata dal giudice, questi può designare come sostituto un altro difensore immediatamente reperibile – ma se la situazione si presenta nel corso del giudizio, può essere nominato sostituto solo un difensore iscritto nell’elenco dei difensori d’ufficio. Per quanto riguarda la retribuzione del difensore d’ufficio, l’indagato viene tempestivamente informato, tra l’altro, del fatto che non gli è consentito di fare a meno del difensore, nonché del suo obbligo di retribuire il difensore d’ufficio, ove non sussistano le condizioni per essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato. In generale: a) il difensore d’ufficio deve farsi carico della procedura esecutiva per il recupero del credito professionale nei confronti dell’assistito inadempiente; b) qualora sia in grado di dimostrare che tale procedura è risultata infruttuosa, il difensore viene retribuito dallo Stato; c) a meno che l’assistito non chieda e ottenga l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, quest’ultimo surroga il difensore nel suo credito verso il soggetto assistito. Si è, infine, dettata una disciplina ad hoc per il caso in cui si sia prestata assistenza a un soggetto resosi irreperibile. 31 39. Le garanzie di libertà del difensore Il diritto di difesa necessita di un adeguato scudo normativo che ponga precisi limiti ai poteri investigativi degli organi inquirenti. L’art. 103 si fa carico della questione. Per quanto riguarda le ispezioni e le perqui- sizioni, se fatte negli uffici dei difensori sono consentite in due sole ipotesi: quando il difensore o altre persone che svolgono stabilmente la loro attività nel suo ufficio sono imputati, e comunque limitatamente all’accerta- mento del reato attribuito a tali soggetti; quando si tratta di rilevare tracce o altri effetti materiali del reato ovvero di ricercare cose o persone specificamente predeterminate. Non possono poi essere sequestrati presso i difensori, gli investigatori privati autorizzati e i consulenti tecnici, le carte e i documenti relativi all’oggetto del processo – a meno che non costituiscano corpo del reato. Sempre con riferimento alle ispezioni, alle per- quisizioni e ai sequestri negli uffici dei difensori, vi sono regole di carattere procedurale che incrementano l’apparato di garanzie già previsto in via generale per questi atti: anzitutto, l’autorità giudiziaria, a pena di nullità, deve comunicare un avviso al locale consiglio dell’ordine per consentire al presidente o a un suo dele- gato di presenziare alle operazioni – nel qual caso, su richiesta dell’intervenuto, deve essergli consegnata copia del provvedimento; inoltre, sono soggetti legittimati a procedere, in prima persona, il giudice o, durante le indagini preliminari, il P.M. (in forza di un decreto motivato del giudice). Anche la corrispondenza e le con- versazioni del difensore sono oggetto di specifiche regole. Per quanto concerne la corrispondenza tra l’impu- tato e il proprio difensore, vige il divieto di sequestro e di ogni altra forma di controllo. È altresì vietata l’in- tercettazione delle conversazioni e delle comunicazioni che difensori, investigatori privati autorizzati e incari- cati in relazione al procedimento, consulenti tecnici e loro ausiliari effettuino tra loro e coi loro assistiti, a meno che non siano conversazioni integranti un reato. Per quanto riguarda il profilo sanzionatorio, in caso di inos- servanza delle disposizioni dell’art. 103 i risultati delle operazioni compiute sono inutilizzabili. Inoltre, il con- tenuto delle comunicazioni e delle conversazioni illegittimamente intercettate non può essere trascritto neppure sommariamente e, nel relativo verbale, si deve solo dare atto della data, dell’ora e del dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Le stesse garanzie si estendono agli assistenti sociali e ai dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze. 43. Gli ausiliari del giudice e del P.M. In senso lato, gli ausiliari sono tutti coloro che affiancano il giudice o il P.M. svolgendo compiti di vario genere, strumentali rispetto alla funzione della figura cui ineriscono. Per ausiliare in senso stretto, invece, si deve intendere il coadiutore istituzionale, ossia colui la cui presenza è contrassegnata dai connotati della con- tinuità e dell’ordinarietà: tale qualifica va dunque riservata al cancelliere, al segretario, all’ufficiale giudiziario e al direttore degli istituti penitenziari. Al cancelliere il codice si rivolge solitamente usando formule generiche (es.: “ausiliario”). Il cancelliere deve assistere a tutti gli atti posti in essere dal giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, redige il processo verbale, autentica gli atti e i provvedimenti emessi dal giudice, custo- disce le cose sequestrate, rilascia copie, notifica l’atto di impugnazione. Presso l’ufficio del P.M., il segretario svolge funzioni analoghe a quelle del cancelliere: svolge funzioni di assistenza, redige il verbale e le annota- zioni degli atti posti in essere dal magistrato inquirente, autentica i suoi atti e provvede alla custodia delle cose sequestrate, comunica gli atti del P.M. e riceve quelli a questo destinati. Quanto all’ufficiale giudiziario, pre- messo che la sua principale funzione p quella di curare l’esecuzione delle notificazioni, egli svolge un’attività ausiliaria sia nei confronti del giudice, che del P.M. Importante corollario è la relazione di notificazione, che documenta l’attività svolta con riferimento all’atto da notificare. L’ufficiale giudiziario ha anche compiti fun- zionali al corretto svolgimento dell’udienza: egli impedisce che i testimoni da esaminare comunichino con quelli già esaminati o cogli estranei e vigila affinché gli stessi, prima del loro esame, non assistano al dibatti- mento. Anche il direttore dell’istituto penitenziario opera come ausiliario sia del giudice che del P.M., es- sendo tenuto a ricevere, iscrivere e inoltrare immediatamente l’atto di impugnazione e gli altri atti contenenti dichiarazioni e richieste destinate all’autorità giudiziaria, presentatigli dal soggetto detenuto o internato. CAPITOLO II. ATTI 1. Premessa Nel libro II, dedicato agli atti, è raggruppato un complesso di regole che, valido per l’intero procedimento, sarebbe antieconomico ristabilire di volta in volta. La creazione di una normativa generale non impedisce 32 chiaramente che, in rapporto alla progressione del rito, si pongano regole speciali. Un primario valore siste- matico assume poi il rilievo che la disciplina contenuta nel libro II si riferisca ad atti che si formano nel contesto del medesimo procedimento: pertanto, la normativa sui documenti, intesi come il prodotto di un’attività svol- tasi fuori dal procedimento, è stata collocata nel libro dedicato alle prove. In assenza di un’esplicita definizione legislativa, si può dire che l’atto processuale penale, sul piano soggettivo, è quello che è posto in essere da un soggetto del procedimento. Sul piano oggettivo, in passato, si soleva dire che gli atti processuali fossero caratterizzati dalla loro attitudine a produrre effetti giuridici dotati di rilevanza processuale penale e dal loro realizzarsi nel contesto del processo penale. Una simile impostazione, però, non appare più oggi accoglibile stante la scelta del codice di definire due distinte sequenze, il procedimento e il processo. Ciò che precede l’esercizio dell’azione penale compone già la sequenza degli atti del procedimento, mentre ciò che segue fa parte anche del processo. Quel che più conta è il dato strutturale. Nella fase delle indagini preliminari difetta un giudice investito del procedimento in senso proprio, dato che l’intervento del g.i.p. si configura come me- ramente eventuale ed è sempre circoscritto al provvedimento richiesto. Solo nel contesto del processo opera un giudice investito della pienezza delle proprie funzioni giurisdizionali e abilitato a pronunciare sentenze. In altri termini, la nozione di “processo” è in rapporto di specie a genere con quella di “procedimento”, che si caratterizza per la giurisdizionalità piena degli atti relativi, che impone la completa attuazione del contraddit- torio. Pertanto, il legislatore ha designato come “atti del procedimento” tutti gli atti anteriori all’esercizio dell’azione penale quanto quelli a essa successivi. Già il fatto che il libro II non si intitoli “atti processuali”, ma solo “atti”, segnala l’operatività delle relative disposizioni anche con riguardo agli atti del procedimento. Resta da individuare l’atto iniziale e quello finale del procedimento medesimo, ai fini dell’applicabilità delle norme ex artt. 109 ss. Circa la questione del momento iniziale, gli atti posti in essere prima che la notizia di reato sia venuta a esistenza non possono mai costituire atti del procedimento. Rilevanti esigenze sistematiche inducono a far coincidere il primo atto del procedimento con quello immediatamente successivo alla ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del P.M.; gli atti nei quali la notizia medesima si sostanzia (es.: denuncia, querela) si collocano al di fuori della sequenza del procedimento penale. Vi sono poi le notizie apprese di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria o dal P.M., in cui la notizia di reato non trova consacrazione originaria in un atto tipico, ma è frutto di un giudizio operato dall’organo procedente circa l’attitudine indiziante di informazioni comunque conosciute. Se la notizia è stata acquisita dal P.M., vigendo l’immediato obbligo di iscriverla nell’apposito registro, è da tale iscrizione che ha inizio il procedimento. Se, invece, la notizia di reato viene formata dalla polizia giudiziaria, il primo atto del procedimento sarà quello cronologicamente anteriore tra gli atti compiuti dopo l’acquisizione della notizia di reato. Anche per l’indivi- duazione dell’atto finale occorre distinguere. Se le indagini preliminari sfociano in un provvedimento di ar- chiviazione, questo sarà l’ultimo atto del procedimento. Se, invece, l’azione penale è stata esercitata, il mo- mento finale sarà la sentenza di non luogo a procedere, o l’irrevocabilità della sentenza pronunciata in giudizio o del decreto penale di condanna. Sono atti processuali penali a tutti gli effetti anche quelli relativi al procedi- mento di esecuzione e al procedimento di sorveglianza. 4. Il divieto di pubblicazione Nell’analisi della disciplina relativa alla conoscenza pubblica degli atti del procedimento non deve essere so- pravvalutato il nesso intrattenuto con la struttura accusatoria del rito. L’art. 114 assegna una circoscritta durata al divieto incondizionato di pubblicazione, ma prevede numerosi, temporanei limiti alla pubblicazione. Ex art. 114, co. 1 e 7, si ricava come il legislatore abbia concepito due tipi di divieto di pubblicazione, a mezzo stampa od ogni altro mezzo di diffusione: il primo concerne la riproduzione totale o parziale dell’atto quale risulta dalla documentazione procedimentale (c.d. divieto relativo); il secondo riguarda la pubblicazione di quanto l’atto esprime anche dal punto di vista concettuale, sicché rileva la pubblicazione fatta in modo mera- mente informativo (c.d. divieto assoluto). Essendo la pubblicazione una modalità di rilevazione, ex art. 114, co. 1, la disciplina del divieto di pubblicazione è messa in correlazione anzitutto agli atti coperti dal segreto investigativo, con un divieto assoluto, che opera per tutta la durata delle indagini preliminari, finché restano ignoti i potenziali autori del reato. Esso cadrà solo con la chiusura della fase, e non investe le indagini difensive. Dal momento in cui è individuata la persona sottoposta alle indagini, il divieto si modella in funzione del regime di conoscenza di ogni singolo atto. A parte quelli al cui compimento abbia partecipato l’indagato o abbia assistito il difensore, il divieto viene meno coi depositi ex artt. 366, 409, co. 2, e 415-bis, co. 2. Tuttavia, 35 28/2015. In senso stretto, si tratta di una causa di non punibilità di natura soggettiva, intesa a produrre una sorta di depenalizzazione in concreto. Trattandosi di norma penale più favorevole, l'istituto scatta in tutti i procedimenti già in corso e anche per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo. All'antica disciplina sostanziale non si accompagna analogo impegno per quella processuale, non essendone compiutamente esplicitate né le regole processuali, né le sedi in cui le sentenze in discorso possono essere pronunciate. La sentenza in esame presuppone l'accertamento del reato perché si può riconoscere la particolare tenuità solo di ciò di cui si predica l'offensiva. Tutto ciò ha comportato una costruzione molto particolare degli effetti della sentenza che dichiara la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Risolvendo le cc.dd. questioni incidentali, le ordinanze governano l'andamento del processo, pur essendovene alcune in grado, altresì, di concluderlo, come quelle che dichiarano l'inammissibilità dell'impugnazione. Assumono forma di ordinanza i provvedimenti del giudice in tema di misure cautelari personali e quelli che concludono l'udienza di convalida. Di regola, le ordinanze sono revocabili. Dal canto loro, i decreti esprimono un comando dell'au- torità procedente, assumendo natura prevalentemente amministrativa, e perciò possono essere messi anche dal P.M.; essi sono assoggettati al regime della revoca, al quale non si sottrae neppure il decreto penale di con- danna, assimilabile tuttavia per i suoi requisiti e per taluni suoi effetti alle sentenze. La scelta cerca l'adozione di un provvedimento con una data forma, rispetto a un altro con forma diversa, è frutto di un'opzione demandata al legislatore (c.d. criterio nominalistico). I decreti, a differenza delle sentenze e delle ordinanze, non abbiso- gnano, se non è diversamente disposto, di motivazione. Essa si sostanzia nell'esposizione concisa delle ragioni di fatto e di diritto che stanno a fondamento del dispositivo del provvedimento. Al tempo stesso, è comminata in linea generale la nullità per la mancanza di motivazione nelle sentenze, nelle ordinanze e, ove prescritta, nei decreti. Secondo la giurisprudenza prevalente, la motivazione per relationem non è causa di nullità se l’atto a cui ci si riferisce sia trascritto, allegato, conosciuto o facilmente conoscibile all’altra parte. L’obbligo motiva- zionale può però essere irrigidito (es.: art. 292, che impone di operare, nell’apparato motivazionale dell’ordi- nanza applicativa di una misura cautelare personale, un’autonoma valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, delle esigenze cautelari, del rilievo degli elementi addotti dalla difesa e delle ragioni del ricorso alla custodia in carcere). La giurisprudenza ammette l’uso di moduli prestampati purché adeguatamente completati. Esi- stono poi provvedimenti adottati senza formalità ed esternabili anche oralmente (art. 125, co. 6). L’art. 125 si occupa anche della deliberazione in camera di consiglio, la quale si caratterizza per l’immediatezza rispetto alla chiusura della trattazione, per l’immutabilità dei giudici rispetto alla trattazione medesima e per la conti- nuità delle operazioni. Dalla fase deliberativa è escluso, unitamente alle parti, l’ausiliario. L’art. 125 co. 4 prescrive il segreto sulla deliberazione, e il co. 5 dispone che “nel caso di provvedimenti collegiali, se lo ri- chiede un componente del collegio che non ha espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale contenente l'indicazione del dissenziente, della questione o delle questioni alle quali si riferisce il dissenso e dei motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto in forma di documento analogico dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio”, per liberare da responsabilità il giudice dissenziente qualora il collegio sia chiamato a rispondere del proprio operato in sede civile. 9. Il procedimento in camera di consiglio La costruzione operata dall’art. 127 di un modello valido per tutti i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio (c.d. rito camerale) adempie a una duplice funzione: realizza un’apprezzabile economia normativa, e assicura il contraddittorio tra le parti e il diritto di difesa dei soggetti interessati. Si possono distinguere i numerosi casi in cui il rinvio a tali forme è integrale, da quelli rispetto ai quali la norma speciale introduce adattamenti anche sensibili: questo perché il procedimento camerale può essere adottato anche ai fini dell’emissione di una sentenza potenzialmente suscettibile di definire il procedimento (es.: sentenza di non luogo a procedere). Il senso della deviazione dal modello si apprezza guardando al modo di realizzazione del contraddittorio. Una garanzia più intensa (c.d. modello forte) vale nell’area dei procedimenti in cui è imposta la partecipazione necessaria del difensore dell’indagato, dell’imputato o dell’interessato, nonché del P.M.: l’udienza per l’incidente probatorio, l’udienza preliminare, l’udienza volta a consentire il proscioglimento prima del dibattimento, l’udienza camerale nel caso di rinnovazione dell’istruzione in grado di appello, le udienze dei procedimenti di esecuzione e di estradizione passiva, l’udienza di convalida dell’arresto in fla- granza e del fermo di indiziato di delitto (per queste ultime due, serve solo la presenza del difensore e non 36 anche quella del P.M.). Per contro, vi sono ipotesi in cui il contraddittorio è assicurato a un livello inferiore rispetto al modello ex art. 127 (c.d. modello debole): il procedimento con cui il giudice autorizza senz’altro la proroga del termine delle indagini preliminari e il procedimento con cui la Cassazione decide i ricorsi quando sussistano i presupposti ex art. 611. Al di là della questione se l’elenco dei procedimenti in camera di consiglio sia tassativo, è certo che tale procedimento non deve essere sempre adottato allorché il giudice assume una deliberazione in camera di consiglio: lo stesso art. 127 divide le due categorie, quando contrappone, alle forme da seguire allorché si deve procedere in camera di consiglio, l’adozione di un provvedimento “anche senza formalità di procedura”. La distinzione fa emergere la categoria dei provvedimenti assunti de plano, senza formalità. L’attuazione del contraddittorio è scandita dall’obbligo, a pena di nullità, di dare avviso alle parti private, al P.M., agli interessati e ai difensori almeno 10 gg. prima della data fissata per l’udienza, e di prov- vedere a nominare un difensore d’ufficio all’imputato che ne sia priva. Fino a 5 gg. prima dell’udienza possono presentarsi memorie in cancelleria. Il procedimento si svolge nel contesto spaziale e temporale dell’udienza. Non è ammessa in aula la presenza del pubblico. Il verbale può essere redatto sia in forma integrale che in forma riassuntiva. Anzitutto si compiono gli atti introduttivi volti ad accertare la regolare costituzione delle parti. Nei procedimenti davanti a organi collegiali la relazione orale è svolta da uno dei component, previa designazione del presidente. Il P.M., gli altri destinatari dell’avviso e i difensori sono sentiti, se compaiono: non è prescritta la partecipazione necessaria del P.M. e del difensore dell’indagato, dell’imputato o dell’inte- ressato, eccettuati i casi di cui sopra. L’art. 127 si occupa poi della fase successiva alla decisione. Si prevedono la forma del provvedimento finale (ordinanza), la sua comunicazione al P.M. e la correlativa notificazione alle parti private, agli interessati e ai difensori, la ricorribilità per cassazione, l’esclusione dell’effetto sospensivo; il giudice può anche disporre diversamente con decreto motivato. In ordine ai provvedimenti deliberati in camera di consiglio, l’art. 127, co. 9, prende in considerazione unicamente quelli conseguenti all’inammissi- bilità dell’atto introduttivo. Tramite il deposito, i provvedimenti emessi a seguito di procedimento in camera di consiglio o de plano entrano a far parte dell’ordinamento. La disciplina ex art. 128 eccettua tanto i provve- dimenti emessi nell’udienza preliminare, quanto quelli emessi nel dibattimento. Se il provvedimento è impu- gnabile, l’avviso di deposito – nel quale è contenuto il solo dispositivo – deve essere comunicato al P.M. e a tutti i titolari del diritto di impugnazione. 10. L’immediata declaratoria di cause di non punibilità e la correzione degli errori ma- teriali L’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e la procedura per la correzione di errori materiali integrano entrambi manifestazioni di un potere di iniziativa ufficiosa del giudice. Per quanto concerne la prima, esigenze di economia processuale e di attuazione del principio del favor rei trovano spazio anche in un sistema che circoscrive l’ambito dell’iniziativa del giudice. Estesa è la gamma delle formule terminative considerate dall’art. 129 e disposte secondo un ordine di priorità improntato alla tutela dell’innocenza dell’im- putato: autonomia è conferita alle formule per cui “il fatto non costituisce reato” ovvero “non è previsto dalla legge come reato”. Nondimeno, il riferimento alla mancanza di una condizione di procedibilità va interpretato in senso estensivo, a ricomprendere anche la mancanza di una causa di proseguibilità. La stessa conclusione vale, poi, per le ipotesi di violazione del divieto del bis in idem. La norma va, inoltre, integrata in via analogica per consentire al giudice di sindacare la pena illegalmente irrogata in contrasto con l’art. 1 c.p. Poiché nella fase delle indagini preliminari non esiste un giudice che proceda, si è dovuto prevedere che l’immediata de- claratoria operi solo nel processo e non anche nel momento anteriore di natura preprocessuale. Nella fase delle indagini preliminari, un compito equivalente è svolto dall’archiviazione della notizia infondata e dalla non punibilità per la particolare tenuità del fatto, per le formule in facto, e dalla mancanza di una condizione di procedibilità, dall’estinzione del reato e dall’essere il fatto non previsto dalla legge come reato, nei confronti delle formule in iure. La norma non viene in gioco nemmeno nel corso dei procedimenti incidentali, mancan- dovi un giudice investito della cognizione del fatto per il quale la causa di non punibilità dovrebbe operare. Nonostante il suo tenore letterale incondizionato, l’art. 129, co. 1, subisce limiti applicativi dipendenti dalla struttura del processo. L’art. 129, co. 2, dispone il proscioglimento nel merito, anche in presenza di una causa estintive del reato, con esclusivo riferimento alle sentenze di assoluzione o di non luogo a procedere: è sancita la prevalenza della formula di merito su quella estintiva, prevalenza che deve risultare evidente dagli atti: la prova della sussistenza dei presupposti per la pronuncia della formula di merito deve essere già stata acquisita, 37 allorché si accerta la causa estintiva, in termini tali da poter essere facilmente “constatata”. Per le sentenze di assoluzione, la prevalenza del merito vale anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussista o che l’imputato l’abbia commesso, che il fatto costituisca reato o che il reato sia stato com- messo da persona non imputabile; per le sentenze di non luogo a procedere, vale ormai la stessa conclusione. L’opinione maggioritaria ritiene che l’art. 129, co. 2, enunciando la regola in ordine alla priorità delle formule più favorevoli rispetto a quella dichiarativa dell’estinzione del reato, ometta di considerare le cause di impro- cedibilità, dimostrando così che la pronuncia di queste ultime prevale su ogni altra formula. Ex art. 469, co. 1- bis per la sentenza predibattimentale, ed ex art. 651-bis per le sentenze assolutorie emesse all’esito del dibatti- mento e del giudizio abbreviato, si trae che in questi contesti processuali la sentenza dichiarativa della parti- colare tenuità del fatto trova spazio, ma per gli altri nasce il quesito circa l’operatività di tale causa di non punibilità. Per la sentenza di non luogo a procedere, l’art. 425, co. 1, orienterebbe verso una risposta positiva, sebbene sia necessaria la richiesta dell’interessato o, quantomeno, il suo consenso. Per i riti speciali che am- putano il dibattimento si delineano percorsi interpretativi accidentati, e la giurisprudenza perseguirà probabil- mente obiettivi di economia processuale. La correzione degli errori materiali (art. 130) mette riparo a devia- zioni non gravi dell’atto dal suo schema tipico. L’apposita procedura opera in presenza di tre presupposti: ne sono oggetto unicamente le sentenze, le ordinanze e i decreti del giudice; all’errore materiale o all’omissione non deve essere ricollegata una previsione di nullità; l’eliminazione dell’errore o dell’omissione non deve comportare una modificazione sostanziale dell’atto. Secondo l’opinione corrente, l’errore si sostanzia in una difformità tra il pensiero del giudice e la sua formulazione, mentre l’omissione riguarda un comando che di- scende dalla legge. Qualora ci siano errori non riparabile, unico rimedio che rimane è l’impugnazione. Com- petente a procedere alla correzione è – anche d’ufficio – il giudice autore dell’atto, ma, quando sia stata pro- posta impugnazione, tocca al giudice ad quem, salvo che dichiari inammissibile l’impugnazione stessa. Il pro- cedimento si svolge in camera di consiglio ex art. 127. Potendosi applicare a numerose ipotesi, le severe con- dizioni ex art. 130, co. 1, possono essere travalicate (es.: erronea attribuzione delle generalità all’imputato, omessa condanna alle spese, completamento della motivazione, condanna della persona in luogo di un’altra per errore di nome). In forza di un’esclusione espressa, la procedura de qua non è applicabile allorché la Cas- sazione abbia omesso di dichiarare nel dispositivo di annullamento parziale quali parti della sentenza diventino irrevocabili – caso in cui la corte pone rimedio con una procedura de plano. L’art. 130, co. 1-bis, sancisce che per le sentenze applicative della pena su richiesta delle parti, ove tocchi rettificare “solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento”, onde ulteriormente deflazionare il ricorso per cassazione avverso le sentenze rese all’esito del rito speciale. Altri errori di tali sentenze, secondo alcuni non emendabili, saranno probabil- mente attratti dalla giurisprudenza nello stesso alveo. Il secondo periodo dell’art. 130, co. 1-bis, demanda poi, in caso di impugnazione, la correzione di quegli stessi errori materiali alla Corte di cassazione. 11. I poteri coercitivi I poteri coercitivi del giudice (art. 131) assumono natura tipicamente amministrativa (c.d. polizia proces- suale). La norma non impone, perciò, l’osservanza di particolari formalità. Il giudice deve avvalersi, anzitutto, della polizia giudiziaria e, solo se quest’ultima non sia in grado di provvedere, ricorrere alla forza pubblica. Tra le manifestazioni del potere coercitivo, in una posizione particolare si colloca l’accompagnamento coat- tivo, a causa della natura degli effetti che scaturiscono da un ordine eseguibile anche con l’uso della forza. Questo istituto si risolve in una restrizione della libertà personale, resa necessaria dall’indispensabile acquisi- zione di un contributo probatorio: esso trova posto, da un lato, tra i provvedimento del giudice e, dall’altro, tra le attività espletabili dal P.M. La disciplina apprestata dagli artt. 131 e 132 si caratterizza per un primo dato unificante: l’accompagnamento coattivo può essere adottato anche per reati di minima entità, per i quali non è consentita l’emissione di una misura coercitiva personale. L’art. 132, dedicato all’accompagnamento coattivo dell’imputato, si limita a dettare sommariamente il relativo procedimento, rinviando per il resto ai “casi previsti dalla legge”. In sintesi, l’accompagnamento coattivo dovrebbe essere preceduto da un avviso notificato o da un decreto di citazione rimasti senza effetto; può essere disposto in sede di incidente probatorio o nel dibatti- mento, con esclusione dell’udienza preliminare; suoi destinatari sono l’indagato, l’imputato e gli imputati di un procedimento connesso; suo scopo è l’assunzione di prove diverse dall’esame. Il decreto motivato di ac- compagnamento assume un’efficacia temporale limitata al compimento dell’atto previsto e di quelli 40 in un procedimento per reato connesso o collegato a quello per cui si procede – ma la norma non opera per le dichiarazioni introdotte a diverso titolo. L’interrogato deve essere “a qualsiasi titolo, in stato di detenzione”. Infine, la norma non vale per gli interrogatori assunti nel contesto spaziale e temporale dell’udienza: sono pertanto esclusi quelli svoltisi in sede di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo o nell’udienza preli- minare. La presenza del difensore è dunque indefettibile. L’accresciuta fedeltà rappresentativa della documen- tazione fonografica o audiovisiva delle relative dichiarazioni non è necessariamente strumentale al loro im- piego in chiave probatoria nel dibattimento. Eppure, analoga esigenza si prospetterebbe anche nei confronti delle dichiarazione resi dagli stessi soggetti, ma non detenuti, al P.M. Per sottrarre l’art. 141-bis a una censura di illegittimità per disparità di trattamento rispetto all’identico uso dibattimentale nei due casi, la disposizione va giocoforza intesa come una previsione volta a rafforzare la determinazione della persona sottoposta a inter- rogatorio ad avvalersi della facoltà di non rispondere, in situazioni in cui il suo esercizio, già indebolito per lo stato di soggezione psicologica, potrebbe essere esposto a sollecitazioni quando il difensore non sia presente. Sono poi tutelati anche i soggetti coinvolti dalle dichiarazioni dell’imputato in quel procedimento, o in un procedimento connesso o collegato, seppur mediatamente. Sussistendo questi tre presupposti, nasce il vincolo a disporre la riproduzione fonografica o audiovisiva integrale (per intero e senza interruzioni): la scelta tra le due è rimessa all’organo procedente, superandosi la mera funzione aggiuntiva esplicata dalla riproduzione audiovisiva. Al giudice o al P.M. è dato provvedere tramite, rispettivamente, la nomina di un perito o di un consulente tecnico: l’organo procedente è direttamente abilitato a liquidare i compensi relativi. La trascrizione non è obbligatoria, ma avviene solo su richiesta di parte, tuttavia la mancata indicazione di limiti temporali profila diseconomie quando l’esigenza sia fatta valere in dibattimento. Nonostante il silenzio della norma, anche il giudice può ufficiosamente disporre la trascrizione. Il contenzioso giudiziario si è sviluppato attorno alla previsione di inutilizzabilità per la mancata documentazione integrale, poiché l’attività diretta a docu- mentare l’atto funge qui da condizione di validità del relativo contenuto. Per il suo indubbio carattere oggettivo e assoluto, l’inutilizzabilità copre ogni impiego dell’interrogatorio: non solo in sede dibattimentale, ma pure nei riti alternativi al processo ordinario, o ai fini dell’adozione di una misura cautelare. 28. L’invalidità degli atti La fattispecie è il complesso degli elementi necessari e sufficienti al prodursi di un determinato effetto giuri- dico. A differenza del processo civile, nel processo penale gli atti sono, in stragrande maggioranza, a forma vincolata: perfezione dell’atto e sua efficacia si implicano reciprocamente. La mancanza anche di un solo elemento della fattispecie non dovrebbe consentire la produzione dei relativi effetti; tuttavia, l’ordinamento non decreta l’invalidità (e quindi l’inefficacia) di ogni difformità, ben potendo alcune di esse risultare del tutto irrilevanti e dare luogo a una mera irregolarità. Ma anche l’atto invalido è raramente del tutto inefficace, per esigenze di economia e di speditezza processuale che spingono il legislatore ad avvalersi del c.d. principio di conservazione degli atti imperfetti. L’atto diviene così idoneo a produrre effetti, ma precari, in attesa di trovare uno dei seguenti sbocchi: o la sanatoria del vizio (che dà vita a un’altra fattispecie, equivalente dal punto di vista degli effetti a quella viziata, ma integrata da uno o più fatti ulteriori – cause di sanatoria – che consolidano ex tunc gli effetti dell’atto), o la declaratoria di invalidità dell’atto (dichiarazione di natura costitutiva del giu- dice che provoca ex tunc l’eliminazione degli effetti dell’atto). L’adozione di un modello accusatorio comporta la creazione di adeguati meccanismi sanzionatori aventi una funzione di supporto rispetto all’osservanza delle forme, e tali da assicurare contemporaneamente l’effettività delle regole sull’ammissione, acquisizione e va- lutazione della prova. Sono correntemente ritenute specie di invalidità l’inesistenza, la nullità, l’inammissibi- lità e l’inutilizzabilità (nonché, stando ai più, l’abnormità), il titolo VII disciplina la sola nullità. All’inammis- sibilità è riservato un unico riferimento, peraltro in negativo (art. 186). La disciplina di tale specie di invalidità non vede neanche enunciato nei suoi confronti il principio di tassatività, che nondimeno le si ritiene solitamente estendibile dalla disciplina della nullità. La tipologia dei requisiti la cui assenza produce l’inammissibilità è alquanto disparata (es.: compimento dell’atto nonostante la scadenza del relativo termine perentorio). Quanto al trattamento, l’inammissibilità, oggetto di autonomo motivo di ricorso per cassazione, è dichiarabile d’uffi- cio, in ogni stato e grado del procedimento, senza altra causa di sanatoria se non quella del giudicato, a meno che non siano espressamente previsti limiti temporali alla sua rilevazione. La pronuncia di inammissibilità (resa con sentenza od ordinanza) ha natura dichiarativa, perché investe un vizio genetico dell’atto: riscontrato il vizio, il giudice non può entrare nel merito della domanda. Nemmeno l’inutilizzabilità è inclusa nella 41 disciplina del libro II, nonostante si tratti di un’autonoma sanzione processuale – come dimostra la sua eleva- zione a motivo di ricorso per cassazione. Si tratta di una sanzione che concerne non tutti gli atti del procedi- mento, ma unicamente quelli probatorio e delle indagini preliminari, funzionale a un’esigenza di tutela della legalità della prova. È arduo costruire una teoria unitaria dell’inutilizzabilità, a causa della varietà delle ipotesi a questa riconducibili. Pertanto, per questa specie di invalidità non è enunciato il principio di tassatività. Non- dimeno, molti ritengono che le ipotesi di inutilizzabilità integrino un numero chiuso anche rispetto alla fase dibattimentale. Sul piano soggettivo, l’inutilizzabilità è, perlopiù, di natura assoluta, perché proveniente da un vero e proprio divieto di ammissione o di acquisizione valido nei confronti di chiunque, mentre solo talora assume natura relativa, in quanto riferita a determinate categorie di soggetti. L’art. 191, co. 2, sancisce la rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, dell’inutilizzabilità, ma la regola è ora derogata dall’art. 438, co. 6-bis: la richiesta di giudizio abbreviato comporta “la non rilevabilità delle inutiliz- zabilità, salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio”. Delicate interferenze si profilano poi col regime della nullità, laddove quest’ultima risulta, al pari dell’inutilizzabilità, ricollegata a talune violazioni del procedimento di assunzione della prova. Premesso che la scelta tra l’una e l’altra appare talvolta del tutto casuale, non è da escludere che un atto probatorio possa risultare in concreto plurisanzionato, per concorrenza dei vizi previsti a pena di inutilizzabilità e di nullità. 29. Il principio di tassatività delle nullità e la tecnica di previsione Le disposizioni in tema di nullità sono dominate dal principio di tassatività: l’art. 177 lo riferisce all’inos- servanza “delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento”, ivi comprese quelle relative alla fase delle indagini preliminari. Dal principio di tassatività discende una serie di corollari. All’interprete non è consentito ricorrere all’interpretazione analogica, facendo leva sulle disposizioni che creano ipotesi di nullità, né, una volta accertata la causa di nullità, valutare se sussista un conseguente pregiudizio effettivo. Nondimeno, esi- genze di ragionevole durata del processo, istanze di semplificazioni, il principio di offensività processuale e una lettura dell’art. 6 CEDU come espressione del criterio della lesività effettiva rispetto alle violazioni del diritto di difesa, hanno indotto le Sezioni unite ad affermare la necessità che sussista un pregiudizio concreto dell’interesse protetto dalla norma processuale violata. Ciononostante, la maggior parte della dottrina ha preso le distanze da questo indirizzo. Nella stessa prospettiva antiformalistica si sono collocate le medesime Sezioni unite, affrontando il delicato tema dell’abuso del processo. Dato che le nullità formano un sistema chiuso, le ipotesi non esplicitamente definite o implicitamente definibili non possono dare luogo a questa specie di inva- lidità. Tra le nullità non sono inquadrabili gli errores in iudicando, vale a dire quei vizi dei provvedimenti del giudice che investono la legge sostanziale, costituenti autonomo motivo di ricorso in cassazione. Nondimeno, anch’essi entrano a far parte della teoria dell’invalidità. Le restanti difformità dallo schema tipico, escluse le specifiche ipotesi di inammissibilità e di inutilizzabilità, non possono che essere riportate alla tipologia della mera irregolarità, produttiva, tuttalpiù, di conseguenze di natura disciplinare, o ricavabili da altri rami dell’or- dinamento. Tutto ciò a meno che non debbano ricondursi in via interpretativo alla specie più grave di invalidità, l’inesistenza. Il ricorso a quest’ultima figura, comprendente quei vizi tanto macroscopici da indurre il legisla- tore a non ipotizzarne neppure l’eventualità e l’interprete a negarne la collocazione tra gli atti giuridici, è frutto di un’operazione interpretativa. L’inesistenza, dunque, non dovrebbe mai essere diagnosticata quando il vizio ricada già in una specie di invalidità disciplinata dal codice. Essa genera un vizio risultabile in ogni stato e grado del procedimento, e anche oltre, mediante una semplice azione di accertamento, in quanto la gravità del vizio è tale da impedire la formazione del giudicato. Dunque, a “nullità” e “annullabilità” civilistiche, si sosti- tuiscono rispettivamente la “inesistenza” e la “nullità” penalistiche. Distinto dall’inesistenza è l’abnormità dei provvedimenti del giudice: l’atto è idoneo a integrare lo schema normativo minimo, ma si caratterizza per il suo contenuto del tutto estemporaneo, strutturalmente o funzionalmente. L’inesistenza pone rimedio alla tassatività delle cause di nullità; l’abnormità, alla tassativa oggettiva delle impugnazioni. La giurisprudenza, per un verso, ha esteso l’istituto fino a comprendere gli atti del P.M., e per l’altro, ne ha consentito la rileva- zione ufficiosa da parte del giudice dell’impugnazione purché ritualmente investito. Tuttavia, l’abnormità è assoggettata ai normali termini ad impugnandum, e dunque perde rilevanza a seguito della formazione del giudicato. Non contrasta col principio di tassatività il fatto che talune nullità siano ricavabili da una disposi- zione generale. L’art. 178, dedicato alle nullità di ordine generale, vi ricomprende l’inosservanza di una serie di disposizioni che concernono il giudice, il P.M., l’imputato – e l’indagato –, le altre parti private, i loro 42 difensori e rappresentanti, nonché “la citazione a giudizio della persona offesa dal reato e dal querelante”. Alle nullità di ordine generale si contrappongono quelle speciali, perché stabilite da un’apposita previsione legislativa, la quale può essere contenuta tanto nel corpo della stessa fattispecie quanto in altre. A evitare che le reciproche interferenze tra tecniche di previsione e regole di trattamento ingenerino difficoltà negli inter- preti, si è precisato che non sempre la previsione in maniera specifica comporta, di per sé, il regime consueto delle nullità speciali (art. 179, co. 2). In sintesi, la distinzione tra nullità “generali” e nullità “speciali” sta nella differente tecnica di previsione legislativa; quella tra nullità “assolute”, “intermedie” e “relative” sta nel trat- tamento previsto dalla legge per le diverse specie di nullità. 30. Le nullità assolute Le nullità che la rubrica dell’art. 179 designa come assolute si caratterizzano per la nota dell’insindacabilità. A ben vedere, le nullità assolute continuano a essere sottoposte alla forza preclusiva del giudicato (rectius, all’irrevocabilità della sentenza e all’immutabilità dell’ordinanza e del decreto che chiude il processo). Inoltre, non sono rilevabili nel giudizio di rinvio le nullità assolute verificatesi anteriormente (c.d. giudicato implicito). Pertanto, le nullità assolute si caratterizzano per il normale regime di insindacabilità fino all’irrevocabilità del giudicato. Il secondo attributo ex art. 179, co. 1, è la rilevabilità ex officio da parte del giudice in ogni stato e grado del procedimento, ma non si tratta di una nota caratterizzante. Il contenuto della categoria si ricava sia dall’art. 179, sia dall’art. 178. Per quanto riguarda la figura del giudice, l’area delle nullità assolute si sovrap- pone per intero a quella delle nullità di ordine generale ex art. 178, co. 1, lett. a. È, pertanto, causa di nullità assoluta l’inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario a costituire i collegi giudicanti (ma non i vizi concernenti la nomina del giudice, ove non rientranti nell’ambito della capacità). Per quanto riguarda la figura del P.M., tra le nullità di ordine generale sono assolute quelle concernenti l’iniziativa del medesimo nell’esercizio dell’azione penale. Sono così ricon- ducibili al regime delle nullità assolute le violazioni delle disposizioni concernenti l’atto di promovimento dell’azione penale, le ipotesi ex art. 405, co. 1, nonché quelle di imputazione coatta e contestazione in udienza del reato commesso o del fatto nuovo, e la citazione diretta a giudizio nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica. Stante l’incompatibilità assoluta fra esercizio dell’azione penale e richiesta di ar- chiviazione, l’inosservanza delle disposizioni dettate al riguardo resta al di fuori della norma. Nell’ambito delle nullità assolute si collocano, invece, le violazioni delle disposizioni sulla capacità e sulla legittimazione del rappresentante del P.M. Per ciò che riguarda l’imputato e il suo difensore, la disciplina codicistica mira a presidiare le numerose sedi del contraddittorio indefettibile. L’intervento dell’imputato è garantito nei con- fronti delle nullità che derivano dall’omessa citazione al dibattimento di primo grado e al dibattimento di se- condo grado. La protezione della vocatio in iudicium investe tutti gli atti che compongono tale fattispecie complessa recettizia, ivi compresa la notificazione. Quanto al difensore dell’imputato, è presidiata da nullità assoluta non solo l’assenza dal dibattimento di primo e di secondo grado, ma pure ogni altra ipotesi in cui ne sia dichiarata obbligatoria la presenza (interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare personale, som- marie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, interrogatorio e confronto delegati dal P.M. alla polizia giudiziaria, udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo degli indiziati, udienza preliminare, udienza tenuta ai fini del proscioglimento prima del dibattimento…). L’art. 179, co. 2, riconosce l’esistenza di nullità a previsione speciale definite espressamente come assolute. 31. Le nullità intermedie Il regime delle nullità generali diverse da quelle assolute è dettato dall’art. 180, la cui rubrica non provvede a etichettature di sorta. L’espressione “nullità intermedie” appare la più opportuna, perché il relativo tratta- mento si situa in posizione mediana tra quello delle nullità assolute e quello delle nullità relative. Le nullità in discorso sono, al pari delle prime, rilevabili anche d’ufficio, mentre, al pari delle seconde, sono sanabili prima dell’irrevocabilità della sentenza e dalle cause generali di sanatoria. Le nullità intermedie non possono essere né rilevate dal giudice, né dedotte dalle parti, se verificatesi prima del giudizio, dopo la deliberazione della sentenza di primo grado o, se verificatesi nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado succes- sivo. In camera di consiglio, al momento della deliberazione, il giudice può rilevare una nullità la cui deduzione non è più consentita alle parti: per queste ultime vale, in concreto, il termine della chiusura del dibattimento o della chiusura della discussione, allorché si proceda in camera di consiglio; un limite di maggior portata per la 45 CAPITOLO III. PROVE 1. Premessa. Le scelte sistematiche della disciplina delle prove Il libro III del codice è dedicato alla tematica delle prove, ed è suddiviso in un titolo I di “disposizioni generali” sulla materia, in un tutolo II sui “mezzi di prova”, e in un titolo III sui “mezzi di ricerca della prova”. Si tratta di una scelta espressione di una svolta sistematica. L’idea di racchiudere in un unico contesto normativo la disciplina delle prove corrisponde a una duplice esigenza: sottolineare la centralità del tema nell’ambito di un processo accusatorio, e ripudiare l’impostazione frammentaria cui erano ispirati i codici previgenti, che indi- viduavano il baricentro del processo non nel dibattimento, ma nelle indagini. Nella conseguita unitarietà di collocazione formale del regime delle prove si riverbera anche il proposito di una sostanziale unitarietà di fondo delle previsioni che vi sono dettate, in vista della costruzione di un vero e proprio sottosistema normativo dedicato alle prove penali, necessariamente articolato sulla regolamentazione del diritto alla prova e sui rap- porti tra prova e decisione. L’aspirazione legislativa mira a un maggior rigore sul piano della legalità della prova, allo scopo di sottolineare la funzionalità delle relative regole rispetto alla formazione del convincimento del giudice. Occorreva, in sostanza, ripristinare il primato del principio di legalità sull’intera disciplina della prova, evitando di ricadere negli schematismi della teoria delle prove legali, ma riaffermando con forza la necessità di ricondurre entro l’ambito di precise previsioni di legge i capisaldi della specifica attività del giu- dice consistente nel conoscere attraverso prove. Da questo angolo visuale, estremamente interessanti sono le disposizioni generali, collocate a preambolo del libro sulle prove (artt. 187-193): ne scaturisce un catalogo di princìpi-guida da osservarsi in materia probatoria, logicamente prioritari rispetto alla regolamentazione dei singoli mezzi e destinati a trovare applicazione ogniqualvolta, nel corso del processo, si ponga un problema di prova di fatti rilevanti ai fini della decisione. Sia per la loro attitudine unificatrice in rapporto all’intero sistema delle prove, sia per i loro contenuti talora fortemente innovatori, le suddette disposizioni generali costituiscono uno dei settori di più elevato risalto ideologico e culturale dell’intero codice, delineando in concreto le nerva- ture del diritto alle prove e, prima ancora, ponendo le premesse di una teoria della prova. Rimane aperto il delicato interrogativo circa la sfera di operatività delle disposizioni in questione. 2. Segue: il problema della sfera di incidenza della normativa contenuta nel libro sulle prove Fermo restando che il libro III non è l'unico luogo del codice dove siano ospitate delle norme sulla prova, ci si deve domandare se le disposizioni in esso contenute possano trovare applicazione anche al di là delle aree processuali tecnicamente destinate alla formazione della prova (il dibattimento e l'incidente probatorio). Non si vede come potrebbe sostenersi che le norme del libro sulle prove non debbano applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento, con riferimento ai diversi momenti in cui è previsto l'intervento del giudice anche nel merito. Facendo riferimento in particolare all'attività del giudice in sede di udienza preliminare, sembra fuori discussione che questo debba attenersi, di regola, alle norme sancite nel libro III, nei limiti risultanti dalle specifiche previsioni di natura derogatoria. La conclusione non può essere diversa anche riguardo alle ipotesi in cui il giudice sia chiamato a intervenire, nel corso delle indagini preliminari, nell'adempimento del suo tipico compito di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali: il g.i.p., di fronte agli elementi probatori fornitigli a supporto delle correlative richieste, può utilizzare alla base del proprio provvedimento soltanto quelli il cui impiego non sia incoerente con la corrispondente disciplina stabilita in materia di prove. Assai più delicato è il discorso per quanto concerne l'operatività delle disposizioni sulle prove contenute nel libro III rispetto alle indagini preliminari svolte dal P.M.: sia per la loro ordinaria inidoneità a conseguire risultati utilizzabili come prova in sede dibattimentale, sia a causa della scelta legislativa di adottare per molti di essi una terminologia diversa rispetto ai corrispondenti atti compiuti di fronte al giudice. Ciò non può significare, tuttavia, che il P.M. sia un organo legibus solutus nello svolgimento delle indagini preliminari, senza alcun obbligo di osservanza almeno dei princìpi di fondo dettati sul terreno probatorio. Non solo perché vi sono atti del P.M. e della polizia giudiziaria per loro natura destinati a essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, e altri atti che il medesimo valore possono assumere per effetto del verificarsi di determinate circostanze, o in conseguenza del loro impiego per le contestazioni dibattimentali, ovvero a seguito di lettura dei relativi verbali, o ancora in forza di accordo intervenuto tra le parti. Ma anche perché dipende in definitiva dal consenso delle parti che tutti gli atti di indagine preliminare compiuti dal P.M. possano venire utilizzati come prove alla base 46 di una sentenza di merito idonea a definire il procedimento prima del passaggio al dibattimento. In altri termini, se è vero che le indagini preliminari del P.M. sono suscettibili, nelle ipotesi appena ricordate, di assurgere al livello di prova, contribuendo così in positivo alla formazione del convincimento del giudice, non è pensabile che le medesime possano svolgersi al di fuori di qualunque riferimento alla disciplina dettata nel codice in materia di attività probatoria. Anzi, è da ritenere che tale disciplina debba operare anche con riguardo alle predette indagini, nella misura dell'oggettiva compatibilità con le stesse. Se ne desume, anzitutto, che le di- sposizioni generali con cui si apre il libro III debbano senz'altro applicarsi anche nel corso delle indagini preliminari del P.M., pur entro i limiti consentiti dalla natura e dalla finalità delle stesse. Per quel che concerne la disciplina dei mezzi di ricerca delle prove “precostituite”, non sembra dubbio che essa debba venire osser- vata dal P.M. e dalla polizia giudiziaria. Al di là del dato formale rappresentato dalla circostanza che tali norme individuano, perlopiù, quale proprio destinatario la “autorità giudiziaria” in generale, appare infatti decisivo il rilievo che, se le medesime non dovessero trovare applicazione nella fase preliminare al dibattimento, non si comprenderebbe la loro stessa ragion d'essere, e si lascerebbero praticamente all'arbitrio degli organi inquirenti i casi e i modi di svolgimento delle corrispondenti attività. Se poi si aggiunge che le attività in questione corrispondono agli “atti non ripetibili” da includersi nel fascicolo per il dibattimento, ci si rende conto a mag- gior ragione come non possa ammettersi che le medesime si svolgano senza l'osservanza delle norme correla- tivamente dettate in tema di mezzi di ricerca della prova. Lo stesso non può dirsi, invece, in ordine la disciplina dei mezzi di prova, che non a caso risulta dettata facendo di regola riferimento al solo “giudice”, trattandosi di atti normalmente affidati alla sua gestione, in quanto destinati a sfociare in prove formate nel processo. La regolamentazione codicistica delle omologhe attività da parte del P.M., all'interno delle indagini preliminari, presenta la sua specifica autonomia. Depone a sostegno di questa interpretazione la circostanza che gli atti del P.M. corrispondenti a tali mezzi di prova siano stati regolati avendo anche cura di usare anche una differente nomenclatura. Sembra allora doversi concludere che le norme relative ai diversi mezzi di prova non debbano in linea di massima applicarsi nel corso delle indagini preliminari del P.M. – fatti salvi gli specifici riferimenti del legislatore. Ciò non significa, peraltro, che non si possa talora pervenire in sede interpretativa a ritenere applicabili le norme dettate per i mezzi di prova anche con riferimento particolari attività o situazioni ricondu- cibili all'ambito delle indagini preliminari del P.M. Poiché nel codice non manca un'apposita e autonoma di- sciplina per gli atti di indagine del P.M. omologhi ai tipici mezzi di prova, bisogna concludere che le norme previste per questi ultimi nel libro III solo in via del tutto residuale debbano trovare applicazione riguardo ai primi, solo per gli aspetti non coperti dalla loro specifica disciplina, ed esclusivamente allo scopo di stabilire le idonee garanzie minime per il relativo procedimento di acquisizione probatoria, in assenza delle quali il medesimo procedimento potrebbe risultare gravemente deficitario rispetto ai principi fondamentali del sistema. 3. L’oggetto della prova Con l’art. 187 il legislatore si dedica alla definizione dell’oggetto della prova. Omessa ogni enfatica allusione a un irraggiungibile “accertamento della verità”, si è passati a definire l’oggetto della prova facendo riferimento al tema della decisione, fissando così il requisito della pertinenza come criterio-guida per lo sviluppo dell’at- tività probatoria, ma anche, nel contempo, per la definizione dei suoi confini. Di qui l’elencazione dei “fatti” suscettibili di diventare oggetto dell’accertamento probatorio (art. 187, co. 1), con lo sforzo di limitare il thema probandum: tali, da un lato, i fatti che si riferiscono all’imputazione, dall’altro quelli concernenti la punibilità dell’imputato, nonché la determinazione della pena o della misura di sicurezza. Quando vi sia costituzione di parte civile, il tema probatorio è destinato ad allargarsi fino a includere le questioni derivanti dall’esercizio dell’azione civile in sede penale. Sono oggetto di prova, in tal caso, anche i fatti inerenti alla responsabilità civile da reato e quelli relativi ai danni da questo prodotti, già ricompresi nella sfera di accertamento attinente all’imputazione (art. 187, co. 3). L’oggetto della prova è esteso anche ai cc.dd. fatti processuali, ossia quelli “dai quali dipende l’applicazione di norme processuali” (art. 187, co. 2). Il principio dell’art. 187 si configura come un cardine primario per l’intero sistema delle prove, che in esso trova non solo un limite oggettivo, ma anche un punto di riferimento per qualunque successiva valutazione finalizzata all’ingresso della prova in sede processuale. Il criterio di pertinenza rappresenta il parametro di fondo circa la rilevanza della prova in vista della sua ammissione (art. 190, co. 1), oltreché per la soluzione dei diversi problemi che si possono porre in sede di assunzione di determinate prove. Si distingue tra prove dirette e prove indirette, a seconda che le stesse si riferiscano, o non si riferiscano, immediatamente al thema probandum principale, quale risulta 47 dall’art. 187: sono prove dirette quelle aventi per oggetto il fatto da provare, mentre sono prove indirette quelle che non hanno direttamente a oggetto il fatto da provare, bensì un altro fatto, dal quale il giudice potrà risalire al primo solo attraverso un’operazione mentale di tipo induttivo. Queste ultime prove si definiscono anche prove indiziarie, così da sottolinearne la natura tipicamente inferenziale, e tali sono gli “indizi” cui si riferisce la regola di valutazione ex art. 192, co. 2 – da non confondersi con gli “indizi” richiesti quale presupposto per l’adozione di una misura cautelare, idonei a concretare soltanto una situazione di fumus commissi delicti. Nel linguaggio comune, si distingue anche tra prove storiche (o rappresentative) e prove critiche (o non rappre- sentative), a seconda che il fatto da provare venga descritto o, comunque, riprodotto immediatamente davanti al giudice, ovvero che, invece, si renda necessario l’intervento di inferenza del medesimo giudice, sulla base di un itinerario logico-critico simile a quello delle prove indirette. Tuttavia, le due suddette classificazioni non possono ritenersi coincidenti: la prima fa leva sull’eventualità che la circostanza oggetto della prova si riferisca direttamente, o no, al tema da provare, mentre la seconda pone l’accento sul processo logico seguito dal giudice per ritenere raggiunto il risultato probatorio su quel tema. 4. Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona La questione delle prove atipiche (o innominate) è al centro di discussioni tra due opposti, ispirati al criterio di tassatività, ovvero a quello di libertà delle prove. Il codice ha operato una scelta intermedia, decidendo di non dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti delle prove “non disciplinate dalla legge”, ma di tra- sferire in capo al giudice, caso per caso, il compito di un vaglio preliminare circa l’ammissibilità di tali prove – purché si tratti, ovviamente, di prove non vietate dalla legge. Il giudice avrà il potere di decidere, di volta in volta, se la prova atipica possa trovare ingresso in sede processuale, sulla base di una verifica subordinata a due distinte e concorrenti valutazioni: che essa “risulti idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti”, e che “non pregiudichi la libertà morale della persona”. Qualora venga riconosciuta l’ammissibilità della prova, sarà ancora compito del giudice definirne in concreto le modalità di assunzione, sentite le parti per concordare, se possibile, le relative cadenze procedurali (art. 189). La tutela della libertà morale della persona assume in ogni caso un ruolo determinante rispetto all’esito di tale valutazione: nessuna prova potrà essere ammessa ex art. 189, qualora possa derivarne una lesione alla libertà morale del soggetto che vi è coinvolto. Si tratta di un’applicazione del principio di fondo per cui non possono essere utilizzati, neppure col consenso della persona interessata, tecniche o metodi probatori “idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti” (art. 188). Nessuna prova potrà essere ammessa, né tantomeno assunta, quando la stessa presupponga il ricorso a metodiche tali da vanificare, o comunque da compromettere, la normale attitudine alla persona all’autodeterminazione e all’esercizio delle facoltà mnemoniche e valutative (es.: ipnosi). E ciò non tanto per una preoccupazione rilevante sotto il profilo dell’attendibilità delle risultanze così conseguibili, quanto per un’esigenza di tutela della libertà morale della persona, da intendersi in chiave oggettiva quale valore prioritario rispetto a quello dell’accertamento processuale. 5. Diritto alla prova e criteri di ammissione La disciplina delle modalità di ammissione della prova costituisce uno dei terreni sui quali più decisamente incide il modello del processo di parti, in cui il giudice deve decidere iuxta alligata et probata partium. Corol- lario di questa impostazione è il riconoscimento nei confronti delle parti di un vero e proprio “diritto alla prova” (tipica manifestazione del diritto di difesa), che il codice esplicitamente sancisce. Capovolgendo la logica inquisitoria ispirata all’idea dell’iniziativa officiosa del giudice in materia di prove, e relegando nei confini delle eccezioni stabilite dalla legge “i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio”, l’art. 190 afferma con chiarezza il principio per cui “le prove sono ammesse a richiesta di parte”, e su tale base impone al giudice di provvedere “senza ritardo con ordinanza” alla delibazione di ammissibilità che gli è demandata. Emerge così il duplice livello sul quale si articola il diritto alla prova riconosciuto alle parti: in primo luogo come diritto di richiedere l’ammissione di determinate prove, espressivo di un potere di disponibilità in ordine all’intera gamma delle prove ammissibili (e di un onere di iniziativa al fine dell’acquisizione al processo delle stesse), salve le ipotesi in cui è consentito al giudice un intervento ex officio; in secondo luogo, adempiuto tale onere, come diritto a ottenere la prova richiesta, entro i limiti in cui la medesima possa venire ammessa, o comunque a ottenere una tempestiva pronuncia sulla richiesta ritualmente formulata. È esplicitamente attribuito all’im- putato il diritto a ottenere l’ammissione delle prove a discarico “sui fatti costituenti oggetto delle prove a 50 8. La testimonianza Il libro III del codice colloca in due titoli separati la disciplina dei singoli mezzi di prova e, rispettivamente, dei mezzi di ricerca della prova, per la diversa incidenza di tali mezzi sui meccanismi di formazione del con- vincimento del giudice: mentre i mezzi di prova (testimonianze, esami delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizie, documenti) si caratterizzano per la loro attitudine a offrire al giudice risultati direttamente utilizzabili ai fini della decisione, i mezzi di ricerca della prova (ispezioni, perquisizioni, seque- stri, intercettazioni telefoniche) risultano funzionalmente diretti a permettere l’acquisizione di cose, tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria. Inoltre, dal punto di vista tecnico e operativo, i mezzi di ricerca della prova sono diretti a propiziare l’acquisizione al processo (perlopiù attraverso atti fondati sulla sorpresa) di elementi probatori precostituiti rispetto al medesimo, laddove i mezzi di prova si qualificano per la loro funzionalità ad assicurare la formazione della prova in sede processuale. Nel caso dei mezzi di prova, pertanto, l’attenzione legislativa si concentra soprattutto sulle modalità di assunzione in iudicio della prova medesima, mentre per i mezzi di ricerca della prova assume prioritaria importanza il regime delle mo- dalità di individuazione e di ingresso nel processo di elementi preesistenti rispetto allo svolgimento proces- suale. Tra i principali mezzi di prova vi è la testimonianza (artt. 194-207), il cui oggetto e i cui limiti sono definiti chiaramente dall’art. 194. Di articolata disciplina gode la c.d. testimonianza indiretta (art. 195). Da un lato, viene sancita la generale inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia indicare la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia al centro dell’esame testimoniale (art. 195, co. 7), da cui deriva il divieto di acquisizione e di impiego delle notizie provenienti dagli informatori confidenziali dei quali gli organi di polizia e dei servizi di sicurezza non abbiano rivelato i nomini, essendo espressamente facoltizzati a tacerli – il tutto in applicazione del principio che vieta le testimonianze di provenienza anonima. D’altro lato, viene previsto che, quando il testimone riferisce fatti o circostanze, la cui conoscenza dichiari di aver appreso da persone diverse, queste ultime non solo possono essere chiamate a deporre d’ufficio dal giudice, ma devono comunque esserlo su richiesta di parte, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato (art. 195, co. 1- 3) laddove tale richiesta venga disattesa (salvo che l’esame del testimone direttamente a conoscenza dei fatti sia impossibile a causa di morte, di infermità ovvero di irreperibilità, nel qual caso l’utilizzo delle medesime dichiarazioni è sempre consentito). L’art. 195, co. 4, stabilisce il divieto, nei confronti di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni, onde garantire il prin- cipio di oralità della prova ed evitare l’aggiramento dei limiti all’utilizzabilità dei verbali delle dichiarazioni rese agli organi di polizia, nella fase preliminare, da persona informate sui fatti. All’esigenza di assicurare sempre l’operatività di un controllo sulla fonte delle deposizioni di “seconda mano” obbedisce anche la regola di esclusione della testimonianza dei soggetti che facciano riferimento a fatti conosciuti da persone titolari di un segreto professionale o di un segreto d’ufficio (o di Stato), sempreché le medesime persone non abbiano deposto sugli stessi fatti o non li abbiano altrimenti divulgati. Dopo aver delineato in termini organici i capi- saldi della capacità di testimoniare (art. 196), il codice si sofferma a descrivere la disciplina delle incompati- bilità del relativo ufficio (art. 197), e in particolare le ipotesi di incompatibilità a testimoniare dell’imputato: essa trova la sua imprescindibile premessa negli avvertimenti preliminari che, ex art. 64, co. 3, debbono essere dati a ogni persona indagata o imputata in sede di interrogatorio, nonché nelle conseguenze che il successivo co. 3-bis fa discendere dalla violazione della relativa previsione. Per quanto concerne l’area dell’incompatibi- lità, essa risulta oggi circoscritta in termini assoluti alla situazione di chi sia coimputato del medesimo reato o imputato in un procedimento connesso, o di un reato collegato, sempreché nei suoi confronti non sia già stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento o di condanna – o di applicazione della pena. L’incom- patibilità del testimone imputato in un procedimento connesso o collegato non opera allorché si realizzino le circostanze ex art. 64, co. 3, lett. c, dopo che all’imputato dichiarante sia stato dato il relativo avvertimento: in tali casi, gli imputati assumono il ruolo di testimone in ordine ai fatti concernenti la responsabilità di altri che siano stati oggetto delle proprie precedenti dichiarazioni. Tutto ciò trova conferma nell’art. 197-bis, destinato a disciplinare la posizione delle persone imputate in un procedimento connesso o collegato, ma che possono ricoprire l’ufficio di testimone. Tali sono, anzitutto (art. 197-bis, co. 1), tutti gli imputati ex art. 197, allor- quando nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena; in secondo luogo (art. 197-bis, co. 2), tutti gli imputati in un procedimento connesso o di un reato collegato, i quali in sede di interrogatorio abbiano reso dichiarazioni concernenti l’altrui 51 responsabilità, essendo stati ritualmente preavvertiti circa le conseguenze del rilascio di simili dichiarazioni in ordine all’assunzione, da parte degli stessi, dell’ufficio testimoniale. Le previsioni ex art. 197-bis, co. 1 e 2, definiscono l’ambito soggettivo degli imputati destinatari della particolare disciplina ivi delineata, qualora gli stessi assumano l’ufficio di testimone. Un testimone che è tale a tutti gli effetti e rispetto al quale dovranno osservarsi i comuni adempimenti relativi all’introduzione della prova testimoniale; ma anche, al contempo, un testimone che gode di un regime garantistico particolare, in ragione del rischio che dall’adempimento del do- vere di deporre possa derivargli pregiudizio sul terreno dell’accertamento delle proprie eventuali responsabi- lità. Anzitutto si stabilisce che nelle ipotesi in questione il testimone venga assistito da un difensore (c.d. “te- stimone assistito”), nominato d’ufficio se manca quello di fiducia. E, sebbene a questo difensore non venga attribuito un diritto di partecipare all’esame come al difensore dei soggetti ex art. 210, co. 4, non sembra dubbio che al medesimo difensore debba essere riconosciuto il diritto di presenziare all’esame dei testimoni ex art. 197-bis, e il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve, a tutela della posizione del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale. Per quanto concerne più spe- cificamente gli “obblighi” di quest’ultimo testimone di fronte al giudice, l’art. 197-bis, co. 4, individua due ipotesi specifiche con riferimento alle quali il medesimo testimone può legittimamente rifiutarsi di rispondere alle relative domande: quando si versi in una delle situazioni ex art. 197-bis, co. 1, il testimone è esonerato dall’obbligo di deporre sui fatti per i quali in giudizio sia stata pronunciata a suo carico sentenza irrevocabile di condanna, allorché nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità, ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione; inoltre, quando si versi in una delle situazioni ex art. 197, co. 2, il testimone è esonerato dall’obbligo di deporre su fatti concernenti “la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti”. Accanto a queste garanzie, destinate a operare ex ante, come limiti rispetto all’ordinaria estensione dei doveri testimoniali, l’art. 197-bis, co. 5, si preoccupa di predisporre anche una garanzia ex post: tali dichiarazioni non possono essere utilizzate “contro” la persona da cui provengano non solo nel procedimento a suo carico, ove ancora in corso, ma nemmeno nell’eventuale procedimento di revi- sione della sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, né in qualsiasi altro giudizio relativo al fatto oggetto di tali procedimenti o di tale sentenza. Si tratta di una previsione di chiusura, grazie al quale viene assicurata all’imputato dichiarante sul fatto altrui una sorta di garanzia “ombrello” idonea a funzionare a largo raggio rispetto a tutte le dichiarazioni da lui rese come testimone ex art. 197-bis. Infine, secondo l’ultimo comma della disposizione, alle dichiarazioni provenienti dai testimoni indicati nel medesimo art. viene estesa la regola ex art. 192, co. 3, nel senso di esigere che anche le suddette dichiarazioni, per assumere pieno valore probatorio, debbano venire corroborate da “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”. Per quanto riguarda i doveri processuali cui è tenuto in via generale il soggetto che assume la veste di testimone, l’art. 198 – dopo aver definito i tradizionali obblighi propri dell’ufficio testimoniale (presentarsi al giudice, attenersi alle prescrizioni e rispondere veridicamente) – vi ricollega esplicitamente la classica garanzia contro il rischio della self-incrimination, stabilendo che il medesimo teste “non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”. La disposizione non costituisce, tuttavia, l’unica eccezione all’obbligo del testimone di rispondere secondo verità alle domande rivoltegli. Vi sono ulte- riori deroghe, da inquadrarsi perlopiù tra gli effetti dei segreti opponibili allo stesso giudice, e modellate come altrettanti divieti rispetto all’assunzione della testimonianza in chiave obbligatoria, sia pure con diverse mo- dulazioni, a seconda che in capo al testimone sussista una facoltà, oppure un obbligo, di astenersi dal deporre. A parte la disciplina della testimonianza dei prossimi congiunti dell’imputato, imperniata sull’ordinario rico- noscimento della facoltà di astensione e sul diritto al relativo avviso, a pena di nullità (art. 199) – salvo che abbiano presentato denuncia, querela o istanza, ovvero essi, o un loro prossimo congiunto, siano offesi dal reato – le deroghe all’obbligo della deposizione sono dunque riconducibili alla sfera dei segreti, cui la legge attribuisce rilevanza in sede di acquisizione probatoria. Per quanto riguarda l’ambito del segreto professionale (art. 200), oltre alle categorie tradizionalmente legittimate all’opposizione di tale segreto, va segnalato il rife- rimento anche agli esercenti altri uffici o professioni cui la legge “riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale”. Un limite a tale facoltà è però previsto in rapporti ai casi in cui i soggetti ex art. 200 hanno l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria le notizie conosciute “per ragione del proprio ministero, ufficio o professione”. Fermo restando il potere del giudice di ordinare che, in ipotesi del genere, il testimone deponga, tutte le volte in cui abbia accertato l’infondatezza della dichiarazione di segre- tezza opposta dal medesimo per esimersi dal deporre, un regime particolare è previsto nei confronti dei 52 giornalisti professionisti iscritti all’albo, relativamente ai nomi delle persone che abbiano loro fornito notizie in via fiduciaria: a essi viene estesa la normativa dettata per il segreto professionale, ma al giudice è sempre riservato il potere di obbligarli a rivelare l’identità di tali persone, quando le suddette notizie siano indispen- sabili per la prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso l’identificazione della fonte fiduciaria (art. 200, co. 3). Disciplina analoga è estesa anche ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di un pubblico servizio in rapporto alla tematica del segreto d’ufficio, seppure con la variante che a essi non compete la facoltà, ma “l’obbligo di astenersi dal deporre” su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio “che debbono rimanere segreti” (art. 201) – fatti salvi i casi in cui tali soggetti hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria. Gli ufficiali e gli agenti di polizia e gli appartenenti ai servizi di sicurezza possono non rivelare i nomi dei propri informatori confidenziali, senza alcuna possibilità per il giudice di obbligarli a fornire le relative indicazioni, fermo in tal caso il divieto di acquisizione e di utilizzo processuale delle informazioni provenienti dai medesimi (art. 203, co. 1). Quanto alle ipotesi di opposizione del segreto di Stato, in sede testimoniale, da parte degli stessi soggetti tenuti a opporre il segreto d’ufficio, l’art. 202, fermo restando l’obbligo di tali soggetti di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato, ribadisce l’obbligo dell’autorità giudiziaria di rivolgersi al presidente del Consiglio dei ministri al fine di chiedere con- ferma della sussistenza di quel segreto, sospendendo nel frattempo ogni iniziativa volta ad acquisire la notizia oggetto del segreto. Se entro 30 gg. la relativa conferma venga fornita, all’autorità giudiziaria sarà vietata l’acquisizione e l’utilizzazione “anche indiretta delle notizie coperte dal segreto”: allorché il giudice reputi essenziale la conoscenza delle notizie così inibite alla sua sfera cognitiva, potrà soltanto dichiarare con sen- tenza “non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato”; altrimenti, il processo potrà proseguire. A maggior ragione, qualora il presidente del Consiglio dei ministri neghi la sussistenza di un tale segreto, o comunque non ne dia conferma entro 30 gg. dalla notificazione della corrispondente richiesta, l’autorità può senz’altro acquisire la notizia. L’art. 202, co. 7, si preoccupa di descrivere a grandi linee le possibili alternative nell’ipotesi in cui, a seguito della conferma della sussistenza del segreto di Stato da parte del presidente del Consiglio, venga sollevato a opera dell’autorità giudiziaria un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale (alla quale il segreto di Stato non è mai opponibile): qualora il conflitto venga risolto nel senso dell’insussistenza del segreto, il presidente del Consiglio non può più opporlo “con riferimento al medesimo oggetto”; qualora, invece, il conflitto venga risolto nel senso della sussistenza del segreto, l’autorità giudiziaria non può “né acquisire, né utilizzare, direttamente o indirettamente” gli atti o i documenti rispetto ai quali il medesimo segreto è stato opposto. L’art. 204 vieta, infine, che possano venire opposti il segreto d’ufficio e il segreto di Stato su fatti, notizie e documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzio- nale ̧nonché i delitti ex artt. 285, 416-bis, 416-ter e 422 c.p., riservando in caso di opposizione al giudice di definire la natura del reato: tuttavia, del provvedimento di rigetto di tale eccezione deve essere data comuni- cazione al presidente del Consiglio, allo scopo di consentirgli le opportune iniziative nell’ipotesi di contrasto con le valutazioni operate dal giudice. L’art. 66, co. 2, disp. att. attribuisce, in ipotesi del genere, al presidente del Consiglio il potere di “confermare” il segreto con atto motivato quando ritenga che il fatto, la notizia o il documento coperto dal segreto di Stato non concerne il reato per cui si procede; in mancanza di tale conferma, nei 30 gg. successivi alla prevista comunicazione, il giudice potrà procedere al sequestro del documento o all’esame del soggetto interessato. Dopo aver trattato delle modalità di assunzione del presidente della Repub- blica, dei grandi ufficiali dello Stato (art. 205) e degli agenti diplomatici (art. 206), riveste notevole importanza il trattamento processuale della testimonianza falsa o reticente: a cominciare dall’esclusione di qualunque rapporto di pregiudizialità del relativo procedimento rispetto al procedimento principale e dal divieto della possibilità di arresto in udienza per il testimone. L’art. 207 distingue nettamente il profilo dell’iniziativa penale contro il testimone per falsa testimonianza e il profilo della valutazione della testimonianza da parte del giudice del processo: a quest’ultimo è imposto di informare il P.M., ove ne ricorrano gli estremi, soltanto con la deci- sione conclusiva della fase processuale in cui il testimone ha deposito – salva l’autonomia del P.M. stesso di promuovere l’azione penale anche prima dei suddetti adempimenti. Analoga disciplina è dettata, dagli artt. 371-bis e 371-ter c.p., per i delitti di false informazioni al P.M. e di false dichiarazioni al difensore. 9. L’esame delle parti L’esame delle parti private (artt. 208-210) in sede dibattimentale e di incidente probatorio è un vero e proprio mezzo di prova, sebbene di natura eventuale, essendo la sia esperibilità subordinata alla volontà delle parti 55 l'esecuzione in forma coattiva, attraverso l'uso dei necessari mezzi di coercizione fisica, peraltro da impiegarsi in misura proporzionata allo scopo e per il solo tempo strettamente necessario all'esecuzione del prelievo o dell'accertamento. L'accertamento peritale è comunque nullo quando la persona che vi è sottoposta non sia assistita dal difensore. Tornando alla perizia in generale, una volta che il giudice abbia conferito l'incarico, con la formulazione dei relativi quesiti (art. 226), si segnalano soprattutto le disposizioni riguardanti le attività peritali e la conseguente relazione. Circa l'espletamento delle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti che gli siano stati proposti, il perito può essere autorizzato dal giudice ed assistere all'esame delle parti e all'as- sunzione di altre prove, mentre potrà prendere visione degli atti e delle cose prodotti dalle parti soltanto nei limiti in cui i medesimi siano acquisibili al fascicolo dibattimentale (art. 228, co. 1 e 2). È consentito poi che il perito raccolga notizie dall'imputato, dall'offesa o anche da altre persone, ma gli elementi così acquisiti potranno essere utilizzati solo ai fini dell'accertamento peritale (art. 228, co. 3). Quanto alla relazione finale della perizia, si prevede che il perito risponda immediatamente ai quesiti propostigli, e comunque in forma orale, mediante parere raccolto nel verbale (art. 227, co. 1 e 2), salvo peraltro al giudice il potere di autorizzare anche la presentazione di una relazione scritta, ove la stessa risulti indispensabile a illustrare il suddetto parere. Qualora il perito non sei in grado di fornire una risposta immediata, e sempre che il giudice non ritenga di sostituirlo (art. 231), si prevede la concessione di un termine, non superiore a 90 gg. – ma prorogabile fino a un massimo di 6 mesi – entro il quale il medesimo dovrà fornire il prescritto parere (art. 227, co. 2 e 4). La presumibile durata dell'accertamento peritale è presupposto di ammissibilità dell'incidente probatorio quando la medesima, se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a 60 gg. Per la tutela dei diritti delle parti è prevista la partecipazione dei consulenti tecnici – nominati dal P.M. e dalle parti private in numero non superiore a quello dei periti – per tutta la perizia, fin dal momento della formula- zione dei questi (art. 226, co. 2). Possono essere sottoposti a esame sia i periti che i consulenti tecnici, secondo le disposizioni dettate per l’esame dei testimoni. Relativamente alle modalità di intervento dei consulenti tec- nici, essi sono autorizzati ad assistere al conferimento dell'incarico e a partecipare a tutte le operazioni peritali (di cui le parti debbono essere informate ex art. 229): non solo formulando osservazioni e riserve, ma anche proponendo al perito lo svolgimento di specifiche indagini, con la previsione che delle une e delle altre debba darsi atto in sede di relazione (art. 230, co. 1 e 2). I consulenti tecnici possono sempre prendere visione delle relazioni, ed essere autorizzati dal giudice a esaminare le persone, le cose o i luoghi oggetto della perizia, purché non ne derivi ritardo all'esecuzione della perizia o al compimento di altre attività processuali (art. 230, co. 3 e 4). L’art. 233 prevede la possibilità di nomina e di intervento dei consulenti tecnici delle parti anche nelle ipotesi in cui non sia stata disposta perizia, con la conseguente attribuzione a tali consulenti del potere di esporre al giudice il proprio parere su singole questioni, eventualmente attraverso la presentazione di memorie – in attuazione del diritto alla prova in ordine materie che potrebbero anche dare luogo a perizia. Qualora successivamente alla nomina del consulente tecnico il giudice si decidesse di disporre perizia, al medesimo consulente sarebbero riconosciuti i diritti e le facoltà ordinariamente previsti. Qualora, invece, la perizia non venisse disposta, si deve ritenere che il consulente tecnico possa di sua iniziativa svolgere le indagini e gli accertamenti consentiti dalla oggettiva disponibilità delle persone, delle cose o dei luoghi assunti come oggetto della consulenza: col risultato non solo di fornire alla parte interessata agli apporti tecnici necessari per gli ulteriori sviluppi processuali, banche di porre il giudice nelle condizioni di non poter prescindere dal contenuto del parere e delle eventuali memorie che gli vengano presentate. Anche il consulente tecnico nominato ex art. 233 può venire sottoposto a esame nel corso del dibattimento, proprio allo scopo di consentire l'acquisizione probatoria degli esiti delle sue indagini e delle sue valutazioni. 12. La prova documentale Alle disposizioni sulla prova documentale (artt. 234-243) il codice assicura una sistemazione unitaria, ope- rando una scelta concettuale di fondo con riguardo alla nozione di “documento”. Si è tenuta distinta l’area dei “documenti” in senso stretto (formati fuori dall’ambito processuale) da quella degli “atti” (formati all’interno del procedimento): soltanto ai primi è riferita la disciplina in discorso, sulla base della definizione ex art. 234, co. 1 dove, accanto ai tradizionali “scritti”, viene consentita l’acquisizione come documento di ogni altra cosa idonea a rappresentare “fatti, persone o cose” attraverso “la fotografia, la cinematografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo”. Esclusa la possibilità di acquisire documenti concernenti le “voci correnti nel pub- blico”, ovvero la “moralità in generale” delle parti e dei testimoni (art. 234, co. 3), viene invece ammessa 56 l’acquisizione dei documenti necessari al giudizio della personalità dell’imputato e, se del caso, della persona offesa dal reato, ricomprendendovi anche quelli esistenti presso gli uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di sorveglianza (art. 236, co. 1). Per i certificati del casellario giudiziale e per le sentenze divenute irrevocabili, si prevede che esse possano venire acquisiti anche al fine di valutare la credibilità dei testimoni (art. 236, co. 2). L’art. 234-bis sancisce che è sempre consentita l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso, del legittimo titolare. Tra i documenti come ordinario mezzo di prova e i documenti costituenti corpo del reato, un regime differenziato è stato sancito per questi ultimi, escludendosi che a essi si applichi la comune disciplina relativa ai primi, e stabilendosi che i medesimi “debbono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga” (art. 235), anche d’ufficio. Una normativa ad hoc è inoltre dettata per i documenti pro- venienti dall’imputato, di cui è sempre consentita l’acquisizione, anche d’ufficio, sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti (art. 237). In caso di incertezza circa la provenienza dei documenti, ai fini della relativa verifica il documento deve essere sottoposto per il riconoscimento alle parti private e ai testimoni (art. 239), mentre relativamente ai documenti anonimi viene confermata la classica regola di esclu- sione: essi “non possono essere acquisiti, né in alcun modo utilizzati”, a meno che “costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato” (art. 240, co. 1). Tantomeno possono essere utilizzati i docu- menti relativi a traffico telefonico e telematico illegalmente formati o acquisiti. Quanto all’ipotesi di falsità dei documenti, l’art. 241 stabilisce che il giudice – ove ritenga falso uno dei documenti acquisiti – dopo la definizione del procedimento debba informarne il P.M., trasmettendogliene copia in vista degli adempimenti di sua competenza. Per questa via, si riconosce al giudice penale il potere di accertare incidenter tantum l’even- tuale falsità dei documenti, in sede di valutazione complessiva delle prove, rinunciandosi all’incidente di falso: una scelta coerente con l’opzione di fondo diretta all’abolizione della c.d. pregiudizialità penale. Notevole risalto assume la disciplina ex art. 238 per regolare l’ingresso nell’ambito processuale dei verbali relativi alle prove di altri procedimenti, considerati alla stregua di documenti in ragione della loro provenienza ab externo rispetto al processo nel quale dovrebbero venire acquisiti. Tale acquisizione è ammessa senza ulteriori condi- zioni, secondo i normali criteri di legge, solo quando si tratti di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento (art. 238, co. 1 e 2), mentre la stessa regola non vale per i verbali di cui sia stata data lettura in sede dibattimentale. Nel caso di acquisizione di verbali di prove ex co. 1 e 2, ove si tratti di verbali recanti dichiarazioni, essi sono utilizzabili soltanto contro gli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione, ovvero nei cui confronti fa stato la sentenza civile (art. 238, co. 2-bis). È sempre ammessa l’ac- quisizione della documentazione di atti compiuti nel corso di altri procedimenti penali, ivi comprese le fasi preliminari, i quali anche per cause sopravvenute “non sono ripetibili” (art. 238, co. 3). Nell’ipotesi di impos- sibilità di ripetizione dovuta a “dati o circostanze sopravvenuti”, l’acquisizione della relativa documentazione deve ritenersi consentita soltanto quando questi ultimi fatti o circostanze risultino imprevedibili. Restano ferme, per altro verso, le limitazioni previste in ordine agli atti non ripetibili compiuti dalla polizia straniera, mentre è fatta salva l’eventuale diversa disciplina risultante da specifiche disposizioni. Al di fuori di queste ipotesi, l’acquisizione e l’utilizzazione dibattimentale dei verbali di altri procedimenti contenenti dichiarazioni è ammessa soltanto nei confronti dell’imputato che vi consenta. In assenza di tale consenso, tali verbali saranno utilizzabili solo ai fini delle contestazioni in sede di esame dibattimentale, nei limiti e per gli effetti previsti dagli artt. 500 e 503 (art. 238, co. 4). L’art. 238, co. 5, dispone che, quando a norma dei commi precedenti siano stati acquisiti verbali di dichiarazioni provenienti da altri procedimenti, rimane fermo il diritto delle parti di ottenere, ex art. 190, l’esame delle persone che tali dichiarazioni abbiano rese, salva la previsione speciale ex art. 190-bis: viene così garantita alle parti la possibilità di escutere direttamente nel contraddittorio dibatti- mentale le persone fonti delle dichiarazioni acquisite ex art. 238, i cui verbali in simili ipotesi sono destinati a essere letti in dibattimento ex art. 511-bis solo dopo il corrispondente esame. Per effetto dell’art. 238-bis è sempre consentita l’acquisizione delle sentenze irrevocabili, ai fini della prova dei fatti in esse accertati, nei limiti dei criteri di pertinenza ex art. 187, ma queste potranno valere come prova dei fatti accertati soltanto se confortate da altri elementi probatori di riscontro ex art. 192, co. 3. Per quel che riguarda le modalità di intro- duzione nel processo delle prove documentali: dopo che siano stati ammessi su richiesta di parte ex art. 495, i documenti dovranno essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, e allora saranno considerabili acquisiti – salva la possibilità di lettura ex art. 511, ma quest’ultimo non può configurarsi come presupposto necessario per la loro acquisizione al processo. 57 13. Ispezioni e perquisizioni Passando ai mezzi di ricerca delle prove, il codice comincia con l’occuparsi di due tipici atti “a sorpresa”: le ispezioni (artt. 244-246) e le perquisizioni (artt. 247-252), disciplinate attraverso l’attribuzione dei relativi poteri alla “autorità giudiziaria” – dunque sia al giudice, che al P.M. L’ispezione è diretta ad accertare sulle persone, nei luoghi o nelle cose “le tracce e gli altri effetti materiali del reato” (art. 244); la perquisizione, a ricercare “il corpo del reato o cose pertinenti al reato” sulle persone o in luoghi determinati, ovvero a eseguire in questi ultimi l’arresto dell’imputato o dell’evaso (art. 247). Entrambi gli istituti, in rilievo alla sensibilità legislativa per il profilo della loro incidenza sui diritti di libertà costituzionalmente tutelati, conoscono una forte dimensione garantistica, a cominciare dalla stessa necessità del decreto motivato dell’autorità giudiziaria quale presupposto per l’esercizio dei corrispondenti poteri. Ispezioni e perquisizioni possono avere a oggetto anche sistemi informatici o telematici. Per quanto attiene alle ispezioni, in suddetta prospettiva di garanzia emerge la disciplina dell’ispezione personale (art. 245): da un lato attraverso l’avvertimento all’interessato della facoltà che gli è riconosciuta di farsi assistere da persona di fiducia; dall’altro attraverso il richiamo all’esigenza che l’ispezione, da compiersi personalmente a opera dell’autorità procedente, ovvero “anche per mezzo di un medico”, venga eseguita nel rispetto della dignità, oltreché, se possibile, del pudore della persona che deve soggiacervi. Circa l’ispezione di luoghi o di cose, prima dell’inizio delle operazioni deve essere consegnato il correlativo decreto all’imputato e alla persona titolare della disponibilità dei luoghi, se presenti, e l’autorità giudiziaria può impedire l’allontanamento di una o più persone dai luoghi dell’ispezione o di farvele ricondurre se necessario coattivamente con provvedimento motivato da ricomprendersi nel verbale (art. 246), nonché, di disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, insieme a ogni altra necessaria operazione tec- nica. Anche in materia di perquisizioni – cui l’autorità giudiziaria procede direttamente, salva la possibilità di delegarvi un ufficiale di polizia giudiziaria – il legislatore si è preoccupato di garantire la tutela dei diritti degli interessati, sulla base di una disciplina che, sia rispetto alle perquisizioni personali (art. 249), sia rispetto alle perquisizioni locali (art. 250), ricalca a grandi linee quella delle ispezioni. A parte la definizione dei limiti temporali delle perquisizioni nel domicilio (art. 251), rispetto alle perquisizioni locali si evidenzia una parti- colare cura per gli adempimenti connessi alla consegna del decreto e all’avviso circa la facoltà di assistenza nel corso delle operazioni, mentre i poteri dell’autorità giudiziaria procedente risultano estesi all’eventuale perquisizione di persone sopraggiunte, nonché all’adozione degli altri provvedimenti coercitivi temporanei previsti relativamente alle ispezioni locali. Viene enunciato poi, in termini generali, il principio della “richiesta di consegna” come attività prodromica rispetto alla perquisizione, allorquando si ricerchi una cosa determinata: se la cosa viene presentata in adesione all’invito dell’autorità procedente, la perquisizione medesima potrà venire evitata, sempreché non si ritenga utile procedervi “per la completezza delle indagini” (art. 248, co. 1). Particolare normativa hanno le ispezioni e le perquisizioni presso gli uffici dei difensori (art. 103). Definiti rigorosamente i presupposti in presenza dei quali soltanto può farsi luogo a simili atti, quando debbano ese- guirsi negli studi professionali dei difensori, la relativa procedura si caratterizza per la prevista necessità che ne venga avvisato il locale consiglio dell’ordine forense, affinché il presidente o un consigliere suo delegato affinché possa assistere alle operazioni. A ciò si aggiunga che identiche modalità procedurali sono stabilite anche in materia di sequestro, con la precisazione che presso i difensori e i consulenti tecnici non si può pro- cedere al sequestro di “carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato”. Sono vietati, inoltre, il sequestro e ogni altra forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore, sempreché l’autorità giudiziaria non abbia “fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”; e, alla stessa stregua, sono vietate le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni dei difen- sori, dei consulenti tecnici e dei loto ausiliari, nonché quelle tra i medesimi e i loro assistiti. I risultati delle ispezioni, delle perquisizioni, dei sequestri e delle intercettazioni eseguiti in violazione di tali disposizioni sono inutilizzabili, a meno che essi costituiscano corpo del reato. Alcune particolari figure di perquisizione sono consentite agli organi di polizia giudiziaria da leggi speciali allorché, nel corso di operazioni dirette alla pre- venzione o alla repressione di determinati delitti, si verifichino situazioni di necessità e urgenza tali da non permettere un tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria (es.: traffico di sostanze stupefacenti). In queste ipotesi si prevede che delle operazioni venga data tempestiva notizia al procuratore della Repubblica in vista dell’eventuale convalida delle stesse, che dovrà sopravvenire entro le successive 48 ore, affinché i risultati così acquisiti possano venire utilizzati nel procedimento. 60 modalità e la durata delle corrispondenti operazioni. L’art. 267, co. 3, prevede che queste non possano pro- lungarsi, in forza di tale decreto, oltre 15 gg. (prorogabili dal giudice, con decreto motivato, per periodi suc- cessivi di 15 gg.), e debbano venire eseguite dal P.M. personalmente o tramite un ufficiale di polizia giudiziaria (art. 267, co. 4). Una disciplina particolare è dettata con riferimento alle indagini relative a delitti di “criminalità organizzata”, ovvero ad altri gravi delitti: da un canto, si è stabilito che, quando l’intercettazione risulti neces- saria per lo svolgimento di tali indagini, essa possa venire autorizzata dal giudice anche soltanto in presenza di “sufficienti indizi” di reato; d’altro canto, la durata delle operazioni così autorizzate non può di regola su- perare i 40 gg., prorogabili con decreto motivato dal giudice per periodi successivi di 20 gg. Quando poi si tratti di un’intercettazione ambientale, sempre nell’ambito di tali procedimenti, la relativa operazioni può es- sere autorizzata o disposta – anche nei luoghi di domicilio – pur quando non vi è motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa. Per ragioni garantistiche, tutti i decreti che abbiano disposto, au- torizzato, convalidato ovvero prorogato le intercettazioni, nonché i tempi di inizio e di conclusione delle ope- razioni, vanno annotate su un apposito registro. Inoltre, queste debbono avvenire esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, ma il P.M. può autorizzare con decreto motivato l’uso degli impianti di pubblico servizio, ovvero di quelli in dotazione della polizia giudiziaria qualora sussistano “eccezionali ragioni di urgenza” (art. 268, co. 3). Il co. 3-bis ammette che, nel caso di intercettazione di co- municazioni informatiche o telematiche, possa venire autorizzato anche l’impiego di impianti appartenenti a privati. L’art. 268 stabilisce che le comunicazioni intercettate siano sempre registrate, e che nel relativo verbale venga trascritto, anche in maniera sommaria, il loro contenuto. Dopo la scadenza del termine stabilito per lo svolgimento delle operazioni, i verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al P.M. (art. 268, co. 4), che entro 5 gg. dalla conclusione delle operazioni deve depositarli a disposizione dei difensori delle parti. Questi vanno avvisati della facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni entro il termine fissato dal P.M. ed eventualmente prorogato dal giudice. Scaduto tale termine, su indicazione delle parti, il giudice, in apposita udienza c.d. “di stralcio”, dispone l’acquisizione delle intercettazioni, indicate dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti o inutilizzabili (art. 268, co. 6). Il giudice provvederà per la trascrizione integrale delle registrazioni destinate a essere acquisite, nel rispetto delle forme e delle garanzie previste per le perizie, salva ai difensori la facoltà di estrarre copia delle trascrizioni e di trasporre le registrazioni; le tra- scrizioni così ottenute, in quanto atti non ripetibili, sono inserite nel fascicolo per il dibattimento (art. 268, co. 7 e 8). Nella pratica, l’udienza di stralcio nel corso delle indagini preliminari risulta spesso omessa, e l’acqui- sizione delle intercettazioni rinviata in sede dibattimentale. Se le intercettazioni debbano essere utilizzate prima della conclusione delle operazioni o comunque senza che si sia avviata la procedura acquisitiva davanti al giudice (es.: richiesta di una misura cautelare), possono essere presentate al giudice le trascrizioni sommarie contenute nei verbali della polizia (c.d. “brogliacci”), che sono utilizzabili per la decisione. La difesa ha diritto a richiedere copia delle registrazioni per prenderne conoscenza in vista dell’impugnazione del provvedimento. La documentazione delle intercettazioni deve essere di regola conservata integralmente fino al passaggio in giudicato della sentenza, per consentirne l’eventuale recupero anche nei gradi successivi di giudizio; tuttavia gli interessati, a tutela della propria riservatezza, possono chiederne la distruzione al giudice, il quale provve- derà in camera di consiglio e, se la accorda, curerà che sia eseguita sotto il proprio controllo (art. 269). Per quanto specificamente attiene all’utilizzabilità probatoria delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli rispetto ai quali sono state autorizzate (art. 270), in deroga alla regola generale della non utilizzabilità, le suddette intercettazioni possono venire utilizzate soltanto quando le medesime risultino “indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”. Le Sezioni unite hanno tuttavia ritenuto che il procedimento non va considerato diverso per i reati connessi scoperti nel corso di un’intercetta- zione autorizzata per un altro reato, e che quindi l’intercettazione sarebbe utilizzabile. Una volta trasmessi le registrazioni e i verbali correlativi all’autorità giudiziaria competente, nell’ambito di tale procedimento deve assicurarsi il contraddittorio in ordine alla suddetta documentazione nelle forme ex art. 268. Il P.M. e i difensori possono esaminare l’intera documentazione delle stesse, così come depositata nel procedimento per il quale le intercettazioni siano state autorizzate (art. 270, co. 3). Secondo quanto precisato dalle Sezioni unite, ove la conversazione o comunicazione intercettata costituisca essa stessa corpo del reato, è sempre utilizzabile nel processo penale e pertanto anche in procedimenti diversi da quello di origine, pure quando non indispensabile per l’accertamento di delitti per i quali sia obbligatorio l’arresto in flagranza. Per quanto riguarda i divieti di utilizzazione delle intercettazioni eseguite contra legem, l’art. 271, co. 1, stabilisce che i relativi risultati non 61 possano venire utilizzati sul piano probatorio, quando le stesse siano state effettuate senza osservare gli artt. 267 e 268, co. 1 e 3, o comunque “fuori dei casi consentiti dalla legge”. Il divieto di utilizzazione ex art. 271 viene esteso anche a livello di testimonianza de auditu, fino a ricomprendervi tutte le intercettazioni riguardanti le comunicazioni delle persone ex art. 200, co. 1, quando abbiano a oggetto fatti conosciuti “per ragione del loro ministero, ufficio o professione”, salvo che tali persone “abbiano deposto sugli stessi fatti, o li abbiano in altro modo divulgati” (art. 271, co. 2). La norma rappresenta una sorta di proiezione del diritto di astensione riconosciuto alle suddette persone in sede di testimonianza. Quanto alla sorte delle registrazioni e dei verbali relativi alle intercettazioni riconosciute come inutilizzabili, essi debbono venire distrutti per ordine del giudice in ogni stato e grado del processo, salvo che i medesimi costituiscano corpo del reato (art. 271, co. 3). Fonte di un divieto di utilizzazione nel caso di inosservanza è anche il principio ex art. 68, co. 3, Cost., a proposito della necessità di autorizzazione della Camera di appartenenza per poter sottoporre i membri del Parlamento a intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni. La suddetta autorizzazione deve essere richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire (il P.M.), il quale deve essere a sua volta sospeso; se eseguite, le intercettazioni lo sarebbero “fuori dei casi consentiti dalla legge”. Analoga disciplina è prevista anche nel caso in cui l’autorità giudiziaria debba acquisire tabulati di comunicazioni nei riguardi di un parlamentare – disposizione sospettata, ma non tacciata di illegittimità costituzionale per disparità di trat- tamento. Un problema particolare è quello che sorge a proposito dei verbali e delle registrazioni di conversa- zioni o comunicazioni, cui abbiano preso parte membri del Parlamento, le quali siano state regolarmente in- tercettate nel corso di procedimenti riguardanti terze persone, o, comunque, non intenzionalmente (intercetta- zioni indirette, aventi natura casuale). Fermo restando che il principio ex art. 68, co. 3, Cost. trova applicazione sia nel caso di intercettazioni dirette, sia nel caso di intercettazioni indirette di natura non casuale (disposte su utenze appartenenti a soggetti diversi, in quanto interlocutori ambientali del parlamentare), l’utilizzazione delle intercettazioni fortuite è subordinata all’autorizzazione della Camera di appartenenza. Diversa disciplina è dettata per il Presidente della Repubblica, dalla cui posizione si è ricavato un divieto assoluto di intercetta- zione delle conversazioni, con conseguente obbligo di distruzione immediata di siffatte registrazioni, ancorché casualmente effettuate, trattandosi di intercettazioni eseguite “fuori dei limiti di legge”. 16. Segue: la riforma delle intercettazioni La riforma delle intercettazioni deriva dal d.lgs. 216/2017, l’applicazione delle cui norme si avrà a partire dal 31 Agosto 2020. Una delle principali novità riguarda i captatori informatici, prima non specificamente disciplinati dalla legge. Ora l'uso risulta espressamente consentito, in base ai presupposti ordinari, nelle inter- cettazioni ambientali per le conversazioni tra presenti che si svolgono fuori dal domicilio. Visto che il trojan virus è iniettato in un dispositivo portatile, che per sua natura può venirsi a trovare in qualunque momento in ambiente domiciliare – dove l'intercettazione tra presenti è possibile solo se vi si stia svolgendo l'attività cri- minosa – il legislatore si è allineato al principio enunciato dalle Sezioni unite per i delitti di criminalità orga- nizzata, restringendone la portata ai delitti ex art. 51, co. 3-bis e 3-quater: per questi, dunque, l'uso del captatore informatico è sempre consentito senza limitazioni legate al luogo; sono inoltre stati inclusi delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione, previa indicazione delle ragioni che giustificano l'impiego del captatore nel domicilio. In tutti gli altri casi occorre che nel decreto autorizzativo siano indicati i luoghi e il tempo in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono, in modo da escludere l'intercettazione ambientale domiciliare. Inoltre, il decreto che autorizza l'intercettazione tra presenti deve sempre indicare le ragioni che la rendono necessaria per lo svolgimento delle indagini. Per i delitti di cui sopra il P.M., avvalendosi dei suoi poteri di urgenza, può anche disporre direttamente l'intercettazione tra presenti mediante inserimento del captatore informatico su dispositivo portatile. Il decreto motivato deve indicare le ragioni di urgenza. È prevista l'inutilizzabilità dei dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari, dell'inserimento del captatore informatico nel dispositivo por- tatile e di quelli acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto. Le intercettazioni eseguite con captatore informatico sono utilizzabili per la prova di reati diversi da quelli contemplati nel decreto auto- rizzativo solo se indispensabili per l'accertamento dei delitti ex art. 266, co. 2-bis. Contemporaneamente è stata praticamente abrogata la norma che limitava, in via generale, ai delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza l'utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi, estesa a tutti i delitti ex art. 266, co. 1. Per quanto riguarda la tutela della riservatezza, la riforma ha inteso evitare che tutte le comunicazioni 62 intercettate finiscano col diventare di dominio pubblico. Si prevede anzitutto che nel corso delle operazioni il P.M. debba vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o riguardanti i dati personali sensibili, salvo che siano rilevanti ai fini delle indagini. In particolare, per quanto concerne le comunicazioni dei difensori, fermo il divieto di utilizzazione, il loro contenuto non può nemmeno sommariamente essere trascritto nel verbale. Inoltre, il giudice deve stralciare, oltre alle comunicazioni irrile- vanti, anche quelle che riguardano categorie particolari di dati personali delle quali non si è dimostrata in positivo la rilevanza. È istituito un apposito archivio nel quale depositare e conservare i verbali, le registrazioni e ogni atto a essere relativo, presso l'ufficio del P.M. che ha richiesto ed eseguito l'intercettazione, sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica – che ha il dovere di assicurare la segretezza delle intercettazioni non necessarie per il procedimento, irrilevanti o inutilizzabili, ovvero riguardanti dati sensibili. All'archivio, oltre al giudice, al P.M. e agli ufficiali di polizia giudiziaria delegati, potranno accedere anche i difensori delle parti, ma senza diritto di estrarre copie fino alle acquisizioni al procedimento. Nel procedimento cautelare, spetta al P.M. selezionare, per allegarli alla richiesta di misura cautelare, i soli verbali rilevanti. In ogni caso il giudice dovrà restituire al P.M., per la conservazione nell'archivio, gli atti che a sua volta reputi non rilevanti o inutilizzabili. Inoltre, nella richiesta vanno riprodotti soltanto i brani essenziali delle comuni- cazioni e conversazioni intercettate, e lo stesso è prescritto nella motivazione dell'ordinanza. Sul versante delle garanzie della difesa, è stato codificato il diritto del difensore, al momento del deposito dell'ordinanza, non solo di accedere ai verbali, ma di ottenere la trasposizione delle registrazioni su supporto idoneo, per potersene avvalere ai fini dell'impugnazione. A causa della frequente omissione dell'udienza di stralcio, è consentito espressamente che la prescrizione possa avvenire anche all'esito dell'udienza preliminare, al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento. In quella sede le parti possono anche concordare e rinunciare alla trascrizione integrale mediante perizia, consentendo all'utilizzazione delle trascrizioni sommarie effettuate dalla polizia giudiziaria. Inoltre, sempre in mancanza dell'udienza di stralcio, con l'avviso di conclusione delle indagini il pubblico ministero deve indicare le intercettazioni rilevanti, di cui il difensore può prendere cogni- zione. Il difensore entro 20 gg. può anche indicare le ulteriori registrazioni che ritiene rilevanti, chiedendone copia, e il P.M. provvede con decreto motivato, ma in caso di diniego può essere attivato subito la procedura di stralcio davanti al giudice. Una disposizione analoga si applica quando il P.M. abbia fatto richiesta di giu- dizio immediato, ma il termine per il difensore in questo caso di 15 gg., prorogabile di altri 10. CAPITOLO IV. MISURE CAUTELARI 1. Premessa. Il sistema delle misure cautelari La disciplina delle misure restrittive per esigenze cautelari costituisce un vero e proprio sottosistema nor- mativo, cui il codice dedica l’intero libro IV, suddiviso in due titoli: l’uno riferito alle “misure cautelari per- sonali”, l’altro alle “misure cautelari reali”. Non trova invece collocazione in questo libro la disciplina relativa all’arresto in flagranza e al fermo, situata nel libro relativo alle indagini preliminari e all’udienza preliminare; né vi si trova la disciplina dell’accompagnamento coattivo, che viene costruito nel codice non come atto rivolto a finalità cautelari, bensì come atto strumentalmente diretto a soddisfare determinate esigenze di indagine o di accertamento, in rapporto allo svolgimento di attività per le quali sia necessaria la presenza dell’imputato, del coimputato nel procedimento connesso, dell’indagato o di altre persone. Le medesime misure, a maggior ra- gione, non potranno essere adottate allo scopo di ottenere dall’imputato quelle condotte collaborative, il cui rifiuto rientra a pieno titolo nella sfera del diritto di difesa. La l. 332/1995 poi, seguendo una linea di rafforza- mento delle garanzie individuali, ha dedicato un’apposita previsione proprio al tema dei rapporti tra diritto al silenzio dell’imputato e misure cautelari. 2. Riserva di legge e riserva di giurisdizione in materia di misure cautelari personali Nel contesto delle misure cautelari personali assume un risalto centrale il complesso delle “disposizioni gene- rali” (artt. 272-279), in cui sono racchiuse le disposizioni cui il codice – sulla scorta del modello ex art. 13 Cost. – affida la funzione di pilastri fondamentali del sistema delle cautele incidenti sulla libertà personale dell’imputato, a cominciare dal principio di legalità ex art. 272, con lo stabilire che “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo”. Espri- mendo “in positivo” una garanzia che le carte fondamentali tendenzialmente proclamano più in forma negativa, 65 sin dall’inizio che l’eventuale condanna alla pena detentiva potrà non essere scontata in carcere. Tornando al tema del principio di adeguatezza, i più recenti co. 1-bis e 2-ter si occupano dei criteri relativi alla scelta delle misure cautelari da disporre contestualmente a una sentenza di condanna, dettando, il primo, un criterio di carattere generale e, il secondo, un criterio specifico per il caso di condanna di appello. Ex co. 1-bis, conte- stualmente a una sentenza di condanna, l’esame delle esigenze cautelari deve essere “condotto tenendo conto anche dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emer- gere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze ex art. 274, co. 1, lett. b e c”. Si vuole dunque vincolare il giudice a tenere conto anche dei risultati del relativo accertamento, nonché di ogni altro elemento sopravvenuto, quali fattori rilevanti per la valutazione delle suddette esigenze cautelari. Per altro verso, ex co. 2-ter, qualora la condanna sia stata pronunciata in grado di appello, le misure cautelari personali debbano essere “sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all’esito dell’esame condotto ex co. 1-bis, risultano sussistere le esigenze cautelari previste ex art. 274 e la condanna riguardi uno dei delitti previsti ex art. 380, co. 1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei 5 anni precedenti per delitti della stessa indole”. Si tratta di una sorta di risposta “processuale” alle ricorrenti istanze politiche verso un’anticipata ese- cuzione delle sentenze di condanna, non consentita dal nostro ordinamento costituzionale: a fronte delle ipotesi descritte, il giudice di appello deve anche d’ufficio adottare i provvedimenti ivi previsti. Pertanto, in deroga alla regola generale per cui il giudice procedente applica le misure cautelari su richiesta del P.M., nel caso di sentenza di condanna pronunciata in secondo grado, contestualmente alla sentenza il medesimo giudice dovrà obbligatoriamente, anche in assenza di quest’ultima richiesta, valutare la sussistenza delle esigenze cautelari e degli altri presupposti indicati al co. 2-ter, e applicare sempre la misura cautelare personale più adeguata, ogni qualvolta tale valutazione abbia dato esito positivo. L’art. 275, co. 3, stabilisce che la custodia cautelare in carcere “può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cu- mulativamente, risultino inadeguate”, essendo il ricorso alla carcerazione dell’imputato un’extrema ratio. Viene inoltre generalizzata la possibilità dell’applicazione congiunta di misure coercitive e interdittive. Questa regola subisce, tuttavia, una cospicua eccezione: quando sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti ivi indicati (delitti di associazione sovversiva, terroristica o di tipo mafioso), la misura applicabile è sempre quella carceraria, salvo che siano acquisiti “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cau- telari”. Il che, se da un lato non incide sul dovere del giudice di provvedere solo dietro richiesta del P.M., dall’altro configura in capo all’indiziato una forte presunzione relativa del periculum libertatis e una vera e propria presunzione assoluta di adeguatezza della misura carceraria. Il giudice ha dunque un vero e proprio onere di motivazione negativa, circa la non sussistenza in concreto di esigenze cautelari, ogniqualvolta ritenga di non dover disporre quest’ultima misura. Si vuole così fornire al giudice uno “scudo normativo” di fronte al rischio delle minacce o dei condizionamenti cui potrebbe venire sottoposto, soprattutto nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, seppur ai limiti della compatibilità con l’art. 13, co. 2, Cost. 6. Altre applicazioni del principio di adeguatezza Sempre nella logica delle puntualizzazioni applicative del principio di adeguatezza, per quanto riguarda l’im- piego della custodia cautelare in carcere, una sorta di presunzione di “non necessità” della misura carceraria risulta ex art. 275, co. 4, con riferimento a una gamma variegata di ipotesi, rispetto alle quali si delinea una previsione di divieto della suddetta misura: così è stabilito quando siano imputati una donna incinta, o una madre di prole di età non superiore a 6 anni con la stessa convivente, ovvero un padre qualora “la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole”, o ancora una persona che abbia supe- rato i 70 anni. Ricorrendone i presupposti, a questi soggetti deve venire applicata una misura diversa dalla custodia in carcere, salva l’eccezione rappresentata dall’eventualità che “sussistano esigenze cautelari di ec- cezionale rilevanza”. Solo in tale eventualità potrà disporsi anche a loro carico la misura della custodia in carcere. Analogamente, qualora ricorrano i presupposti per la custodia in carcere, ma non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e si tratti di imputati tossicodipendenti o alcoldipendenti sottoposti a programma terapeutico di recupero, l’art. 89, d.P.R. 309/1990 stabilisce che nei casi confronti di tali imputati debba essere disposta la misura degli arresti domiciliari, allorché l’interruzione del programma in atto potrebbe pregiudicare il loro recupero. Un esplicito “divieto di custodia cautelare” è stabilito, ex art. 275, co. 4-bis, nei riguardi degli imputati che siano affetti “da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria”, ovvero “da altra malattia particolarmente grave”, a causa della quale le loro condizioni di salute risultino incompatibili 66 con lo stato di detenzione, e siano comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione carce- raria. Anche in queste ipotesi si configurano alcune attenuazioni in chiave derogatoria al divieto: l’art. 275, co. 4-ter, lascia intendere che se “sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”, dovrà farsi regolarmente luogo a custodia cautelare presso “idonee strutture sanitarie penitenziarie”, a meno che l’adozione di tale misura non risulti possibile “senza pregiudizio per la salute dell’imputato” o per quella degli altri detenuti. Più in generale, pur ricorrendo le situazioni appena descritte, allorché il soggetto risulti imputato o sia stato sop- posto ad altra misura cautelare, per uno dei delitti ex art. 380, il giudice potrà comunque disporne la custodia cautelare in carcere. Quando così avvenga, l’art. 275, co. 4-quater prescrive che l’imputato debba essere con- dotto in un istituto dotato di un reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie. Ex co. 4-quinquies, la custodia cautelare è in ogni caso esclusa allorché la malattia da cui è affetto l’imputato si trovi in una fase così avanzata da non rispondere più ai trattamenti e alle terapie. Ancora alla sfera del principio di adeguatezza, sia pure con riferimento all’ipotesi di condotte dell’imputato contrastanti con le prescrizioni inerenti alle singole misure cautelari, l’art. 276, co. 1, dispone che nel caso di inosservanza delle suddette prescrizioni, il giudice può ordinare la sostituzione della misura già disposta ovvero il suo cumulo con altra più grave – di regola, dietro richiesta del P.M. e senza previo contraddittorio. Il codice attribuisce al giudice un potere discrezionale che si configura quale una sorta di “proiezione” ulteriore del potere attribuitogli in tema di scelta della misura da adottare: la decisione verte su se e quale misura debba adottarsi in luogo o in aggiunta della misura origi- nariamente applicata, secondo i criteri di valutazione ex art. 275. Dunque, non ogni trasgressione dell’imputato alle prescrizioni impostegli dovrà necessariamente dare luogo a un nuovo provvedimento in chiave sostitutiva o cumulativa, ma soltanto quelle che siano tali da far ritenere non più sufficiente l’originaria misura a fronteg- giare la mutata situazione cautelare. Il successivo co. 1-bis stabilisce che quando l’imputato, che si trovi nelle condizioni di salute ex art. 275, co. 4-bis e che sia sottoposto a misura diversa dalla custodia carceraria, tra- sgredisca le prescrizioni inerenti a tale diversa misura, il giudice può disporre a suo carico in via sostitutiva anche la misura della custodia cautelare in carcere – purché in un istituto dotato di un reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie. 7. La salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misura cautelare L’art. 277, norma di garanzia per la posizione soggettiva dell’imputato, detta una regola di fondo relativa ai rapporti tra l’esecuzione di tali misure e la tutela dei diritti dell’imputato cui le medesime si riferiscono: le modalità esecutive delle misure cautelari “debbono salvaguardare i diritti della persona a esse sottoposta”, sia pure limitando poi la sfera della tutela ai diritti “il cui esercizio non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto”. In quanto riferibile anche ai detenuti, l’art. 277 si presenta come un’applicazione del principio ex art. 1, co. 3, ord. penit. e deve raccordarsi con l’art. 285, co. 2: la persona sottoposta a custodia carceraria “non può subire limitazione della libertà”, prima del trasferimento in istituto, se non “per il tempo e con le modalità strettamente necessarie alla sua traduzione”. 8. I criteri di determinazione della pena ai fini dell’applicazione delle misure Tra le disposizioni generali relative alle misure cautelari personali trova posto anche l’art. 278, riguardante la determinazione della pena agli effetti dell’applicazione delle misure stesse: deve aversi riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, senza tener conto né della continuazione, né della recidiva (neppure reiterata), né delle circostanze del reato. 9. Misure coercitive e misure interdittive I capi II e III del titolo I del libro IV sono dedicati alla disciplina delle singole misure coercitive e interdittive. Per entrambe le tipologie di misure risulta generalizzato, sotto il profilo delle “condizioni di applicabilità”, il limite oggettivo correlato alla gravità del reato (sul piano della previsione edittale): le une e le altre possono applicarsi soltanto “quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 3 anni” (artt. 280 e 287). Questa regola, tuttavia, non è senza eccezioni. A parte quelle dettate con particolare riferimento a specifiche figure, in linea generale, per quanto riguarda le misure coercitive, l’art. 280, co. 2 e 3, impone che la custodia cautelare in carcere possa essere applicata esclu- sivamente quando si proceda per delitti “consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni”. Questo limite non opera “nei confronti di chi abbia trasgredito alle 67 prescrizioni inerenti a una misura cautelare”, sicché a carico di tali imputati la misura carceraria potrà essere applicata anche con riferimento a delitti punibili con pena detentiva solo superiore a 3 anni. Una seconda eccezione è stabilita dal medesimo art. 280, co. 1, che fa salvo quanto disposto dall’art. 391: questo, nel disci- plinare in via generale la c.d. conversione dell’arresto in flagranza o del fermo in “una misura coercitiva ex art. 291”, dispone espressamente che tale conversione possa avere luogo “anche al di fuori dei limiti di pena ex artt. 274, co. 1, lett. c e 280”, quando l’arresto “è stato eseguito per uno dei delitti ex art. 381, co. 2”, ovvero “per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dei casi di flagranza”. Dunque, in ordine alle ipotesi delittuose ex art. 381, co. 2, l’applicazione di una misura di coercizione personale potrà configurarsi soltanto a seguito di conversione dell’arresto in flagranza, mentre non potrà trovare base nel potere coercitivo origina- riamente spettante al giudice. A causa di un difetto di coordinamento tra il riformato art. 280, co. 2, che circo- scrive l’applicabilità della custodia in carcere esclusivamente ai delitti punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, e l’art. 391, co. 5, che continua a mantenere come riferimento la precedente pena di 3 anni, esiste oggi nel nostro sistema una fascia di situazioni rispetto alle quali, pur dopo la convalida dell’arresto in flagranza, non potrà essere applicata la misura custodiale nei confronti dell’arrestato, nonostante l’accerta- mento dei presupposti cautelari idonei a legittimare l’applicazione ex art. 391, co. 5. La disparità è del tutto irragionevole e difficilmente superabile in via interpretativa. Quanto al resto, non risultando ammessa nessuna ulteriore deroga, il limite ex art. 280 deve ritenersi operante per tutte le altre misure coercitive. 10. La tipologia delle misure coercitive e il principio di gradualità Circa la fisionomia delle diverse misure coercitive attraverso le quali si realizza il principio di gradualità, esse appaiono tra loro ordinate in termini di progressiva afflittività: a cominciare da misure di contenuto meramente obbligatorio, per finire alle vere e proprie misure detentive. All’interno di questa ideale gerarchia, si collocano le misure del divieto di espatrio, opportunamente raccordato con la disciplina dei passaporti (art. 281), dell’obbligo di presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria (art. 282) e dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis) – nei casi e nei modi previsti dai vari commi dell’art. 282-bis, tra cui è compresa una misura patrimoniale a tutela delle persone conviventi con l’imputato “allontanato” e l’eventuale adozione del c.d. “braccialetto elettronico” (art. 275). Nella medesima prospettiva si colloca anche la misura del divieto di avvicinamento a determinati luoghi, in quanto frequentati dalla persona offesa, ovvero dai suoi congiunti o conviventi (art. 282-ter). L’art. 282-quater prevede che le decisioni relative all’allontanamento della casa familiare e al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa siano comunicate all’autorità di pubblica sicurezza competente, alla persona offesa e al suo difensore, e ai servizi socio-assisten- ziali del territorio; è altresì previsto che il responsabile del servizio comunichi agli organi del procedimento cautelare l’esito positivo del programma di prevenzione della violenza cui l’imputato si sia sottoposto, al fine di consentire la valutazione della sussistenza per la sostituzione della misura ex art. 299, co. 2. A queste misure si aggiungono poi il divieto e l’obbligo di dimora (art. 283). A proposito dell’obbligo di dimora, va sottoli- neata anche l’attribuzione al giudice del potere di imporre all’imputato di “non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del giorno, senza pregiudizio per le normali esigenze di lavoro” (art. 283, co. 4). Nella dimensione oggettiva, questa è una prescrizione analoga, seppur circoscritta entro rigidi limiti temporali, a quella in cui si sostanzia la misura degli arresti domiciliari (art. 284), riguardo alla quale l’obbligo dell’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione, o dagli altri luoghi consentiti (altro luogo di privata dimora, luogo pub- blico di cura o assistenza, casa famiglia protetta), può risultare attenuato soltanto dall’autorizzazione del giu- dice “ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario” a prov- vedere a “indispensabili esigenze di vita”, ovvero per esercitare un’attività lavorativa, nel caso di assoluta indigenza. Non se si sia visto imporre l’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione come prescrizione accessoria all’obbligo di dimora, ma solo se ciò sia prescrizione coessenziale agli arresti domiciliari, l’imputato “si considera in stato di custodia cautelare” (art. 284, co. 5), e può usufruire dei vantaggi derivanti dalla suddetta equiparazione: in particolare, con riferimento alla disciplina dei termini massimi di custodia e al mec- canismo di scomputo della durata della misura domiciliare dalla durata della pena. Nell’attuale codice, gli arresti domiciliari vengono configurati quale autonoma misura di coercizione domiciliare alternativa alla cu- stodia, anziché quale modalità esecutiva extracarceraria della custodia cautelare, come nel sistema previgente. Per quanto riguarda la concedibilità degli arresti domiciliari, un limite soggettivo espresso emerge dall’art. 284, co. 5-bis, in termini di divieto nei confronti degli imputati già condannati per il reato di evasione nei 5 70 14. Gli adempimenti esecutivi e le garanzie difensive Tra gli adempimenti diretti a dare esecuzione alle ordinanze recanti una misura cautelare emergono ex art. 293 soprattutto quelli più strettamente funzionali a consentire l’esercizio della difesa – non solo sotto il profilo della difesa personale, ma altresì sotto il profilo della difesa tecnica. L’art. 293, co. 1, stabilisce l’obbligo, per l’ufficiale o l’agente incaricato di eseguire l’ordinanza che ha disposto la custodia cautelare, di consegnare all’imputati copia del provvedimento e una comunicazione scritta con cui lo informa dei suoi diritti difensivi, e cioè: a) della facoltà di nominare un difensore di fiducia e di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge; b) del diritto di ottenere informazioni in merito all’accusa; c) del diritto all’inter- prete e alla traduzione degli atti; d) del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere; e) del diritto di accedere agli atti sui quali si fonda il provvedimento; f) del diritto di informare le autorità consolari e di dare avviso ai familiari; g) del diritto di accedere all’assistenza medica di urgenza; h) del diritto di essere condotto davanti all’autorità giudiziaria non oltre 5 gg. dall’inizio dell’esecuzione della custodia cautelare in carcere, ovvero non oltre 10 gg. per tutte le altre misure; i) del diritto di comparire dinanzi al giudice per rendere l’interrogatorio, di impugnare l’ordinanza che dispone la misura cautelare e di richiederne la sostituzione o la revoca. Il co. 1-bis aggiunge che qualora la comunicazione scritta non sia prontamente disponibile in una lingua comprensibile all’imputato, le informazioni sono fornite oralmente, salvo l’obbligo di dare comunque comu- nicazione scritta all’imputato. L’incaricato dell’esecuzione della misura ha l’obbligo di informare immediata- mente il difensore e di redigere il verbale di tutte le operazioni compiute, menzionando in particolare la con- segna della comunicazione scritta o l’informazione orale fornita (co. 1-ter). Se la misura della custodia in carcere riguarda una madre con figli minori, copia dell’ordinanza va comunicata al procuratore della Repub- blica presso il tribunale per i minorenni del luogo dell’esecuzione della misura, per consentire l’adozione dei provvedimenti necessari a tutela del minore (co. 4-bis). Ex art. 293, co. 3, le suddette ordinanze, una volta notificate o eseguite, sono depositate in cancelleria, e del deposito è notificato avviso al difensore dell’impu- tato. Insieme all’ordinanza cautelare devono essere depositati anche la richiesta del P.M. e tutti gli atti presen- tati da quest’ultimo ex art. 291, co. 1. Tutto ciò consente un adeguato ampliamento del potenziale di esplica- zione dell’attività difensiva dell’imputato sottoposto alla misura cautelare. Mentre le ordinanze applicative della custodia cautelare vengono materialmente eseguite con la consegna all’imputato di copia del provvedi- mento e col suo immediato trasferimento, se necessario manu militari, in un istituto di custodia a disposizione dell’autorità giudiziaria, le ordinanze applicative delle misure cautelari non custodiali sono semplicemente notificate all’imputato secondo i modi ordinari. L’organo di polizia incaricato dell’esecuzione deve avvertire l’imputato della facoltà di nominare un difensore di fiducia, e provvede a informarlo immediatamente – o a informare quello designato d’ufficio. Nel caso in cui il destinatario della misura non venga rintracciato, l’art. 295 prevede la redazione del verbale di vane ricerche da parte del competente organo di polizia, e la successiva dichiarazione dello stato di latitanza, a opera del giudice che tali ricerche abbia ritenuto esaurienti. Ex art. 296, l’operatività degli effetti della latitanza (la volontaria sottrazione a una misura cautelare detentiva) è re- lativa al solo “procedimento nel quale essa è stata dichiarata”. Il giudice o il P.M. possono utilizzare lo stru- mento dell’intercettazione di conversazioni o di comunicazioni telefoniche, nei limiti ex artt. 266 e 267, anche allo scopo di “agevolare le ricerche del latitante” (art. 295, co. 3). Tale specifica finalità deve comparire tra i contenuti del provvedimento autorizzativo ex art. 267, co. 1, e non esclude che il medesimo provvedimento debba rispettare i termini di durata delle operazioni ex art. 267, co. 3. La l. 146/2006 detta una disciplina speciale per le “operazioni sotto copertura”, stabilendo che l’autorità giudiziaria può, con decreto motivato, ritardare l’esecuzione dei provvedimenti applicativi di una misura cautelare, quando ciò sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatorio, ovvero per l’individuazione o la cattura dei responsabili di alcuni delitti (es.: criminalità organizzata). L’art. 42-bis ord. penit. stabilisce che debba essere adottata, nella traduzione di persone, ogni opportuna cautela per proteggere tale persone “dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità”, nonché per evitare loro inutili disagi; inoltre, l’uso delle manette ai polsi è obbligatorio solo quando lo richiedano “la pericolosità del soggetto, o il pericolo di fuga, o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione”, mentre in ogni diverso caso l’uso delle manette o di qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica è vietato. L’art. 294, co. 1, disciplina l’interrogatorio dell’indiziato, affidandolo “fino alla dichiara- zione di apertura del dibattimento” al giudice che ha deciso sull’applicazione della misura cautelare, prescri- vendone l’effettuazione “immediatamente e comunque non oltre 5 gg. dall’inizio dell’esecuzione della 71 custodia”, a meno che l’indiziato stesso sia assolutamente impedito. La norma ha un’evidente finalità di ga- ranzia nei confronti della persona colpita dal provvedimento di custodia, finalità che giustificano anche l’attri- buzione della relativa competenza, con riguardo ai provvedimenti emessi prima dell’esercizio dell’azione pe- nale, al g.i.p., anziché al P.M.; successivamente, la medesima competenza spetterà, se del caso, al g.u.p. men- tre, qualora la misura cautelare sia stata disposta dalla corte d’assise, ovvero dal tribunale, all’interrogatorio dovrà procedere (art. 294, co. 4-bis) il presidente del collegio o uno dei componenti da lui delegato. Ex art. 294, co. 1-bis, un analogo interrogatorio di garanzia è inoltre previsto nei confronti di qualunque persona sottoposta a misura cautelare, sia coercitiva che interdittiva, diversa dalla custodia in carcare, non oltre 10 gg. dall’esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione. L’eventuale inosservanza di tale termine produce la perdita di efficacia della misura. 15. L’interrogatorio della persona in stato di custodia L’interrogatorio ex art. 295 deve essere compiuto dallo stesso giudice che abbia deciso in ordine al provve- dimento restrittivo. L’atto dovrà svolgersi secondo le regole generali ex artt. 64 e 65, cui deve aggiungersi (art. 141-bis) la prevista obbligatorietà della documentazione integrale dell’interrogatorio stesso, mediante appositi strumenti di riproduzione fonografica o audiovisiva, “a pena di inutilizzabilità” probatoria dei risultati dell’atto. L’interrogatorio in questione verrà condotto dal giudice, e l’art. 294, co. 4, prevede una facoltà di intervento del P.M. e un correlativo obbligo del difensore, ai quali verrà dato tempestivo avviso. Circa il con- tenuto di garanzia dell’interrogatorio, che deve essere preceduto dalla verifica (co. 1-bis) che all’imputato in stato di custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari sia stata data la comunicazione sui diritti difensivi della persona privata della libertà personale o che comunque sia stato informato oralmente – dovendo altri- menti il giudice provvedere a dare o a completare la comunicazione o l’informazione –, dispone l’art. 294, co. 3, che il giudice debba valutare se permangono le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari richieste per l’assoggettamento a custodia, alla luce dei nuovi elementi forniti dall’indiziato durante l’interrogatorio. L’interrogatorio è nullo se non preceduto dal deposito nella cancelleria del giudice dell’ordinanza cautelare e degli altri atti ex art. 293, co. 3. L’art. 302 prevede un meccanismo di caducazione, stabilendo che la custodia cautelare disposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento perde immediatamente efficacia ogni- qualvolta il giudice “non procede all’interrogatorio nel termine ex art. 294”; la stessa fattispecie estintiva opera anche con riguardo alle altre misure coercitive o interdittive, ovviamente in rapporto al termine di 10 gg. L’art. 302 continua poi precisando che, una volta avvenuta la liberazione dell’indiziato, il medesimo potrà essere di nuovo sottoposto a custodia cautelare, su richiesta del P.M., sempreché ne ricorrano i presupposti, soltanto dopo che sia stato interrogato in stato di libertà. L’art. 294, co. 6, dispone che “l’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare da parte del P.M. non può precedere l’interrogatorio del giudice”, alla luce di un atteggiamento legislativo di diffidenza verso l’attività inquirente dell’organo dell’accusa. L’art. 294, co. 1-ter, aggiunge che, ove lo stesso P.M. ne faccia istanza nel presentare la richiesta di custodia cautelare, il giudice sia tenuto a effettuare l’interrogatorio entro 48 ore dall’inizio della custodia – per “compensare” la rigidezza del divieto di anticipazione dell’interrogatorio del P.M. e attenuarne i possibil inconvenienti ai fini dello sviluppo delle indagini. 16. Il computo dei termini di durata delle misure Dopo aver espresso, nei primi due commi, il principio generale secondo cui gli effetti della custodia cautelare decorrono dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo, mentre gli effetti delle altre misure decorrono dal momento della notifica della relativa ordinanza, l’art. 297 disciplina l’ipotesi di pluralità di provvedi- menti applicativi della medesima misura a carico del medesimo imputato. Quando tali provvedimenti riguar- dino lo stesso fatto, il co. 3 precisa che i termini decorrono dal giorno in cui è stato eseguito o notificato il primo provvedimento, ma sono commisurati in rapporto all’imputazione più grave tra quelle contestate con le diverse ordinanze. Il legislatore ha voluto evidentemente contrastare le cc.dd. contestazioni “a catena”, usate spesso per eludere l’ordinaria disciplina dei termini delle misure cautelari – la prassi volta a dilazionare nel tempo l’adozione di misure di custodia cautelare riferite a fatti criminosi tra loro commessi, attraverso un artificioso differimento “a cascata” in epoche successive dei relativi provvedimenti, in modo da far decorrere da momenti diversi i corrispondenti termini di durata. La “reazione” legislativa è però andata fuori misura, correlando l’operatività della regola di retrodatazione ex art. 297, co. 3, alla mera successione cronologica delle 72 diverse ordinanze cautelari, nelle ipotesi ivi indicate, sulla base di una presunzione assoluta di colpevole inerzia o di artificioso ritardo del P.M. nel richiedere la pronuncia delle ordinanze successive alla prima. Ne emerge una disciplina fondata su un eccessivo automatismo, che finisce per imporre il medesimo regime di decorrenza simultanea dei termini di custodia relativi alle misure applicate con le distinte ordinanze scaglionate nel tempo anche con riferimento a situazioni tra loro assai differenziate. Ove la pluralità di ordinanze emesse nei confronti dello stesso imputato riguardi fatti diversi, l’eventuale passaggio in giudicato della condanna per il fatto con- siderato nel primo provvedimento cautelare non fa venire meno l’operatività della regola di retrodatazione del termine iniziale della misura disposta con la successiva ordinanza cautelare. Quanto alle ipotesi del cumulo tra un provvedimento cautelare e un provvedimento di custodia per altro reato, ovvero di detenzione o di in- ternamento a titolo definitivo, l’art. 297, ult. co., dispone che gli effetti della misura cautelare decorrono co- munque dal giorno della notifica della relativa ordinanza, ove si tratti di misura compatibile con lo stato di detenzione o di internamento, mentre nel caso contrario decorrono dalla cessazione di tale stato; agli effetti dei termini massimi, la custodia cautelare “si considera compatibile con lo stato di detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza” – e lo stesso deve ritenersi nell’ipotesi di cumulo tra una misura cautelare detentiva e un provvedimento di custodia già in atto a carico della medesima persona per un diverso fatto di reato. L’art. 288 prevede poi che l’esecuzione di un ordine di carcerazione nei confronti di un imputato sottoposto a misura cautelare personale per un diverso reato determini la sospensione dell’esecuzione di quest’ultima, a meno che gli effetti di tale misura risultino compatibili con l’estinzione della pena. 17. I provvedimenti di revoca e di sostituzione L’art. 299 riunisce in un unico contesto normativo le diverse ipotesi di revoca e sostituzione delle misure riconducibili alla fenomenologia dei presupposti di fatto e di diritto delle stesse. La revoca è la fattispecie estintiva delle misure cautelari personali, ed è destinata a operare tutte le volte in cui risultino carenti (a seguito di una valutazione sulla sussistenza ex ante o sulla permanenza ex post), per ciascuna di esse, le condizioni di applicabilità ex art. 293 o le esigenze cautelari ex art. 294 (art. 299, co. 1). La norma è una tipica applicazione delle stesse regole di discrezionalità vincolata cui deve attenersi il giudice nel momento applicativo delle sud- dette misure. Lo stesso vale, nel caso della sostituzione, quando il giudice accerti che si sono attenuate le esigenze cautelari, al punto da far ritenere eccessivamente vessatoria la misura applicata, ovvero che la mede- sima misura non appaia più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione irrogabile. In tali eventualità il giudice deve sostituire la misura originaria con altra correlativamente meno grave, ovvero disporne l’applica- zione con modalità meno gravose (art. 299, co. 2). Quando si tratti della sostituzione della custodia in carcere cogli arresti domiciliari, l’imputato può raggiungere il luogo di esecuzione della misura coi propri mezzi, salvo che il giudice non ne disponga l’accompagnamento qualora ritenga sussistenti specifiche esigenze processuali o di sicurezza (art. 97-bis disp. att.). Durante le indagini preliminari, il giudice deve provvedere in ordine alla revoca e alla sostituzione delle misure, di regola, soltanto dietro richiesta del P.M. o dell’imputato, ed entro 5 gg. dal deposito di tale richiesta. Il giudice può assumere l’iniziativa della revoca o della sostituzione delle misure suddette, quando risulti già investito del procedimento per l’esercizio di uno dei poteri appartenenti alla sua competenza funzionale (es.: assunzione dell’interrogatorio dell’indiziato in stato di custodia cautelare). Prima di provvedere sulla revoca o sulla sostituzione delle misure il giudice deve sempre sentire il P.M., il quale dovrà esprimere il proprio parere nei 2 gg. successivi, salva restando al medesimo giudice la possibilità di procedere alla decisione qualora, entro tale termine, il parere non sia stato espresso (art. 299, co. 3-bis). La stessa regola vale nell’ipotesi in cui la revoca o la sostituzione della misura applicata, ovvero la sua applica- zione con modalità meno gravose, venga richiesta dall’imputato dopo la chiusura delle indagini preliminari. L’art. 299, co. 3-ter, dispone che il giudice, prima di provvedere, possa sempre procedere a interrogatorio della persona sottoposta alla misura, interrogatorio che diventa doveroso per il giudice se l’imputato lo ha espressa- mente richiesto o se l’istanza di revoca o di sostituzione della misura sua basata su “elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati”. A parte il caso della trasgressione alle prescrizioni imposte, per quanto riguarda l’ipotesi in cui il giudice accerti che le esigenze cautelari si sono accresciute rispetto a quelle individuate alla base della misura applicata, è previsto che il giudice, su richiesta del P.M., debba sempre sostituire la misura originaria con altra più rigida, ovvero disporne l’applicazione con modalità più gravose (art. 299, co. 4); po- tendo altresì disporre, in alternativa, l’applicazione, congiunta a quella in esecuzione, di altra misura coercitiva o interdittiva. Con riferimento a tutti i provvedimenti ex art. 299, il giudice può in ogni stato e grado del 75 complessiva della custodia cautelare. Gli interrogativi di maggiore risalto investono la definizione delle fatti- specie di sospensione dei termini di custodia ex art. 303, che l’art. 304, co. 1, ha individuato facendo riferi- mento a una variegata serie di situazioni: con riguardo (lett. a) alle ipotesi di sospensione o di rinvio del dibat- timento per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero dietro richiesta del medesimo; con riguardo (lett. b) alle ipotesi di sospensione o rinvio del dibattimento a causa della mancata presentazione, dell’allon- tanamento o della mancata partecipazione di uno o più difensori, qualora ne rimangano privi di assistenza uno o più imputati; nell’ipotesi (lett. c) della sospensione dei termini di custodia durante “la pendenza dei termini ex art. 544, co. 2 e 3” per la redazione differita dei motivi della sentenza – in questo caso il termine riprende a decorrere dalla scadenza di quello stabilito dalla legge o fissato dal giudice per il deposito della sentenza. Analogamente, infine, i termini di custodia debbono essere sospesi anche quando tali situazioni si verifichino nell’ambito del giudizio abbreviato (lett. c-bis). L’art. 304, co. 4, allarga l’operatività dell’istituto della sospen- sione anche alla fase dell’udienza preliminare: i termini previsti ex art. 303, co. 1, lett. a, sono sospesi tutte le volte in cui la stessa udienza venga sospesa o rinviata per il verificarsi di uno dei casi ex art. 304, co. 1 e 2. Una speciale figura di sospensione dei termini di custodia è stata infine pr3evista come conseguenza della sospensione del processo a seguito di richiesta di rimessione, nelle varie ipotesi disciplinate dall’art. 47: si osservano, in quanto compatibili, le disposizioni ex art. 304, a cominciare dall’adozione del provvedimento sospensivo con ordinanza appellabile. Il legislatore ha poi stabilito che, nelle ipotesi di particolare comples- sità dei dibattimenti o dei giudizi abbreviati relativi ai gravi delitti ex art. 407, co. 2, lett. a, il regime della sospensione ex art. 304 possa venire esteso anche ai periodi di tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza nella fase del giudizio (per cui è di regola prevista la sola neutralizzazione automatica dei giorni corrispondenti). In questi casi, la sospensione dei termini di custodia non potrà venire disposta dal giudice d’ufficio, ma unicamente dietro richiesta del P.M. e sempre con ordinanza appellabile. Qualora manchi tale richiesto, o comunque non venga pronunciato il suddetto provvedimento sospensivo, si verificherà ex lege l’effetto di “congelamento” del decorso dei termini di custodia. L’art. 304, co. 6, prevede un limite finale di durata della sospensione individuandolo su due distinti livelli: da un lato, la durata della custodia nelle diverse fasi del procedimento non può superare il doppio dei termini “intermedi” di fase ex art. 303, co. 1-3; dall’altro lato, la durata complessiva della custodia non può comunque superare i termini ex art. 303, co. 4, aumentati della metà, ovvero, quando in concreto risulti più favorevole, il tradizionale limite commisurato ai “2/3 del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza”. L’unica deroga si ricava dal co. 7, dove è previsto che dei periodi di sospensione ex art. 304, co. 1, lett. b si tenga conto solo nel computo riguardante il limite relativo alla durata complessiva della custodia, operandosi così una sorta di “neutralizzazione” dei suddetti “periodi” – onde porre un freno all’uso pretestuoso della “astensione collettiva” dei difensori dalle udienze. 21. I provvedimenti adottabili nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini L’art. 307 detta un’autonoma disciplina circa i provvedimenti adottabili nei confronti dell’imputato “scarce- rato” per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare. Anzitutto, in generale, a carico di tale imputato il giudice deve disporre le altre misure cautelari (anche cumulativamente) di cui ricorrano i presupposti, sem- preché si accerti la permanenza delle esigenze che avevano giustificato la sua sottoposizione alla custodia stessa. In secondo luogo, la custodia cautelare deve essere rinnovata allorquando si verifichino due situazioni di specifica rilevanza cautelare: l’ipotesi dell’imputato scarcerato che abbia dolosamente trasgredito alle pre- scrizioni inerenti a una delle misure cautelari applicategli in luogo della custodia; l’ipotesi della sopravve- nienza a carico del suddetto imputato di una sentenza di condanna di primo o di secondo grado (qualora il medesimo si sia dato alla fuga o ne sussista il pericolo), con ripristino della custodia sia “contestualmente” che “successivamente” alla sentenza stessa. L’art. 307, co. 3, detta la regola della decorrenza ex novo dei termini relativi alla fase in cui il procedimento si trova, e la stessa regola viene sancita ex art. 303, co. 3, anche con riguardo al caso dell’imputato sottrattosi mediante evasione all’esecuzione della custodia cautelare. Quanto alla situazione dell’imputato scarcerato che, trasgredendo alle prescrizioni della misura cautelare applicatagli in via sostitutiva, stia per darsi alla fuga, l’art. 307, co. 4, prevede che ufficiali e agenti di polizia possano procedere al suo fermo, da comunicare al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo al più tardi 76 entro 24 ore per la successiva procedura di convalida – e, se del caso, per l’applicazione al fermato della misura della custodia cautelare a opera del g.i.p. 22. I termini di durata massima delle misure cautelari non custodiali L’art. 308 stabilisce la perdita di efficacia delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare a seguito del decorso di un periodo di tempo pari al doppio dei termini ex art. 303 in rapporto alla custodia. Per quanto concerne la durata delle misure interdittive, il co. 2 fissa il termine massimo di 12 mesi, non superabile neppure quando la misura sia stata disposta per esigenze probatorie e sia, dunque, rinnovabile. Il limite di durata massima potrebbe risultare troppo rigido, nella sua brevità: il co. 3, dunque, aggiunge che la sopravve- nuta estinzione delle misure in discorso non può recare pregiudizio all’esercizio dei poteri attribuiti ex lege al giudice penale o ad altre autorità in materia di pene accessorie, ovvero di misure interdittive di diversa natura. 23. Il procedimento di riesame dei provvedimenti coercitivi dinanzi al tribunale Alla tematica dei rimedi contro i provvedimenti applicativi delle misure cautelari sono anzitutto riconducibili i vari istituti appartenenti alla sfera delle impugnazioni (riesame, appello e ricorso per cassazione), opportu- namente rivisitati nei loro aspetti procedurali, all’insegna di un’esigenza di maggior efficienza e tempestività nel funzionamento della garanzia che vi è implicata, sotto il profilo del controllo ex post in ordine ai presupposti del provvedimento impugnato. Del resto, le decisioni cautelari sono immediatamente esecutive, e opera il principio generale per cui le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale non hanno in alcun caso effetto sospensivo. Per quanto riguarda il profilo dell’interesse a impugnare nell’ambito del pro- cedimento cautelare, l’interesse dell’indagato a proporre impugnazione contro un’ordinanza che abbia appli- cato o mantenuto a suo carico la misura della custodia cautelare permane anche nel caso di revoca di tale misura, o di sua sostituzione con una misura meno grave, radicandosi comunque sull’esigenza dello stesso di poter ottenere, dal giudice dell’impugnazione, una decisione irrevocabile circa l’illegittimità dell’originaria misura custodiale, idonea a fungere da presupposto del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Lo strumento del riesame “anche nel merito” è configurato ex art. 309 come utilizzabile esclusivamente avverso le ordinanze che abbiano disposto una misura coercitiva, salvo che si tratti di ordinanze emesse dietro appello proposto dal P.M. ex art. 310 e con l’eccezione delle ordinanze recanti misure coercitive adottate nell’ambito del procedimento di estradizione o di esecuzione di un mandato di arresto europeo (avverso le quali è ammesso solo il ricorso per cassazione). L’art. 309 attribuisce la titolarità del diritto al riesame soltanto all’imputato e al difensore, salva la previsione per l’uno o per l’altro di un diverso regime di decorrenza del termine di 10 gg. fissato per la proposizione della relativa richiesta, a norma dei co. 1-3. Ex co. 3-bis, dal computo del suddetto termine debbono escludersi i giorni per i quali sia stato disposto il differimento del colloquio tra il difensore e l’imputato detenuto. Mentre la competenza a decidere sulla richiesta di riesame risulta individuata con riferi- mento al tribunale in composizione collegiale del capoluogo del distretto di corte di appello in cui ha sede l’ufficio del giudice che abbia emesso l’ordinanza impugnata, per quanto concerne le concrete modalità dell’iniziativa si stabilisce che la medesima richiesta debba venire direttamente proposta alla cancelleria di quel tribunale, nell’osservanza delle forme stabilite in materia di presentazione e di spedizione dell’atto di impugnazione. Una volta presentata la richiesta di riesame, a seguito dell’immediato avviso proveniente dal presidente del tribunale, l’autorità giudiziaria procedente dovrà trasmettere al medesimo tribunale gli atti correlativi “entro il giorno successivo” a quello dell’avviso, e comunque non oltre il quinto giorno successivo alla presentazione della richiesta di riesame. Gli atti da trasmettersi al tribunale sono quelli già presentati dal P.M. al giudice in vista dell’adozione del provvedimento ex art. 291, e “tutti gli elementi sopravvenuti a favore dell’indagato” – ossia tutti gli elementi acquisiti dal P.M., successivamente alla richiesta della misura oggetto di riesame, ex art. 358, ovvero pervenutigli in virtù dell’attività investigativa del difensore, sempre nel corso delle indagini preliminari. Quanto al contenuto della richiesta di riesame, l’art. 309, co. 6, prevede che essa possa recare contestualmente l’enunciazione dei motivi, riconoscendo peraltro, nel contempo, al proponente la facoltà di enunciare nuovi motivi dinanzi al tribunale competente per il riesame, purché ne venga dato atto a verbale prima dell’inizio della discussione – motivi che potranno riguardare i presupposti della misura coer- citiva adottata, sia sotto il profilo del fumus commissi delicti, sia sotto il profilo del periculum libertatis, e tra cui debbono essere ricompresi anche quelli diretti a contestare la sussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza”. Con la richiesta l’imputato può altresì chiedere di comparire personalmente e, ove abbia espresso questa 77 intenzione, ha diritto di presenziare all’udienza (co. 6 e 8-bis). La caratteristica di rapidità coessenziale al procedimento di riesame emerge dall’art. 309, co. 8 e 9, laddove si prescrive che il tribunale emetta la sua decisione nel termine di 10 gg. dalla ricezione degli atti trasmessigli a norma del co. 5. Il procedimento di riesame, di regola, dovrebbe sempre concludersi, al più tardi, entro 15 gg. da quello in cui la richiesta sia pervenuta alla cancelleria del tribunale competente. Una deroga è tuttavia prevista, per evitare che l’eccessiva compressione dei tempi possa nuocere all’efficacia dell’azione difensiva, dal co. 9-bis: “su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro 2 gg. dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di 5 a un massimo di 10 gg. se vi siano giustificati motivi”. Dal punto di vista della procedura, il tribunale dovrà provvedere rin camera di consiglio ex art. 127, salva una necessaria abbreviazione del termine (da 10 a 3 gg. prima dell’udienza) stabilito per il corrispondente avviso al P.M. presso lo stesso tribunale, all’imputato e al suo difensore, ai fini della loro eventuale comparizione. L’art. 309, co. 8, stabilisce expressis verbis che, fino al giorno dell’udienza, gli atti trasmessi al tribunale ex co. 5 debbono rimanere de- positati in cancelleria, con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia. I soggetto destinatari del predetto avviso hanno diritto di essere sentiti, se compaiono in udienza, di fronte al tribunale investito della richiesta di riesame. L’imputato che ne faccia richiesta deve essere sentito personalmente. L’esigenza del ri- spetto del termine di 10 gg. fissato per la decisione sulla richiesta di riesame è ulteriormente sottolineata dal co. 10, che prevede che, in caso di inosservanza di quel termine, la misura coercitiva disposta con l’ordinanza assoggettata a riesame deve ritenersi immediatamente caducata (estinzione automatica). Quanto al criterio di individuazione della scadenza del suddetto termine di 10 gg., deve farsi riferimento alla data di deliberazione del provvedimento da parte del tribunale del riesame, attestata dal deposito in cancelleria del dispositivo e della corrispondente documentazione, e non alla data del deposito dell’ordinanza correlativa, comprendente anche la motivazione. Per questo secondo adempimento è previsto un autonomo termine massimo di 30 gg. dalla decisione, 45 in caso di particolare complessità. Altra ipotesi di caducazione si ha quando la trasmissione al tribunale, da parte dell’autorità giudiziaria procedente, degli atti non avviene nei termini ex co. 5, e questo effetto si realizza quando entro il suddetto termini tali atti non siano ancora pervenuti (e non già inoltrati) al medesimo tribunale. Quale che sia la causa della decadenza del titolo cautelare, la misura caducata per il man- cato tempestivo intervento del controllo non può essere rinnovata, a meno che sussistano eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate. Per quanto concerne l’esercizio dei poteri decisori da parte del tribunale investito della richiesta di riesame, l’art. 309, co. 9, definisce anzitutto la tipologia dei provvedimenti adotta- bili dal tribunale stesso (declaratoria di inammissibilità della richiesta; annullamento, riforma o conferma dell’ordinanza sottoposta a riesame; revoca, pur nel silenzio della disposizione), precisando che la decisione potrà tenere conto pure degli ulteriori “elementi addotti dalle parti” nel corso dell’udienza, senza tuttavia che il tribunale possa procedere a una vera e propria attività istruttoria, incompatibile con le esigenze di speditezza. Si attribuisce poi esplicitamente al tribunale il potere di provvedere, anche nel merito, senza particolari vincoli sul piano della cognizione e della decisione – la richiesta di riesame è un mezzo totalmente devolutivo. Da un lato, l’ordinanza potrà venire annullata, ovvero riformata in senso favorevole all’imputato, anche per motivi diversi da quelli enunciati nella richiesta, o successivamente a essa. D’altro lato, la medesima ordinanza potrà venire confermata (non, invece, riformata in peius) anche sulla base di ragioni diverse da quelle indicate nella sua motivazione. Quanto, in particolare, all’annullamento dell’ordinanza per vizio della motivazione ̧secondo la giurisprudenza, si esclude che il tribunale possa censurare il provvedimento impugnato quando questo sia corredato da una motivazione carente, illogica o lacunosa, salvo che essa non sia del tutto mancante o appa- rente. Le confusioni della prassi hanno portato all’aggiunta, al co. 9, della previsione per cui “il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, ex art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. Il risultato dell’operazione è però deludente: la nuova norma si limita a recepire i risultati dell’interpretazione giurisprudenziale della ver- sione previgente, lasciando per i casi “non-limite” al tribunale l’improprio compito di supplenza della funzione cautelare non correttamente esercitata. Infine, C. cost. 71/1996 ha notevolmente allargato l’ambito dei poteri di cognizione del tribunale, in sede di riesame, per quanto riguarda il versante del fumus commissi delicti, riconoscendogli la possibilità di valutare la sussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” anche quando, a carico dell’imputato, sia già stato emesso il decreto che dispone il giudizio – caso in cui la valutazione dovrebbe ritenersi oggettivamente “assorbita” dal contenuto del suddetto decreto. 80 necessariamente in vista un profilo di “ingiustizia” sostanziale della restrizione, mentre risulta in re ipsa la sua illegittimità, essa pure assunta a presupposto del sorgere di un diritto di riparazione in capo all’imputato me- desimo. L’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione deve ritenersi operante anche con riferimento alle ipotesi di detenzione originata da arresto in flagranza o da fermo, nonché alle ipotesi di detenzione originata, nell’ambito di un procedimento di estradizione passiva, da un provvedimento di arresto provvisorio, o di ap- plicazione provvisoria di misura cautelare a carico dell’estradando, in assenza delle condizioni per una sen- tenza favorevole all’estradizione. L’art. 314, co. 4, esclude la configurabilità di un diritto alla riparazione per quella parte della custodia cautelare computata ex art. 657 ai fini della determinazione della misura di una pena, ovvero per il periodo in cui le relative limitazioni siano state sofferte ex artt. 297 e 298 anche in forza di un altro titolo. Quanto ai profili procedurali (art. 315), la domanda di riparazione debba essere proposta, a pena di inammissibilità, entro 2 anni dal giorno in cui siano divenute irrevocabili le sentenze ex art. 314, co. 1 e 2, o sia divenuta inoppugnabile la sentenza di non luogo a procedere, ovvero dal giorno in cui il provvedi- mento di archiviazione sia stato notificato al soggetto destinatario. La legittimazione a proporre la suddetta domanda spetta al soggetto interessato ovvero, in casi particolari, anche ai suoi eredi. Per il resto, viene fatto rinvio alle norme sulla riparazione dell’errore giudiziario; la corte di appello competente è individuata ex art. 102 disp. att. 27. Le misure cautelari reali: a) il sequestro conservativo; b) il sequestro preventivo; c) i rimedi avverso i provvedimenti di sequestro Il regime delle misure cautelari reali è contenuto in un titolo appositamente dedicato (libro IV, titolo II), in forza di una scelta sistematica diretta a sottolineare lo specifico finalismo di tali misure – così da distinguerle rispetto ad altre, nelle quali l’imposizione di un vincolo di indisponibilità sulla cosa non corrisponde a un’esi- genza cautelare, ma probatoria (sequestro penale). Il codice individua due diverse specie di misure riconduci- bili a tale ambito, accomunate dalla finalità cautelare, ma differenziate sul terreno delle esigenze cui l’una e l’altra rispettivamente si riferiscono, entrambe di regola affidate alla competenza del giudice di merito, dietro richiesta del P.M. e, nel primo caso che segue, anche della parte civile (artt. 317 e 321). Il sequestro conser- vativo ha la funzione di assicurare, attraverso il vincolo posto sui beni mobili o immobili dell’imputato, nonché sulle somme o cose a lui dovute, l’esecuzione della sentenza che potrebbe venire emessa, tutte le volte in cui vi sia “fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano” le relative garanzie: sia sotto il profilo della pena pecuniaria, delle spese processuali e delle altre somme dovute all’erario statale, nell’ipotesi di iniziativa del P.M. (art. 316, co. 1), sia sotto il profilo dell’adempimento delle obbligazioni civili da reato, nell’ipotesi di iniziativa della parte civile, estensibile anche ai beni del responsabile civile (art. 316, co. 2). Vi è un’organica disciplina dell’offerta di cauzione – in funzione alternativa ex ante o sostitutiva ex post, rispetto al provvedi- mento di sequestro (art. 319) – e, soprattutto, relativa alla prevista conversione in pignoramento del sequestro, quale conseguenza del giudicato di condanna (art. 320) – che però non esclude il carattere privilegiato dei crediti tutelati attraverso il sequestro, salva restano la priorità attribuita ai crediti della parte civile rispetto a quelli dello Stato. Il sequestro preventivo si caratterizza per il suo spiccato finalismo cautelare preventivo sul presupposto che sia stata anzitutto accertata la sussistenza di elementi idonei a suffragare la configurabilità in concreto della fattispecie di reato ipotizzata (c.d. fumus delicti), mentre non è richiesta, al riguardo, la sussi- stenza di gravi indizi di colpevolezza a carico di un soggetto indagato o imputato. Più precisamente, anche prima dell’esercizio dell’azione penale, su richiesta del P.M., il giudice deve disporre con decreto motivato il sequestro delle “cose pertinenti al reato”, tutte le volte in cui la libera disponibilità delle stesse possa aggravare e protrarre le conseguenze del reato medesimo, ovvero agevolare la commissione di altri reati (art. 321, co. 1), osservandosi al riguardo la normativa di attuazione dettata per il sequestro probatorio. Al di fuori di questi presupposti, il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca è di regola rimesso alla discrezionalità del giudice, mentre diventa obbligatorio nel corso dei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. (art. 321, co. 2 e 2-bis). Le disposizioni concernenti il sequestro preventivo si applicano anche alla peculiare fattispecie di sequestro dei beni nei confronti dei beni appartenenti alla persona vittima di un sequestro estor- sivo, al suo coniuge e alle altre persone ivi indicate. Durante le indagini preliminari, quando per l’urgenza delle circostanze non risulti possibile attendere il provvedimento del giudice competente per la fase, il sequestro preventivo potrà essere disposto con proprio decreto dal P.M., e addirittura potranno procedervi di loro inizia- tiva, prima dell’intervento di quest’ultimo, anche ufficiali di polizia giudiziaria, salva la necessaria 81 trasmissione al P.M. del relativo verbale entro 48 ore. Il sequestro perde efficacia qualora entro le successive 48 ore il P.M. non ne abbia richiesto al giudice la convalida e l’emissione del decreto di sua competenza ovvero qualora il giudice non emetta il suddetto provvedimento entro 10 gg. dalla ricezione di tale richiesta (art. 321, co. 3-bis e 3-ter). La misura può venire revocata dal giudice, su richiesta del P.M. o dell’interessato, ovvero, nel corso delle indagini preliminari, dallo stesso P.M. (art. 321, co. 3), quando si accerti l’insussistenza delle esigenze di prevenzione che l’avevano giustificata. Il sequestro preventivo perde efficacia anche a seguito della pronuncia di determinate sentenze (art. 323). È disposta la conversione del sequestro preventivo in sequestro probatorio, tutte le volte in cui il primo, avendo avuto per oggetto “più esemplari identici” della cosa seque- strata, abbia perso efficacia a seguito di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, peraltro impugnata dal P.M.: in tali situazioni, ove la cosa presenti interesse sotto il profilo probatorio, il giudice ordi- nerà il mantenimento del sequestro a tale scopo su un solo esemplare della stessa, disponendo la restituzione degli altri. Vi è poi l’ipotesi di conversione conseguente alla pronuncia di una sentenza di condanna, ovvia- mente quando non sia stata disposta la confisca delle cose sequestrate in via preventiva, nel qual caso dovranno rimanere fermi gli effetti del sequestro (art. 323, co. 3). Al di fuori di questa eventualità, dovrà essere ordinata la restituzione di tali cose, ma il giudice potrà disporre la conversione del sequestro preventivo in conservativo, ove ne sussistano i presupposti, dietro richiesta del P.M. o della parte civile (art. 323, co. 4): sia nell’ipotesi di sentenza di condanna, sia nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, in quanto impugnate. Quanto ai rimedi avverso i provvedimenti di sequestro, il perno è sullo strumento del riesame, individuato quale tipica impugnazione nel merito, di fronte al tribunale in composizione collegiale sia contro l’ordinanza di sequestro conservativo, sia contro il decreto di sequestro preventivo. La richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento di sequestro. In tutti questi casi, il procedimento di riesame è deli- neato ex art. 324 sulla falsariga di quello ex art. 309 in materia di misure di coercizione personale, e con l’ulteriore particolarità rappresentata dall’espressa previsione del deposito degli atti nella cancelleria del tribu- nale in composizione collegiale competente su base provinciale. Inoltre, nel caso di contestazione sulla pro- prietà delle cose sequestrate, il giudice del riesame dovrà rimettere la decisione della controversia al giudice civile, mantenendo fermo nel frattempo il sequestro. Si prevede, infine, che tutte le ordinanze emesse dal tri- bunale in sede di riesame attorno ai provvedimenti di sequestro siano suscettibili di ricorso per cassazione. Tuttavia, si ammette esplicitamente che lo stesso ricorso possa venire altresì proposto “direttamente” contro i medesimi provvedimenti di sequestro, in quanto emessi dal giudice, rendendo inammissibile la richiesta di riesame (art. 325, co. 1 e 2). Il procedimento (art. 325, co. 3) è quello ex art. 127. Fuori dei casi di riesame del decreto di sequestro preventivo ex art. 322 al P.M., all’imputato e alle altre persone interessate alle cose se- questrate è comunque riconosciuto il diritto di proporre appello al tribunale, in composizione collegiale, contro le altre ordinanze in materia di sequestro preventivo, nonché contro il decreto di revoca eventualmente emesso dal P.M., mentre nulla del genere si dice per quanto riguarda i corrispondenti provvedimenti in materia di sequestro conservativo. Anche contro le ordinanze emesse dal tribunale in sede di appello è ammesso ricorso per cassazione ex art. 325, co. 1. CAPITOLO V. INDAGINI PRELIMINARI E UDIENZA PRELIMINARE 1. Le indagini preliminari: finalità e caratteri essenziali Il libro V, intitolato “Indagini preliminari e udienza preliminare”, introduce la parte “dinamica” del codice, disciplinando la fase del procedimento penale prodromica al giudizio e gli epiloghi della stessa. Il legislatore del codice vigente ha preso le distanza dal modello del codice abrogato, incentrato su una “istruzione”, fun- zionale all’acquisizione di materiale suscettibile di essere utilizzato nel giudizio, e ha sostituito quella fase con altra, la cui diversità concettuale già si ricava dalla diversa terminologia: mentre l’istruzione è ora dislocata nel cuore del dibattimento, luogo elettivo di formazione della prova, la locuzione “indagini preliminari” al- lude a un’attività di individuazione e di raccolta di dati utili a stabilire se il processo debba o meno essere instaurato. I rapporti tra fase preliminare e giudizio rappresentano il nodo cruciale nell’architettura di un mo- dello processuale. L’adozione di un rito dai caratteri di accusatori e di un metodo di conoscenza a struttura dialettica, individuando nel contraddittorio dibattimentale il baricentro dell’accertamento, postula un’attività 82 di indagine meramente preparatoria. L’art. 326 dispone che le indagini preliminari debbono essere finaliz- zate al reperimento di elementi necessari per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. L’eser- cizio dell’azione penale, atto introduttivo del “processo” in senso stretto, è stato collocato a valle del tempo delle indagini, mentre queste ultime sono state estromesse dal terreno giurisdizionale, in quanto funzionali ad assumere elementi necessari per l’azione ma privi di valore probatorio per il giudice. Pertanto, l’impianto primigenio delineava un’indagine caratterizzata da tempi definiti, atti non improntati a forme rigide e modalità di documentazione essenziali, assenza di un ruolo attivo della difesa e segretezza degli atti investigativi. A sottolineare l’idea di una netta separazione tra le fasi del procedimento, il legislatore ha anche distinto terminologicamente il “prima” e il “dopo”: riservando la definizione di “processo” alla parte del procedimento connotata dalla giurisdizione e introdotta dall’imputazione e indicando con “procedimento” la fase delle inda- gini; designando nell’“indagato” il protagonista del primissimo scenario accusativo e individuando nell’“im- putato” il soggetto destinatario di un’imputazione; infine, attribuendo distinte etichette agli atti di indagine del P.M. rispetto agli atti di prova dall’analogo contenuto compiuti innanzi al giudice. Tre pronunce costituzionali del 1992 hanno però accentuato la permeabilità del dibattimento agli elementi frutto delle investigazioni. La progressiva presa d’atto della pervasività degli atti compiuti dal P.M. ha condotto a una sostanziale giurisdi- zionalizzazione della fase di indagine, esigendo un rafforzamento delle garanzie e una valorizzazione del ruolo della difesa. Una spinta concorrente ha poi mutato la primitiva impostazione: la perdita di centralità del dibattimento, dovuta alle rilevanti modifiche apportate alla disciplina dell’udienza preliminare e del giu- dizio abbreviato, ha profondamente mutato lo scenario rispetto al quale l’organo di accusa era chiamato a operare le sue determinazioni per l’esercizio dell’azione. Il P.M. è ora chiamato a irrobustire il quadro proba- torio per passare il vaglio dell’udienza preliminare, ordito come un filtro a maglie sempre più strette; inoltre, l’organo dell’accusa è ora tenuto a svolgere indagini complete al fine di ottenere una piattaforma probatoria sufficientemente convincente, in vista di una possibile richiesta dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti in sede di giudizio abbreviato. D’altro canto, l’art. 326 ha rappresentato fin da principio una sined- doche normativa, illustrando solo parte degli usi dei risultati di indagine: esso lascia in ombra che gli elementi di prova raccolti dalle indagini sono in realtà idonei a supportare una serie di rilevanti decisioni da adottarsi all’interno della stessa fase o successivamente (es.: misure cautelari). Né si può trascurare la circostanza che quegli stessi elementi erano suscettibili fin da principio di assumere valore probatorio nei giudizi speciali privi di dibattimento, e anche nel dibattimento stesso. 2. I protagonisti dell’attività investigativa Protagonisti dell’attività di indagine preliminare sono il P.M. e la polizia giudiziaria. Il P.M., titolare dell’ob- bligo di esercitare l’azione penale (art. 51), ha la direzione delle indagini: egli compie “personalmente” ogni attività necessaria ai fini ex art. 326. Il carattere di oggettività necessariamente caratterizzante la sua natura di organo pubblico gli impone altresì di compiere accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato, potere strettamente correlato alle disposizioni che pongono al P.M. l’alternativa, da sciogliersi al termine delle inda- gini preliminari, tra la richiesta di archiviazione e l’esercizio dell’azione penale: l’obbligo di esercitare l’azione ogniqualvolta il P.M. sia stato raggiunto da una notizia di reato deve essere razionalmente contemperato col fine di evitare l’instaurazione di un processo superfluo. La polizia giudiziaria affianca il P.M. in un ruolo ancillare (art. 109 Cost.: “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”). Se, da un lato, l’art. 326 sottolinea come le indagini siano compiute da entrambi i soggetti “nell’ambito delle rispettive attri- buzioni”, l’art. 327 esplicita: “il P.M. dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria”. La stretta subordinazione dell’una all’altro risulta ora in parte attenuata a seguito di interventi normativi che hanno concesso alla prima margini di maggiore autonomia: la polizia giudiziaria si staglia come un soggetto libero di esplicare l’attività investigativa secondo linee di azione non necessariamente asservite alla guida dell’auto- rità giudiziaria. La disciplina dell’attività a iniziativa della polizia giudiziaria, significativamente, precede quella delle indagini del P.M., suggerendo che essa potesse trovare spazio solo finché il magistrato non avesse impartito le necessarie direttive; per converso, una volta assunta da quest’ultimo la direzione delle indagini, ogni autonomia investigativa doveva ritenersi sostanzialmente preclusa. L’assetto codicistico risulta tempe- rato, oggi. L’allentamento del vincolo di dipendenza funzionale che lega la polizia giudiziaria al P.M. trova un primo riscontro già nell’art. 327, laddove ora si prevede che la polizia giudiziaria, “anche dopo la 85 di regola, da un magistrato del tribunale nel cui circondario è stato commesso il reato. Allorché la titolarità delle indagini è attribuita a un magistrato dell’ufficio del P.M. presso il tribunale del capoluogo del distretto, specularmente le funzioni di g.i.p. saranno svolte da un magistrato del medesimo tribunale. Le funzioni di g.i.p. (art. 7-ter ord. giud.) vanno attribuite a un medesimo magistrato: nel determinare i criteri per l’assegna- zione degli affari penali deve stabilirsi la concentrazione in capo allo stesso giudice dei provvedimenti relativi al medesimo procedimento. Inoltre, il g.i.p. e il g.u.p. debbono essere due giudici diversi. 6. L’avvio del procedimento: la notizia di reato Il procedimento penale prende avvio a seguito dell’acquisizione di una notizia di reato. Questa è ogni pro- spettazione attendibile di un fatto storico idoneo a integrare gli estremi di un reato: un’ipotesi di reato che è compito del processo penale verificare, a concretare la quale basta un fumus di rilevanza penalistica di un fatto, anche non soggettivamente attribuito. L’art. 330, nello stabilire che “il P.M. e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse a norma degli artt. ss.”, segna una duplice modalità di acquisizione, a seconda che gli organi inquirenti rivestano un ruolo propul- sivo nella ricerca delle notitiae criminis ovvero fungano da collettori delle stesse. È lo stesso codice a dettare le forme tipiche attraverso le quali le notizie di reato “presentate o trasmesse” sono ricevute dagli organi inquirenti: denuncia da parte di pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio, denuncia da parte di privati, referto, sono notizie qualificate, definite dal codice come tali e disciplinate agli artt. 331-334-bis; qualora la legge preveda come necessaria una condizione di procedibilità, le dichiarazioni di querela, istanza, richiesta, nell’esprimere la volontà di rimuovere l’ostacolo alla procedibilità, possono fungere altresì da veicolo per la notizia di reato – che non sia già nella disponibilità degli inquirenti. Fuori da queste ipotesi, la notizia di reato può derivare da qualsiasi fonte che si palesi alle autorità inquirenti, anche di loro iniziativa (notizie non quali- ficate; es: notizie di fonte giornalistica). Un ruolo attivo della ricerca di elementi penalisticamente rilevanti è fisiologicamente connaturato all’attività svolta dalla polizia, la quale beneficia anche dell’osmosi delle due sfere di competenza amministrativa e giudiziaria. Il legislatore ha esteso analogo potere di iniziativa pure al P.M., ma la simmetria tra le sfere operative dei due soggetti è solo apparente: rientra nelle attribuzioni degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria il dovere di prendere notizia dei reati e di riferirne all’autorità giudiziaria. L’agente o l’ufficiale di polizia giudiziaria che abbaia avuto comunque notizia di un reato e non abbia comunicato l’apposita informativa nei casi in cui fosse obbligatorio è sanzionato penalmente. Al contra- rio, il singolo magistrato non sembra gravato da analoghi obblighi: l’art. 70, co. 5, ord. giud. prevede che, allorché un magistrato addetti all’ufficio della procura, “fuori dall’esercizio delle sue funzioni”, venga a cono- scenza di “fatti che possono determinare l’inizio dell’azione penale o di indagini preliminari, può segnalarli per iscritto al titolare dell’ufficio”. L’attività investigativa che conduce a individuare la notizia di reato, ma antecedente a quel momento, è dunque lecita, poiché preordinata ad acquisire e precisare gli estremi della notizia di reato stessa, finché non incida su valori costituzionalmente protetti. 7. Segue: l’iscrizione della notizia di reato nel registro ex art. 335 La notizia di reato non è un atto di indagine e non è assoggettata alla disciplina propria di quegli atti; la relativa disciplina è stata inclusa tra le norme attinenti alla dinamica processuale per connessione. Presupposto dello sviluppo procedimentale, essa deve venire iscritta in un apposito registro (c.d. modello 21) non appena sia acquisita dal P.M. o a quest’ultimo comunicata dalla polizia giudiziaria ex art. 347. Spetta al P.M. iscrivere “immediatamente”, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa, anche quando ancora sia non soggettivamente determinata (nell’apposito registro per le notizie contro ignoti, c.d. modello 44); contestualmente – o da quando risulti – dovrà essere inserito altresì il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito. Spetta al P.M. aggiornare l’iscri- zione, qualora muti la qualificazione giuridica del fatto ovvero questo risulti diversamente circostanziato, senza procedere a nuove iscrizioni. Da questo adempimento debbono essere computati il termine di durata delle indagini, nonché il termine per la richiesta del giudizio immediato, del decreto penale di condanna e del giudizio direttissimo, e della richiesta di rinvio a giudizio. Nonostante il P.M. abbia l’obbligo di iscrivere le notitiae criminis pervenutegli immediatamente, senza alcuna discrezionalità, l’assenza di una sanzione speci- fica per una simile inottemperanza fa sì che possa intercorrere un lasso di tempo indefinito e incontrollato, tale da vanificare gli interessi per i quali il termine è stato istituito. Smentendo la precedente giurisprudenza, le 86 Sezioni unite hanno cassato l’eventualità di una retrodatazione del dies a quo di durata delle indagini in caso di accertata tardiva iscrizione, argomentando che l’apprezzamento sulla tempestività dell’iscrizione rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del P.M., ed è sottratto al sindacato del giudice. L’obbligo di iscrizione della notizia di reato nel registro ex art. 355 scatta peraltro solo nel caso di un’informazione dotata degli ele- menti per definirsi tale. Ove invece ci si trovi di fronte a una pseudo-notizia di reato, il P.M. dovrà iscrivere la stessa in un diverso registro (c.d. modello 45), trasmettendo poi direttamente gli atti all’archivio (c.d. potere di cestinazione o di archiviazione immediata) senza richiedere al giudice su di essa un formale provvedimento di archiviazione (con finalità evidentemente deflattive). 8. Segue: denuncia dei pubblici ufficiali, denuncia dei privati, referto Un vero e proprio obbligo di denuncia è posto dal codice in capo ai pubblici ufficiali e agli incaricato di un pubblico servizio che nell’esercizio o a causa delle loro funzioni hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito. L’apprensione dell’infor- mazione su un fatto costituente reato deve avvenire nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio – diversamente, trova applicazione il generale art. 333. È fatta salva l’informativa della polizia giudiziaria che, per compito istituzionale, deve prendere notizia dei reati e informarne il P.M. Tra i pubblici ufficiali sono ricompresi anche i magistrati: ex art. 331, co. 4, se, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato perseguibile di ufficio, l’autorità che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al P.M. – e si ritiene che lo stesso valga per il giudice penale. Quanto alla forma, la denuncia deve essere redatta per iscritto (co. 1), eventualmente con un unico atto proveniente e sot- toscritto da più persone obbligate alla denuncia per il medesimo fatto (co. 3). I contenuti sono previsti ex art. 332: l’esposizione degli elementi essenziali del fatto, il giorno dell’acquisizione della notizia, le fonti di prova già nota e, se possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga all’identificazione della persona alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti. Quanto ai destinatari, può essere presentata o trasmessa “senza ritardo”, non solo al P.M., ma anche a un ufficiale di polizia giudiziaria (art. 331, co. 1), salvo che nell’ipotesi ex co. 4. Per quanto riguarda la denuncia da parte di privati, questa è facoltativa, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, nei quali la relativa omissione è penalmente sanzionata (es.: omessa denuncia di un delitto contro la personalità dello Stato per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo). La denuncia proveniente da un privato può essere presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al P.M. o a un ufficiale di polizia giudiziaria, il quale ha obbligo di rilasciare una ricevuta. L’art. 333, co. 3, nel prevedere che “delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso”, lascia intendere che esse non possono valere da notitia criminis e non debbono essere iscritte nell’apposito registro ex art. 335; la denuncia anonima va iscritta in un apposito registro (c.d. modello 46), e da essa possono trarre spunto gli inquirenti per la loro attività. Il referto è la denuncia cui sono obbligati gli esercenti una professione sanitaria che abbiano prestato la propria opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile di ufficio. Vi sono tenuti coloro che svolgono una professione sanitaria principale (es.: medici) o secondaria (es.: infermieri), non invece coloro che svolgono mestieri espressione della c.d. arte medica (es.: odontotecnici). In quanto pubblici ufficiali, i medici che svolgono la propria professione in strutture pubbliche rientrano invece nell’art. 331. L’obbligo di collaborazione nei confronti dello Stato da parte dei sanitari è penalmente sanzionato e prevale sul segreto professionale, a meno che la notizia di reato sia suscettibile di esporre la persona assistita a conseguenze di carattere penalistico. Il referto deve pervenire entro 48 ore o, se vi è periculum in mora, immediatamente, al P.M. o a un qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui chi è obbligato a redigerlo ha prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale di polizia giudiziaria più vicino (art. 334). La forma scritta sembra suggerita dal testo normativo che prevede, tra l’altro, un dettagliato contenuto: ogni ele- mento utile a identificare e a rintracciare la persona alla quale è stata prestata assistenza, ogni circostanza in cui questa p stata prestata nonché le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi coi quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o può causare. “Il difensore e gli altri soggetto ex art. 391-bis non hanno obbligo di denuncia neppure relativamente ai reati dei quali abbiano avuto notizia nel corso delle attività investigative da essi svolte” (art. 334-bis): se si ritiene che il difensore-investigatore, dunque, operi prevalentemente per far valere gli interessi di parte, egli è a maggior ragione estraneo a ogni obbligo collabo- rativo; se, invece, se ne connota l’attività in chiave più pubblicistica, la norma costituisce una deroga rispetto 87 all’obbligo posto in capo ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio – tra i quali secondo questa lettura rientrerebbe. 9. Gli ostacoli alla progressione: le condizioni di procedibilità In ipotesi legislativamente definite, l’instaurazione del processo o il suo ulteriore incedere sono subordinati a determinati eventi riconducibili a manifestazioni di volontà di un soggetto pubblico o privato o, più raramente, ad accadimenti oggettivi. L’art. 50, nel definire caratteri e titolarità dell’azione penale, circoscrive l’obbligo di agire posto in capo all’organo di accusa ai casi in cui non è necessaria la querela, la richiesta, l’istanza o l’autorizzazione a procedere, situazioni disciplinate nel titolo III del libro sulle indagini, rubricato “condizioni di procedibilità” (artt. 336-344). Ex art. 345, co. 2, si desume l’esistenza di condizioni atipiche. Se ne fa menzione per estendere alle ipotesi “innominate” l’art. 345, co. 1, ma non si riscontra alcuna indicazione che consenta di individuare le relative ipotesi, che vengono rinvenute dunque nella trama sistematica del c.p.p., del c.p. e di altre fonti. Oltre all’esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace, sicuramente sono ascrivibili a questo novero: il segreto di Stato; l’esistenza di un precedente giudicato (art. 649, co. 1); la riapertura delle indagini e la revoca della sentenza di non luogo a procedere; la clausola di specialità nell’estradizione. L’art. 345, co. 2, annovera ora tra le situazioni ivi consi- derate la pronuncia dell’incapacità irreversibile dell’imputato. 10. Segue: il difetto di una condizione di procedibilità e la riproponibilità dell’azione penale Per quanto riguarda le indagini preliminari, la mancanza di una condizione di procedibilità ha effetto para- lizzante: il termine per le indagini comincerà a decorrere solo dalla rimozione dell’ostacolo e, più precisamente, dal momento in cui querela, richiesta e istanza pervengono al P.M., o di concessione dell’autorizzazione a procedere. Prima di quel momento, eventuali attività di indagine potranno essere esperite solamente nei limiti ex art. 346: potranno essere compiuti gli atti di indagine preliminari necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo, potranno essere assunte le prove ex art. 392. Comunque, di regola, sono previsti termini piuttosto brevi affinché chi ne è titolare sciolga il dubbio sulla volontà di rimuovere l’ostacolo al promovimento dell’azione. Quando risulti evidente che la condizione di procedibilità non potrà più soprav- venire, il difetto di procedibilità dovrà essere dichiarato con un provvedimento di archiviazione. Tuttavia, il g.i.p. non potrà rilevare il difetto di procedibilità se non a seguito di una richiesta di archiviazione avanzata dall’organo di accusa. Qualora poi il P.M., erroneamente procedendo, esercitasse l’azione, l’assenza della con- dizione di procedibilità non impedirebbe l’instaurazione del processo: non appena realizzi la sussistenza dell’ostacolo alla prosecuzione, il giudice dovrà pronunciarsi in ogni stato e grado del processo con una sen- tenza di non doversi procedere o di non luogo a procedere. La sentenza di proscioglimento che abbia rilevato il difetto di una condizione di procedibilità sarà suscettibile di divenire irrevocabile, senza però che dalla stessa derivi l’effetto preclusivo del ne bis in idem. Qualora la condizione sopravvenga in un secondo momento o diventi superflua, l’azione penale può essere nuovamente esercitata nei confronti della medesima persona e per il medesimo fatto (art. 345, co. 1). A maggior ragione, nessun effetto preclusivo si determina nel caso in cui il difetto di una condizione di procedibilità sia stato dichiarato con provvedimento di archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere. 11. Segue: querela, istanza e richiesta di procedimento La querela è una dichiarazione con la quale la persona offesa dal reato, in quanto titolare dell’interesse leso, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato (art. 336). La querela è tutt’ora in gran parte disciplinata nel cod. pen. Il cod. proc. pen. si limita a dettare le formalità di presentazione della querela (art. 339), così come quelle relative alle vicende estintive dello stesso diritto. Premesso che la titolarità del diritto spetta a ogni persona offesa da un reato per il quale non debba procedersi di ufficio, o su istanza o richiesta, eventualmente rappresentata da un tutore o da un curatore speciale, la querela va presentata entro 3 mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato, con le modalità previste per la denuncia e alle medesime autorità alle quali può essere pre- sentata la denuncia ovvero a un agente consolare all’estero (art. 337, co. 1). L’identificazione del proponente è essenziale: se recapitata da un incaricata o spedita per posta, essa deve recare la sottoscrizione autentica del
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