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RIASSUNTO COMPENDIO DI PROCEDURALE PENALE CONSO GREVI, Sintesi del corso di Diritto Processuale Penale

Riassunto completo dei primi 10 capitoli (fino all'esecuzione compresa). Basta per la preparazione all'esame.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 22/04/2022

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Scarica RIASSUNTO COMPENDIO DI PROCEDURALE PENALE CONSO GREVI e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! CAPITOLO I: I SOGGETTI La distanza del cpp del 1988, ispirato al modello accusatorio, dal codice previgente ancorato ad un processo avente come indiscusso baricentro la fase dell’istruzione, si misura anche sul piano sistematico. Una conferma di ciò si può trarre dal Libro I cpp, il primo della parte statica, a cui si contrappone la parte dinamica che si occupa del progressivo sviluppo della vicenda processuale a partire dal momento in cui viene acquisita una notizia di reato. È significativo che mentre nel codice abrogato, il Libro I disciplinava anzitutto le azioni, dando la precedenza all’azione penale, il Libro I del codice vigente, relativo ai soggetti, si apre con il titolo dedicato al giudice. Si tratta di una scelta che consente di mettere al centro la giurisdizione. Negli altri 6 titoli del Libro I vengono presi in considerazione il pm, la polizia giudiziaria, l’imputato, la parte civile con il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la persona offesa dal reato, il difensore. Restano comunque esclusi numerosi soggetti che compaiono sulla scena processuale come i c.d. ausiliari del giudice e del pm, il testimone, il perito, il consulente tecnico ecc. Sempre con riferimento ai contenuti del Libro I è opportuno distinguere tra soggetto e parte, dovendosi riservare quest’ultima qualifica a chi vanta il diritto ad una decisione giurisdizionale in rapporto ad una pretesa fatta valere nel processo, ne consegue che la qualifica di parte non spetta alla totalità dei soggetti elencati nel Libro I del codice. Il giudice e la giurisdizione penale In piena sintonia con il disposto dell’art. 102 c.1 Cost., che attribuisce la funzione giurisdizionale a magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, l’art. 1 riserva l’esercizio della giurisdizione penale ai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario. Ciò significa che solo il giudice, e non qualsiasi magistrato, può essere titolare di funzioni giurisdizionali penali. La qualità di giudice è il risultato di un atto di investitura di potere regolato dalle leggi di ordinamento giudiziario. Dunque, il valido esercizio della funzione giurisdizionale risulta fortemente condizionato dalla ritualità dell’investitura. Infatti, l’art. 178 stabilisce che è sempre prescritta a pena di nullità assoluta, l’osservanza delle disposizioni concernenti: a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario  L’art. 33 prevede che le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi giudicanti sono stabiliti dalle leggi di ordinamento giudiziario. La portata di questo enunciato normativo viene ad essere incisivamente circoscritta dai due commi successivi che individuano una serie di ipotesi dichiarate processualmente irrilevanti. Le ragioni che stanno alla base di questi due commi sono diverse: anzitutto le difficoltà di costruire una disciplina di individuazione del giudice del processo tanto rigorosa da eliminare qualsiasi spazio di discrezionalità in capo ad organi amministrativi-giudiziari; in secondo luogo, le pesanti ipoteche e le complicazioni che graverebbero sulla vicenda processuale se si prevedesse la sanzione della nullità assoluta anche per questioni sottoponibili al sindacato degli organi amministrativi. Sono queste le ragioni sottostanti alla scelta di non considerare attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla sua destinazione agli uffici, sulla formazione dei collegi e sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici. Quanto a quest’ultima categoria è agevole rilevare che si tratta di questione inerente non tanto alla capacità del giudice, quanto alla distribuzione delle cause tra giudici parimenti legittimari all’esercizio della funzione giurisdizionale. A tal proposito va tenuto presente il disposto dell’art. 7-ter ord. giud. che garantisce opportuni risultati di trasparenza in tale settore: si stabilisce infatti che l’assegnazione degli affari è operata dal dirigente dell’ufficio alle singole sezioni e dal presidente della sezione ai singoli collegi o giudici sulla base di criteri obiettivi e predeterminati, indicati in via generale dal CSM. Anche quanto alla formazione dei collegi non vi è una puntuale pertinenza rispetto al requisito della capacità del giudice. escluso che rientrino in tale categoria le disposizioni inerenti al numero dei giudici necessari per costruire il collegio, sembra doversi ritenere che la locuzione in esame riguardi: a) le disposizioni che regolano la composizione dell’organo giudicante nel caso di assegnazione di un numero di giudici superiore a quello necessario; b) le disposizioni relative alle supplenze e alle applicazioni. Per quanto attiene alle disposizioni sulla destinazione del giudice all’ufficio, esse sono sicuramente riconducibili al concetto di capacità. Va detto, anzi, che l’aver sancito l’irrilevanza della loro violazione fa sorgere l’interrogativo circa la consistenza di ciò che residua una volta operata la sottrazione. Rimane ovviamente invariata la forte carica patologica insita nella situazione del soggetto che non sia investito del potere giurisdizionale, come ad esempio nell’ipotesi del mancato conferimento delle funzioni giudiziarie: un vizio tanto forte da implicare l’inesistenza degli atti posti in essere da colui che in sostanza è un non-iudex. Se si prescinde da questo caso limite, l’unico attributo rilevante ai fini di un’eventuale incapacità del giudice sembra essere quello della qualifica richiesta per l’esercizio delle funzioni giudiziarie che è chiamato a svolgere (es la corte d’assise deve essere presieduta da un magistrato avente qualifica non inferiore a magistrato di appello). Quanto all’art. 33 c.3 si tratta di una disposizione collegata alla riforma relativa all’istituzione del giudice unico di primo grado. Tale riforma ha comportato la soppressione dell’ufficio del pretore, compensata dalla possibilità per il tribunale di giudicare in due diverse composizioni che non fanno venire meno il carattere unitario dell’organo: in composizione collegiale, ossia con tre componenti, oppure in composizione monocratica. Contestualmente si è stabilito che l’attribuzione degli affari al giudice in composizione collegiale o monocratica non si considera attinente alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante. Come per il c.2, ci troviamo in presenza di disposizioni che attengono all’organizzazione interna dell’ufficio e l’obiettivo che si vuole raggiungere è il medesimo: evitare che l’inosservanza dei criteri concernenti il riparto di attribuzioni tra giudice monocratico e giudice collegiale si traduca in una nullità assoluta. L’utilizzo del termine giudice implica un automatico rinvio ad una gamma di connotati essenziali per il corretto esercizio della giurisdizione, a partire da quelli che hanno il loro fondamento in una serie di precetti costituzionali. Va aggiunto però che sono enunciabili talune sottocategorie. Di primaria importanza è la distinzione tra giudizi straordinari (istituiti successivamente al fatto da giudicare), giudici speciali (figure estranee alle leggi dell’ordinamento giudiziario e giudici ordinari, contrapponibili ai giudici speciali in quanto traggono la loro legittimazione dall’ordinamento giudiziari. La Costituzione vieta di istituite giudici straordinari o speciali, mentre ammette l’istituzione di giudici specializzati (es. tribunale per i minorenni). Restano esclusi dal divieto solo due giudici speciali: i tribunali militari in relazione ai reati militari commessi da appartenenti alle forze armate; la Corte costituzionale, nella particolare composizione per le accuse promosse contro il PdR. La categoria dei giudici ordinari ricomprende i seguenti organi giudicanti: 1. Giudice di pace: giudice onorario e monocratico che si contrappone per un verso al giudice professionale e per l’altro al giudice collegiale. Quanto alla categoria dei magistrati non professionali, con il d.lgs. 116/2017 si è raggiunto il risultato di uno statuto unico della magistratura onoraria, riguardante tanto i giudici onorari di tribunale e i giudici di pace – categorie ormai unificate in quella dei “giudici ordinari di pace” – quanto i vice procuratori onorari: in tale provvedimento viene ribadita la temporaneità dell’incarico, la cui durata massima è circoscritta a due quadrienni, fermo restando il tetto dei 65 anni; si dettano le regole inerenti al tirocinio semestrale; si precisa che spetta al presidente del tribunale coordinare l’ufficio del giudice di pace che ha sede nel circondario, nonché distribuire il lavoro fra i vari giudici ecc. 2. Giudice per le indagini preliminari: monocratico. 3. Giudice per l’udienza preliminare: monocratico. Relativamente al giudice per le indagini preliminari e a quello dell’udienza preliminare, bisogna dare atto di talune importanti disposizioni di carattere ordinamentale: per evitare possibili condizionamenti derivanti dalle attività compiute nel corso delle indagini preliminari, il giudice dell’udienza preliminare deve essere diverso da quello che, nel medesimo procedimento, ha svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari. Inoltre, per garantire una elevata qualificazione professionale, essi devono precedentemente aver svolto per almeno due anni la funzione di giudice del dibattimento o quella di giudice dell’udienza preliminare; ancora, al fine di garantire la terziarietà di questi giudici, è stata fissata la regola della temporaneità delle funzioni la cui durata è determinata dal CSM che ha fissato il limite a 10 anni: questa norma è vista come un correttivo rispetto all’instaurarsi di inopportuni affiatamenti tra il giudice e il pm. Qualora alla scadenza del termine sia in corso il compimento di un atto, l’esercizio delle funzioni viene prorogato limitatamente a quello specifico provvedimento sino al suo compimento. Al di fuori Nel designare la competenza della Corte d’assise, il legislatore ha utilizzato tanto il criterio quantitativo quanto quello qualitativo: a) I delitti puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni, fatta eccezione per i delitti comunque aggravati di tentato omicidio, di rapina, di estorsione e di associazione di tipo mafioso anche straniera, nonché per i delitti comunque aggravati in materia di sostanze stupefacenti; b) I delitti consumati di omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio; c) Ogni delitto doloso, qualora dal fatto sia derivata la morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte come conseguenza non voluta di altro reato, di morte avvenuta in seguito a rissa e di morte derivante da omissione di soccorso; d) I delitti di riorganizzazione del partito fascista, i delitti di genocidio e quelli contro la personalità dello Stato puniti con pena edittale non inferiore nel massimo di 10 anni; e) I delitti consumati o tentati di associazione per delinquere, di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, tratta di persone, delitti con finalità di terrorismo: ferma restando la condizione che per quanto concerne questi ultimi, il legislatore abbia stabilito la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni. Quanto al tribunale, la sua competenza si ricava per sottrazione  l’art. 6 lo investe dei reati non appartenenti alla competenza della corte d’assise o del giudice di pace. Con riferimento al tribunale, occorrerà successivamente distinguere le ipotesi criminose rispetto alle quali esso è tenuto a giudicare in composizione collegiale da quelle per le quali è sufficiente la composizione monocratica. Si tratta però di una specificazione ulteriore che postula, a monte, un già perfezionato riparto di competenza. Per quanto riguarda la competenza per territorio, la regola fondamentale è quella del luogo in cui il reato è stato consumato. Ad essa il legislatore fa seguire altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delicti e talune regole suppletive che consentono l’individuazione del giudice territorialmente competente quando non è possibile applicare le regole generali. Le ipotesi che giustificano una deviazione dalla regola base sono quelle del fatto che abbia cagionato la morte di una o più persone, del reato permanente e del delitto tentato. Nel primo caso, in considerazione della non infrequente sfasatura riscontrabile tra il luogo della condotta e quello in cui si verifica la morte della persona offesa è parso preferibile radicare la competenza nel luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione: in tale luogo, infatti, si è creato l’allarme sociale ed è più agevole la ricerca delle prove. Nelle altre due ipotesi si è optato per il criterio del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone e per il criterio del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto. Quanto alle regole suppletive è prioritario il criterio del luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione: seguono in successione il criterio della residenza, della dimora, del domicilio dell’imputato; e infine quello del luogo in cui ha sede l’ufficio del pm che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto. La normativa esaminata si applica anche quando il reato è stato commesso in parte all’estero, mentre in caso di reato commesso interamente all’estero la competenza viene ad essere determinata dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio, dell’arresto o della consegna dell’imputato, con prevalenza, se più sono gli imputati, del giudice competente per il maggior numero di essi. Vale anche qui come regola quella che privilegia il giudice del luogo in cui è avvenuta la prima iscrizione. Tuttavia, se si tratta di reato commesso interamente all’estero a danno di un cittadino, bisogna tenere conto, qualora non riescano ad operare i criteri di qui sopra della regola per cui la competenza spetta al tribunale o alla corte d’assise di Roma: sempre che non ricorrano le ipotesi di connessione o di indagini collegate previste dall’art. 12 e dall’art. 371 c.2 l. b) perché in tal caso deve essere investito in ultima battura il giudice del luogo in cui è avvenuta la prima iscrizione nel registro contemplato dall’art. 335. Numerose deroghe del locus commissi delicti traggono la loro legittimazione dall’art. 210 disp. att., il quale stabilisce che continuano ad osservarsi le disposizioni di leggi o decreti disciplinanti la competenza per territorio sulla base di criteri non coincidenti con quello fissato dall’art. 8 c.1. Si può fare l’esempio dei reati commessi a bordo di navi o aeromobili non militati. In due situazioni, sorrette da ragioni giustificatrici consistenti nell’esigenza di garantire una migliore funzionalità dello strumento processuale e nell’opportunità di evitare offuscamenti dell’imparzialità del giudice, è lo stesso codice che crea delle regole ad hoc. Una prima deroga risulta dall’art. 328 c.1-bis e 11- quater che riguardano i procedimenti relativi a delitti elencati all’art. 51 c.3-bis, 3-quater e 3-quinquies. In tal caso le funzioni di giudice per le indagini preliminari, nonché quelle di giudice dell’udienza preliminare, sono esercitate da un magistrato appartenente al tribunale del capoluogo del distretto nei cui ambito ha sede il giudice competente. La seconda situazione è basata su un duplice presupposto: a) l’esistenza di un procedimento penale in cui un magistrato assuma la qualità di imputato ovvero quella di persona offesa o danneggiata dal reato; b) la competenza, in relazione al fatto per il quale si procede di un ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di corte di appello in cui lo stesso magistrato esercita le proprie funzioni, ovvero le esercitava al momento del fatto. In questi casi la competenza spetta ora al giudice, ugualmente competente per materia che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge, sulla scorta di una tabella incentrata sul criterio della circolarità. In tal modo si è evitato l’inconveniente delle competenze incrociate. La cura posta dal legislatore nell’approntare un reticolo di norme dirette all’individuazione del giudice competente, scongiurando i rischi di interventi discrezionali, raggiunge il suo massimo impegno nella definizione della connessione come criterio autonomo di attribuzione di competenza. L’art. 12 dispone che si ha connessione di procedimenti: a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o in cooperazione tra loro, ovvero se più persone, con condotte indipendenti, hanno determinato l’evento; b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione o omissione (concorso formale) ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (reato continuato); c) se dei reati per cui si procede taluni sono stati commessi per eseguire o per occultarne altri. Le Sezioni unite hanno avvallato l’orientamento secondo cui per la configurabilità della connessione prevista dall’art. 12 c.1 l.c) non è necessario che l’autore o gli autori del c.d. reato mezzo siano gli stessi del reato- fine. Anche i criteri dettati per la determinazione del giudice competente nel caso di procedimenti connessi riflettono l’esigenza di non concedere spazio a scelte discrezionali. È prioritario il criterio del giudice superiore dal quale discende che i procedimenti di competenza del tribunale risultano automaticamente attribuiti alla corte d’assise; quando invece ci si muove esclusivamente sul versante della competenza territoriale prevale il giudice competente per il reato più grave o, in caso di pari gravità, quello competente per il primo reato. Vi è poi la regola diretta a garantire l’operatività della connessione anche quando, nel caso di concorso di persone o di condotte indipendenti, le azioni o le omissioni sono state commesse in luoghi diversi e dal fatto è derivata la morte di una persona si attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui si è verificato l’evento. Criteri particolari sono dettati per la connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali. Nell’ipotesi di competenza della Corte costituzionale e giudice ordinario, prevale la competenza del giudice speciale, mentre nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario vale la regola opposta salvo che la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare. Per i procedimenti relativi ad imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimenti relativi ad imputati maggiorenni, la connessione non opera. Ne consegue che, sia in tale ipotesi sia in quella di una connessione intercorrente tra procedimento per reati commessi quando l’imputato era minorenne e procedimenti relativi a reati commessi nella maggiore età, è competente, da un lato, il tribunale per i minorenni e, dall’altro, il giudice non specializzato. È un dato ricorrente il frazionamento dell’attività giurisdizionale in scansioni aventi come protagonisti varie figure di giudici che si diversificano in ragione della funzione che gli stessi svolgono nell’ambito di un medesimo procedimento. A tali suddivisioni si ricollega il concetto di competenza funzionale. Anche se priva di riscontri sul piano normativo, si tratta di una consolidata categoria utilizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza che tende ad equipararla, quanto alla disciplina, alla competenza per materia. Partendo dalla suddivisione per gradi, è possibile distinguere tra giudice di pace, tribunale ordinario e corte d’assiste, tribunale, corte d’appello e corte d’assise d’appello. Progredendo nella suddivisone, viene in rilievo l’articolazione in fasi, a cominciare dalla fase anteriore al giudizio, nella quale si collocano l’attività del giudice per le indagini preliminari e, successivamente, quella del giudice dell’udienza preliminare. Seguono la fase del giudizio, con riferimento alla quale sono funzionalmente competenti il tribunale, la corte d’assise, la corte d’appello, la corte d’assise d’appello, la corte di cassazione e quindi la fase dell’esecuzione. Rispetto ad essa vanno distinte le funzioni del giudice di esecuzione da quelle della magistratura di sorveglianza, al cui interno emerge l’ulteriore ripartizione tra le funzioni del magistrato di sorveglianza e quelle del tribunale di sorveglianza. Per quanto concerne, infine, la competenza funzionale che si incentra sulle specifiche attribuzioni di un determinato giudice, non si può andare al di là di un’esemplificazione. Ci si limita, pertanto, a ricordare le funzioni espressamente riservate al presidente del collegio giudicante. Una volta appurato che in relazione ad un certo reato deve giudicare il tribunale, s’impone un ulteriore passaggio logico che permetta di stabilire se sia richiesta la composizione monocratica ovvero quella collegiale. In questo caso, il criterio di ripartizione non è più basato sul concetto di competenza ma su una sottocategoria indicata con il termine di attribuzione. Alla soppressione dell’ufficio del pretore e alla conseguente possibilità per il tribunale di funzionare sia nella sua tradizionale composizione, sia nell’inedita composizione monocratica, ha fatto seguito una decisa valorizzazione di questa sua seconda dimensione eletta a regola. L’obiettivo di una più rigorosa utilizzazione delle risorse ha indotto a ridimensionare l’importanza attribuita al principio della collegialità e ha spinto verso una dilatazione dello spettro di reati in precedenza attribuiti al pretore. Tale orientamento emerge con chiarezza se si riflette sulla diversa ampiezza dell’assegnazione incentrata sul criterio quantitativo: mentre con riferimento al pretore era posto il limite della pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, l’attribuzione al tribunale in composizione monocratica è dei delitti puniti con pena uguale od inferiore nel massimo a 20 anni. La riformulazione degli artt. 33-bis e 33-ter è stata determinata dal proposito di ridimensionare le attribuzioni originariamente previste per il giudice monocratico, come si ricava dalla correzione apportata al criterio quantitativo che attualmente consente di devolvere al tribunale collegiale i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a dieci anni, anche nell’ipotesi di tentativo. Il criterio quantitativo va tuttavia coordinato con quello qualitativo, che implica deroghe importanti: per un verso risultano sottratti al tribunale collegiale taluni delitti puniti con la reclusione superiore a 10 anni e per un altro verso, gli vengono attribuiti reati che in base al suddetto criterio quantitativo dovrebbero essere giudicati dal tribunale in composizione monocratica. Per quanto concerne la prima delle due deroghe, sicuramente influenzata da considerazioni relative all’alto numero di questo tipo di reati e al carico di lavoro giudiziario vengono in rilievo i delitti previsti dall’art. 73 dPR 309/1990 in materia di stupefacenti, fermo restando che su di essi giudica comunque il tribunale in composizione collegiale quando siano contestate le aggravanti di cui all’art. 80. Quanto alle attribuzioni del tribunale in composizione monocratica, vale la regola della complementarietà  oltre che sui delitti previsti dall’art. 73 il tribunale monocratico giudica sui reati non attribuiti alla al tribunale collegiale. Precisata la sfera cognitiva delle due diverse composizioni del tribunale, resta da stabilire l’incidenza di un eventuale vincolo connettivo. In proposito l’art. 33-quater dispone che quando il vincolo riconducibile a taluna delle ipotesi previste dall’art. 12 intercorre tra procedimenti dei quali alcuni appartengono alla cognizione del tribunale collegiale e altri a quella del tribunale monocratico, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, cui sono attribuiti tutti i procedimenti connessi. Non può essere considerato casuale che il legislatore abbia sancito l’applicabilità delle disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale: se ne deve dedurre che l’incidenza della connessione è circoscritta alla fase dibattimentale, ma opera anche in rapporto alle indagini preliminari. Diversamente dalla connessione, la separazione e la riunione sono istituti che operano a partire dal momento in cui, in seguito all’esercizio dell’azione penale, il procedimento si è evoluto in processo. decisione della corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza è vincolante nel corso del processo: può essere superata nella sola ipotesi in cui risultino nuovi fatti che, incidendo sul nomen delicti, implichino la modificazione della giurisdizione oppure la competenza del giudice superiore. Le due ultime disposizioni del capo dedicato all’incompetenza sono riconducibili al principio della conservazione degli atti assunti dal giudice incompetente. La prima di esse stabilisce che il mancato rispetto delle norme sulla competenza non determina l’inefficacia delle prove acquisite, con la sola parziale eccezione delle dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia che se ripetibili possono essere utilizzate solo in sede di udienza preliminare e per le contestazioni regolate dagli artt. 500 e 503. La seconda prevede che le misure cautelari disposte da un giudice dichiaratosi incompetente contestualmente o successivamente alla loro pronuncia, cessino di avere efficacia qualora entro 20 giorni dall’ordinanza di trasmissione degli atti al giudice competente non siano confermate da quest’ultimo. Gli artt. 28-32 si occupano dei conflitti tra giudici  situazione che si determina quando, in qualsiasi stato e grado del processo, due o più giudici contemporaneamente prendono (conflitto positivo) o rifiutano di prendere (conflitto negativo) cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona. Si può avere conflitto di giurisdizione quando il contrasto intercorre tra uno o più giudici ordinari e uno o più giudici speciali, oppure conflitto di competenza quando ad essere coinvolti sono due o più giudici ordinari. È esclusa la possibilità di conflitto tra un giudice dell’udienza preliminare e quello del dibattimento, in quanto prevale sempre la decisione di quest’ultimo. Di fronte all’impossibilità di stabilire preventivamente un elenco esaustivo delle varie ipotesi di conflitto, il legislatore ha fatto ricorso alla categoria dei conflitti analoghi, i quali, pur strutturandosi diversamente da quelli contemplati dal comma 1 dell’art. 28 sono sottoposti alla stessa regolamentazione: si pensi ad un conflitto tra tribunali di sorveglianza in tema di competenza territoriale, dove il contrasto non ha per oggetto il fatto su cui verte l’imputazione. Ipotesi a sé stante è il conflitto che si determina in ordine al medesimo fatto attribuito alla stessa persona, fra il tribunale in composizione monocratica e il tribunale in composizione collegiale. Non è invece consentito far rientrare nella categoria dei conflitti analoghi il contrasto che ha come protagonisti il giudice e il pm. I conflitti infatti regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale e non possono riguardare un soggetto che, a maggior ragione nel sistema del codice vigente ha la funzione di parte, anche se pubblica. Anche se di regola il conflitto può nascere in ogni stato e grado del processo si è escluso che nel corso delle indagini preliminari possa essere proposto conflitto positivo per ragione di competenza territoriale determinata dalla connessione. Con tale disposizione, si è voluto che il pm presso il giudice competente per il reato meno grave sia libero di svolgere le indagini concernenti tale reato oppure, in seguito alla riconosciuta esistenza del vincolo connettivo, di trasmettere gli atti all’ufficio del pm presso il giudice competente. Ad originare il procedimento di conflitto è una denuncia di parte privata o pubblica o una rilevazione d’ufficio del giudice. L’elevazione del conflitto non ha effetti sospensivi sul processo il corso. L’organo cui spetta la risoluzione del conflitto è la Corte di cassazione ed è disposto un meccanismo di comunicazione, notificazione e trasmissione di copie di atti tale da garantire la partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati. La Corte di cassazione decide con sentenza in camera di consiglio. Il conflitto cessa, anzitutto, per effetto dell’iniziativa di uno dei giudici che dichiari anche d’ufficio la propria competenza, in caso di conflitto negativo, o la propria incompetenza in caso di conflitto positivo. Se ciò non si verifica bisogna attendere la sentenza della corte di cassazione che è vincolante, tranne nell’ipotesi in cui, in seguito a nuovi fatti che comportino una diversa definizione giuridica, emerga la modificazione della giurisdizione oppure la competenza di un giudice superiore. Quanto agli atti compiuti dal giudice risultato incompetente, bisogna rifarsi al disposto degli artt. 26-27, con un unico adeguamento: relativamente ai provvedimenti cautelari, il termine di 20 giorni di cui all’art. 27 decorre dalla comunicazione della sentenza della corte al giudice che ha disposto la misura cautelare. Dato che l’eventuale inosservanza delle diverse disposizioni relative al riparto di attribuzioni fra le due composizioni del tribunale non è classificabile come un problema di incompetenza è stato necessario creare una specifica normativa che ha trovato la sua collocazione nel capo IV-bis cpp. Mediante una disposizione di carattere generale si stabilisce anzitutto che l’inosservanza delle disposizioni concernenti l’attribuzione di un reato ad una determinata composizione del tribunale e delle disposizioni processuali collegate all’attribuzione deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza prima della conclusione dell’udienza preliminare, ovvero, nei processi in cui si prescinde da tale udienza, entro il termine previsto per la trattazione delle questioni preliminari dell’art. 491 c.1. La relativa regolamentazione ricalca quella inerente all’incompetenza per territorio e per connessione. La diversificazione emerge dagli articoli seguenti i quali specificano, a seconda della fase e del grado del processo, la forma del provvedimento giudiziale con cui viene dichiarata l’erronea attribuzione del reato e gli effetti di tale dichiarazione. In sede di udienza preliminare, l’ipotesi da prendere in considerazione è quella in cui il giudice ritenga che si debba prescindere dall’udienza de qua, in quanto il reato rientra tra quelli rispetto ai quali è prevista la citazione diretta a giudizio da parte del pm. In tal caso il giudice dell’udienza preliminare dispone con ordinanza che gli atti vengano trasmessi al pm affinchè il medesimo provveda ad emettere il decreto di citazione. La lettura dell’ordinanza equivale a notificazione per le parti presenti, e che, per quanto concerne la formazione del fascicolo per il dibattimento, la trasmissione degli atti al giudice dibattimentale e l’eventuale assunzione di atti urgenti, vale il disposto degli artt. 553 e 554. Qualora, invece, l’inosservanza delle regole venga rilevata nel corso del dibattimento di primo grado, il giudice procede diversamente a seconda che il dibattimento sia stato instaurato in seguito ad udienza preliminare oppure a decreto di citazione diretta a giudizio. nel primo caso, tanto se emerge che il reato rientra fra le attribuzioni del giudice collegiale, anziché tra quelle del giudice monocratico, quanto nell’ipotesi opposta, è sufficiente trasmettere gli atti, con ordinanza, al giudice competente a decidere sul reato contestato. Nel secondo, essendo stato l’imputato indebitamente privato dell’udienza preliminare, l’error in procedendo può essere invece corretto solo mediante una regressione del processo: deve essere pertanto disposta, con ordinanza, la trasmissione degli atti al pm, per consentirgli di esercitare l’azione penale tramite la richiesta di rinvio a giudizio. In entrambe le ipotesi la lettura dell’ordinanza sostituisce la citazione e gli avvisi per tutti coloro che sono o devono considerarsi presenti. La questione relativa alla violazione delle regole sulle attribuzioni può essere affrontata anche nel giudizio di appello e in quello di cassazione. Quanto al giudice di appello, qualora lo stesso ritenga che dovesse giudicare il tribunale in composizione collegiale, pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al pm presso il giudice di primo grado, purchè l’erronea attribuzione sia stata tempestivamente eccepita e successivamente denunciata nei motivi di appello. Il giudice d’appello pronuncia, invece, nel merito, qualora ritenga che il reato appartenesse alla cognizione del tribunale in composizione monocratica. Quanto alla Corte di cassazione è opportuno distinguere tra attribuzione viziata per difetto o per eccesso: nel primo caso, la corte procede come il giudice di appello purchè il vizio sia stato tempestivamente eccepito in primo grado, la relativa eccezione proposta nei motivi di appello e, quindi, riproposta in quelli del ricorso per cassazione; nel secondo vale la stessa regola, purchè il ricorso riguardi una sentenza inappellabile o si tratti di un ricorso per saltum. Al di fuori di queste ipotesi l’errore di attribuzione risulta irrilevante. I parallelismi con la disciplina dettata per l’incompetenza territoriale riemergono con riferimento alle prove acquisite dal giudice: sono pienamente utilizzabili le prove acquisite e non è inficiata la validità degli atti compiuti fermo restando quanto è disposto in senso contrario dagli artt. 33-septies e 33-octies e sempre che non si tratti di atti affetti da vizi indipendenti dall’inosservanza delle norme sulla composizione del tribunale. Quanto all’inosservanza dei criteri di ripartizione territoriale tra sede principale e le relative sezioni distaccate del tribunale, anche se quasi tutte le sezioni distaccate sono state soppresse una minima parte di esse è tuttora funzionante. Della violazione dei criteri di ripartizione dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica si occupa l’art. 163-bis disp. att. Anzitutto, la violazione può essere rilevata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. In secondo luogo, il giudice che la consideri sussistente, o che ritenga anche solo non manifestamente infondata la relativa questione, rimette gli atti al presidente del tribunale, affinchè quest’ultimo si pronunci in proposito con un decreto non motivato e non soggetto ad impugnazione. Queste norme testimoniano la volontà legislativa di considerare questo tipo di violazione come una questione che rileva esclusivamente da un punto di vista interno. Nel capo VII del libro I sono regolate le ipotesi in cui il giudice ha l’obbligo di non esercitare la sua funzione giurisdizionale (astensione) e le parti hanno diritto di chiederne l’estromissione (ricusazione). Quanto alle cause di incompatibilità, nonostante la configurazione autonoma, risultano ricomprese, in forza di esplicito richiamo, nella stessa disciplina delle ipotesi di astensione e di ricusazione. Questo totale assorbimento che il legislatore ha voluto attuare mal si concilia con la tesi sostenuta da quella parte della dottrina propensa a ritenere che tutte le situazioni incidendo sui requisiti di capacità del giudice, diano luogo ad una nullità assoluta. Sembra risultare, al contrario, avvalorata la meno radicale posizione condivisa da una costante giurisprudenza, secondo cui l’esistenza di una situazione di incompatibilità costituisce esclusivamente un motivo di ricusazione che la parte interessata deve far valere tempestivamente qualora il giudice sospetto non abbia ottemperato all’obbligo di astenersi. Le cause di incompatibilità sono stabilite in parte dalle leggi di ordinamento giudiziario e in parte dal codice di rito. Le prime, attengono esclusivamente alla costituzione dell’organo giudicante e prefigurano alcune condizioni dirette ad assicurare che la persona chiamata ad esercitare la funzione giurisdizionale non solo sia, ma anche appaia, imparziale. Ad esempio, l’art. 19 c.1 prevede che non possano far parte della stessa corte, dello stesso tribunale e dello stesso ufficio giudiziario i magistrati legati tra loro da un vincolo di parentela o di affinità fino al secondo grado, ovvero dal vincolo di coniugio o di convivenza. Con riferimento al codice, l’art. 35 prevede l’incompatibilità per motivi di parentela, affinità o coniugio mentre l’art. 34 disciplina l’incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento e contempla 4 gruppi di situazioni: 1. il giudice che ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento da parte della corte di cassazione o al giudizio per revisione; 2. non può partecipare al giudizio (inteso anche come giudizio abbreviato e udienza preliminare) né il giudice che ha pronunciato il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna, né quello che ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare. La portata di questa previsione normativa è notevolmente ampliata in seguito ad una serie di sentenze additive della Corte costituzionale che ha ritenuto ingiustificatamente escluse specifiche situazioni che, implicando a loro volta una penetrante deliberazione del merito della regiudicanda, devono ritenersi idonee a compromettere l’imparzialità del giudice. Sempre secondo la Corte costituzionale, al fine di scongiurare un’irragionevole frammentazione del procedimento, si deve escludere una menomazione dell’imparzialità del giudice che adotti, nell’ambito di una medesima fase processuale, decisioni preordinate al proprio giudizio o incidentali rispetto ad esso; 3. il giudice che in un determinato procedimento ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari non può in quello stesso procedimento emettere il decreto penale di condanna, né partecipare al giudizio; inoltre è incompatibile alla funzione di giudice dell’udienza preliminare (art. 34-bis). Il c. 2-ter in deroga alla previsione del comma precedente, esclude la ricorrenza di una situazione di incompatibilità allorchè il giudice per le indagini preliminari si sia limitato ad adottare, nell’ambito del medesimo procedimento, taluno dei seguenti provvedimenti, ritenuti inidonei a determinare una situazione di pregiudizio: - il provvedimento con cui si autorizza il trasferimento in un luogo esterno di cura dell’indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere e quello con cui si autorizza il medesimo ad essere visitato, a sue spese, all’interno della casa circondariale da un sanitario di fiducia o a sottoporsi, sempre a sue spese, a interventi medici, chirurgici ecc; - i provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza telefonica e al visto di controllo sulla corrispondenza, concernenti l’indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere; - il provvedimento con cui si accoglie o si rigetta la richiesta di un permesso di uscita dal carcere in presenza dell’imminente pericolo di vita di un familiare o del convivente della persona sottoposta ad indagini, ovvero in presenza di altri eventi di particolare gravità inerenti alla sua famiglia; - il provvedimento con cui una parte o un difensore vengono restituiti in un termine stabilito a pena di decadenza; rimessione. Infatti, per un verso è rimasta pressochè invariata la previgente normativa incentrata sul nesso causale che deve intercorrere tra le gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, e il conseguente pregiudizio alla libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero alla sicurezza o all’incolumità pubblica. Il riferimento al carattere locale del fattore inquinante sta a significare non solo che il medesimo non deve essere di dimensioni estese, perché in tal caso lo spostamento di sede risulterebbe improduttivo, ma anche che deve trattarsi di un agente esterno al processo; si richiede inoltre che la turbativa non sia eliminabile altrimenti. Per un altro verso, si è tuttavia ampliata la precedente casistica, essendosi ammessa la rimessione del processo anche nell’ipotesi in cui le suddette gravi situazioni locali determinano motivi di legittimo sospetto. Formula quest’ultima palesemente indeterminata e suscettibile pertanto di dilatare l’ambito di operatività dell’istituto senza dubbio al di là dei limiti. Si rifletta sulla circostanza per cui, sulla base della categoria del legittimo sospetto, è consentito anche secondo la più recente interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, lo spostamento del processo quando sussiste il ragionevole dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno. Sennonchè, venendo meno il carattere eccezionale dell’istituto non più ancorato a presupposti tassativi, emergono non poche perplessità circa la conformità del testo novellato dell’art. 45 al canone del giudice naturale precostituito. Dall’art. 45 si ricava altresì che la rimessione può essere richiesta in ogni stato e grado del processo di merito dall’imputato, dal procuratore generale presso la corte d’appello e dal pm presso il giudice procedente. Se sono ovvie le ragioni che inducono ad escludere l’operatività dell’istituto quando il processo pende davanti alla Corte di cassazione, assai meno scontata in considerazione degli importanti provvedimenti che il giudice può assumere durante le indagini preliminari, risulta la scelta di subordinare la richiesta di rimessione all’avvenuto esercizio dell’azione penale (in ogni stato e grado del processo). Ai sensi dell’art. 46, la richiesta di rimessione proveniente dall’imputato deve essere a pena di inammissibilità, sottoscritta da lui personalmente o da un suo procuratore speciale e dopo essere stata depositata nella cancelleria del giudice unitamente ai documenti che la giustificano, va notificata entro sette giorni a cura del richiedente alle altre parti. una volta depositate, la richiesta e la relativa documentazione sono immediatamente trasmesse alla corte di cassazione ad opera del giudice procedente, al quale è consentito formulare proprie osservazioni aggiuntive. La l. 248 è risultata innovativa anche nella parte concernente la regolamentazione degli effetti della richiesta di cui all’art. 45. Infatti, prima del suddetto intervento legislativo la richiesta di rimessione non produceva di per sé alcun effetto sospensivo. Per l’esattezza figurava il divieto, per il iudex suspectus, di emettere sentenza fino alla infruttuosa conclusione del procedimento incidentale: senonchè anche questo sbarramento era venuto meno in seguito ad una pronuncia di incostituzionalità di tale divieto, nella quale la Corte costituzionale aveva sottolineato gli effetti paralizzanti, circa l’esito del processo, che sarebbero potuti derivare da una ripetuta e strumentale denuncia di inquinamenti ambientali. In base all’odierna formulazione, è lo stesso giudice procedente che in seguito alla presentazione della richiesta, può disporre con ordinanza la sospensione del processo fino a che non sia intervenuta l’ordinanza di inammissibilità o di rigetto. Analogamente, dopo essere stata investita della richiesta la corte di cassazione può disporre la sospensione. Quanto ai presupposti delle due ipotesi di sospensione facoltativa appena ricordate, si deve prendere atto del silenzio del legislatore che può essere superato ritenendo la sospensione ancorata ai requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora. Nell’eventualità in cui l’iter del processo non sia stato interrotto è prevista comunque la sua sospensione obbligatoria, rispetto alla quale funge da necessaria premessa la comunicazione, da parte della corte di cassazione, che non avendo il presidente della medesima corte rilevato, nell’ambito del suo esame preliminare, alcuna causa di inammissibilità tale da giustificare l’investitura della sezione-filtro, è avvenuta l’assegnazione della richiesta ad una delle altre sezioni unite. In seguito a tale comunicazione, il giudice procedente deve sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni o della discussione e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia della sentenza. Si è dovuto però tener conto della sentenza costituzionale n. 353/1996 ed è stata perciò dettata la regola che esclude la sospensione quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile. Inoltre, per limitare almeno in parte gli effetti nocivi ricollegabili alla stasi del processo sono stati previsti taluni correttivi: finchè dura la sospensione, restano sospesi i termini della prescrizione del reato e, se la richiesta di rimessione proviene dall’imputato, anche i termini di durata massima della custodia cautelare previsti dall’art. 303 c.1. Tali termini riprendono il loro corso a partire dal giorno in cui la corte dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di rimessione oppure, nell’ipotesi di un suo accoglimento, dal giorno in cui il processo perviene al medesimo stato in cui si trovava al momento in cui è intervenuta la sospensione. Nonostante la sospensione è consentito il compimento degli atti urgenti. La decisione della Corte di cassazione assume la forma dell’ordinanza che potrà essere di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento: in quest’ultima ipotesi l’ordinanza, contenente l’indicazione del nuovo giudice, è immediatamente comunicata al giudice designato e al giudice originariamente competente, il quale è tenuto a trasmettere al primo gli atti del processo e a disporre che l’ordinanza della corte venga, per estratto, comunicata al pm e notificata alle parti private. Da notare che, quando rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di rimessione, la corte di cassazione può condannare l’imputato al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende. A questo proposito, la l. 103/2017 ha introdotto un paio di modifiche, con l’obiettivo di disincentivare la presentazione di richieste azzardate: da un lato ha previsto il possibile aumento sino al doppio della somma che l’imputato è condannato a versare alla cassa delle ammende tenuto conto della causa di inammissibilità della richiesta; dall’altro si stabilisce che gli importi attualmente previsti vengano adeguati ogni due anni con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, tenuto conto della variazione Istat dei prezzi al consumo verificatasi nel biennio precedente, Quanto alla conservazione degli atti, vale ora la regola secondo cui il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quando una qualsiasi delle parti ne faccia richiesta. Con due sole eccezioni, concernenti da un lato l’ipotesi che si tratti di atti di cui è divenuta impossibile la ripetizione, e dall’altro l’eventualità che si versi in una delle situazioni contemplate dal c.1 e dal c. 1-bis dell’art. 190-bis. L’ipotesi di una nuova richiesta di rimessione che consente l’iterazione sia nel caso in cui la richiesta sia diretta ad ottenere un ulteriore spostamento del processo, sia nel caso in cui essa miri ad ottenere per la prima volta il relativo provvedimento già negato da un’ordinanza di rigetto o di inammissibilità. L’ulteriore spostamento del processo può essere richiesto quando nella sede designata si ripresenti una situazione riconducibile al disposto dell’art. 45 ovvero quando, essendo venute meno nella sede originaria le ragioni che avevano indotto a sollecitare l’intervento della corte di cassazione, si creano le premesse per una revoca del provvedimento di rimessione. Nel caso in cui, invece, sia già intervenuto un provvedimento negativo della corte di cassazione, bisogna distinguere: in presenza di un’ordinanza che abbia rigettato la precedente richiesta o abbia dichiarato l’inammissibilità della stessa per manifesta infondatezza, l’ulteriore richiesta, per non essere dichiarata inammissibile deve esse fondata su elementi nuovi. A questo proposito, va segnalata l’inedita previsione che sancisce l’inammissibilità della richiesta per manifesta infondatezza anche nell’ipotesi in cui la stessa, priva di elementi di novità rispetto ad una precedente richiesta di rimessione già rigettata o dichiarata inammissibile, provenga da un altro imputato. Invece la richiesta dichiarata inammissibile per motivi diversi dalla manifesta infondatezza può essere sempre riproposta. Il pubblico ministero Il pm costituisce al tempo stesso un organo dell’apparato statale incaricato di vegliare all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, nonché tra l’altro di iniziare ad esercitare l’azione penale. Non è solo affrancato dal potere esecutivo, ma gode di una posizione di indipendenza c.d. esterna rispetto a tutti gli altri poteri costituzionali. Un peso assorbente riveste il canone della obbligatorietà dell’azione penale. Secondo un consolidato indirizzo della Corte costituzionale, il principio in discorso, risolvendosi nella proiezione processuale del diritto di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale, postula l’indipendenza degli altri poteri dell’organo a cui l’azione stessa è demandata, tanto più che esso non fa valere interessi particolari ma agisce nell’interesse all’osservanza della legge. Allo stato, il pm risponde del suo operato solo di fronte alla legge, godendo delle stesse garanzie attribuite al giudice circa il reclutamento, l’inamovibilità dalla sede e la soggezione al potere di controllo del CSM. Del resto, sul piano ordinamentale, i magistrati del pm sono accomunati ai giudici dei tribunali tanto che il conferimento delle funzioni giudicanti e requirenti avviene all’esito di un concorso unitario ma vi sono diverse misure intese a rafforzare la distinzione tra le due funzioni. Così, ad esempio, il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, e viceversa, è disposto a seguito di concorso, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal CSM, su parere del Consiglio giudiziario. Tale passaggio, non è però consentito all’interno dello stesso distretto o di un altro distretto della stessa regione. L’aspirazione in senso accusatorio del sistema e la parità tra accusa e difesa trovano un primo sviluppo nel titolo II del libro I dedicato al pm colto quale soggetto del procedimento. Vi trovano posto disposizioni che regolano i rapporti tra diversi uffici e all’interno di ogni ufficio in modo tale da evidenziare la natura di parte acquisita dal titolare dell’accusa. L’inserimento nel titolo II dell’art. 50 dedicato all’azione penale, non compromette l’intento legislativo autonomistico. Il legislatore ha voluto segnalare subito la funzione davvero tipica del pm, che non può essere affidata al giudice senza intaccarne il ruolo di organo tendenzialmente passivo reclamato dal principio di imparzialità. L’art. 50 c.1 conferisce, anzitutto, al pm la titolarità dell’azione penale  è l’art. 231 disp. att. la norma che sancisce il monopolio dell’azione penale in capo al pm. Pertanto, nel sistema codicistico non trova spazio né l’azione penale privata, conferita cioè alla persona offesa dal reato, né l’azione penale popolare, attribuita cioè al quisque de populo. Però, per i reati procedibili a querela è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa. L’art. 50 c.1 enuncia poi il principio della obbligatorietà dell’azione penale in piena aderenza all’art. 112 Cost: il doveroso esercizio dell’azione rinviene quale suo unico limite la richiesta di archiviazione. La lettura coordinata con l’art. 405 permette di individuare il momento di inizio del processo penale in senso proprio, riservando la fase delle indagini preliminari al mero procedimento. L’art. 50 c.2 ribadisce il tradizionale principio dell’officialità dell’azione penale, circoscrivendo l’efficacia delle condizioni di procedibilità alle figure ivi richiamate. L’elenco così fornito (querela, richiesta, istanza, autorizzazione a procedere) non è però esaustivo. Suona pertanto più adeguata la formula aperta adottata dall’art. 355 c.2: sono, ad es, generalmente ritenute condizioni di procedibilità la presenza del reo nel territorio dello Stato per i delitti comuni del cittadino e dello straniero commessi all’estero. Vi è poi il principio della irretrattabilità dell’azione penale: questa, una volta esercitata, esce dalla sfera del suo autore e comporta l’insorgere di un dovere decisorio in capo al giudice: ciò equivale a dire che l’oggetto del processo penale è indisponibile. Le cause di sospensione o di interruzione dell’azione penale sono sottoposte al principio di tassatività. I casi di sospensione sono pochi e tra questi nel 2014 la l. 67 ne ha immessi due, entrambi riconducibili ad esigenze di economia processuale. Il primo si determina quando non sia certa o non sia presumibile la conoscenza del processo da parte dell’imputato. Se così è, il giudice all’udienza preliminare o a quella dibattimentale, dispone con ordinanza la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente. Il secondo caso consegue all’applicazione dell’istituto della messa alla prova per i reati puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni. Il sistema conosce peraltro, anche cause di sospensione del procedimento inteso come fase delle indagini preliminari. Accanto a quella obbligatoria dopo l’accertata incapacità della persona sottoposta alle indagini di partecipare coscientemente al procedimento si è anche prevista la sospensione conseguente all’insorgere di indizi del reato di false informazioni rese al pm o di false dichiarazioni a difensore. Un’analoga ipotesi di sospensione riguarda l’estinzione del reato per condotte riparatorie. I criteri per la distribuzione del lavoro tra gli uffici del pm in rapporto agli sviluppi procedimentali (c.d. criterio funzionale) sono improntati al disegno di evitare sfere di concorrenza. Le funzioni del pm nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono esercitate dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale; il titolo dato all’ufficio segnala come gli appartenenti agiscano in nome e per conto della Repubblica. Gli artt. 54 e 54-bis disciplinano i contrasti negativi e positivi tra diversi uffici del pm. Se il pm ritiene che la competenza a conoscere il reato spetti ad un giudice diverso da quello presso cui esercita le sue funzioni, trasmette tempestivamente gli atti all’ufficio del pm presso il giudice competente. L’ufficio che ha ricevuto gli atti, ove dissenta demanda la risoluzione di tale contrasto negativo al procuratore generale presso la corte d’appello o a quello presso la corte di cassazione, qualora appartenga ad un diverso distretto. Il procuratore della Repubblica dissenziente trasmette all’organo risolutore del contrasto tutti gli atti del procedimento in originale e in copia. Evidente, anche da questo punto di vista, la differenza con la disciplina dei conflitti di competenza tra giudici, perché in tale ultimo caso, la trasmissione riguarda solo copia degli atti necessari alla risoluzione del conflitto esigenze del genere non hanno ragione di porsi nei confronti di un contrasto che è risolto esclusivamente all’interno degli uffici del pm, senza dare alcuno spazio al contraddittorio. Non è interdetto al procuratore generale di designare un ufficio diverso da quelli tra loro in contrasto. In parte analoghe, sono le cadenze nel contrasto positivo tra uffici del pm, introdotto in virtù dell’acquisita consapevolezza che pure una sovrapposizione delle indagini preliminari da parte di uffici diversi può comprometterne l’esito. In questo caso, tuttavia, il presupposto è duplice, poiché non basta che le indagini preliminari abbiano ad oggetto il medesimo fatto storico, seppure, magari, diversamente qualificato, ma occorre, al pari di quanto è contemplato per i conflitti di competenza tra giudici che esse siano a carico della stessa persona. Più precisamente, allorquando il pm procedente riceva notizia che presso un altro ufficio sono in corso le indagini preliminari così caratterizzate, ne informa senza ritardo il pm presso quest’ufficio, richiedendogli la trasmissione degli atti. A sua volta, il pm che ha ricevuto la richiesta ove non ritenga di aderirvi ne informa il procuratore il procuratore generale presso la corte d’appello ovvero, qualora appartenga ad un diverso distretto, il procuratore generale presso la corte di cassazione. Assunte le necessarie informazioni, il procuratore generale determina con decreto motivato, secondo le regole dettate per la competenza del giudice, quale ufficio debba procedere, dandone comunicazione agli uffici interessati. Quanto ai contrasti positivi, il legislatore si è preoccupato di contemplarne la risoluzione anticipata, prevedendo l’ipotesi in cui, prima della designazione operata dal procuratore generale, uno degli uffici procedenti desista, trasmettendo gli atti all’altro. Quando, invece, due giudici per le indagini preliminari siano investiti contemporaneamente di una richiesta relativa al medesimo fatto, si verifica un conflitto positivo di competenza che sarà risolto dalla corte di cassazione. Tuttavia, l’art. 28 c.3 nega l’ammissibilità nel corso delle indagini preliminari di un conflitto positivo di competenza per territorio generato da connessione: da qui l’illazione che contrasti positivi del genere non sarebbero, a priori, configurabili tra pubblici ministeri. È poi previsto un controllo sulla legittimazione del pm a svolgere le indagini preliminari con riguardo ai parametri della competenza per territorio e per connessione. Titolari del potere di promuovere l’incidente sono, la persona sottoposta alle indagini che abbia avuto conoscenza delle indagini a suo carico mercè la comunicazione dell’iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato o l’invio dell’informazione di garanzia alla persona offesa, nonché i rispettivi difensori. L’elenco dei presupposti può dirsi tassativo, tuttavia non appare dubbio, ad esempio, che la procedura in discorso sia innescabile a seguito di un decreto di perquisizione del pm perché equipollente dell’informazione di garanzia. Il pm nel termine non perentorio di 10 giorni, è posto di fronte all’alternativa o di accogliere la richiesta, trasmettendo gli atti al pm istituito presso il giudice ritenuto competente o di rigettarla. In tale ultimo caso, e così pure quando non ottenga risposta nel termine prescritto al richiedente, resta il potere di investire, nei successivi 10 giorni, della questione il procuratore generale presso la corte d’appello o quello presso la corte di cassazione, qualora il giudice ritenuto competente appartenga ad un diverso distretto. Nel termine non perentorio di 20 giorni dal deposito della richiesta, il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni e, se del caso, ottenuta la trasmissione di copia degli atti del procedimento provvede con decreto motivato dandone comunicazione al richiedente e agli uffici interessati. L’astensione, resta non obbligatoria sotto il profilo processuale, si fonda genericamente su gravi ragioni di convenienza, presuppone una dichiarazione motivata, è decisa dal capo dell’ufficio o dal procuratore generale presso la corte d’appello o presso la corte di cassazione, se riguarda i capi dei rispettivi uffici. La sostituzione è effettuata con un magistrato appartenente al medesimo ufficio, ma la regola è derogabile allorchè si tratti del capo dell’ufficio. Stante la sua qualità di parte, il pm non può essere ricusato, ma il codice ha evitato l’impiego di criteri rigidi che potessero paralizzare lo svolgimento delle indagini preliminari. Ciascun ufficio del pm si compone del titolare (procuratore generale presso la corte di cassazione o presso la corte d’appello; procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario). Negli uffici delle procure della Repubblica possono essere istituiti posti di procuratore aggiunto. Alle procure collocate presso le sezioni distaccate delle corti d’appello sono preposti avvocati generali alla dipendenza del procuratore generale. I titolari dirigono l’ufficio a cui sono preposti e ne organizzano l’attività, secondo quei criteri di buon andamento e di imparzialità che ispirano il funzionamento della PA. Esercitano poi essi stessi le funzioni di pm, allorchè non designano uno o più tra gli altri magistrati dell’ufficio. Il titolare può anche procedere ad una designazione congiunta (c.d. pool investigativo) in considerazione del numero degli imputati o della complessità delle indagini o del dibattimento. Vediamo ora la posizione del singolo magistrato nei confronti del titolare dell’ufficio. La piena autonomia del magistrato del pm rispetto al titolare dell’ufficio è tutelata dagli artt. 70 c.4 ord giud e 53 c.1 che attuano la legge delega (n.68 art. 2) laddove prescrive che le funzioni di pm in udienza siano esercitate in piena autonomia. Il riferimento al termine “udienza” consente di assicurare l’autonomia del pm nell’udienza preliminare oppure nell’udienza per l’applicazione della pena nella fase delle indagini preliminari o per il giudizio abbreviato, investendo il potere di rinunciare all’impugnazione, anche se la stessa è stata proposta da altro pm. Per le udienze anteriori all’esercizio dell’azione penale, l’estensione della piena autonomia, sulla base del dato letterale, suona debole. Da un lato l’art. 53 c., alludendo implicitamente al magistrato designato per l’udienza, non pare riferibile alle udienze che si tengono nel corso delle indagini preliminari; dall’altro la tesi qui criticata produrrebbe il sovrapporti degli istituti delineati dall’art. 53 c.3 e dall’art. 372 c.1 l. b). Per conseguenza, si deve ritenere che, nell’intera fase delle indagini, la sostituzione operata dal titolare dell’ufficio non incontri i limiti rigorosi stabiliti dall’art. 53 c.2. La ratio sottostante al riconoscimento dell’autonomia sta nel consentire che la condotta del magistrato possa adeguarsi ai mutevoli scenari che scaturiscono dall’oralità dell’udienza. Ciò non toglie che il capo dell’ufficio possa impartire direttive sulle premesse dell’udienza. L’autonomia del magistrato del pm nell’udienza comporta che le cause di sostituzione restino circoscritte perché non si risolvano in un espediente volto ad aggirare quel principio. Quindi, l’art. 53 c.2 e 3 fornisce un elenco tassativo: a) un primo gruppo si riferisce a cause che consentono una valutazione discrezionale da parte del capo dell’ufficio come il “grave impedimento” e “le rilevanti esigenze di servizio”; b) un secondo, definibile in termini di obbligatorietà, concerne alcune fra le situazioni in presenza delle quali il giudice sarebbe obbligato ad astenersi: sono però state escluse le “gravi ragioni di convenienza”; c) un terzo gruppo riguarda la sostituzione effettuata con il consenso del magistrato interessato. Qui possono trovare spazio anche le gravi ragioni di convenienza. Resta da considerare il caso in cui il capo dell’ufficio non abbia provveduto alla sostituzione in presenza di uno dei presupposti considerati nel secondo gruppo: essendo la sostituzione demandata al procuratore generale, con designazione di un magistrato del suo ufficio, si avrà una figura simile all’avocazione, da non confondersi, tuttavia, con il provvedimento assunto ai sensi dell’art. 372 l. b) che opera per l’intera fase delle indagini preliminari e per quelle successive. Nel caso in esame vale, invece, per le sole funzioni di udienza e per le attività che ne seguono. Per quanto riguarda la fase delle indagini preliminari, in forza di una lettura a contrario dell’art. 53, parrebbe che il magistrato del pm goda pur sempre di un certo grado di autonomia, tanto più necessaria per l’integrale attuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tuttavia, secondo le Sezioni Unite civili il capo dell’ufficio può fissare regole generali per miglior efficienza dell’ufficio, nonché dettare singole direttive. Il magistrato che contravvenga a simili disposizioni può, di conseguenza, essere legittimamente sostituito, tramite un provvedimento motivato. La disciplina codicistica va ora integrata con quella contenuta nel d.lgs. 106/2006 con cui si è inteso dare attuazione ai criteri direttivi posti dalla legge delega relativi a riformare l’ordinamento giudiziario del 1941, riorganizzando l’ufficio del pm, secondo un’impostazione maggiormente verticistica, se non incondizionatamente gerarchica. L’art. 1 del d.lgs. conferisce al procuratore della Repubblica la titolarità esclusiva dell’azione penale. Il relativo potere è esercitato personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell’ufficio e concerne tanto la globale trattazione di uno o più procedimenti, quanto il solo compimento di singoli atti del procedimento. Il nuovo assetto gerarchico ben si coglie poi nel potere del capo dell’ufficio di stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio dell’attività assegnata, e di revocare, mercè decreto motivato, l’assegnazione in tutti i casi in cui il magistrato non si attenga ai criteri fissai dal titolare dell’azione penale, oppure si determini un contrasto circa le modalità di esercizio delle funzioni. Il d.lgs. in parola, inoltre, garantisce al procuratore della Repubblica alcune prerogative allorquando occorra disporre il fermo di indiziato di delitto o richiedere una misura cautelare personale, ovvero una misura cautelare reale: il tali casi, l’atto deve essere oggetto di un previo assenso scritto del procuratore della Repubblica fatte salve, però, le ipotesi in cui la richiesta del provvedimento cautelare sia contestuale alla richiesta di convalida dell’arresto in flagranza e del fermo ovvero a quella di convalida del sequestro preventivo disposto in caso di urgenza. Il proposito di accrescere l’efficienza degli apparati giudiziari nei confronti di taluni gravissimi reati di criminalità organizzata di stampo mafioso aveva, a suo tempo, suggerito di introdurre una serie di deroghe destinate ad incidere sulla divisione del lavoro e sui rapporti tra gli uffici del pm così da creare fin dalla fase delle indagini preliminari, una sorta di procedimento speciale per tali reati: c.d. doppio binario. È questa una strada che il legislatore ha già percorso più volte. La disciplina speciale concernente il pm opera nei procedimenti di cui all’art. 51 c.3-bis, cioè quelli relativi ai delitti consumati o tentati di associazione per delinquere aggravata realizzata allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’art. 12 c.3 e 3-ter tu delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di associazione per delinquere allo scopo di commettere i delitti di contraffazione, dei delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù, di tratta di persone, di scambio elettorale politico-mafioso ecc. Il legislatore consapevole della necessità di irrobustire gli strumenti di repressione di delitti considerati di particolare gravità ha incrementato le fattispecie per le quali è prevista la legittimazione dell’ufficio del pm presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, sganciandola dall’originario riferimento esclusivo alla criminalità organizzata. Dapprima la manovra ha investito i delitti consumati o tentati, con finalità di terrorismo ed è stata estesa ad una serie di reati in tema di sfruttamento sessuale dei minori e in tema di criminalità informatica. Per tutti i reati tassativamente indicati dall’art. 51 c. 3-bis, 3-quater e 3-quinquies le funzioni di pm nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono attribuite all’ufficio istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello nel cui ambito ha sede il giudice competente. Inoltre, senza far luogo alla creazione di rigide strutture, ma tramite un mero modulo organizzativo interno, il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto costituisce, sempre nell’ambito del suo ufficio una direzione distrettuale antimafia per la trattazione dei soli procedimenti relativi ai reati indicati nell’art. 51 c.3-bis. Inoltre, negli uffici delle procure distrettuali può essere comunque istituito un posto di procuratore aggiunto, per specifiche ragioni riguardanti lo svolgimento dei compiti della direzione distrettuale. Salvi casi eccezionali, il procuratore distrettuale designa per l’esercizio delle funzioni di pm nei procedimenti in discorso i magistrati addetti alla direzione. La continuità nella designazione può però venir meno, essendo previsto che il procuratore generale presso la corte d’appello, per giustificati motivi, possa disporre che le funzioni di pm per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente. La concentrazione dell’attività investigativa presso le direzioni distrettuali accresce il grado di efficienza del sistema non solo per la tendenziale specializzazione dei magistrati addetti, ma pure per la conduzione ab Costituzione, giacchè occorre distinguere la dipendenza funzionale dall’autorità giudiziaria dalla dipendenza burocratica dalla PA. Sulla scorta dei suggerimenti contenuti nella sentenza costituzionale n.122 del 1971, il codice ha rafforzato più la dipendenza istituzionale dall’autorità giudiziaria che quella gerarchica, senza mai troncare del tutto la relazione burocratica che lega la polizia giudiziaria all’esecutivo, ossia al ministero presso cui è strutturato il relativo corpo di appartenenza, per effetto del rapporto di servizio che investe la retribuzione, la progressione in carriera, i provvedimenti disciplinari. Benchè tutte le funzioni di polizia giudiziaria siano sempre svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, il legame che si instaura con la medesima è variabile perché costruito in relazione ai diversi apparati amministrativi. L’art. 56 individua una triplice struttura. La prima concerne i servizi di polizia giudiziaria così come previsti dalla legge che prevede l’istituzione e l’organizzazione di simili unità da parte del dipartimento di pubblica sicurezza, nei contingenti necessari, determinati dal Ministero dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia. Pur non essendo stata fornita, a tutt’oggi, esecuzione generale a tale dettato è stato imposto alle amministrazioni interessate di costruire servizi centrali e interprovinciali della polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza. In determinate regioni e per particolari esigenze le predette strutture possono essere costituite in servizi interforze. In sede attuativa, è stata collocata la regola secondo la quale fanno parte dei servizi tutti gli uffici e le unità cui, dalle rispettive amministrazioni o dagli organismi previsti dalla legge, sono affidate, in via prioritaria e continuativa le funzioni di polizia giudiziaria. Essendo la destinazione dei capi dei servizi demandata in via esclusiva ai dirigenti degli enti di appartenenza, anche da questo punto di vista si avverte il permanere di uno sbilanciamento tra i poteri di gestione conferiti all’autorità amministrativa rispetto a quelli propri dell’autorità giudiziaria. Il grado massimo di dipendenza organizzativa e funzionale dall’autorità giudiziaria si coglie in rapporto alla seconda struttura, cioè alle sezioni di polizia giudiziaria. Esse sono istituite unicamente presso ogni procura della Repubblica, al fine di garantire uno stretto rapporto con l’organo che dirige, per regola, le indagini preliminari e di scongiurare una proliferazione che avrebbe finito per comprometterne il livello di efficienza. Le sezioni sono composte da ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei carabinieri e alla guardia di finanza; è consentita tuttavia, l’applicazione temporanea e anche in soprannumero, di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria provenienti da altri organi di polizia giudiziaria che fruiscono di conseguenza, del medesimo status giuridico. Il personale delle sezioni non deve essere inferiore al doppio dei magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale e il rapporto numerico tra ufficiali e agenti di polizia giudiziaria è di 2/3. Al grado minimo di dipendenza organizzativa e funzionale sono posti i restanti ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria tenuti per legge a compiere indagini in seguito ad una notizia di reato. Il profilo della dipendenza è impostato dall’art. 58 con riguardo al rapporto che intercorre tra l’autorità giudiziaria e gli organi di polizia giudiziaria. Ciò non significa tuttavia, che i singoli magistrati dispongano della polizia giudiziaria solo tramite il dirigente del rispettivo ufficio giudiziario. Dal sistema si ricava che la disponibilità è conferita al magistrato in quanto titolare delle indagini preliminari o del processo, benchè, secondo l’organizzazione verticistica tipica dell’ufficio del pm, al procuratore della Repubblica sia sempre consentito sostituirsi al magistrato designato per le indagini preliminari nell’impartire ordini alla polizia giudiziaria. La regola per cui ogni procura della Repubblica dispone della relativa sezione evidenzia la natura privilegiata del legame instaurato tra chi dirige le indagini ed il personale di polizia giudiziaria appartenente alla rispettiva sezione. Pertanto, in questa sola fattispecie la disponibilità da parte del singolo magistrato, oltre che diretta può dirsi anche immediata, non essendo sottoposta né al filtro dei capi dell’organizzazione della polizia giudiziaria, né a quello del dirigente dell’ufficio del pm. Le attività di polizia giudiziaria per i giudici del distretto, ivi compreso il giudice per le indagini preliminari, sono svolte dalle sezioni istituite presso le corrispondenti procure della Repubblica. Una disponibilità di natura meno intensa è attribuita, infine, a qualsiasi autorità giudiziaria nei confronti delle sezioni, dei servizi e dei restanti organi di polizia giudiziaria. La diffusa convinzione che la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria risulterebbe priva di una qualche effettività se non fosse accompagnata da forme di dipendenza organizzativa ha trovato nel sistema uno spazio nella direzione attuativa dell’art. 109 Cost. Benchè gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria restino sempre subordinati, in via di principio, agli enti amministrativi di appartenenza, l’autorità giudiziaria risulta anch’essa investita di una serie di poteri di natura tipicamente gerarchica. L’entità di tali poteri segna, pertanto, il reale livello della dipendenza funzionale. Le sezioni, considerate quali unità organiche, si pongono in un rapporto di subordinazione nei confronti del procuratore della Repubblica. Il disegno di evitare interferenze con l’amministrazione di appartenenza è perfezionato dal divieto di distogliere gli ufficiali di polizia giudiziaria dalla loro attività se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono. Il riferimento all’attività di polizia giudiziaria dimostra come destinatari di un simile divieto siano le singole amministrazioni e non i magistrati. L’esclusiva destinazione a compiti di polizia giudiziaria può essere derogata solo in casi eccezionali o per necessità di istruzione o di addestramento. Nei confronti dei servizi, il rapporto di subordinazione si attenua nel senso che gli ordini dell’autorità giudiziaria sono mediati dalle gerarchie amministrative. Pertanto, la responsabilità personale, investe unicamente l’ufficiale preposto al servizio. Dal punto di vista del potere disciplinare, la relativa responsabilità si pone nei soli confronti del procuratore della Repubblica presso il tribunale. Quanto ai servizi costituiti per lo svolgimento di attività che travalicano l’ambito del circondario, l’art. 13 disp. att. introduce un’opportuna deroga rendendo l’ufficiale preposto responsabile verso il procuratore generale del distretto dove ha sede il servizio. Il rapporto di subordinazione è ulteriormente rafforzato dall’obbligo in capo alle singole amministrazioni, di ottenere il consenso del procuratore della Repubblica presso il tribunale o del procuratore generale presso la corte d’appello per allontanare anche provvisoriamente dalla sede o assegnare ad altri uffici i dirigenti dei servizi e di vincolare altresì le promozioni dei dirigenti degli uffici al parere favorevole dei magistrati predetti. L’individuazione del momento in cui taluno assume la qualità di imputato dipende dalla volontà di creare un rigido spartiacque tra la fase delle indagini preliminari (il procedimento) e quella successiva all’esercizio dell’azione penale (il processo). Nella prima fase, l’attribuzione di un reato (c.d. imputazione preliminare, ovvero ipotesi di imputazione o addebito provvisorio) presenta un carattere precario connaturato allo stato fluido delle indagini; in sede processuale, invece, superato il dubbio circa la non infondatezza della notizia di reato, l’addebito si cristallizza nella formulazione dell’imputazione. Facendo coincidere l’assunzione della qualità di imputato con l’atto che contiene la formale individuazione della persona a cui un determinato fatto storico penalmente rilevante è attribuito, e quindi con l’avvenuto esercizio dell’azione penale, l’art. 60 enumera, pur senza riuscire esaustivo, gli atti tipici dai quali tale assunzione scaturisce. Alcuni si configurano quali domande dell’organo dell’accusa, come le richieste di rinvio a giudizio, di giudizio immediato e di decreto penale di condanna. Altri sono il prodotto di un incontro di volontà tra le parti, come la richiesta di applicazione della pena formulata o con il consenso prestato dal pm nel corso delle indagini preliminari. Altri, ancora, assumono la veste di atti di impulso: tali il decreto di citazione diretta nel giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica emesso dal pm o, nel giudizio direttissimo. All’elenco codicistico sono almeno da aggiungere sia la contestazione del reato connesso o del fatto nuovo nell’udienza preliminare, sia la formulazione coatta dell’imputazione allorquando la richiesta di archiviazione non sia stata accolta. Il consenso prestato dal pm alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, presentata nel corso delle indagini preliminari dalla persona sottoposta alle indagini, concreta anch’esso un atto di esercizio dell’azione penale. In un sistema dove l’azione penale è irretrattabile, la perdita della qualità di imputato può derivare solo da una sentenza o da un provvedimento ad essa assimilabile. Per contro, la qualità di imputato risorge per effetto della revoca della sentenza di non luogo a procedere o dell’emissione del decreto di citazione a dibattimento per il giudizio di revisione, essendo la relativa richiesta apparsa ammissibile e non manifestamente infondata, ma in margine al primo caso bisogna introdurre una distinzione. Il prosciolto, infatti, riacquista la qualità di imputato con l’ordinanza che fissa l’udienza preliminare allorchè il pm abbia richiesto il rinvio a giudizio, essendo già state acquisite le nuove fonti di prova; se, invece, le nuove fonti debbano essere ancora acquisite, l’ordinanza di riapertura delle indagini non produce il medesimo effetto formale. Il prosciolto riassumerà, in tal caso, la qualità di imputato unicamente allorquando a seguito delle indagini espletate il pm provveda a formulare l’imputazione. La casistica codicistica va quantomeno, ora integrata con la rescissione del giudicato. Il mezzo straordinario di impugnazione scatta nel caso in cui sia stata emessa una sentenza di condanna ovvero applicativa di una misura di sicurezza, passata in giudicato e pronunciata all’esito di un processo celebratosi, per tutta la sua durata, in assenza del già imputato. Se il soggetto dimostra che l’assenza è stata causata da un’incolpevole mancata conoscenza del processo, la corte d’appello dispone la revoca della sentenza e la trasmissione degli atti al giudice di primo grado: a tal punto, il già condannato, o il prosciolto riassume la qualità di imputato. In ordine all’estensione alla persona sottoposta alle indagini preliminari delle garanzie e dei diritti attribuiti a chi ha assunto la qualità di imputato è sufficiente la semplice sottoposizione della persona alle indagini preliminari. Si deve perciò ritenere che l’estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato operi anche in rapporto ad atti non documentabili, quali le notizie o le indicazioni assunte dagli ufficiali di polizia giudiziaria sul luogo o nell’immediatezza del fatto. Più precisamente, taluno diviene persona sottoposta alle indagini a seguito della ricezione da parte della polizia giudiziaria o del pm di una notizia qualificata di reato contenente un’incolpazione nei confronti di un soggetto determinato. Se trattasi di notizie non qualificate, la persona può dirsi sottoposta alle indagini a seguito di una valutazione di attendibilità delle medesime, espressa dall’ufficiale o agente di polizia giudiziaria o dal pm. Allorchè tale valutazione dia esito positivo scatta per i primi l’obbligo di riferire la notizia al pm; per il secondo l’obbligo di farla iscrivere immediatamente nell’apposito registro. Inoltre, viene in gioco la valutazione di dati emergenti dalle indagini e ritenuti idonei a fornire un principio di conoscenza circa l’attribuibilità a taluno di un fatto di reato. L’ipotesi trae origine dalla nozione di indizio, nonostante le interferenze con la nozione di prova indiziaria. Con la prima espressione ci si riferisce ad un risultato conoscitivo indispensabile per adottare alcune misure, anche ad opera del giudice, nel corso della fase delle indagini preliminari o per farne scaturire determinati effetti diversi dalla decisione sul dovere di punire, ossia sul tema principale del processo. Con la seconda, invece, si allude alle c.d. prove critiche assoggettate ad una apposita regola di giudizio al momento della valutazione probatoria. Conta, infine, il fatto obiettivo dell’esecuzione dell’arresto in flagranza mentre non rileva, a ben vedere, né quella del fermo ex art. 384, né la richiesta di una misura cautelare personale. Gli artt. 62-65 riguardano dichiarazioni rese dall’imputato, dalla persona sottoposta alle indagini ovvero da soggetti che a seguito di tali dichiarazioni possono assumere le predette qualità e mirano ad assicurare nei rapporti con l’autorità procedente un livello di lealtà e di civiltà adeguato ai canoni personalistici tipici del modello accusatorio. L’art. 62 prescrive che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall’imputato e dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza. La norma investe non solo le dichiarazioni sollecitate ma anche quelle che il soggetto rilasci di propria iniziativa. In secondo luogo, essa vale, per evidenti ragioni di coerenza sistematica, nei confronti di coloro a carico dei quali per effetto delle dichiarazioni rese, emergono indizi di reità e di coloro che, fin dall’inizio, dovevano essere sentiti in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini. In terzo luogo, sono coperte dall’art. 62 le dichiarazioni rese, sempre nel contesto del procedimento, dinnanzi all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria, nonché ad altre persone abilitate a riceverle. La regola di esclusione probatoria non si sovrappone per intero al regime dell’incompatibilità a testimoniare operante nei confronti del giudice, del pm e dei loro ausiliari, ivi compresi gli ufficiali di polizia giudiziaria in funzione di verbalizzanti. Non solo: in forza dell’interpretazione estensiva della formula codicistica fatta propria dalla Corte costituzionale, il divieto vale anche nei confronti di ogni altra persona che abbia inteso le dichiarazioni, spontanee o sollecitate, che siano rese dall’imputato in occasione del compimento di un qualsiasi atto collocato nella sequenza del procedimento. Sono escluse, pertanto, le dichiarazioni rilasciate prima dell’avvio del procedimento o al di fuori di esso. dall’art. 66 c.1 circa l’obbligo di fornire le proprie generalità, gli compete la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda che, in ogni caso, il procedimento proseguirà il suo corso. Al fine di dare effettività a tali prescrizioni, alla loro omissione è ricollegata l’inutilizzabilità delle dichiarazioni. In terzo luogo, la persona interrogata deve essere altresì avvertita che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone. Oggi vi è anche l’obbligo di somministrare l’avviso di non rispondere subito dopo l’esecuzione delle più severe restrizioni della libertà personale. L’avviso in discorso mostra di tener conto della condizione di stress in cui versa il soggetto al momento dell’arresto o del fermo tale da spingerlo a rendere dichiarazioni avventate, specie con l’intento di subito discolparsi ma che potrebbero poi essere usate contro di lui nel prosieguo del processo. Infatti, le dichiarazioni che la polizia giudiziaria riceve spontaneamente dall’indagato possono essere utilizzate sia a fini contestativi in sede di esame dibattimentale sia in chiave probatoria nei riti alternativi al dibattimento. Dall’esercizio del diritto di non rispondere l’organo procedente non più ricavare conseguenza alcuna in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale. Una volta somministrati gli avvertimenti preliminari di cui si è appena detto entrano in gioco le prescrizioni dettate per l’interrogatorio nel merito. Esse presentano un carattere più specifico operando esclusivamente per l’atto assunto dall’autorità giudiziaria e si risolvono in puntuali obblighi: contestare in forma chiara e precisa alla persona sottoposta alle indagini il fatto attribuitole, dalla cui sola previa conoscenza può derivare una scelta consapevole circa l’esercizio del diritto al silenzio, ma non farle conoscere il titolo del reato addebitato nella fase delle indagini preliminari, renderle noti gli elementi di prova esistenti a suo carico e se non può derivarne pregiudizio per le indagini, comunicargliene, le fonti. La portata delle prescrizioni appare destinata a subire adattamenti in rapporto allo sviluppo dell’iter procedimentale. Del resto, per l’interrogatorio dell’arresto e del fermato cui procede il pm detta prescrizioni solo in parte analoghe. Dal canto suo, l’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio deve già contenere l’inserzione della sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute, nonché se il pm vuol presentare richiesta di giudizio immediato, pure l’indicazione degli elementi e delle fonti di prova, insieme all’avvertimento circa il rito prescelto. La dimensione dell’interrogatorio come strumento difensivo emerge appieno dall’invito ad esporre quando la persona ritenga utile per discolparsi e dalla mancata riproduzione dell’invito ad indicare le fonti di prova a proprio favore, nonché dall’assenza dell’obbligo di dire la verità, salvi i limiti scaturenti dalle norme che incriminano l’autocalunnia, la calunnia o il favoreggiamento personale. Ne è segno la facoltà di non rispondere a singole domande sul merito. la tecnica adottata è quella delle domande poste in via diretta dal solo organo procedente. Vediamo le questioni relative all’identificazione dell’imputato e alla sua esistenza in vita. Per quanto concerne il profilo dell’identità personale o anagrafica, nel primo atto del procedimento in cui è presente l’imputato l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere ad identificarlo, ammonendolo sulle conseguenze cui si espone chi rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false. I medesimi inviti ed ammonizioni sono altresì indirizzati dalla polizia giudiziaria alla persona sottoposta alle indagini. Solo all’autorità giudiziaria si riferisce, però, l’art. 21 disp. att. laddove statuisce che debbano essere richieste all’imputato, o alla persona sottoposta alle indagini, nel primo atto cui sono presenti, una serie di informazioni relative all’identità personale, alla vita di relazione, alla posizione patrimoniale, nonché agli eventuali ruoli pubblici ricoperti ed ai precedenti penali. L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità è irrilevante in quanto non pregiudica il compimento di alcun atto da parte della polizia giudiziaria e dell’autorità giudiziaria, purchè sia certa l’identità fisica della persona. L’attribuzione di generalità erronee è trattata alla stregua di un mero errore materiale così da far luogo alla rettificazione mediante il relativo procedimento in camera di consiglio. Allo scopo di ridurre il margine dei possibili errori nell’applicazione dei c.d. benefici penali, a causa dell’incompleta identificazione del soggetto e dei suoi precedenti penali si prevede che l’autorità giudiziaria debba, in ogni stato e grado del procedimento comunicare a quella competente ai fini dell’applicazione della legge penale la circostanza che l’indagato o l’imputato è già stato segnalato, magari sotto diverso nome all’autorità giudiziaria quale autore di un reato commesso antecedentemente o successivamente a quello per il quale si procede. Dal profilo dell’identità personale si distingue quello dell’identità fisica che si sostanzia nella coincidenza tra la persona nei cui confronti è esercitata l’azione penale e quella che in effetti è assoggettata a processo. Ciò difetta ad esempio in cado di omonimia, allorquando al vero imputato si sostituisca l’imputato apparente. Il codice non affronta la questione, occupandosene solo in sede di esecuzione. Tocca, pertanto, al pm nella fase delle indagini preliminari disporre gli accertamenti del caso. Se invece il dubbio sorge nel processo, le determinazioni in materia saranno tratte dal giudice. Nell’ipotesi che dopo gli accertamenti svolti, permanga uno stato di incertezza sull’identità fisica della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, il silenzio serbato dal codice non consente che si addivenga alla sospensione dell’iter processuale. Il codice non affronta il tema dell’errore sull’identità fisica (c.d. errore di persona) che risulti nel corso della fase delle indagini preliminari: soccorre in proposito l’ampiezza delle formule per le quali è consentito al pm richiedere il decreto di archiviazione. Nondimeno, il legislatore su è preoccupato di precisare che, se l’errore di persona risulta evidente, l’arrestato in flagranza o il fermato deve essere immediatamente liberato. Se l’errore di persona risulta invece nel processo, il giudice pronuncia sentenza ex art. 129. La portata del richiamo all’art. 129 va circoscritta  nell’ambito dell’errore di cui si discorre, non è sussumibile quello che pur si verifica allorquando l’imputazione sia stata elevata nei confronti di una persona poi risultata diversa da quella che si voleva perseguire: tale situazione dà luogo ad una pronuncia di merito. Per converso, l’errore di persona continua a sfociare di regola, in una sentenza meramente processuale: pertanto la sentenza ex art. 68, pur se divenuta irrevocabile è sfornita di efficacia preclusiva. L’incertezza circa l’età minore dell’imputato è sciolta dal giudice minorile. La soluzione è coerente ad un sistema che demanda al giudice specializzato la cognizione di tutti i reati commessi da minorenni e risponde, al tempo stesso, all’intento garantistico di evitare che, durante il tempo occorrente per l’espletamento della relativa perizia, la persona della cui età minore si subita possa rimanere a contatto con imputati maggiorenni. In coerenza con queste premesse, allorchè l’autorità giudiziaria abbia ragione di ritenere che l’imputato o la persona sottoposta alle indagini sia minorenne, trasmette gli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale minorile. L’incertezza sull’esistenza in vita dell’imputato non è più disciplinata dal codice. Premesso che non conta la dichiarazione di morte presunta pronunciata dal giudice civile, se il dubbio è risolto nel senso della morte, il pm nel corso delle indagini preliminari chiede l’archiviazione per estinzione del reato mentre, nel corso del giudizio, il giudice proscioglie. Rispetto alla morte dell’imputato, posto che essa si risolve in una causa estintiva del reato, la relativa declaratoria rimane subordinata in modo esplicito alla gerarchia delle formule scaturente dall’art. 129 c.2. Pertanto, l’accertata morte dell’imputato non dovrebbe impedire al giudice, se già risulti evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non l’ha commesso ovvero che il fatto non costituisce reati, di adottare la formula di merito. La sentenza erroneamente dichiarativa dell’estinzione del reato per morte dell’imputato non impedisce un nuovo esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto a carico della medesima persona. Tale previsione va messa in rapporto con l’art. 649, là dove contempla per l’ipotesi in discorso un’espressa deroga al principio del ne bis in idem. Ogni persona fisica è, di regola, legittimata ad assumere la qualità di imputato ossia è titolare della capacità ad essere parte nel processo penale. Tale capacità difetta però negli infanti e negli immuni, da distinguersi in “assoluti” e “relativi” a seconda che l’esenzione dalla giurisdizione valga per tutte le imputazioni o solo per alcune. Ma, a proposito dell’immunità relativa, il processo può ben instaurarsi al solo fine di verificare se il fatto è coperto dal privilegio: improprio è parlare, in tal caso, di esenzione dalla giurisdizione. Nozione distinta, è quella di capacità processuale dell’imputato, che si risolve nell’idoneità ad esercitare, all’interno del processo i diritti e le facoltà ricollegati all’assunzione di tale qualità. In genere, la capacità processuale dell’imputato coincide con la sua capacità di essere parte. Esistono, tuttavia, alcune situazioni di frattura. Così, ad esempio, l’imputato nel giudizio di cassazione è privo della capacità processuale, dovendo stare in giudizio a mezzo del difensore che assume la veste di suo rappresentante. L’eccezione più vistosa all’ordinaria coincidenza tra le due capacità è rappresentata, infine, dall’ipotesi dell’infermità mentale dell’imputato, sia antecedente che sopravvenuta al fatto costituente il reato. Il presupposto dell’infermità mentale dell’imputato è commisurato non più sul parametro penalistico della non imputabilità, ossia sulla mancanza della capacità di intendere o di volere, bensì sulla inidoneità del soggetto a partecipate coscientemente al processo. Ciò vale tanto per l’imputato la cui infermità mentale sia sopravvenuta al fatto, quanto per l’imputato la cui infermità sia risalente ma perdurante al tempo del processo. L’elasticità del criterio adottato permettono di ricomprendere una gamma di situazioni in cui l’infermità di mente dell’imputato risulta solo diminuita, senza che sia scomparsa, purchè produce l’effetto di impedirne una consapevole partecipazione. Nessun dubbio, pertanto, sussiste circa l’operatività della norma nei confronti dei soggetti semimputabili. Per contro, restano irrilevanti, ai fini della disciplina in discorso, le situazioni nelle quali l’esercizio dell’autodifesa è ostacolato da altre cause, prime fra tutte le infermità fisiche sopravvenute. La valutazione sull’esistenza dell’infermità di mente dell’imputato non è necessariamente subordinata, stando alla giuri prevalente, all’esito di un’indagine peritale disponibile anche d’ufficio. Il giudice può, infatti, persuaderne altresì sulla base di elementi ricavabili da perizie appena espletate o da manifestazioni conclamate. Qualora la perizia psichiatrica venga disposta, nel lasso di tempo occorrente per il suo svolgimento piò parlarsi di una paralisi parziale dell’attività giudicante: il giudice può assumere, su richiesta del difensore, solo le prove che possono condurre al proscioglimento dell’imputato e sempre su richiesta delle parti, anche altre prove unicamente nel caso di pericolo nel ritardo. Accertato che lo stato psichico dell’imputato ne impedisce la cosciente partecipazione al procedimento pur manifestando allo stato carattere reversibile, il giudice emette ordinanza di sospensione del procedimento. L’ordinanza produce una pluralità di effetti. Il più rilevante di essi è costituito dall’obbligo di nominare un curatore speciale a favore dell’imputato, designando, preferibilmente, l’eventuale rappresentante legale. i diritti attribuiti al curatore speciale sono piuttosto ampi essendogli consentito sia di ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza di sospensione, sia di assistere agli atti disposti sulla persona dell’imputato. La sospensione, infatti, non impedisce al giudice di assumere prove, alle condizioni e nei limiti che valgono durante il tempo occorrente per l’espletamento della perizia. Ulteriori effetti consistono nell’obbligatoria separazione del processo e nell’inoperatività della regola posta dall’art. 75 c.3 circa la sospensione obbligatoria del processo civile. Sul piano sostanziale, l’art. 159 c.1 cp disponeva che il corso della prescrizione rimanesse sospeso quando il procedimento o il processo penale fosse, a sua volta, sospeso, tra l’altro, per impedimento delle parti, pur preoccupandosi di far salve le facoltà previste dall’art. 71 c.1 e 5. Il tentativo di contemplare il diritto di difesa con le esigenze della repressione penale è suscettibile però di dar vita alla figura dell’eterno giudicabile, vale a dire dell’imputato che, affetto da infermità psichica irreversibile, resta nondimeno assoggettato alla giurisdizione penale per tutto il resto della vita. Nel 2017 è stato introdotto l’art. 72-bis con l’intento di definire il procedimento in tempi ragionevoli. Pertanto, se dagli accertamenti, svolti immediatamente o anche successivamente, risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento in maniera irreversibile, il giudice, revocata ove necessario l’ordinanza sospensiva, emette sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere. La costruzione di una condizione di improcedibilità si armonizza con la tendenza legislativa ad incrementare i relativi casi alla luce dei vantaggi che ne discendono sul terreno dell’economia processuale. La costruzione dell’incapacità a partecipare coscientemente al procedimento alla stregua di una causa di improcedibilità consente di procedere nuovamente ove scopra che il soggetto ha fraudolentemente simulato l’infermità di mente. L’art. 72-bis eccettua dalla pronuncia della sentenza di non doversi procedere per incapacità irreversibile le fattispecie in cui si debba applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Premesso che nel sistema penale vigente l’applicazione di misure di sicurezza personali presuppone la pericolosità sociale del soggetto al di là di un accertamento diretto a verificare la mancanza del fumus boni iuris e che in ogni caso l’eventuale esclusione della parte civile disposta in sede di udienza preliminare non è di ostacolo rispetto ad una sua successiva costituzione entro il termine finale. Anche per la relativa richiesta di esclusione di esclusione occorre rispettare dei termini perentori che variano a seconda della fase processuale in cui è avvenuta la costituzione di parte civile. Se la parte civile si è costituita per l’udienza preliminare, la richiesta di esclusione va effettuata, in forma scritta fuori dell’udienza oppure oralmente in sede di udienza preliminare o dibattimentale; prima che siano terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; se, invece, la parte civile si è costituita nella fase degli atti preliminari al dibattimento o nel corso degli atti introduttivi del medesimo, la richiesta di esclusione deve essere avanzata in sede di trattazione delle questioni preliminari: lo proposizione è preclusa se la questione non viene proposta subito dopo che è compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. Una seconda ipotesi di esclusione della parte civile è quella disposta ex officio dal giudice, il quale, quando accerti l’inesistenza dei requisiti stabiliti per la costituzione di parte civile, può provvedere in conformità fino a che non sia stato aperto il dibattimento di primo grado, indipendentemente dalla circostanza che sia stata precedentemente rigettata, in sede di udienza preliminare, una richiesta di esclusione. Le ordinanze con cui la parte civile viene ammessa o esclusa dal processo penale sono di carattere meramente processuale. Si può anche verificare uno spontaneo recesso del danneggiato che, espressamente o tacitamente, revoca la costituzione di parte civile, ad esempio perché ha concluso con l’imputato una transazione. Nel caso di revoca espressa, che può aver luogo in ogni stato e grado del procedimento e riguardare taluno soltanto degli imputati, occorre un’apposita dichiarazione resa personalmente o per mezzo di un procuratore speciale. Alla suddetta dichiarazione può assumere la forma orale, se fatta in udienza, o essere contenuta in un atto scritto, che va depositato nella cancelleria del giudice procedente e notificato alle altre parti. Le ipotesi di revoca tacita/presunta sono invece tassativamente previste dall’art. 82 c.2 che menziona, da un lato, la mancata presentazione in sede di discussione dibattimentale delle conclusioni riservate al difensore della parte civile, e dall’altro il promovimento dell’azione di danno davanti al giudice civile. Vale la regola generale in base alla quale la revoca della costituzione di parte civile non preclude il successivo esercizio dell’azione aquiliana nella sede propria, pur dovendosi tenere presente il disposto dell’art. 75 c.3 il quale dispone che fatte salve le eccezioni previste dalla legge, il giudizio civile resta sospeso finchè in sede penale non venga pronunciata la sentenza più soggetta ad impugnazione. L’art. 75 nell’occuparsi delle possibili interferenze tra processo penale e parallela azione di danno esercitata davanti al giudice civile, opera una scelta a favore dell’autonomia dei rispettivi giudizi. Il c.1 del suddetto articolo si limita a disciplinare la trasferibilità, nel processo penale, dell’azione che il danneggiato del reato abbia promosso davanti al giudice civile. Il trasferimento risulta subordinato a due condizioni che riguardano lo stadio di progressione del giudizio a quo e quello del giudizio ad quem, per cui se, da un lato, per ragioni di economia processuale l’attore è vincolato alla sua scelta iniziale dopo la pronuncia in sede civile di una sentenza di merito anche non definitiva, dall’altro, non è più consentito l’inserimento dell’azione civile nel processo penale una volta spirato il termine finale stabilito dall’art. 79 c.1. Il cambiamento di sede processuale comporta l’estinzione del giudizio civile. Ciò che più importa sottolineare è tuttavia quanto dispone l’art. 75 c.2: niente impedisce che l’azione di danno esercitata nella sede naturale, proceda in assoluta autonomia rispetto al parallelo processo penale. Va aggiunto che, pur avendo confermato la possibilità di una costituzione di parte civile, il legislatore del 1988 non ha mancato di incentivare la soluzione alternativa. L’art. 75 c.2 deve essere infatti coordinato con gli artt. 651 e 652: nell’ipotesi in cui il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna il danneggiato può sfruttare nel giudizio civile l’efficacia di giudicato ad essa riconosciuta dall’art. 651 c.1, mentre non può accadere il contrario, poiché, grazie alla clausola di salvezza inserita nella parte finale dell’art. 652 c.1 è esclusa l’efficacia di giudicato della sentenza assolutoria. Solo in via di eccezione, l’art. 75 c.3 detta una disciplina che ricalca quella del codice previgente, disponendo che il processo civile rimanga sospeso in attesa di giudicato penale, qualora l’azione sia stata proposta in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile nel processo penale. Il pregiudizio che implica una simile previsione risulterebbe tuttavia ingiustificato nelle ipotesi in cui l’esodo del processo penale sia il risultato di una situazione subita dal danneggiato anziché di una sua libera scelta. Opportunamente pertanto l’art. 75 c.3 fa salve le eccezioni previste dalla legge, con la conseguenza che il giudizio civile prosegue senza interruzioni il suo corso quando: a) il processo penale è stato sospeso per incapacità dell’imputato; b) vi è stata esclusione della parte civile; c) sebbene ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge per tale adempimento, non risulta possibile notificare personalmente all’imputato assente l’avviso dell’udienza preliminare; d) la parte civile ha abbandonato il processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato; e) l’esodo della parte civile consegue sulla pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti; f) viene accolta dal giudice la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova; g) il danneggiato, già costituitosi parte civile, esercita l’azione civile in sede propria, dopo che il giudice penale ha dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione. Il responsabile civile Oltre che nei confronti dell’imputato, il soggetto danneggiato dal reato può agire per le restituzioni e il risarcimento del danno nei confronti della persona fisica o dell’ente plurisoggettivo che è tenuto, a norme delle leggi civili, a rispondere per il fatto dell’imputato. Questo soggetto è obbligato in solido con il protagonista. La presenza del responsabile civile è strettamente collegata all’inserimento e al mantenimento, da parte del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all’interno del processo penale. Pertanto, mentre da un lato non è ipotizzabile un intervento del responsabile civile antecedentemente alla costituzione di parte civile, dall’altro, al recesso o all’esclusione di questa ultima consegue l’estromissione del responsabile civile. Il responsabile civile deve essere citato su richiesta di parte e può intervenire volontariamente nel processo penale. Legittimati a richiedere la citazione sono solo la parte civile e il pm, limitatamente all’ipotesi in cui, sul presupposto di una urgenza abbia esercitato l’azione civile a favore dell’infermo di mente o del minore. Ferma restando l’incompatibilità tra il ruolo di imputato e quello di responsabile civile, è tuttavia consentito chiedere la citazione di un imputato come responsabile civile per il fatto dei coimputati. Quanto ai tempi della richiesta il termine finale prevede che venga proposta al più tardi per il dibattimento. Verificato il fumus boni iuris della richiesta, il giudice procedente ordina la citazione con un decreto, il cui contenuto è specificato dall’art. 83 c.3. Se non che, tali disposizioni inspiegabilmente tralascia un elemento essenziale di qualsiasi vocatio in iudicum: l’indicazione della data e del luogo dell’udienza. Copia del decreto è notificata a cura della parte civile o del pm alle parti che potrebbero avere interesse all’estromissione del responsabile civile. La citazione è nulla qualora, per omissione o per erronea indicazione di qualche elemento essenziale, il responsabile civile non sia stato in grado di esercitare i suoi diritti nell’udienza preliminare o nel giudizio, ovvero qualora risulti nulla la relativa notificazione. È importante sottolineare che il responsabile civile, regolarmente citato, non perciò solo tenuto ad intervenire nel processo. Può optare per una scelta rinunciatoria che peraltro non neutralizza il potere del giudice di addebitargli, in sentenza, la responsabilità per il fatto dell’imputato. Al pari della parte civile, esso sta in giudizio con ministero di un difensore e può costituirsi in ogni stato e grado del processo depositando nella cancelleria del giudice procedente o presentando in udienza una dichiarazione che deve contenere, a pena di inammissibilità, gli elementi indicati nell’art. 84 c.2. Se la citazione è regolare, l’assenza del responsabile civile non determina la sospensione o il rinvio del dibattimento, né una nuova fissazione dell’udienza preliminare. Anche se non è stato citato, il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale, sempre che vi sia stata costituzione di parte civile o il pm abbia agito come supplente. È pur vero che, se anche decidesse di non intervenire, non potrebbe essere pronunciata condanna nei suoi confronti e che, per la stessa ragione, non subirebbe l’efficacia extrapenale di un eventuale giudicato di condanna, ma è facile comprendere il pregiudizio che gli deriverebbe dall’esistenza di una pronuncia che sancisce la responsabilità dell’imputato. Relativamente alla forma, vale, per l’intervento volontario del responsabile civile, quanto disposto dall’art. 84 c. 1 e 2 nonché dall’art. 85 c.3, il quale, in caso di dichiarazione prestata fuori udienza, impone la sua notificazione alle altre parti a cura del responsabile civile. Esiste un termine finale, stabilito a pena di decadenza, che coincide con l’effettuazione, nel dibattimento di primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; è esclusa, tuttavia, la facoltà di presentare la lista dei testimoni, periti e consulenti tecnici qualora l’intervento volontario sia avvenuto al di là del limite fissato dall’art. 468 c.1. Va tenuta presenta la possibilità di una sua esclusione su richiesta di parte o d’ufficio. Le parti legittimate a proporre l’esclusione sono l’imputato, la parte civile e il pm. Ad esse va aggiunto il responsabile civile, costituitosi a seguito di citazione, il quale può chiedere la propria esclusione, oltre che per ragioni attinenti alla legittimazione, anche qualora gli elementi di prova raccolti prima della citazione, possano recare pregiudizio alla sua difesa. La richiesta motivata di esclusione, sulla quale il giudice decide con ordinanza, deve essere proposta a pena di decadenza, non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare o nel dibattimento: per quanto riguarda la fase dibattimentale, l’indicazione è, tuttavia da ritenersi imprecisa, tenuto conto di quanto prevede l’art. 491 c.1 che colloca, nell’ambito delle questioni preliminari, la proposizione dell’eventuale richiesta di esclusione di ufficio del responsabile civile. Ne consegue una coincidenza col termine riservato al giudice per l’esclusione di ufficio del responsabile civile. L’esclusione sarà disposta con ordinanza inoppugnabile, sia qualora venga accertata la mancanza dei requisiti per la citazione o per l’intervento del responsabile civile, sia qualora venga accolta dal giudice la richiesta di giudizio abbreviato. Vale per il responsabile civile quanto si è in precedenza precisato circa la rilevanza meramente processuale dei provvedimenti di ammissione e di esclusione della parte civile. Occorre tuttavia aggiungere che, se l’esclusione del responsabile civile è stata deliberata su richiesta della parte civile, viene meno, per il soggetto danneggiato dal reato la possibilità di esercitare l’azione riparatoria ex delicto in sede propria. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l’ente responsabile per l’illecito amministrativo dipendente da reato Se si rientra in una delle ipotesi prevista dagli artt. 196 e 197 cp o da talune leggi speciali, una persona può essere assoggettata in via sussidiaria ed eventuale, ad una obbligazione civile pecuniaria pari all’importo della multa o dell’ammenda inflitta al condannato: più esattamente, si può affermare che la responsabilità della persona civilmente obbligata si concretizza nel momento in cui il condannato risulta insolvente. Non è prevista la possibilità di un intervento volontario rispetto al quale la persona civilmente obbligata non avrebbe interesse. Può essere invece citata per l’udienza preliminare o per il giudizio su richiesta del pm o dell’imputato. Per quanto concerne l’iniziativa della parte pubblica, è evidente il suo interesse a creare le premesse necessarie affinchè la sanzione pecuniaria, una volta inflitta, non resti infruttuosa. Sull’altro versante, l’imputato è a sua volta fortemente motivato alla citazione della persona civilmente obbligata dal momento che, restando la pena pecuniaria insoluta si avrebbe una conversione della pena stessa in libertà controllata o in lavoro sostitutivo. Per quanto concerne la citazione, la costituzione e l’esclusione della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, si rinvia alla normativa dettata per il responsabile civile, escludendo tuttavia l’applicabilità dell’art. 87 c.3. Per completare il censimento delle parti eventuali bisogna fare riferimento al d.lgs. 231/2001 varato in ossequio ad esigenze di modernizzazione del nostro ordinamento non adeguatamente attrezzato rispetto ad attività illecite ascrivibili a quella variegata molteplicità di strutture plurisoggettive. È prevista oggi l’irrogazione di sanzioni amministrative, consistenti nella sanzione pecuniaria, nelle sanzioni interdittive, nella confisca e nella pubblicazione della sentenza a carico degli enti forniti di personalità giuridica, delle società e delle associazioni, anche prive di personalità giuridica, qualora vengano accertati reati commessi nel loro interesse o al loro vantaggio da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente, nonché di persone che ne esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, e, infine di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti prima menzionati. La cognizione dell’illecito amministrativo addebitabile all’ente appartiene al giudice penale competente per il reato dal quale l’illecito amministrativo dipende. Se intende partecipare al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, l’ente deve costituirsi depositando in cancelleria una dichiarazione contenente, offesa derivi il pericolo concreto di un danno per l’imputato, il condannato, l’internato, ricollegabile ad eventuali condotte di carattere ritorsivo. La comunicazione di cui al c.1 viene effettuata alla persona offesa e al suo difensore eventualmente nominato, in ogni caso, vale a dire a prescindere da una preventiva richiesta della medesima, quando si procede per i delitti previsti dagli artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609 quater, 609-quinquies ecc. Da una lettura congiunta dei due commi dell’art. 90-ter emerge che il soggetto passivo di uno dei delitti appena elencati, è di regola, tutelato dalla comunicazione disposta a suo favore solo quando la riconquistata libertà del presunto autore del reato avviene nel corso del processo a suo carico. Al condannato si fa infatti riferimento una sola volta, per specificare che la comunicazione alla persona offesa va effettuata, tra le altre ipotesi, quando costui sia evaso. La comunicazione delle info elencate dall’art. 90-bis, nonché quella della segnalazione di cui all’art. 90-ter, non sono previste a pena di nullità, per cui dalla loro eventuale omissione deriva una semplice irregolarità. Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato Esistono reati che violano interessi collettivi o diffusi  si riesce a capire la ratio dell’art. 91, che crea un soggetto processuale ignoto alla legislazione previgente, equiparandolo alla persona offesa dal reato. Infatti, è previsto che se risultano rispettati taluni requisiti, gli enti e le associazioni aventi finalità di tutela degli interessi lesi dal reato possono esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato. Qualora l’ente collettivo risulti direttamente danneggiato dal reato, niente gli impedisce di inserire la sua pretesa civilistica all’interno del processo penale, mediante la costituzione di parte civile; al contrario, se manca tale presupposto e risultano contemporaneamente soddisfatti i requisiti di cui all’art. 91, l’ente collettivo può partecipare al processo in veste di un accusatore privato al fianco della persona offesa disposta ad accettare il suo intervento. Nonostante l’equiparazione operata dall’art. 91, la coincidenza di poteri tra la persona offesa e la sua eventuale appendice non è perfetta. Si vuole alludere non tanto alla facoltà di presentare memorie e di indicare elementi di prove, quanto alla diversa ampiezza di diritti e facoltà riconosciuti in relazione a specifici contesti processuali: si pensi all’informazione di garanzia da inviare alla persona offesa ma non all’ente collettivo. Nello stabilire i requisiti ai quali è subordinata l’acquisizione da parte dell’ente collettivo, della qualifica di soggetto processuale legittimato a svolgere il ruolo di accusatore privato sussidiario, si concentrano, rispettivamente, sugli attributi idonei ad una appropriata caratterizzazione dell’ente collettivo e sui rapporti intercorrenti tra l’ente medesimo e il soggetto passivo del reato. Dal primo punto di vista, si richiede non solo che l’ente collettivo non abbia scopo di lucro, ma anche che gli siano state riconosciute in forza di legge (ampia locuzione che comprende sia la legge regionale, sia fonti infralegislative) finalità di tutela degli interessi lesi dal reato. Si esige infine che il riconoscimento sia avvenuto anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede. Quanto all’art. 92, chi si uniforma all’esigenza del costante consenso della persona offesa, nonostante la convergente collocazione dell’ente collettivo rispetto a quella della persona offesa, possono divergere, talora anche profondamente, le rispettive strategie processuali. Con la conseguenza che, in tal caso, l’intervento dell’ente collettivo perderebbe il carattere accessorio che lo contraddistingue. Per questo è stato ritenuto necessario il consenso della persona offesa da prestare con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, e si è ammessa la possibilità di una revoca in qualsiasi momento dell’iter processuale: fermo restando che con l’obiettivo di scoraggiare prese di posizione poco lineari, dopo l’eventuale revoca resta in assoluto esclusa per la persona offesa, la possibilità di essere nuovamente fiancheggiata da uno degli enti. Il consenso può essere prestato ad un unico ente è stata rafforzata dall’ulteriore previsione di una generale inefficacia, in caso contrario, dei consensi prestati. Affinchè l’ente collettivo possa svolgere all’interno del processo il ruolo ausiliario è indispensabile che il suo difensore presenti all’autorità procedente un atto di intervento da notificare alle parti quando la presentazione non avviene in udienza, il cui contenuto deve essere conforme a pena di inammissibilità, alle indicazioni risultanti dall’art. 93 c.1. Ai fini della sua legitimatio ad processum, occorre altresì che venga presentata la dichiarazione di consenso della persona offesa, nonché la procura al difensore, qualora la stessa sia stata conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Analogie con la normativa dettata per le parti eventuali emergono anche a proposito di limiti temporali fissati per l’intervento dell’ente collettivo, pur dovendosi dare atto di una significativa differenza. Se è vero che con riferimento al termine finale, l’intervento non può avvenire dopo che si è conclusa la fase del dibattimento dedicata alla verifica della regolare costituzione delle parti è vero anche che l’intervento dell’ente collettivo si può collocare nella fase delle indagini preliminari. Si tratta di un favor presentiae da ricollegare al ruolo di accusatore privato la cui azione risulterebbe non poco sminuita qualora gli fosse impedito di essere attivo anteriormente all’orientamento del pm. Successivamente all’intervento, si può pervenire ad un’estromissione dell’ente collettivo in seguito ad una opposizione di pare oppure ex officio, allorchè si riscontri un motivo di inammissibilità o un vizio attinente alla capacità processuale del soggetto intervenuto. Con riferimento all’eventualità di un’opposizione l’ipotesi più articolata è quella in cui vi sia stato un atto di intervento notificato alle parti: l’opponente, nel termine perentorio di tre giorni dalla data della notificazione, deve, a sua volta, far notificare la dichiarazione scritta di opposizione al rappresentante legale dell’ente collettivo, in modo da consentire a quest’ultimo di presentare, nel termine perentorio di cinque giorni dalla notifica, le sue controdeduzioni. Se l’intervento è avvenuto prima dell’esercizio dell’azione penale, la decisione è di competenza del giudice per le indagini preliminari, mentre sono competenti, rispettivamente, il giudice dell’udienza preliminare e il giudice del dibattimento rispetto agli interventi verificatisi in tali fasi, ferma restando comunque la dichiarazione di opposizione, l’osservanza di termini stabiliti a pena di decadenza: nel caso dell’udienza preliminare, bisogna proporla prima che sia dichiarata aperta la discussione; analogamente, con riferimento all’udienza dibattimentale, l’opposizione deve essere proposta subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. Occorre considerare, infine, l’estromissione che il giudice dispone ex officio quando accerta in ogni stato e grado del processo la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge per l’intervento dell’ente collettivo. Il querelante In relazione ad una serie di reati espressamente indicati dal legislatore è previsto che l’esercizio dell’azione penale da parte del pm sia subordinato ad un’esplicita voluntas persecutionis, che la persona offesa o, in sua vece, gli altri soggetti menzionati dagli artt. 120 e 121 cp sono tenuti ad esprimere nella forma della querela. Se, da un lato, è fuori discussione l’appartenenza della querela alla categoria delle notizie di reato e, più specificamente, alla sottocategoria delle condizioni di procedibilità, dall’altro è innegabile la peculiare posizione che il querelante in quanto tale assume nel processo penale sviluppatosi in seguito alla sua iniziativa. Si tratta di una posizione di ben maggiore rilievo rispetto a quella in cui si collocano gli autori di altri tipi di notitiae criminis. Un primo dato da evidenziare concerne i limiti temporali entro cui deve essere presentata la querela: di regola entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato; tuttavia, nell’ipotesi in cui si debba procedere alla nomina di un curatore speciale, tenuto a valutare l’opportunità di presentare querela, il termine decorre dal giorno in cui gli è notificato il decreto di nomina. Occorre che da parte del soggetto legittimato a sporgere querela non vi sia stata rinuncia, la quale opera automaticamente nei confronti di tutti gli autori del reato e che può essere espressa o tacita, desumibile cioè da fatti incompatibili con la volontà di una posteriore iniziativa persecutoria: circa le forme della rinuncia espressa è sancita l’inefficacia dell’atto abdicativo sottoposto a termini e condizioni. Un’ulteriore peculiarità, ricollegabile alla circostanza secondo cui il regime prevalente nel nostro sistema è quello della procedibilità d’ufficio, è costituita dalla regola che della c.d. indivisibilità della querela che opera tanto dal lato attivo quanto da quello passivo: ne consegue che il reato commesso in danno di più soggetti è perseguibile anche quando la querela sia presentata da una sole delle persone offese e reciprocamente che, nel caso di concorso di persone nel reato la querela contro una di esse si estende di diritto agli altri concorrenti. Il diritto di querela si estingue in seguito alla morte della persona offesa che non lo abbia ancora esercitato, mentre, nel caso contrario, la morte è irrilevante ai fini dell’estinzione del reato. L’estinzione del reato consegue, invece alla remissione della querela, sempre che il querelato non l’abbia espressamente o tacitamente ricusata e fermo restando che, se la querela è stata proposta da più persone, affinchè si produca l’effetto estintivo, è necessaria la remissione è necessaria la remissione di tutti i querelanti; analogamente, se tra più persone offese dal reato solo taluna ha proposto querela, la sua remissione non pregiudica il diritto di querela degli altri soggetti legittimati. Si tratta in sostanza di una revoca da effettuare prima che sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna. La remissione può avvenire sia in forma espressa che tacita, intendendosi per tale quella desumibile da fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela; non può essere sottoposta a termini e condizioni. In tema di remissione tacita le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno stabilito che, nell’ambito del procedimento davanti al giudice di pace e al tribunale in composizione monocratica per i reati di cui all’art. 550, la mancata comparizione all’udienza dibattimentale del querelante, previamente ed espressamente avvertito dei riflessi negativi della sua eventuale assenza sull’efficacia della condizione di procedibilità, va interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela. Per quanto concerne i profili formali della remissione bisogna far capo all’art. 340. Con riferimento ai procedimenti relativi ai reati per i quali è prevista dall’art. 55° la citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, la remissione di cui all’art. 555 c.3 consegue al tentativo di conciliazione tra il querelato e la persona offesa esperito con successo dal giudice in sede di udienza di comparizione. Quanto agli sviluppi più recenti, il capitolo dei reati perseguibili a querela è stato oggetto di attenzione da parte della l. 103/2017, la quale se ne è occupata in due diversi contesti, riconducibili però ad un denominatore comune, vale a dire al proposito del legislatore di alleggerire il carico di lavoro degli uffici giudiziari. L’estinzione del reato è collegata alla messa in atto di condotte riparatorie da parte dell’imputato: fermo restando che la declaratoria di estinzione è per l’appunto, circoscritta ai casi di procedibilità a querela, e sempre che si tratti di reati per i quali è ammessa la remissione della medesima. Dall’altro, previa determinazione di specifiche direttive si è demandato al legislatore delegato, il compito di procedere ad un ampliamento delle ipotesi in cui la perseguibilità del reato sia subordinata alla presentazione di apposita querela. Il difensore di fiducia dell’imputato La difesa tecnica costituisce anzitutto una logica conseguenza dell’inviolabilità del diritto di difesa, il quale, data la sua ampia formulazione, garantisce una adeguata copertura nei confronti non solo della difesa tecnica ma anche dell’autodifesa: ossia di quel complesso di attività che l’imputato esplica personalmente per dimostrare l’inconsistenza o la minore gravità dell’accusa a suo carico. Un ulteriore elemento da non sottovalutare è quello riguardante l’opzione a favore di un processo tendenzialmente accusatorio all’interno del quale risulta determinante la capacità di attivazione delle parti. ne consegue che il difensore dell’imputato viene chiamato a svolgere un ruolo più importante e di riflesso più impegnativo, essendo tenuto non solo a dimostrare la scarsa significatività degli elementi di prova a valenza accusatoria ma anche ad individuare e ad acquisire elementi probatori che scagionino l’imputato o alleggeriscano la sua posizione. A conferma dell’essenzialità del suo ruolo da rapportare oltre che agli interessi dell’assistito all’esigenza di un adeguato funzionamento del meccanismo processuale, può essere altresì opportuno segnalare che si è negato qualsiasi spazio all’ipotesi di un’esclusiva autodifesa dell’imputato. Il titolo VII è dedicato al difensore di fiducia dell’imputato. Riconoscendo, anzitutto, a quest’ultimo il diritto di nominare non più di due difensori di fiducia, per cui si deve considerare senza effetto l’investitura di ulteriori difensori finchè non sia stata revocata la nomina di almeno uno dei due precedentemente indicati. Vengono poi elencate tre modalità di nomina consistenti nella dichiarazione orale resa dall’interessato all’autorità procedente, in quella scritta consegnata alla medesima dal difensore e nel documento di nomina trasmessole con raccomandata. Non si tratta peraltro di ipotesi tassative, essendo da condividere l’opinione secondo la quale si è in presenza di un atto a forma libera il cui fondamentale requisito è quello di esprimere chiaramente la scelta del suo autore. La nomina del difensore può essere fatta in via preventiva, cioè per l’eventualità che si instauri un procedimento penale. Il difensore deve essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge professionale per assistere e rappresentare l’imputato, dovendosi ravvisare, in caso contrario, un vizio equiparabile all’assenza del difensore. Può essere stilata una sorta di graduatoria che ricomprende le tre seguenti figure: il praticamente avvocato che, può patrocinare davanti al giudice di pace e al tribunale in composizione monocratica nei soli processi aventi ad oggetto i reati previsti dall’art. 550 per i quali si procede con citazione diretta a giudizio; l’avvocato, che può svolgere il suo ruolo di difensore nei processi davanti ad ogni giudice penale fatta dev’essere assicurato tramite appositi istituti. Per ipotesi, quindi, anche mediante l’istituzione di pubblici uffici di assistenza legale. È istituito presso ogni consiglio dell’ordine di un elenco degli avvocati idonei ad essere nominati difensori da colui che è ammesso al patrocinio a spese dello stato. Circa l’inserimento, su richiesta dell’interessato in tale elenco, delibera il consiglio dell’ordine, per l’iscrizione nell’elenco in questione è necessaria un’esperienza professionale specifica, dovendosi a tal fine distinguere tra processi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e affari di volontaria giurisdizione, per un altro verso l’iscrizione nell’elenco è stata facilitata dalla previsione che invece dei sei anni di anzianità professionale richiesti all’inizio, sia sufficiente l’iscrizione all’albo degli avvocati da almeno due anni. Attualmente, è possibile nominare anche un difensore extra districtum, fermo restando che in tal caso non sono dovute le spese e le indennità di trasferta previste dalla tariffa professionale. È importante sottolineare l’innalzamento alla soglia di euro 11.493,82 del reddito annuale che consente di usufruire del patrocinio a spese dello Stato. se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, viene innalzato di euro 1.032,91 per ogni convivente il limite che non bisogna superare per essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, fermo restando che in tal caso si deve tenere conto della somma dei vari redditi. La persona offesa dai reati di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis-quater-octies, 612-bis, nonché, qualora siano commessi in danno dei minori, dai reati di cui agli artt. 600, 600-bis-ter-quinquies ecc può usufruire del patrocinio statale anche se il reddito è superiore alla soglia fissata dal legislatore. La normativa sul gratuito patrocinio è stata estesa alle procedure di esecuzione del mandato di arresto europeo: sia nei casi in cui l’Italia sia parte passiva della procedura di consegna, sia nei casi in cui sia parte attiva della stessa. Si è voluto scongiurare l’ammissione al patrocinio di soggetti i quali, contrariamente alle loro attestazioni, non versino in realtà nella situazione di “non abbienza”. Per questo, l’istanza di ammissione al patrocinio va respinta, qualora il tenore d vita, le condizioni personali e familiari del richiedente nonché le attività economiche da lui eventualmente svolte offrano al giudice fondati motivi per ritenere che il reddito da prendere in considerazione superi il tetto stabilito dalla legge. Inoltre: con specifico riferimento all’ipotesi in cui si proceda per uno dei delitti previsti dall’art. 51 c.3-bis cpp, ovvero nei confronti di persona proposta o sottoposta a misura di prevenzione, è stata sottratta al giudice qualsiasi discrezionalità, essendo egli tenuto ex lege a chiedere preventivamente al questore, alla direzione investigativa antimafia e alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo le informazioni necessarie e utili ai fini di una decisione più oculata circa l’ammissione del richiedente al beneficio. La presunzione di superamento del reddito per l’ammissione al patrocinio statale, oltre ad essere imperniata su una precedente condanna per uno dei reati ivi previsti, ha o, meglio, aveva carattere assoluto. Questo suo connotato è infatti venuto meno in seguito ad una condivisibile sentenza della Corte costituzionale che, dichiarando parzialmente illegittima la disposizione introdotta dal legislatore del 2008, ha prodotto il risultato di rendere superabile la presunzione de qua qualora l’interessato sia in grado di fornire un’idonea prova contraria. È stata altresì ampliata la copertura garantita al soggetto ammesso al patrocinio dei non abbienti: la nuova formulazione risulta in ultima analisi omnicomprensiva, per cui sembrerebbe lecito farvi rientrare anche l’assistenza relative alle procedure che si svolgono davanti agli organi giurisdizionali internazionali. Un terzo profilo è relativo agli effetti dell’ammissione al patrocinio, tra i quali non figurava la facoltà dell’interessato di potersi avvalere degli apporti di un investigatore privato autorizzato. Questa grave lacuna risulta ora colmata in quanto si stabilisce che il difensore del soggetto ammesso al patrocinio può nominare un sostituto sia un investigatore privato autorizzato. A sua volta il soggetto ammesso al patrocinio può nominare un consulente tecnico di parte. Diversamente dal passato, è consentita la scelta del sostituto, dell’investigatore e del consulente tecnico anche al di fuori dell’ambito distrettuale, sia pure con la clausola che in tal caso non sono dovute le spese e le indennità di trasferta imputabili al travalicamento di tale ambito. Con specifico riferimento al consulente tecnico vanno invece segnalate le perplessità inerenti alla disposizione che, sanzionando scelte censurabili solo ex post, esclude dalla liquidazione le spese per le consulenze che, all’atto del conferimento, apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova. Per completare il quadro, può essere opportuno dare atto del superamento di taluni divieti e limitazioni. Anzitutto, l’ammissione al patrocinio non è più in alcun modo ostacolata dalla natura contravvenzionale del reato; secondariamente, risulta superato il disposto che consentiva la sostituzione del difensore solo per giustificato motivo e previa autorizzazione del giudice procedente; in terzo luogo si attenua il divieto di nomina di un secondo difensore nelle ipotesi in cui l’imputato o il condannato partecipino al procedimento penale a distanza, è ammessa la nomina di un secondo difensore limitatamente agli atti che si compiano a distanza. Nonostante la sua collocazione all’interno della regolamentazione di tale istituto, ben diversa è la ragion d’essere dell’art. 115-bis Dpr cit: colui che si difende da un’aggressione nel proprio domicilio, ma anche manlevare quest’ultimo dagli oneri economici ricollegabili al processo instaurato a suo carico. Ciò non può non suscitare delle perplessità qualora se ne preveda l’applicazione solo in limitate circostanze, che ad avviso del legislatore, risultino in un determinato momento meritevoli della benevolentia principis. Per la precisione, il suddetto articolo stabilisce che, a prescindere dalla situazione reddituale dell’interessato, sono a carico dello Stato l’onorario e le spese sostenute dal difensore di chi è stato sottoposto a processo per avere reagito ad un’aggressione nel proprio domicilio allorchè la vicenda processuale che lo ha coinvolto si concluda con un provvedimento a lui favorevole. Se il processo sul cui esito si è basata l’esenzione dal pagamento dell’onorario e delle spese al difensore viene in un secondo tempo ripreso e si conclude con la sentenza irrevocabile di condanna di colui che ha beneficiato dell’esenzione, lo Stato ha diritto di ripetere le somme anticipate nei suoi confronti. Al diverso tipo di interessi di cui sono portatori l’imputato e le altre parti private corrisponde una marcata diversità di regolamentazione in tema di difesa tecnica. Si stabilisce infatti che la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria stiano in giudizio con ministero di un solo difensore, munito di procura speciale, ossia relativa al processo in corso, da presumere conferita solo per un determinato grado a meno che nell’atto sia espressa una volontà diversa. Per quanto concerne le forme della procura, è ammessa la sua apposizione in calce o a margine dei vari atti mediante i quali avviene l’ingresso della parte nel processo penale: l’autobiografia della sottoscrizione è certificata dal difensore; al di fuori di tale ipotesi si può inoltre conferire la procura con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, ad opera non solo dei soggetti a ciò istituzionalmente abilitati, ma anche del difensore. Il difensore può compiere e ricevere tutti gli atti del procedimento tranne quelli che la legge riserva espressamente al rappresentato il cui domicilio deve intendersi automaticamente eletto ad ogni effetto processuale presso il difensore. Inoltre, in assenza di una procura ad hoc, quest’ultimo non può compiere atti implicanti disposizione del diritto in contesa. La normativa appena esaminata opera anche nei confronti degli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato, obbligati a stare in giudizio col ministero di un difensore, mentre lo stesso non si può dire con riferimento alla persona offesa. Per questo soggetto processuale la nomina di un solo difensore è infatti facoltativa. Al difensore eventualmente nominato spetta l’esercizio dei diritti e delle facoltà riconosciuti alla persona offesa, i quali si vanno ad aggiungere al potere, riconosciuto al difensore di presentare in ogni stato e grado del processo memorie e richieste. Nella difesa tecnica importante è la continuità di esercizio con riferimento alla quale i rischi si prospettano alquanto elevati proprio in seguito alla crescita del ruolo del difensore. Su questo sfondo si colloca la disposizione che legittima il difensore a nominare un sostituto. Affinchè sia efficace, la designazione deve essere portata a conoscenza dell’autorità procedente con le stesse forme indicate nell’art. 96 c.2. Spetta dunque al difensore nominare il sostituto, fatta eccezione per le ipotesi dove è previsto che provveda alla designazione il giudice, ovvero, ma solo nei casi di urgenza e previa adozione di un provvedimento motivato che indichi le ragioni dell’urgenza, il pm o la polizia giudiziaria. Per la nomina del sostituto rileva ormai unicamente la volontà del difensore: infatti, non è più richiesto che costui adduca di trovarsi in un caso di inadempimento. L’innovazione è da mettere in relazione con l’ampliato ruolo del difensore conseguente alla legge sulle indagini difensive, la quale ha fatto emergere l’opportunità di consentire la nomina del sostituto anche per mere esigenze di organizzazione interna dell’ufficio della difesa. Ciò significa che, caduti i limiti esterni, tutto dipende ormai dall’adeguamento del difensore titolare dell’ufficio ai canoni deontologici. Se per quanto riguarda la difesa di fiducia, la natura contrattuale del rapporto garantisce di per sé un adeguato controllo circa la loro osservanza, con riferimento alla difesa d’ufficio si potrebbero nutrire maggiori dubbi. Per cui sembra non essere ingiustificata la preoccupazione che una così ampia facoltà di sostituzione rischi di ripercuotersi negativamente su quel principio di effettività. Quanto ai poteri del sostituto la sostituzione non incide sulla titolarità dell’incarico difensivo, fermo restando tuttavia che il difensore sussidiario esercita i diritti e assume i doveri del difensore impedito. Deve peraltro ritenersi che tale traslazione non coinvolga quelle situazioni soggettive processuali aventi come fonte una procura speciale conferita dalla parte al difensore sostituito. Il diritto di difesa necessita di un adeguato scudo normativo che ponga, a vantaggio del difensore, precisi limiti ai poteri investigativi degli organi inquirenti. Si considerano anzitutto le ispezioni e le perquisizioni. Se effettuate negli uffici dei difensori, sono consentite in due sole ipotesi: quando il difensore o altre persone che svolgono stabilmente la loro attività nel suo ufficio sono imputati, fermo restando che gli atti in questione devono essere esclusivamente finalizzati all’accertamento del reato attribuito a tali soggetti; oppure quando si tratta, a prescindere da chi sia l’imputato, di rilevare tracce o altri effetti materiali del reato ovvero di ricercare cose o persone specificamente predeterminate. Questo primo nucleo di garanzie è completato dalla previsione che delimita in negativo il materiale sequestrabile presso i difensori, gli investigatori autorizzati privati e incaricati in relazione al procedimento, i consulenti tecnici, salvaguardando le carte e i documenti relativi all’oggetto della difesa, che sono sottoponibili a sequestro solo quando costituiscano corpo del reato. Sempre con riferimento alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri negli uffici dei difensori, vanno evidenziate talune regole di carattere procedurale. Si tratta di garanzie che operano su un duplice versante: va ricordato l’avviso, che a pena di nullità l’autorità giudiziaria deve comunicare al locare consiglio dell’ordine per consentire al presidente o ad un suo delegato di presenziare alle operazioni. Su un diverso versante si colloca la limitazione inerente ai soggetti legittimati a procedere: devono agire in prima persona, senza possibilità di delegare l’atto alla polizia giudiziaria, il giudice o, durante le indagini preliminari, il pm. Anche la corrispondenza e le conversazioni del difensore sono ovviamente oggetto di specifiche regole. per quanto concerne la corrispondenza tra l’imputato, pur se detenuto e il proprio difensore, stabilisce il divieto di sequestro e di ogni altra forma di controllo: sempre che, da un lato, la corrispondenza sia riconoscibile grazie alle puntuali indicazioni da apporre sulla busta, dall’altro l’autorità giudiziaria non abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. È altresì vietata l’intercettazione delle conversazioni (dialoghi) e delle comunicazioni (esternazioni unilaterali) che difensori, investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, consulenti tecnici e loro ausiliari effettuino tra di loro. Si deve ritenere che il divieto concerna le conversazioni costituenti, nella sostanza, esercizio della funzione difensiva. Quanto al profilo sanzionatorio: fatti salvi i divieti di utilizzazione e la nullità, si è stabilito che in caso di inosservanza delle rimanenti disposizioni dall’art. 103 i risultati delle operazioni compiute non possano essere utilizzati. La previsione di inutilizzabilità è stata opportunamente rafforzata, con l’obiettivo di neutralizzare i condizionamenti che di fatto possono scaturire dalla conoscenza delle intercettazioni contra legem. Il contenuto delle comunicazioni e delle conversazioni illegittimamente intercettate non può essere trascritto neppure sommariamente. Le garanzie previste dall’art. 103 si estendono agli assistenti sociali iscritti all’albo professionale e, in quanto applicabili, ai dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze e a coloro che operano presso gli enti, centri, associazioni o gruppi che hanno stipulato convenzioni con le unità sanitarie locali. Quanto al primo colloquio con il difensore, vi è il diritto di conferire immediatamente o comunque non oltre sette giorni dal momento in cui è stato eseguito il provvedimento limitativo della libertà personale. Da tali premesse è scaturito il riconoscimento che il soggetto sottoposto a custodia cautelare, al pari della persona in stato di fermo o di arresto, ha diritto di conferire con il difensore subito dopo che è stato privato della liberà personale. È stato conseguentemente previsto che il difensore di fiducia o d’ufficio, venga immediatamente avvisato dell’avvenuta esecuzione della misura restrittiva e si è attribuito al difensore il diritto di accedere ai luoghi in cui la persona fermata, arrestata o sottoposta a custodia cautelare si trova detenuta. Qualora non conoscano la lingua italiana, gli indagati in vinculis hanno diritto all’assistenza gratuita di un interprete per essere posti in grado di conferire proficuamente col proprio difensore. quale è prevista la redazione del processo verbale; l’autenticazione di atti e dei provvedimenti emessi dal giudice; la custodia delle cose sequestrate; il rilascio di copie e la notificazione dell’atto di impugnazione. Anche presso l’ufficio del pm, nell’ambito della sua segreteria, opera un ausiliario che svolge funzioni analoghe a quelle del cancelliere di assistenza, di redazione del verbale e delle annotazioni degli atti posti in essere dal magistrato inquirente; provvede alla custodia delle cose sequestrare e comunica gli atti pm e riceve quelli ad esso destinati, Quanto all’ufficiale giudiziario, premesso che la sua principale funzione è quella di curare l’esecuzione delle notificazioni, ne consegue che svolge un’attività ausiliaria nei confronti sia del giudice, sia del pm. Un importante corollario di tale funzione è costituito dalla relazione di notificazione che documenta l’attività svolta con riferimento all’atto da notificare. Al medesimo sono attribuiti anche compiti funzionali al corretto svolgimento dell’udienza, consistenti nell’impedire che i testimoni da esaminare comunichino con quelli già esaminati. Anche il direttore dell’istituto penitenziario opera come ausiliario sia del giudice che del pm, essendo tenuto a ricevere e ad inoltrare immediatamente, dopo aver proceduto alla loro iscrizione in apposito registro, l’atto di impugnazione e gli altri atti contenenti dichiarazioni e richieste destinate all’autorità giudiziaria, che gli vengano presentati dal soggetto detenuto o internato. CAPITOLO II: ATTI Nel libro II, dedicato agli atti, è raggruppato un complesso di regole valide per l'intero procedimento che sarebbe anti economico stabilire di volta in volta. Naturalmente, la creazione di una normativa a carattere generale non impedisce che in rapporto alla progressione del rito si pongano regole speciali. Un primario valore sistematico assume poi il rilievo che la disciplina contenuta nel libro II sì riferisca ad atti che si formano nel contesto del medesimo procedimento. Pertanto, la normativa sui documenti intesi come il prodotto di un'attività svolta fuori dal procedimento e stata collocata nel libro dedicato alle prove. Ciò premesso, si tratta di definire l'atto processuale penale in assenza di un'esplicita definizione quale legislativa. Sul piano soggettivo, sono tali quelli posti in essere dai soggetti del procedimento. Pertanto, anche i soggetti privati realizzano atti processuali. Sul piano oggettivo, secondo l'opinione in passato prevalente due sarebbero le caratteristiche essenziali dell'atto processuale penale: la sua attitudine a produrre effetti giuridici dotati di rilevanza processuale penale e il suo realizzarsi nel contesto del processo penale. Una simile impostazione però non appare più oggi accoglibile stante la scelta del codice di definire due distinte sequenze denominate “procedimento” e “processo”, la prima delle quali più ampia e comprensiva della seconda. Lo spartiacque tra i due concetti si ritrova nel compimento da parte del pm di uno dei vari possibili atti di esercizio dell'azione penale. Ciò che precede l'esercizio dell'azione penale compone già la sequenza degli atti del procedimento, mentre ciò che segue fa parte anche del processo. Ai fini della distinzione in parola quel che più conta è il dato strutturale. Nella fase delle indagini preliminari difetta un giudice investito del procedimento in senso proprio dato che l'intervento del giudice per le indagini preliminari si configura come meramente eventuale ed è sempre circoscritto al provvedimento richiesto. Solo nel contesto del processo opera un giudice investito della pienezza delle proprie funzioni giurisdizionali e abilitato a pronunciare sentenze. In altri termini, la nozione di processo si caratterizza in un rapporto di specie a genere rispetto a quella di procedimento per una nota ulteriore: la giurisdizionalità piena degli atti relativi che impone la completa attuazione del contraddittorio. Ciò spiega perché il legislatore abbia designato con la formula atti del procedimento tanto gli atti anteriori all'esercizio dell'azione penale quanto quelli ad essa successivi. Resta da individuare l'atto iniziale e quello finale del procedimento ai fini dell'applicabilità delle norme di cui agli artt. 109 ss. Circa la questione del momento iniziale sembra fuori discussione che gli atti posti in essere prima che la notizia di reato sia venuta ad esistenza non possano mai costituire atti del procedimento. Rilevanti esigenze sistemiche, connesse all'indefettibile coincidenza tra avvio della fase delle indagini preliminari e inizio del procedimento, più che dati letterali alquanto controvertibili inducono a fare coincidere il primo atto del procedimento con quello immediatamente successivo alla ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del pm. Ne segue che gli atti nei quali la notizia medesima si sostanzia si collocano al di fuori della sequenza del procedimento penale. Per le notizie apprese di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria o dal pm appare inevitabile introdurre una distinzione capace di tener conto del fatto che in simili casi la notizia di reato non trova mai consacrazione originaria in un atto tipico, ma è sempre frutto di un giudizio operato dal l'organo procedente circa l'attitudine indiziante di informazioni comunque conosciute. Se la notizia è stata acquisita dal pm, poiché scatta l'immediato obbligo di iscriverla nell'apposito registro, è da tale iscrizione che ha inizio il procedimento. Se invece la notizia di reato viene formata dalla polizia giudiziaria va escluso che la successiva informativa al pm valga allo scopo almeno tutte le volte in cui la polizia compia nel frattempo un qualche atto di indagine preliminare. In mancanza di un atto tipico, si deve concludere che il primo atto del procedimento sarà costituito da quello cronologicamente anteriore tra gli atti compiuti dopo l'acquisizione della notizia di reato. Anche per l'individuazione dell'atto finale occorre distinguere. Se le indagini preliminari sfociano in un provvedimento di archiviazione, questo sarà l'ultimo atto del procedimento. Se invece l'azione penale è stata esercitata, l'esecutività è il momento finale del processo relativamente alle sentenze di non luogo a procedere mentre l'irrevocabilità è il momento finale relativamente alle sentenze pronunciate in giudizio e al decreto penale di condanna. Infine, devono essere considerati a tutti gli effetti atti processuali penali quelli relativi al procedimento di esecuzione e al procedimento di sorveglianza. Di regola, gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana ma non si prevedono sanzioni amministrative per chi pur sapendo esprimersi in tale lingua ne usi un'altra. Quanto al territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta altre lingue sono elevate al rango di lingue del procedimento accanto a quella italiana, assicurando così al cittadino appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta il diritto di impiegare nei rapporti con l'autorità giudiziaria la propria madrelingua a prescindere dal proprio livello di conoscenza della lingua italiana trattandosi di un modo di tutela delle minoranze linguistiche. Questo vale non solo per l'imputato e le altre parti private, ma anche per i testimoni, i periti, i consulenti tecnici eh quanti altri vengono in contatto con il procedimento penale. L'uso di una lingua diversa da quella italiana è subordinato ad una serie di requisiti. Il primo è che si tratti di una lingua di cui una legge riconosce la qualità di lingua minoritaria. Le lingue minoritarie per le quali correntemente si ammette l'uso nel processo penale sono quella francese per la Valle d'Aosta, quella tedesca per la provincia dell'alto Adige Sudtirol, quella Latina per la regione Trentino Alto Adige e quella slovena per le province di Trieste, Gorizia e Udine. Si deve però segnalare la tendenza giurisprudenziale ad ammettere l'impiego processuale di altre lingue minoritarie come quella sarda. Il secondo requisito circoscrive la tutela ai soli procedimenti che si svolgono davanti all'autorità avente competenza di primo o secondo grado sul territorio dove ancorché in parte è insediata la minoranza linguistica. Secondo la Corte costituzionale infatti l'uso della propria lingua nella sfera territoriale della comunità di appartenenza integra un elemento fondamentale di trasmissione dei relativi valori e quindi di garanzia dell'esistenza e della continuità del patrimonio spirituale proprio di ciascuna minoranza etnica. Il terzo requisito, si risolve nell'onere del soggetto, il quale affermi di appartenere alla minoranza, di richiedere sempre l'uso della lingua minoritaria, ma la dichiarazione di volontà espressa in forma scritta o orale è revocabile. La garanzia della lingua minoritaria si sostanzia in primo luogo né il diritto del cittadino italiano ad essere interrogato od esaminato nella lingua materna. In secondo luogo, il verbale è redatto oltre che in lingua italiana anche nella lingua minoritaria. Infine, al cittadino spetta la traduzione di tutti gli atti del procedimento a lui indirizzati. La tipologia delle nullità conseguenti all'inosservanza delle regole così poste va esaminata separatamente per ciascuno dei due primi commi dell'art. 109. Quanto al primo comma non c'è motivo per discostarsi dall'orientamento giurisprudenza inziale affermatosi in passato: in ogni caso si tratterà di una nullità relativa. Il medesimo assunto sembra non valere per le nullità scaturenti dalla violazione del comma 2: se il vizio riguarda una parte privata, viene in gioco l'inosservanza di una disposizione attinente al suo intervento, sicchè l'assorbimento della tutela linguistica in quella del diritto di difesa comporta l'inquadramento tra le nullità a regime intermedio. Ma non è da escludere il verificarsi di una nullità assoluta sì si tratta di citazione dell'imputato. Si noti come a seguito della violazione delle norme processuali poste a tutela dell'uso della lingua tedesca siano state introdotte specifiche cause di nullità assolute quelle relative alla traduzione degli atti. Essendo la lingua nient'altro che uno strumento di comunicazione, accanto alla disciplina delle minoranze linguistiche può porsi l'art. 119 relativo alla partecipazione del sordo o del muto agli atti del procedimento. Tutte le volte in cui un soggetto in tali condizioni voglia o debba fare dichiarazioni sono previste particolari in modalità di comunicazione che si avvalgono della parola o dello scritto. In ipotesi del genere, anche indipendentemente dalla circostanza che la persona in discorso non sappia leggere o scrivere, l'autorità procedente provvede a nominare uno o più interpreti scelti di preferenza tra le persone abituate a trattare con lui. A favore del sordo o del muto imputati, non potrebbe prestare l'ufficio di interprete il prossimo congiunto trattandosi di soggetto che usufruisce della facoltà di astenersi. La pluralità delle funzioni assegnate alla sottoscrizione degli atti e le ancora numerose ipotesi di invalidità scaturenti dall’omissione di questa formalità giustificano la previsione di una disposizione a carattere generale in materia. Le regole qui stabilite si riferiscono esclusivamente agli atti e non ai documenti. Di solito, è sufficiente la firma di mano propria alla fine dell'atto, ma il verbale va firmato in calce ad ogni foglio. Permane l'interdizione all'impiego di mezzi meccanici oppure da segni diversi dalla scrittura equiparati ad una mancata sottoscrizione. Talora il codice impone che gli atti dei soggetti privati siano muniti di un'attestazione relativa alla autenticità della firma. Sono ora abilitati ad autenticare la sottoscrizione di atti oltre al funzionario di cancelleria, il notaio, il difensore, il sindaco, un funzionario delegato dal sindaco, il segretario comunale, il giudice di pace, il presidente del Consiglio dell'Ordine forense o un consigliere da lui delegato. Da un punto di vista generale può dirsi che la sottoscrizione illeggibile non produce nullità allorché la provenienza dell'atto sia ricavabile aliunde. Premesso che nel linguaggio del codice la data resta comprensiva pure del luogo di formazione dell'atto, di regola è sufficiente accanto all'indicazione spaziale quella temporale sotto forma di menzione del giorno, del mese e dell'anno; talvolta è prevista anche l'indicazione dell'ora. Anche qui il profilo di maggiore interesse concerne gli effetti della mancata indicazione della data allorché essa sia prescritta a pena di nullità. L'invalidità sussiste solo nell'ipotesi in cui la data non possa stabilirsi con certezza sulla base di elementi tratti dall'atto medesimo o da atti a questo connessi. Se la documentazione di un atto è stata distrutta, smarrita o sottratta, ne è possibile recuperarla, ma di tale atto occorre tuttavia fare uso, il codice prevede l'impiego di più rimedi. Il più semplice si risolve nella surrogazione all'originale di una copia autentica. Se non è possibile procedere alla surrogazione, soccorre l'istituto della ricostruzione. Nell'intento di rafforzare i poteri del giudice rispetto alle lacune degli atti, l'art. 113 consente una iniziativa d'ufficio ma non indica l'organo incaricato a provvedere. Al pari di quanto dottrina e giurisprudenza hanno sostenuto in passato, tra le organo si individuano il giudice avanti al quale pende il procedimento o nel giudice dell'esecuzione. Data la sua natura anti economica, la rinnovazione dell'atto mancante è configurata alla stregua di una extrema ratio. Previo un giudizio di necessità e di possibilità essa è disposta con ordinanza che ne prescrive le modalità, non anche le forme essendo queste predeterminate dalla legge. Nell'analisi della disciplina relativa alla conoscenza pubblica degli atti del procedimento non deve essere sopravvalutato il nesso intrattenuto con la struttura lo sfondo accusatorio del rito. L'art. 114 prevede numerosi, temporanei limiti alla pubblicazione tra cui quelli derivanti dalla flessibilità dell'obbligo di segreto investigativo. Il legislatore ha concepito due tipi di divieto di pubblicazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione ivi compreso Internet che si distinguono in ragione del loro oggetto. Il primo concerne la riproduzione totale o parziale dell’atto, ossia dell’atto quale risulta dalla documentazione procedimentale (divieto relativo). Il secondo riguarda la pubblicazione di quanto l'atto esprime anche dal punto di vista concettuale, sì che rileva pure la pubblicazione fatta solo in modo meramente informativo (divieto assoluto). L’art. 114 correla la disciplina del divieto di pubblicazione agli atti coperti dal segreto investigativo. Qui il divieto suona assoluto investendo sia la riproduzione pubblica dell'atto sia il contenuto dello stesso. Il divieto di pubblicazione in discorso dovrebbe operare per tutta la durata delle indagini preliminari finche restano richieste scritte ez art. 367. Il Ministro dell’interno può accedere alle fonti informative, anche se gli è consentito di avvalersi di un ufficiale di polizia giudiziaria o del personale della Direzione investigativa antimafia per formulare materialmente la richiesta. Infine, un analogo potere di accesso spetta al presidente del Consiglio dei Ministri. L’oggetto e lo scopo della richiesta sono legislativamente predeterminati. Quanto al primo vengono qui in gioco non solo le copie degli atti di un procedimento ma, pure le informazioni scritte sul loro contenuto. Quanto al secondo, bisogna distinguere tra le due disposizioni. La richiesta del pm deve essere finalizzata necessariamente al compimento delle proprie indagini. L’espressa clausola di salvezza a quanto dispone l’art. 371 delimita, poi, sensibilmente la portata dell’art. 117, che svolge, per certi versi, una funzione residuale. Il legislatore ha accordato preferenza allo strumento dell’art. 371, in quanto esso dà vita ad un rapporto più incisivo tra i diversi uffici del pm. La circolazione di copie e di informazioni troverà, pertanto, spazio quando manchino i presupporti del coordinamento informativo ed investigativo, ovvero vi sia dissenso tra gli uffici del pm sulla gestione delle indagini, a meno che si tratti di procedimenti per reati di criminalità organizzata o delitti contro l’ambiente o quando le indagini non risultino collegate. Un’ulteriore penetrazione nella sfera del segreto investigativo proviene poi dal potere conferito al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e ai funzionari delegati dal direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. I due soggetti in parola possono accedere al registro delle notizie di reato tenuto presso ogni procura della Repubblica nonché, per quanto concerne il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, pure ai registri delle misure di prevenzione e alle banche di dati logiche dedicate alle procure distrettuali e realizzate nell’ambito della banca di dati condivisa della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Vediamo alcuni poteri accreditati alle parti e alcune modalità di esercizio di altri poteri non necessariamente propri delle parti. L’art. 121 si occupa del c.d. ius postulandi delle parti: esse ed i loro difensori usufruiscono del potere di presentare memorie o richieste scritte al giudice in ogni stato e grado del procedimento, pertanto, pure al giudice per le indagini preliminari durante la relativa fase. Dalla lettera della disposizione restano estranee la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa, ma la lacuna è colmata dalle formule estensive contenute. Guardando al rispettivo scopo, le richieste sollecitano l’iniziativa o l’adozione da parte del giudice di un determinato provvedimento; le memorie mirano, invece, a sostenere o a fornire un ulteriore apporto alle ragioni della parte, sui profili tanto di diritto quanto di fatto, donde il loro più o meno sviluppato, contenuto argomentativo. Avuto riguardo alle sole richieste si impone al giudice di provvedere entro il termine massimo di 15 giorni con una previsione generale di elevato significato sistematico ancorchè tale termine abbia natura meramente ordinatoria. Naturalmente, l’obbligo scatta solo in dipendenza di una richiesta ritualmente formulata. Anche la normativa dettata per il rilascio della procura speciale al compimento di determinati atti, definiti personalissimi, rivela l’impegno sistematico del legislatore. Le garanzie di legalità vengono realizzate tramite strumenti diversi. L’intervento del testimone ad atti del procedimento (c.d. testimonianza impropria/ad acuta) si giustifica, anzitutto, per assicurare la regolare effettuazione dell’atto e precostituire, a tal fine, una fonte di prova personale distinta ed aggiuntiva rispetto al relativo verbale perché proveniente da chi ha assistito alle operazioni. Si tenga presente come il codice espliciti che sono oggetto di prova pure i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali e collochi il testimone ad atti del procedimento tra coloro che sottoscrivono il verbale. Ciò spiega perché l’art. 120 si preoccupi di enunciare tassativamente le cause di incapacità, distinguendole tra naturali e giuridiche (c.d. morali). Non possono così intervenire come testimoni, da un canto, i minori di anni 14, le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope; dall’altro, le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione. A sua volta, la collocazione della norma all’interno della disciplina generale sugli atti può intendersi quale riconoscimento delle ulteriori funzioni svolte dai testimoni strumentali, qualificabili in termini di assistenza o di rappresentanza a favore di soggetti comunque implicati nel procedimento. Richiami espresso dall’art. 120 si trovano, infatti, a proposito dell’attività di assistenza prevista dall’art. 245 c.1 in tema di ispezione personale e dall’art. 249 c1 in tema di perquisizione personale ecc. Ciò però non è irrilevante dal punto di vista della mancata assistenza o rappresentanza: se l’imputato o le altre parti private non sono state avvisate della facoltà loro accordata o ne è stato loro precluso l’esercizio, si verifica una nullità a regime intermedio; se, invece, le stesse ipotesi si concretano nei riguardi un altro soggetto, si resta nell’ambito della mera irregolarità. Pure l’obbligo posto dall’art. 124 mira a tutelare il valore della legalità nel procedimento che ormai ritrova il suo fondamento costituzionale nell’art. 111 c.1 Cost, là dove prescrive che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. il principio costituzionale della legalità processuale demanda alla sola legge ordinaria il compito di disciplinare in modo analitico il processo penale. Da qui l’esigenza che la disciplina processuale sia oggetto di stretta interpretazione: resta bandito, quindi, il ricorso all’integrazione analogica, quanto meno ogni volta si producano effetti in malam partem. Dal canto suo, l’art. 124 adempie un’importante funzione di chiusura, ineludibile all’interno di un sistema che accoglie il principio di tassatività delle nullità. Quanto alle forme dei provvedimenti, la legge impone la massina semplificazione nello svolgimento del processo con l’eliminazione di ogni atto o attività non essenziale, ma una simile aspirazione non poteva spingersi troppo innanzi. Esiste, come è ben noto, uno stretto legame tra forma degli atti ed esigenza di limitare i poteri dei soggetti del processo tramite la legge. In via di prima approssimazione parrebbe doversi dire che il codice contrappone gli atti compiuti nel procedimento, inteso come fase delle indagini preliminari a quelli posti in essere nel contesto del processo. I primi sarebbero caratterizzati da forme libere, nelle quali cioè, non è descritto analiticamente il modo di procedere ma prevale la tensione al raggiungimento dello scopo. I secondi si atteggerebbero sulla base di forme vincolate in quanto non ammettono equivalenti. Benchè pure all’interno del codice non manchino atti a forma libera, nel sistema predominano gli atti a forma vincolata. Il legislatore non fornisce una disciplina unitaria della forma intesa come struttura tipica. Un simile disegno è coltivato solo per quegli atti del giudice che si traducono in provvedimenti perché compiuti da un organo dello stato nell’esercizio di un potere che sono la sentenza, l’ordinanza e il decreto. Le sentenze, quali tipici provvedimenti decisori, si caratterizzano per l’idoneità a chiudere non solo uno stato o un grado del procedimento, ma potenzialmente ad esaurire l’intera regiudicanda, sicchè quale massima espressione dell’attività giurisdizionale, sono pronunciate in nome del popolo italiano. Numerose sono le classificazioni proposte in tema di sentenze e di provvedimenti ad esse equiparabili. Guardando al contenuto decisorio, fondamentale è la contrapposizione tra sentenze di condanna e sentenze di proscioglimento. Le prime sono considerate come uno degli esiti tipici del dibattimento, ma sentenze di condanna sono pronunciabili anche al termine del giudizio abbreviato. Le sentenze di proscioglimento, pronunciabili immediatamente in ogni stato grado del processo, costituiscono una categoria assai ampia che include, anzitutto, le sentenze di assoluzione pronunciate all’esito del dibattimento con le formule per cui: il fatto non sussiste, l’imputato non l’ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione. Con ciò il giudice si limita a dichiarare l’infondatezza dell’accusa elevata contro l’imputato che è il tema del processo. Le sentenze di assoluzione, allorchè diventano irrevocabili acquistano l’autorità di cosa giudicata. Dalle sentenze di assoluzione si distinguono tutte le altre sentenze di proscioglimento, in quanto non fornite della particolare efficacia sopra accennata. Cadono sotto l’attenzione le sentenze di non luogo a procedere, pronunciate, al termine dell’udienza preliminare. Esse quando non sono più soggette ad impugnazione, acquistano forza esecutiva, ma non godono stando all’impostazione formalistica adottata dal legislatore, dell’attributo dell’irrevocabilità potendo, a certe condizioni, essere revocate. Residuano, infine, le sentenze di non doversi procedere emesse nei restanti stati e gradi del procedimento. Qui si collocano le sentenze predibattimentali pronunciate con le formule per cui l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero il reato è estinto. In questa classe, debbono infine, essere annoverate anche le sentenze che riconoscono non doversi procedere per l’esistenza di un segreto di Stato. Trattandosi di sentenze meramente processuali, esse non implicano un completo approfondimento di merito: sicchè pur divenendo irrevocabili, sono sempre prive di efficacia in sede extrapenale. Restano altre figure. Si pensi sentenze c.d. dichiarative in quanto verificano l’esistenza di determinate fattispecie, caratterizzate per la loro natura processuale, ma sfornite della portata liberatoria propria delle sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento. Tali sono ad es le sentenze di annullamento e soprattutto le sentenze che pronunciano sulla giurisdizione e sulla competenza. Queste due ultime non sono per definizione impugnabili e se pronunciate dalla Corte di cassazione, godono della particolare efficacia decretata dall’art. 25. Si pensi ancora alle sentenze c.d. costitutive in quanto creative di effetti giuridici. Tali sono ad es le sentenze emesse dal tribunale dei minorenni che concedono il perdono giudiziale. A tal punto, un’altra classica distinzione è quella tra sentenze di merito e sentenze processuali, posto che essa è ricavata, in larga misura, dall’efficacia della decisione in sede extrapenale. Le prime risolvono la questione relativa al dovere di punire e, pertanto, a tale categoria si ascrivono le sentenze di condanna e di assoluzione, nonché su un piano diverso, le sentenze che dichiarano l’estinzione del reato. Le sentenze processuali non affrontano tale questione ma sciolgono meri nodi processuali. In una posizione affatto particolare si collocano le sentenze di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto  si è dato vita ad una causa in senso stretto di non punibilità, avente natura soggettiva, intesa a produrre una sorta di depenalizzazione in concreto. L’art. 131-bis cp, atteggiandosi a norma penale più favorevole ai fini dell’art. 2 c.4 cp, può scattare in tutti i procedimenti già in corso ed anche per i reati commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo in parola. Non sono però compitamente esplicitate né le regole processuali, né le sedi in cui le sentenze in discorso possono essere pronunciate. La sentenza in esame presuppone l’accertamento del reato perché si può riconoscere la particolare tenuità solo di ciò di cui si predica l’offensività. In altre parole, essa segue all’accertamento che il fatto è storicamente avvenuto, è stato commesso dall’imputato senza cause di giustificazione ed integra una fattispecie incriminatrice da cui sono estranee cause estintive o altre cause di non punibilità. Se ne ricava che l’applicazione dell’art. 131-bis cp si atteggia come un procedimento pienamente cognitivo. Tutto ciò ha comportato una costruzione affatto particolare degli effetti della sentenza che dichiara la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Risolvendo le c.d. questioni incidentali, le ordinanze governano l’andamento del processo, pur essendovene alcune in grado altresì di concluderlo, come quelle che dichiarano l’inammissibilità dell’impugnazione. Di regola, le ordinanze sono revocabili, come espressamente sancito, ad esempio, per quelle applicative di una misura cautelare personale. I decreti esprimono un comando dell’autorità procedente, assumendo, pertanto natura prevalentemente amministrativa, il che spiega perché possano essere emessi anche dal pm. La scelta circa l’adozione di un provvedimento con una data forma, rispetto ad un altro con forma diversa, è frutto di una opzione demandata al legislatore (c.d. criterio nominalistico). I decreti, a differenza delle sentenze e delle ordinanze, non abbisognano, se non è diversamente disposto, di motivazione. Essa si sostanzia nell’esposizione concisa delle ragioni di fatto e di diritto (apparato giustificativo) che stanno a fondamento del dispositivo del provvedimento, vale a dire del comando dell’autorità giudiziaria. Al tempo stesso, è comminata in linea generale la nullità relativa per la mancanza di motivazione delle sentenze, nelle ordinanze e, ove prescritta nei decreti. Secondo la giuri prevalente, la motivazione per relationem, non è causa di nullità tutte le volte in cui il secondo, se non trascritto o non materialmente allegato, sia conosciuto o facilmente conoscibile dalla parte ad es per effetto del deposito in cancelleria. Nulle impedisce, però, di irrigidire l’obbligo motivazionale espressamente mettendo fuori gioco la tecnica del copia-incolla  es si impone a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, al giudice, di operare nell’apparato motivazione dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale, un’autonoma valutazione, soprattutto rispetto alla richiesta del pm. Il legislatore non ha fatto altro che esplicare qui una regola già desumibile dal sistema e pur fatta osservare nella maggior parte dei casi, dalla corte di cassazione: lo scopo è consistito, dunque, nel voler definitivamente sradicare prassi lassiste. La giuri ammette poi l’uso di moduli prestampati purchè essi siano adeguatamente completati tramite argomentazioni che specifichino le ragioni concrete della decisione adottata. Rispetto alla correzione, assume una più spiccata autonomia la rettificazione della sentenza impugnata a cui provvede la corte di cassazione. Per le sentenze applicative della pena su richiesta delle parti, ove tocchi rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento. Si è voluto ulteriormente deflazionare il ricorso per cassazione avverso le sentenze rese all’esito del rito speciale, già compromesso con l’art. 448. La circostanza che la norma non prenda in considerazione altri errori materiali e non si occupi delle omissione, induce a chiedersi quale sia oggi la sorte di tali ipotesi. In virtù dei consueti canoni interpretativi ispirati al principio di specialità e di legalità processuale, per alcuni interpreti simili errori materiali non sarebbero più emendabili con la procedura dell’autocorrezione. Ma vi è da credere che la cassazione non accoglierà questa soluzione, ma avvallerà quella che meglio su coniuga con la linea di fondo dell’intera riforma: codificare gli orientamenti giurisprudenziali che alleggeriscono la mole dei ricorsi che gravano sul giudice di legittimità. In caso di impugnazione, la correzione di quegli stessi errori materiali è demandata alla cassazione. I poteri coercitivi del giudice assumono natura tipicamente amministrativa (c.d. polizia processuale). La norma non impone perciò l’osservanza di particolari formalità. Tuttavia, il giudice deve avvalersi della polizia giudiziaria e, solo se quest’ultima non sia in grado di provvedere, ricorre alla forza pubblica. Tra gli atti che sono manifestazione del potere coercitivo, si colloca in una posizione particolare l’accompagnamento coattivo. Muovendo dall’assunto che l’istituto in discorso si risolve in una restrizione della libertà personale resa necessaria dall’indispensabile acquisizione di un contributo probatorio, la relativa disciplina non poteva trovar posto tra le misure coercitive personali, perché oggetto di una rigida predeterminazione finalistica, quella cautelare. Pertanto, l’accompagnamento coattivo è stato collocato da un lato, tra i provvedimenti del giudice, e dall’altro tra le attività espletabili dal pm. L’accompagnamento coattivo può essere adottato anche per reati di minima entità per i quali non è consentita l’emissione di una misura coercitiva personale. L’art. 132, dedicato all’accompagnamento coattivo dell’imputato, si limita a dettare il relativo procedimento, rinviando per il resto ai casi previsti dalla legge. Una simile tecnica normativa appare frutto della maturata consapevolezza che l’individuazione dei diversi casi avrebbe dato luogo a diverse difficoltà di coordinamento in questa sede. Al di là dell’ipotesi in cui l’accompagnamento è disposto dal pm, ancorchè a seguito di un’autorizzazione del giudice, per procedere ad atti di interrogatorio o confronto, i relativi casi sono enucleabili solo mediante un’analisi parcellizzata. In sintesi, può dirsi che l’accompagnamento coattivo dovrebbe essere preceduto, a seconda dei casi, da un avviso notificato o da un decreto di citazione rimasti senza effetto; può essere disposto in sede di incidente probatorio o nel dibattimento. Suoi destinatari sono la persona sottoposta alle indagini, l’imputato e gli imputati in un procedimento connesso; suo scopo l’assunzione di prove diverse dall’esame, eccezion fatta per l’esame di persona imputata in un procedimento connesso. Il decreto motivato di accompagnamento assume un’efficacia temporale predeterminata al fine di evitare che divenga una sorta di criptocustodia cautelare. Non solo non è consentito protrarre la messa a disposizione davanti al giudice oltre il compimento dell’atto previsto e di quelli conseguenziali, ma se ne è stabilita la durata massima parti a 24h. Testimoni, periti, persone sottoposte all’esame del perito diverse dall’imputato, consulenti tecnici, interpreti e custodi di cose sequestrare, sono passibili di accompagnamento solo se regolarmente citati o convocati, omettano di comparire nel luogo e nel tempo stabiliti senza addurre un legittimo impedimento. La documentazione può definirsi come l’attività attraverso cui un atto viene inserito e conservato nella sequenza procedimentale, affinchè giudice e parti possano controllarne la regolarità ed averne memoria ai fini delle decisioni che si dovranno adottare in primo grado e nei giudizi di impugnazione. Tale espressione è usata per antonomasia per quegli atti la cui esternazione si realizza mediante dichiarazioni verbali e per quelli consistenti in operazioni. Solo in tali casi, infatti, assume autonoma rilevanza, rispetto all’attività volta a confezionare l’atto, l’attività intesa a documentarne l’avvenuta confezione. Il senso della linea distintiva si avverte giù sul piano soggettivo considerando come l’autore della documentazione. Ancor meglio, la distinzione si coglie sul piano oggettivo. L’attività di documentazione produce come risultato un documento avente natura rappresentativa di un’entità distinta dalla propria materialità. Vi sono tecniche documentative diverse dalla redazione del verbale con caratteri comuni. Il c.d. verbale manuale non solo non è mai in grado di fornire in completo risultato rappresentativo, ma è suscettibile di nuocere alle accelerate cadenze e quindi al serrato dialogo reclamati dalla tecnica adottata per l’assunzione della prova orale. Da qui trae origine il disegno codicistico di innalzare il livello qualitativo della documentazione. L’art. 134, dedicato alle singole modalità di documentazione enuncia il principio generale per cui la documentazione degli atti del giudice si effettua mediante verbale. Esso si caratterizza per dar vita ad una narrazione di quanto avviene al cospetto del verbalizzante, redatta contestualmente al compimento dell’atto. La formula esclude, anzitutto, che per tali atti valga quella modalità documentativa che si sostanzia nella semplice annotazione: essa è praticabile solo per gli atti del pm o della polizia giudiziaria. Risulta ridimensionata la funzione del verbale, cui il codice assegna il compito di fornire non già una fonte di prova, ma solo una funzione rappresentativa e conservativa degli atti che si compiono nel procedimento. Il verbale redatto in forma riassuntiva si affianca a quello redatto in forma integrale. A parte alcune fattispecie del tutto particolari, per le quasi si esige la riproduzione integrale dell’atto, la scelta tra le due forme è rimessa, di regola, al giudice. Peraltro, la scelta del giudice è indirizzata dal legislatore verso la forma riassuntiva quando gli atti da verbalizzare hanno contenuto semplice o limitata rilevanza ovvero quando si verifica una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici. Niente è detto circa l’inosservanza delle disposizioni dettate in ordine alla forma documentativa prescritta, sicchè di deve escludere che ne derivi una qualche invalidità, salvo quanto prescritto dall’art. 141-bis. Nell’elencare i mezzi di documentazione il codice pone sullo stesso piano la stenotipia o altro strumento meccanico e, in posizione subordinata, perché adottabile solo se sia impossibile il ricorso agli altri mezzi, la scrittura manuale. Nonostante che la combinazione tra forme e modi sia in astratto variamente costruibile, l’art. 134 c.3 ricollega come regola alla redazione del verbale in forma riassuntiva la riproduzione fonografica. Infine, se le modalità di documentazione già considerate appaiono al giudice insufficienti, può essere aggiunta la riproduzione audiovisiva se assolutamente indispensabile. Il notevole dispendio di risorse che tale riproduzione poteva comportare all’epoca in cui il codice fu emanato. Nell’ambito di una manovra legislativa intesa a rafforzare il ruolo processuale della persona offesa, è stata incrementato l’impiego della riproduzione audiovisiva. Essa è in ogni caso consentita, anche al di là del limite dell’assoluta indispensabilità, per le dichiarazioni resa dalla persona offesa che versi in condizioni di particolare vulnerabilità. Il contenuto del verbale si sostanzia nei normali referenti topografici e cronologici, nonché nella menzione della generalità delle persone intervenute e nell’indicazione delle cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire. Per ciò che concerne il profilo descrittivo, l’ausiliario è tenuto ad indicare quanto ha fatto o constatato, nonché quanto è avvenuto in sua presenza, mentre, per ciò che riguarda il profilo dichiarativo, il pubblico ufficiale non solo deve menzionare le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste, ma deve indicarne in modo analitico tutti quegli elementi che possano influire sulla credibilità delle dichiarazioni stesse, come la loro spontaneità, la dettatura da parte del dichiarante, la consultazione di note scritte. La formalità della sottoscrizione, previa lettura del verbale, sia apposta alla fine di ogni foglio da parte del pubblico ufficiale che l’ha redatto, dal giudice e dalle persone intervenute ancorchè le operazioni non siano esaurite e vengano rinviate ad altro momento. Se taluno degli intervenuti non vuole o non è in grado di sottoscrivere, né è fatta menzione nel verbale indicandone i motivi. I nastri impressi con i caratteri della stenotipia sono trascritti in caratteri comuni non oltre il giorno successivo a quello in cui sono stati formati, ma la prescrizione risulta tecnologicamente tardiva, stante la possibilità di procedere ormai ad una trascrizione simultanea mediante computer. Il termine, non perentorio, è derogato da un’espressa clausola di salvezza per il verbale del dibattimento, che deve essere trascritto non oltre tre giorni dalla sua formazione. Effettuate da personale tecnico anche estraneo all’amministrazione dello Stato ma sempre sotto la direzione dell’ausiliario del giudice, le riproduzioni fonografiche a audiovisive sono in seguito trascritte, senza limiti di tempo, a cura del personale tecnico giudiziario. La mancata fissazione di un termine per la trascrizione deve essere posta in rapporto alla previsione per cui, se le parti vi consentono, il giudice può disporne l’omissione. Si vuole realizzare una consistente economia ogniqualvolta le parti non abbiano interesse alla trascrizione. Le registrazioni fonografiche o audiovisive e le relative trascrizioni sono poi accluse al fascicolo del procedimento. Tutte le volte in cui è effettuata la riproduzione fonografica, nel verbale è indicato il momento di inizio o di cessazione delle operazioni di riproduzione. Essendo la norma riferibile al solo verbale redatto in forma riassuntiva, vi è da chiedersi se tali indicazioni si risolvano davvero nel contenuto minimo del verbale in discorso. In forza dell’art. 139 c.3, se una parte della riproduzione, per qualsiasi causa, non abbia avuto esito o non sia chiaramente intelligibile, prova il verbale redatto in forma riassuntiva. L’art. 140 recante “modalità di documentazione in casi particolari”, dimostra come lo stesso legislatore si sia fatto carico dello stato dell’apparato giudiziario, specie nei primi tempi successivi all’entrata in vigore del codice. Si introduce, di conseguenza, una documentazione che, quanto alla forma, è riportabile al verbale riassuntivo, ma quanto ai modi, ne diverge, risolvendosi nella sola redazione manuale e contestuale, e perciò necessariamente sintetica del verbale. I presupposti si risolvono nel contenuto semplice dell’atto, nella sua limitata rilevanza o in una situazione di contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici. Se è redatto solo il verbale in forma riassuntiva, al giudice spetta uno specifico obbligo di vigilare affinchè sia riprodotta nell’originaria genuina espressione, la parte essenziale delle dichiarazioni, e siano descritte le circostanze nelle quali esse sono rese. La collocazione della disposizione dimostra che il potere di vigilanza in discorso si riferisce solo alla species del verbale riassuntivo. Le cause di nullità del verbale sono ridotte dall’art. 142 all’incertezza assoluta sulle persone intervenute e alla mancata sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale che ha redatto il verbale. Di recente, le Sezioni unite hanno precisato che per integrare l’incertezza assoluta in ordine alle persone intervenute è necessario che l’identità del soggetto partecipante non solo non sia documentata nella parte del verbale specificamente destinata a tale attestazione, ma neppure sia desumibile da altri dati contenuti nello stesso, né da altri atti processuali ivi richiamati o ad esso comunque riconducibili. Vediamo la disciplina della documentazione dell’interrogatorio, svolto fuori udienza, di chi sia in stato di detenzione, stabilendo che tale atto debba essere documentato integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva. Tre sono le condizioni perché scatti la disciplina speciale. Anzitutto, il riferimento all’interrogatorio include varie ipotesi: sia l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini o, meno di frequente, dell’imputato, sia quello dell’imputato in un procedimento per reato connesso o collegato a quello per cui si procede ex art. 371 c.2 l. b). Stante il limite semantico, la norma non opera per le dichiarazioni introdotte a diverso titolo. La seconda condizione è che l’interrogatorio deve essere a qualsiasi titolo, in stato di detenzione. Infine la norma non vale per gli interrogatori assunti nel contesto spaziale e temporale dell’udienza. Ove si voglia sottrarre l’art. 141-bis ad una patente censura di illegittimità per disparità di trattamento rispetto all’identico uso dibattimentale nei due casi, è giocoforza intenderlo come una previsione volta a rafforzare la determinazione della persona sottoposta ad interrogatorio ad avvalersi della facoltà di non rispondere in situazioni in cui il suo esercizio potrebbe essere esposto a sollecitazioni allorquando il difensore non sia presente. Sussistendo gli indicati presupposti, nasce il vincolo a disporre la riproduzione fonografica o audiovisiva integrale, laddove l’aggettivo significa “per intero e senza interruzioni”. La trascrizione non è obbligatoria ma avviene solo su richiesta della parte, tuttavia, la mancata indicazione di limiti temporali profila diseconomie quando l’esigenza sia fatta valere in dibattimento. Riuscendo incomprensibile perché il giudice non possa disporre la trascrizione, si deve ipotizzare che essa rientri nei suoi poteri ufficiosi. Il contenzioso giudiziario si è sviluppato attorno alla previsione di inutilizzabilità per la mancata documentazione integrale, poiché l’attività diretta a documentare l’atto funge qui da condizione di cautele messe in opera sono finalizzate ad evitare che il volto delle persone appena rammentate sia visibile. Nella disciplina dell'esame a distanza si distinguono ipotesi in cui la relativa adozione rimane discrezionale da altri in cui essa si atteggia come obbligatoria. Ad esempio dove volgimento dell'esame a distanza scatta a seguito di una determinazione che il giudice può assumere si d'ufficio ma solo dopo aver sentito le parti. Pure nella dimensione della discrezionalità si collocano le ipotesi di cui al c. 5 art. 147-bis. Qui l'adozione dell'impiegò della telematica non mira a garantire l'incolumità del dichiarante ma a realizzare un debito amplificazione processuale rimessi ad una richiesta delle parti. L'esame a distanza obbligatorio non può dirsi davvero tale perché comunque fatto salvo il caso in cui il giudice ritenga assolutamente necessaria la presenza della persona da esaminare. La formula va riferita essenzialmente alla mancata disponibilità o al cattivo funzionamento momentaneo delle apparecchiature tecniche ma se questa eventualità si verificasse nel corso dell'esame, l'ordinanza a missiva ben potrebbe essere revocata. Tutte le ipotesi sono costruite in chiave soggettiva: si investono persone ammesse ai piani provvisori di protezione ovvero a speciali misure di protezione; scatta per la protezione dei testimoni di giustizia allorché l'esame o l'altro atto istruttorio è disposto nei confronti di persone ammesse al piano provvisorio o al programma definitivo; opera quando devono essere esaminate le persone indicate nell'art. 210 nei cui confronti si proceda sempre per uno dei delitti di stampo mafioso oppure con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine costituzionale. La previsione più che introdurre una sorta di presunzione circa l'esistenza di un'incombente pericolo per l'incolumità delle persone in un discorso tende ad impedire che il coinvolgimento in più processi delle medesime persone possa cagionare rallentamenti nell'istruzione dibattimentale. Profili dei capi dischiude l'ipotesi che “si applica quando nei confronti della persona sottoposta ad esame è stato emesso il provvedimento di cambiamento delle generalità”. Qui vigono due speciali regole: a) il tele esame sarà condotto sotto le precedenti generalità quando si proceda per fatti anteriori al provvedimento che le abbia cambiate; b) dovranno essere disposti a campione ad evitare che il volto della persona sia visibile. Risultano così sensibilmente circoscritte le critiche sollevate alle modalità di svolgimento dell'esame a distanza. La collocazione della regola circa la non visibilità a margine di una sola tra le ipotesi di esame a distanza obbligatorio orienta infatti l'interprete a concludere che negli altri casi la visibilità delle fattezze del dichiarante debba sempre essere assicurata. Da ultimo deve essere rammentata l'ipotesi inserita nella disciplina della partecipazione a distanza come obbligatoria: chi si trovi in stato di detenzione per i reati ex artt. 51c.3-bis e 407 c.2 l. a) n.4 Partecipa a distanza alleanze penali e pure alle udienze civili allorquando debba essere esaminato come testimone. Le modalità di conduzione dell'esame anno sono state perfezionate. Si è tuttavia mantenuta la regola per cui il collegamento audiovisivo si limita a garantire la contestuale visibilità delle persone presenti nel luogo dove la persona sottoposta ad esame si trova, talchè lo standard tecnico è inferiore a quello della partecipazione a distanza. L'esame a distanza si converte in videoconferenza se lasciar andare deve essere assistita da un difensore ma si tratta di ipotesi residuale e rispetto alla partecipazione a distanza dell'imputato detenuto per il quale resta ferma la disciplina più garantista. Le forme del contraddittorio tradizionale sono ripristinate. L'adozione del meccanismo è rimessa ad una valutazione del giudice in termini di indispensabilità tutte le volte in cui si tratti di procedere a ricognizione può alzato che comporti l'osservazione del corpo della persona, la durata dell' accompagnamento coattivo è limitata al tempo necessario al compimento dell'atto. In conclusione, il legislatore negli ultimi anni non solo ampliato le ipotesi di adozione del mezzo telematico, ma si è mosso nella direzione di un più consapevole impiego della telematica. Ne è indice l'introduzione della norma per cui la partecipazione all'udienza dell'imputato detenuto all'estero, sempre che non possa essere trasferito in Italia, si realizza tramite collegamento audiovisivo; inoltre la partecipazione all'udienza di un testimone o di un perito che si trova all'estero può avvenire a distanza ancora una volta secondo le modalità e i presupposto stabiliti da fonti internazionali. Il codice pone la disciplina della traduzione tra gli atti del procedimento. La scelta si giustifica sulla base del rilievo che la traduzione non integra un mezzo di prova ma una semplice mediazione linguistica tra i soggetti del procedimento e che il suo impiego non si esaurisce nell'ambito probatorio. L'espressione interprete è usata per designare sia la persona che riproduce in lingua italiana o in lingua diversa dichiarazioni orali sia la persona che svolge il medesimo compito nei confronti di atti o documenti scritti. La prima novità si coglie nella rubrica dell'art. 143: l'imputato se non conosce la lingua italiana ha diritto ad avvalersi dell'interprete e del traduttore per gli atti fondamentali. La norma distingue nettamente l'attività dell'interpretariato da quella della traduzione. Anzitutto l'imputato ha diritto a farsi assistere dall'interprete gratuitamente ma si ha cura di precisare che l'esito del procedimento non assume al riguardo significato alcuno. Il legislatore ha chiarito che il diritto all'assistenza linguistica investe oltre alla conoscenza del tema del processo da parte dell'imputato, sia il compimento di singoli atti procedimentali o processuali ma anche lo svolgimento delle udienze alle quali egli partecipi. Inoltre si è voluto estendere il diritto all'assistenza dell'interprete ai colloqui con il difensore. Inoltre in ciascuno dei casi in cui a prescindere dalle condizioni economiche dell'interessato si prevede il colloquio assistito a spese dello Stato l'imputato ha diritto ad un colloquio con il difensore. Non di meno, se per fatti o circostanze particolari sono necessari più colloqui per il compimento del medesimo atto l'assistenza gratuita dell'interprete è garantita per più di un colloquio. L'art. 143 c.2 si occupa invece della traduzione con una serie di prescrizioni analitiche indirizzate all'autorità procedente che è chiamata a provvedere d'ufficio. In primo luogo la traduzione deve essere effettuata entro un termine congruo così da consentire l'effettivo esercizio della facoltà difensiva. In secondo luogo l'elenco degli atti è assai esteso sebbene in larga parte esso non faccia che menzionare dei traguardi di garanzia già raggiunti dall'evoluzione giurisprudenziale. La rigidità della formula legislativa non sembrava un tempo consentire né traduzioni meramente orali né quelle pur scritte ma rese in forma riassuntiva. Oggi è previsto che l'autorità giudiziaria, ricorrendo particolari ragioni d'urgenza, se ciò non pregiudica il diritto di difesa Ricorre alla traduzione orale anche in forma riassuntiva con contestuale redazione del verbale. Inoltre l'imputato può rinunciare espressamente alla traduzione scritta a favore di quella orale ma il legislatore precisa che la rinuncia vale solo imputato consapevolezza delle conseguenze che da essa derivano. Simili economie appaiono praticabili anche con riferimento alla traduzione degli atti che siano essenziali per conoscere le accuse a carico dell'imputato. L'accertamento della conoscenza della lingua italiana è compiuto dall'autorità giudiziaria, donde l'esclusione della piazza riacuirsi al PM investito delle indagini: non è contemplata infatti alcuna presunzione di mancata conoscenza della lingua italiana da parte dello straniero. La garanzia deve essere coordinata quelle predisposte per gli appartenenti ad una minoranza linguistica riconosciuta. Al cittadino italiano imputato che non parli o non comprenda la lingua italiana è assicurata una posizione di parità con l'imputato straniero anche si in questo caso abbiamo la funzione relativa di conoscenza della lingua italiana. Premesso che l'interprete e devono essere nominati allorquando il giudice, il PM o l'ufficiale di polizia giudiziaria abbia personale conoscenza della lingua o degli a letto da interpretare, la prestazione delle relativo ufficio assume carattere obbligatorio. L'art. 143-bis c.1 prevede con formula generica che l'autorità procedente può nominare un interprete quando occorre procedere alla traduzione di uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile, oppure ancora quando la persona che vuole o deve fare dichiarazioni non conosca la lingua italiana. Rammenta una persona offesa debba essere informata in una lingua a lei comprensibile, l'autorità procedente nomina un interprete allorquando occorre procedere o all'audizione della persona offesa che non conosca la lingua italiana oppure la stessa intenda partecipare ad un'udienza e abbia richiesto l'assistenza di un interprete. L'art. 107-ter disp att consente di presentare denuncia o proporre querela davanti alla Procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d'appello nella lingua conosciuta dalla persona offesa. Taluni non possono svolgere la funzione di interprete a pena di nullità. All'evidenza il regime dell'invalidità dipende dal soggetto a favore del quale l'interprete opera: si interviene per l'imputato si configura una nullità di ordine generale a regime intermedio essendo violata una disposizione concernente l'assistenza del medesimo. Già da questa opzione si comprende come l'interprete non sia sempre collocabile tra i collaboratori del giudice ma dia vita ad una figura dotata di spiccata autonomia. Nondimeno i requisiti di capacità e le situazioni di incompatibilità dell'interprete sono costruiti sulla falsariga di quelli del perito. Non possono fungere da interprete il minorenne, l'interdetto, l'inabilitato, l'affetto da infermità menatale, l'interdetto anche temporaneamente da uffici pubblici, l'interdetto o il sito da una professione o da un'arte, il sottoposto a misure di sicurezza personali o misure di prevenzione. Incompatibile e poi persona esclusa dalla testimonianza o che goda della facoltà di astenersi, nonché che sia chiamato a prestare ufficio di testimone o di perito ovvero sia stato nominato consulente tecnico nello stesso procedimento o in uno connesso. Secondo le sezioni unite sussiste incompatibilità con l'ufficio di interprete per il soggetto che nell'ambito dello stesso procedimento abbia svolto il compito di trascrivere le registrazioni delle comunicazioni intercettate. L'interprete incapace o incompatibile è ricusabile dalle parti private e per i soli atti compiuti o disposti dal giudice è ricusabile anche dal PM. Se esiste un motivo di ricusazione o gravi ragioni di convenienza per astenersi, l'interprete è tenuto a manifestarlo. Con il provvedimento di nomina l’interprete o il traduttore è citato a comparire tramite notificazione e in situazioni di urgenza anche oralmente a mezzo del quale giudiziario o della polizia giudiziaria. Il conferimento dell' incarico avviene con forme che non contemplano il giuramento ma chi mantengono l'obbligo incondizionato di serbare il segreto benché esso cada con la chiusura delle indagini preliminari. Al fine di snellire la disciplina del conferimento dell'incarico si consente all'autorità procedente, se non ritiene di convocare davanti a sè l'interprete o il traduttore di richiedere al giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza dell'ausiliario di procedere tramite rogatoria agli adempimenti previsti nei commi che precedono relativi al conferimento dell'incarico. Se l'incarico concerne traduzioni scritte che richiedono un lavoro di lunga durata l'autorità procedente è abilitata a prorogare per giusta causa il termine fissato per una sola volta. L'interprete che non ha presentato la traduzione nel termine può essere sostituito e dopo essere stato citato a comparire per discolparsi è passibile di condanna al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende. Nel processo penale gli atti contano in quanto con l'osservanza di determinate forme, siano portati a conoscenza dei soggetti diversi dal loro autore: allo scopo è predisposto l’istituto delle notificazioni. Vi è la necessità di adeguare le notificazioni alle esigenze di celerità, garanzia posizionata soggetti processuali. Per altro verso i progressivi mutamenti della vita sociale e l'evoluzione tecnologica reclamano frequenti aggiustamenti legislativi. In una visione di sintesi, si deve osservare come la tradizionale dicotomia di fondo tra conoscenza legale e conoscenza effettiva risulta oggi fortemente erosa a tutto vantaggio della seconda. Nel disegno di incrementare la conoscenza effettiva si collocano tanto la consegna dell'atto da parte della cancelleria quanto la rinnovazione della notificazione e da ultimo le notificazioni per via telematica. Dal punto di vista strutturale, il procedimento di notificazione è tradizionalmente distinto in tre fasi: l'impulso consistente nell'ordine o nella richiesta di eseguire la notificazione e nella consegna materiale dell'atto all'organo esecutivo; l'esecuzione di cui fanno parte la predisposizione dell'atto da notificare, la ricerca del destinatario e la consegna dell'atto alla persona abilitata a riceverlo; la documentazione dell'attività svolta dall'organo esecutivo. Dovendosi tenere distinte nella prospettiva propria del modello accusatorio le notificazioni disposte dal giudice da quelle richieste dalle parti l'art. 148 disciplina gli organi e le forme relative alle prime. L'ufficiale giudiziario resta l'organo investito in via primaria dell'attività di notifica anche se accanto continua ad essergli collocato “chi ne esercita le funzioni”. Al riguardo è fuori discussione che tra gli organi che esercitano funzioni notificati ve vanno annoverati i messi del giudice di pace. Tra gli organi delle notificazioni trova posto anche la polizia giudiziaria. Nei procedimenti con detenuti in quelli dinanzi al tribunale del riesame in presenza del requisito dell'urgenza, il giudice è infatti abilitato a disporre che le notificazioni siano eseguite tramite gli organi polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti. Nell art. 148 c.2-bis È stata collocata una speciale previsione relativa alle sole notificazioni e agli avvisi ai difensori. Senza alcuni primati a qualche presupposto, l'autorità giudiziaria può disporre che tali notificazioni o tali avvisi siano eseguiti con mezzi tecnici idonei. L'unico vincolo per l'ufficio che invia l'atto consiste nell'attestazione in calce allo stesso di aver trasmesso il testo originale. La differenza più eclatante rispetto alle forme particolari di notificazione di cui all'art. 150 sta pertanto nella necessità di cui un apposito decreto motivato. dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato. Si entro 30 giorni il soggetto non risponde le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Tale forma di notificazione non si accompagna all'emissione del decreto di irreperibilità posto che si ritiene mancante il presupposto di fatto essenziale cioè lo stato di irreperibilità. Se invece il giudice o il PM non abbiano notizie del luogo di residenza all'estero essi non possono emettere il decreto di irreperibilità ma devono prima disporre ricerche sia nel territorio dello Stato sia all'estero. Condizione essenziale per fare luogo alla dichiarazione di irreperibilità è l'impossibilità di eseguire la notificazione secondo le forme dettate per la prima notifica all'imputato non detenuto il quale non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio. Caso in cui la notificazione all'imputato non detenuto non abbia avuto effetto sorge per il giudice o per il PM l'obbligo di disporre nuove ricerche a cui provvede la polizia giudiziaria. Esse investono in via successiva il luogo di nascita, l'ultima residenza anagrafica, l'ultima dimora, il luogo dove il soggetto esercita abitualmente la sua attività lavorativa, non che l'amministrazione carceraria centrale; inoltre l'elenco dei luoghi non ha carattere tassativo. Se le ricerche non hanno dato esito positivo il giudice o il PM emettono l'apposito decreto con il quale, ove l'imputato sia privo di difensore provvedono in ogni caso a designarne uno d'ufficio. A seguito dell'emissione del decreto di irreperibilità, le notificazioni vanno eseguite mediante consegna di copia dell'atto al difensore. L'art. 160 individua una serie di limiti temporali talora non coincidenti con la chiusura della fase in cui il decreto è stato emesso. Così l'irreperibilità dichiarata nel corso delle indagini preliminari perde la sua efficacia con la pronuncia del provvedimento che definisce l'udienza preliminare o se questa manca con la chiusura della fase delle indagini preliminari. A loro volta, il decreto emesso dal giudice per la notificazione degli atti introduttivi dell'udienza preliminare ovvero i decreti relativi alla notificazione del provvedimento che dispone il giudizio cessano di avere efficacia con la pronuncia di primo grado. Infine, l'efficacia del decreto e miserabile di seguito di rinvio cessa con la pronuncia della sentenza. Ad ogni modo, sì fatti limiti possono non esplicare per intero i loro effetti perché il decreto di irreperibilità resta pur sempre atto sottoposto alla clausola rebus sic stantibus in quanto meramente dichiarativo di uno stato preesistente. Simili svolgimenti devono essere considerati della soppressione del processo in contumacia e all'introduzione di uno specifico strumento di controllo sull'assenza dell'imputato dall’udienza preliminare o dal dibattimento. Il testo di legge non menziona lire verità ne apporta alcuna modifica al tenore degli artt. 159 e 160, pur determinando una certa qual compressione operativa. In precedenza, una volta che la rituale notificazione degli avvisi di udienza o della citazione a giudizio fosse avvenuta nelle forme del rito degli irreperibili si verificava il presupposto perché a certe condizioni il giudice, sentite le parti, dichiarasse la contumacia dell'imputato e il processo proseguisse validamente. Ora questo non può più accadere. Rispetto alla condizione dell'imputato irreperibile è riconosciuto che la pur rituale notificazione presso il difensore sottende perlopiù una totale ignoranza dell'esistenza del procedimento da parte del soggetto che vi è sottoposto. Pertanto, solo laddove si riscontri la sussistenza di atti o fatti inseriti nella sequenza procedimentale o in quella processuale che dimostrino invece la consapevolezza dell'esistenza del procedimento, il processo potrà proseguire. Al contrario, se nessun atto o fatto stato compiuto o se non risulta comunque con certezza che l'imputato è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza dello stesso o di qualche atto del medesimo, la previa ritualità della notifica con il rito degli irreperibili non risulterà più efficace ai fini della prosecuzione del processo. A tal punto, il giudice dovrà ordinare che tramite polizia giudiziaria l'avviso di udienza o la citazione a giudizio siano notificati personalmente al l'imputato e in caso di insuccesso disporre la sospensione del processo. Evidente è qui il favore accordato dal legislatore alla notifica personale ossia alla consegna a mani proprie in quanto portatrice del più alto grado di effettività conoscitiva. Per rendere più efficace il risultato conoscitivo cui è preordinato il sistema delle notificazioni, la leale collaborazione da parte del destinatario si pone alla stregua di una condizione imprescindibile. Da qui l'onere di determinare il luogo dove dovranno essergli notificati gli atti mediante un'apposita dichiarazione o elezione di domicilio. Le sezioni unite hanno affermato che per l'imputato detenuto non vale mai la dichiarazione all'elezione di domicilio. Per altro verso entrambi gli atti integrano uno dei parametri che sorreggono l'adozione del procedimento in assenza dell'imputato. Secondo l'insegnamento tradizionale, l'adozione di un figlio consiste in una manifestazione di scienza intesa ad indicare un luogo che può essere solo la propria casa di abitazione o la sede del proprio lavoro; le lezioni di domicilio consiste invece in una manifestazione di volontà che comporta la designazione di un luogo e necessariamente di un destinatario: nella prassi per lo più lo studio professionale del proprio difensore. Nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuti né internati, il giudice, il PM o gli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria li invitano a dichiarare o a eleggere domicilio per le notificazioni. Nel contempo al soggetto è rivolto l'avvertimento che data la sua qualità ha l'obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale comunicazione oppure in caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore. Al di fuori dell'ipotesi del contatto diretto e quindi in ambito residuale, si colloca unito a dichiarare o eleggere domicilio formulato con l'informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell'autorità giudiziaria. All'imputato è altresì dato avvertimento che deve comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in caso di mancanza, insufficienza o inidoneità della dichiarazione o elezione, le successive notificazioni saranno eseguite nel luogo in cui il primo atto è stato notificato essendosi tenuto conto che la procedura già una volta è andata a buon fine. Se la notificazione del domicilio diviene impossibile si provvede mediante consegna al difensore che assume la peste di semplice consegnatario. Lo stesso accade allorché la dichiarazione all'elezione di domicilio manchino la ovvero siano insufficienti o inidonee nei cari previsti dall’art. 161 c. 1 e 2. Ma opera qui una garanzia: valgono le prescrizioni dettate dagli artt. 157 e 159 qualora per caso fortuito o forza maggiore l'imputato non sia stato in grado di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto. Quanto alle forme cui è comunicata domicilio dichiarato o eletto non che ogni sua variazione l'art. 162 appronta un elenco tassativo. Esse consistono in una comunicazione all'autorità che procede con dichiarazione raccolta a verbale, anche dalla cancelleria del tribunale fuori sede ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata muniti di sottoscrizione autenticata. L’elezione, la dichiarazione o il mutamento di domicilio esplicano i loro effetti dal momento nel quale giungono a conoscenza dell'autorità giudiziaria precedente. Ad un'esigenza avverti dalla pratica giudiziaria risponde la norma secondo cui l’elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio effetto alla relativa dichiarazione, l'autorità procedente non riceve l’assenso del difensore domiciliatario Vediamo ora le notificazioni e comunicazione al PM. L'art. 153 ammette le parti e i difensori ad eseguire direttamente la notificazione mediante la semplice consegna di copia dell'atto nella segreteria del PM. Per le comunicazioni è confermata una prassi anti formalistica ormai consolidata equiparando alla consegna della coppia nella relativa segreteria la diretta presa visione dell'atto ad opera del PM, seguita dalla sua sottoscrizione. Le notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, alle responsabile civile e al civilmente obbligato per la pena pecuniaria risultano raggruppate perché nei confronti di tali soggetti valgono in linea generale le forme prescritte per la prima notificazione all'imputato non detenuto. la natura dei poteri conferiti nella fase delle indagini preliminari alla persona offesa ha imposto la creazione di una disciplina analitica e sufficientemente garantista. Allo schema dell’art. 157 sono state introdotte due deroghe: l'una relativa alla tutela della riservatezza mentre l'altra relativa al doppio accesso da parte dell'ufficiale giudiziario cui si aggiunge una previsione ulteriore circa le ipotesi di irreperibilità, nonché di residenza o di dimora all'estero. In tali casi la notificazione si dà per avvenuta con il deposito in cancelleria. Allorché per il numero elevato delle persone offese ovvero per l'impossibilità di identificarne alcune la notificazione riesce difficile, l'art. 155 demanda all'autorità giudiziaria il potere di disporre l'impiego di un meccanismo simile a quello affrontato sotto la rubrica di notificazione per pubblici proclami. ma oltre a disco starsene per il nome la notificazione per pubblici annunzi si caratterizza anche per una minor rigidità di presupposti e per una maggiore agilità di esecuzione. Essa è disposta dall'autorità giudiziaria con decreto dove sono indicati i modi ritenuti opportuni per portare la conoscenza degli interessati. In ogni caso copia dell'atto è depositato nella casa comunale del luogo ove si trova l'autorità procedente e un estratto del medesimo è inserito nella Gazzetta Ufficiale. La notificazione si ha per avvenuta allorquando l'ufficiale giudiziario deposita una copia dell'atto nella segreteria o nella cancelleria dell'autorità procedente sia con la relazione di notifica e i documenti giustificativi. Per quanto riguarda la parte civile, posto che essa deve provvedere a nominare un difensore all'atto della costituzione, le notificazioni sono eseguite presso tale soggetto che cumula pertanto il ruolo di domiciliatario. Per quanto riguarda il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria costituiti vale la medesima e regola. Se costoro invece dopo essere stati citati non hanno provveduto a costituirsi permane l'onere di dichiarare o eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede; diversamente le notificazioni sono eseguite mediante deposito in cancelleria. Nei confronti dei soggetti fino ad ora non considerati come difensori, testimoni, periti ecc viene mantenuta la disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto ma come per la persona offesa non operano le regole dettate per la tutela della riservatezza e per il doppio accesso. Tocca ora considerare un'innovazione tecnologica che introduce, quale forma privilegiata, la possibilità di effettuare notificazioni e comunicazioni per via telematica anche in materia processuale penale. Ciò avviene tramite il ricorso alla pec avente come destinatari difensori, periti, consulenti tecnici e più in generale le persone diverse dall’imputato purché presenti nel registro generale degli indirizzi elettronici. Alla relazione di notificazione l'art. 168 dedica una disciplina al fine di consentire un adeguato controllo sulla regolarità della procedura. Nella relazione, scritta in calce all'originale e alle singole copie notificate l'ufficiale giudiziario indica il richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona a cui è stata consegnata alla coppia e qualora la notificazione non avvenga a mani proprie i rapporti tra destinatario e consegnatario, le funzioni e le mansioni svolte da quest'ultimo, il luogo e la data della consegna; infine appone la propria sottoscrizione al fine di attestare la paternità dell'atto. Neppure la relazione fa fede fino a querela di falso di quanto l'ufficiale attesti di aver fatto o di essere avvenuto in sua presenza: il giudice ne valuta liberamente il contenuto. Allorché si profili un contrasto tra la relazione scritta sulla copia consegnata e quella sull'originale, valgono per ciascun interessato le attestazioni contenute nella copia notificata. Sul terreno dei mezzi rilevano le notificazioni effettuate con l'ausilio degli uffici postali. Una simile notificazione è valida anche se eseguita tramite un ufficio postale diverso da quello a cui inizialmente il piego era stato diretto. Resta fermo che se l'ufficio postale restituisce il piego per irreperibilità del destinatario al l'ufficiale giudiziario spetta provvedere secondo le forme ordinarie. Venendo al regime delle invalidità delle notificazioni, logica vorrebbe che esso segua quello dell'atto da notificarsi: pertanto, non avrebbe significato interrogarsi in astratto sul regime delle nullità. Tanto premesso, alle cause di nullità considerate dall'art. 171 debbono aggiungersi quelle enuclea abili in via generale dall'art. 178 nonché le ipotesi di inesistenza vera e propria l'elenco comprende: a) l'atto notificato in modo incompleto; b) l'incertezza assoluta circa il richiedente o il destinatario; c) il difetto nella relazione della copia notificata della sottoscrizione di chi l'ha eseguita; d) la violazione delle disposizioni circa la persona a cui la copia deve essere consegnata secondo l'ordine prescritto; e) la mancanza dell'avvertimento da parte del giudice o del direttore dell'istituto nei casi previsti dall'art. 161 c.1, 2 e 3; f) dopo il deposito nella casa comunale, l'ho messa affissione sulla porta dell'imputato o la mancata comunicazione prescritta dall'art. 157; g) la mancanza sull'originale dell'atto notificato della sottoscrizione del portiere o di chi ne fa le veci; h) l'inosservanza delle modalità fissate dal giudice nel decreto motivato con cui è stata disposta una forma particolare di notificazione purché l'atto non sia aggiunto a conoscenza del destinatario. La mancata previsione in ordine al l'incertezza assoluta sulla data della notificazione si inserisce nel più generale disegno già ricordato. Si noti tuttavia come nella relazione l'ufficiale giudiziario debba indicare la data della consegna: l'inosservanza di una siffatta prescrizione può dar luogo a responsabilità disciplinare. Componendosi di una sequenza di atti il procedimento si colloca nella dimensione temporale: ne segue che al legislatore è dato instaurare relazioni cronologiche tra i singoli atti. Così un atto non può validamente essere posto in essere prima che se ne realizzi un altro da intendersi come presupposto del primo. Stando ad una definizione corrente agli scopi indicati sono rivolti i termini processuali, in quanto assegnano dei limiti quell'udienza e l'imputato può poi avvalersi dei suoi diritti difensivi. La fattispecie in discorso, per le sue cadenze restitutorie puoi portarsi alla restituzione nel termine. La stessa conclusione vale nel caso in cui l'imputato sia in grado di dimostrare che versava nell'assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento. Una volta che il processo sia concluso, alla logica restitutoria si sostituisce la creazione di un'ulteriore residuale e mezzo straordinario di impugnazione perché esperibile avverso una sentenza ormai passata in giudicato. L'istituto opera nel caso in cui sia stata emessa una sentenza pronunciata all'esito di un processo celebrato in assenza del già imputato. Se il soggetto dimostra che l'assenza è stata causata da un incolpevole mancata conoscenza del processo, La Corte d'appello investita della prova del fatto processuale revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado. Residua il profilo della restituzione nel termine per l'imputato condannato a seguito di decreto penale divenuto esecutivo. Il soggetto, ove non abbia avuto tempestivamente effettiva conoscenza del decreto e restituito a sua richiesta nel termine per proporre opposizione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato. La soluzione si lascia apprezzare laddove fa leva su una mancata conoscenza non solo tempestiva ma anche effettiva, ossia contenente tutti gli elementi perché si potesse proporre valida opposizione. Appare discutibile, invece, la distribuzione dell'onere della prova. Se è vero che per regola spetta all'attore dimostrare i fatti costitutivi del proprio diritto, la norma grava l'imputato di fornire l'ardua prova positiva di un fatto negativo, ossia la mancata conoscenza del decreto penale. Quanto al termine per proporre la richiesta di restituzione nell'ipotesi in discorso, tale richiesta deve essere presentata a pena di decadenza entro 30 giorni dal momento in cui l'imputato ha acquisito effettiva conoscenza del provvedimento. Se la domanda di restituzione è inoltrata a mezzo posta, c'è da chiedersi se conti la data di spedizione o quella di ricezione. Una recente sentenza delle sezioni unite della Suprema Corte ha preso posizione per la tesi più liberale: ai fini di valutare la tempestività, bisogna guardare alla data di spedizione. La restituzione nel termine non può essere questa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado. Non sorgono particolari difficoltà applicative in ordine all'organo competente a pronunciarsi sulla richiesta di restituzione, dato che per la fase anteriore all'esercizio dell'azione penale è esplicito il riferimento al giudice per le indagini preliminari. Esercitata l'azione penale, decide il giudice procedente ovvero se è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice che sarebbe competente sulla impugnazione od opposizione del decreto penale. Quanto alle forme del rito, le sezioni unite hanno conferito al giudice il potere di effettuare una deliberazione de plano. Deve applicarsi però il procedimento camerale ogni qualvolta la richiesta di restituzione nel termine si inserisce in un procedimento principale in corso di svolgimento con rito camerale. L'ordinanza che concede la regione termine è inoppugnabile salvo quella per proporre impugnazione o opposizione. Accolta la richiesta il termine ricomincia a decorrere nella sua misura originaria. La disciplina degli effetti della restituzione nel termine si ispira ad un disegno di economia processuale, non comportando regressioni del rito, gli atti su richiesta di parte sono rinnovati dal giudice che ha concesso la restituzione, sempre che ciò sia possibile e sempre che si tratti di atti ai quali la parte avesse diritto di assistere. Per costruire la nozione di invalidità è indispensabile prendere le mosse da quella di fattispecie, intesa come il complesso degli elementi necessari e sufficienti al prodursi di un determinato effetto giuridico. A differenza del processo civile dove vige il principio della libertà delle forme, nel processo penale gli atti sono in stragrande maggioranza a forma vincolata. Impostata così la questione, perfezione dell'atto e sua efficacia si implicano reciprocamente. In linea di principio mancanza Angela ti spetta non dovrebbe consentire la produzione dei relativi effetti. Tuttavia l'ordinamento non decretali dita e quindi li inefficacia di ogni difformità ben potendo ritenere lunedì esecutivi rilevanti. In questo caso si resta al di fuori del sistema dell'invalidità delineandosi una mera irregolarità. Ma l'atto, anche nelle ipotesi in cui le difformità siano giuridicamente rilevanti, sì che lo stesso si configuri come invalido quasi mai può dirsi del tutto inefficace. Giocano al riguardo pochi anni di economia e di speditezza processuale che inducono il legislatore ad avvalersi del c.d. principio di conservazione fatti imperfetti. L'atto diviene così Tonio a produrre effetti anche se questi ultimi assumono carattere precario, in attesa di trovare uno dei seguenti sbocchi: o la sanatoria del vizio o la declaratoria di invalidità dell'atto. La prima dà vita ad un'altra pece equivalente dal punto di vista degli effetti a quella viziata ma integrata da uno o più fatti ulteriori ai quali si attribuisce il nome di cause di sanatoria. Invece, la frattura nelle qui entra in perfezione ed inefficacia viene ricomposta tutte le volte in cui l'invalidità è dichiarata dal giudice: in tal caso infatti l'attività del giudice avente natura costitutiva provoca ex tunc l'eliminazione degli effetti dell'atto. L'adozione di un modello di stampo accusatorio comporta la creazione di adeguati meccanismi sanzionatori aventi una funzione di supporto rispetto all'osservanza delle forme e tali da assicurare al tempo stesso l'effettività delle regole sull'ammissione, acquisizione e valutazione della prova. Il titolo VII si è limitato a disciplinare una sola specie di invalidità, la nullità, salvo un unico riferimento alla inammissibilità. La ragione della mancata inclusione di quest'ultima figura può addebitarsi al fatto che essa riguardi gli atti di parte o di chi si fa parte, come il giudice che sollevi un conflitto competenza, provando il suo terreno elettivo negli atti introduttivi dei procedimenti incidentali e in materia di impugnazioni. La disciplina di tale specie di invalidità continuando a non trovare nel codice un momento unitario non vede enunciato nei suoi confronti un principio di tassatività. Non di meno si ritiene solitamente che il principio in discorso sia estensibile al l'inammissibilità giacchè nei casi in cui essa è menzionata senza indicarne la causa questa va rintracciata con riferimento a tutte le condizioni della domanda richieste dalla legge. La tipologia dei requisiti la cui assenza produce l'inammissibilità è alquanto disperata. Oltre ai casi in cui l'invalidità discende dal compimento dell'atto nonostante la scadenza del relativo termine perentorio, si pensi alla presentazione delle liste testimoniali oh la forma della domanda ecc. Quanto al trattamento, l'inammissibilità, oggetto di autonomo motivo di ricorso per Cassazione e dichiarabile d'ufficio in ogni Stato e grado del procedimento senza altra causa di sanatoria se non quella del giudicato a meno che non siano espressamente previste limiti temporali alla sua rilevazione. Come hanno di recente fatto osservare le sezioni unite della Corte di Cassazione la pronuncia di inammissibilità ha natura dichiarativa perché investe un vizio genetico della sto. Pertanto, riscontrato il vizio al giudice non è consentito entrare nel merito della domanda. Nemmeno l'inutilizzabilità è inclusa nella disciplina del libro II. La sua mancata considerazione accanto alla nullità non può essere certo rapportata alla circostanza formale che si tratti di sanzione che concerne non tutti gli atti del procedimento ma unicamente quelli probatori. A dire il vero l'inutilizzabilità può investire non solo le prove in senso proprio ma anche gli atti delle indagini preliminari. Quel che rende arduo costruire una teoria unitaria dell’inutilizzabilità è la varietà delle ipotesi riconducibili a questa figura. Talora essa è richiamata con riferimento alla sanzione che consegue all'impiego dibattimentale di un atto delle indagini preliminari in chiave probatoria talvolta con riferimento a casi di difformità rispetto ai criteri di ammissione oppure di assunzione della prova. Tutto ciò contribuisce a spiegare perché non sia stato enunciato nei confronti di questa specie di invalidità il principio di tassatività. Non di meno, da parte di molti si ritiene che le ipotesi di inutilizzabilità integrino un numero chiuso anche rispetto alla fase dibattimentale posto che la regola fissata dall'art. 526 vale per tutte e sole le violazioni relative al procedimento di ammissione o assunzione della prova nella stessa fase dibattimentale. Circa il modo di operare sul piano soggettivo, va evidenziato come l'inutilizzabilità sia perlopiù di natura assoluta, perché proveniente da un vero e proprio divieto di ammissione o di acquisizione valido nei confronti di chiunque mentre solo talora assume natura relativa in quanto riferita a determinate categorie di soggetti. Di recente le sezioni unite hanno ritenuto che la sanzione dell’inutilizzabilità operi anche nel procedimento volto ad ottenere la riparazione per ingiusta detenzione. Di conseguenza l'inutilizzabilità della prova dichiarata nel procedimento di cognizione comporta il divieto di trarre dalla stessa elementi dai quali desumere il dolo o la colpa grave che possano impedire il riconoscimento al prosciolto dell'equa riparazione. L'art. 191 c.2 sancisce la rilevabilità in ogni Stato e grado del procedimento anche d'ufficio della inutilizzabilità ma la regola ed erogata dalla norma per cui la richiesta di giudizio abbreviato comporta la non rilevabilità delle inutilizzabilità, Salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio. Delicate interferenze si profilano con il regime della nullità laddove quest'ultima al pari dell’inutilizzabilità, risulta ricollegata a talune violazioni del procedimento di assunzione della prova. Premesso che la scelta tra l'una e l'altra specie di invalidità appare talvolta del tutto casuale non è da escludere l'eventualità che un atto probatorio risulti in concreto pluri sanzionato per la concorrenza di vizi previsti a pena di inutilizzabilità e di nullità. Le disposizioni in tema di nullità sono dominate dal principio di tassatività. L'art. 177 riferisce il principio all'inosservanza non già delle forme prescritte per gli atti processuali bensì a quella delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento compresa quelle relative alla fase delle indagini preliminari. Dal principio di tassatività discende una serie di corollari. All'interprete non è consentito ricorrere all'integrazione analogica facendo leva sulle disposizioni che creano ipotesi di nullità né una volta accertata la causa di nullità, valutare se sussista un conseguente pregiudizio effettivo. Nondimeno, le implicazioni scaturenti dal canone della durata ragionevole del processo, la sempre più pressante istanza verso la semplificazione del rito, l'elaborazione del principio di offensività processuale nonché la lettura del criterio della lesività effettiva rispetto alle violazioni del diritto di difesa, hanno indotto le sezioni unite ad affermare la necessità che sussista un pregiudizio concreto dell'interesse protetto dalla norma processuale violata. Ma la maggior parte della dottrina ha preso le distanze da un indirizzo che in ultima analisi affida alla discrezionalità del giudice l'integrazione dell'invalidità. Nella stessa prospettiva antiformalistica si sono collocate le sezioni unite quando hanno affrontato il delicato tema dell'abuso del processo inteso come l'impiego pretestuoso e pregiudizievole sebbene formalmente legittimo dei poteri assegnati dalla legge alle parti. Nel caso di specie, mediante il reiterato avvicendamento dei difensori al di fuori di ogni reale esigenza, si era cercato di dilatare i tempi del dibattimento. Ebbene, si è affermato in termini generali che l'abuso del processo si risolve in un vizio per sviamento delle funzioni del processo, ovvero in una frode alla funzione medesima che si realizza allorché un diritto o una facoltà processuali sono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale li riconosce all'imputato. Dato che le nullità formano un sistema chiuso ne discende che al di fuori delle ipotesi così esplicitamente definite o implicitamente definibili non vi sono spazi residui per questa specie di invalidità. Tra le nullità non sono inquadrabili gli errores in iudicando, vale a dire quei vizi dei provvedimenti del giudice che investono la legge sostanziale. Nondimeno, secondo l'opinione più accreditata, anche gli errores in iudicando, dati i tempi e i modi in cui sono fatti valere, la loro sanabilità e soprattutto la natura degli effetti conseguenti alla loro declaratoria entrano a far parte della teoria dell'invalidità. Le restanti difformità dallo schema tipico non possono che essere riportate alla tipologia della mera irregolarità produttiva tuttalpiù di conseguenze di natura disciplinare o ricavabili da altri rami dell'ordinamento, a meno che non debbano ricondursi in via interpretativa alla specie più grave di invalidità ossia l'inesistenza giuridica. Il ricorso a quest'ultima figura continua a prospettarsi come il frutto di un'operazione interpretativa. L'inesistenza pertanto non dovrebbe mai essere diagnosticata quando il vizio ricada già in una specie di invalidità disciplinata dal codice. Essa genera un vizio rilevabile non solo in ogni Stato e grado del procedimento ma anche oltre mediante una semplice azione di accertamento in quanto la gravità del vizio è tale da impedire la formazione del giudicato. Su un piano concettuale distinto dall'inesistenza si colloca l'abnormità dei provvedimenti del giudice. Qui l'atto è idoneo ad integrare lo schema normativo minimo benché si caratterizzi per il suo contenuto del tutto estemporaneo, vuoi sul piano strutturale puoi su quello funzionale: valga l'esempio relativo ad un provvedimento del giudice per le indagini preliminari che rigettando la richiesta di archiviazione ordini al PM di formulare l'imputazione per un reato diverso da quello oggetto della richiesta. Ma analoga e l'esigenza pratica sottostante alle rispettive elaborazioni giurisprudenziali: l'inesistenza pone rimedio alla tassatività delle cause di nullità, l'abnormità alla tassatività oggettiva delle impugnazioni. Non contrasta con il principio di tassatività il fatto che talune nullità, in luogo di essere di volta in volta stabilite, siano ricavabili da una disposizione generale che rinvia ad una serie di fattispecie altrove disciplinate. L'art. 178 e dedicato alle nullità di ordine generale. In tale classe figura l'inosservanza di una serie di disposizioni che concernono il giudice, il PM, l'imputato, le altre parti, i loro difensori e rappresentanti nonché la citazione a giudizio della persona offesa dal reato del querelante. Alle nullità di ordine generale si contrappongono quelle speciali perché stabilite da un'apposita previsione legislativa, la quale può essere contenuta tanto nel corpo della stessa fattispecie quanto in altre. Trattandosi di una categoria costruita in via residuale, il legislatore non può per definizione occuparsene in sede di previsione generale ma solo in sede di trattamento. Tuttavia, ad evitare che le reciproche interferenze tra tecniche di previsione e regole di negativi laddove lascia il giudice sfornito di strumenti per prevenire il diffondersi agli atti successivi dipendenti di una nullità che egli non può rilevare d'ufficio. Al fine di circoscrivere un simile pericolo si sono complessi i termini di sanatoria delle nullità relative rispetto a quelli delle nullità a regime intermedio. Le nullità concernenti le indagini preliminari o l'incidente probatorio o gli atti dell'udienza preliminare devono essere eccepite in termini sempre brevi, ma distinti a seconda che si tenga o no l'udienza preliminare. Nel primo caso devono essere eccepite anteriormente alla pronuncia del provvedimento conclusivo dell'udienza; nel secondo invece subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti in giudizio. Quest'ultimo termine vale anche per le nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio o gli atti preliminari al dibattimento e opera allorché si proceda a giudizio per le nullità concernenti gli atti delle indagini preliminari e quelli compiuti nell'incidente probatorio e per le nullità concernenti gli atti dell'udienza preliminare che già regolarmente eccepite non siano state a suo tempo dichiarate. L'affermazione del tradizionale principio per cui le cause di nullità relativa devono convertirsi in altrettanti motivi di impugnazione e i nunciata solo con riguardo alle nullità verificate nel giudizio. Lo stesso principio non può non valere peraltro anche per le nullità relative che si sono verificate prima del giudizio e che il giudice non ha dichiarato in quest'ultima sede pur essendo state eccepite entro i termini loro assegnati. In caso contrario si dovrebbe concludere che le nullità in discorso divengono insanabili. Il codice tiene separati i limiti della deducibilità delle nullità dalle cause di sanatoria. Invero, l'istituto della sanatoria risolvendosi in un fatto successivo che determina un'equivalenza di effetti rispetto all’atto perfetto non deve essere riferito alle ipotesi in cui sussiste un difetto di legittimazione a far valere le nullità. La deducibilità delle nullità relative e delle nullità a regime intermedio trova un duplice limite soggettivo. La nullità non può essere dedotta o eccepita né da chi vi ha dato o concorso a darvi causa, né da chi non ha interesse all' osservanza della disposizione violata. La nullità deve essere eccepita prima del compimento dell'atto oppure se ciò non è possibile immediatamente dopo. Gli oneri così costruiti incidono in profondità sui diritti delle parti ma si è ritenuto prevalente l'interesse ad evitare i ritardi strumentali. Con il primo dei congegni in parola, la parte previene addirittura il verificarsi della nullità; con il secondo invece la nullità si è già verificata ma la tempestiva deduzione impedisce che il vizio si ripercuota sugli atti successivi dipendenti. Peraltro si sono dovute considerare anche le ipotesi in cui la parte non abbia assistito al compimento dell'atto: in tal caso il termine per dedurre la nullità coincide con quelli di sanatoria stabiliti per le nullità relative e intermedie. Stando ad un recente insegnamento delle sezioni unite ai fini in discorso deve intendersi come parte il solo difensore e non l'indagato perché sprovvisto delle conoscenze tecnico giuridiche per ravvisare l'omissione censurabile processualmente in cui l'organo è incorso. La disciplina delle sanatorie generali ispirata al principio della conservazione degli effetti precari prodotti dall'atto imperfetto si concentra su due figure. Alla prima, definita come acquiescenza, si ascrivono la rinuncia espressa della parte interessata a eccepire la nullità e l'accettazione degli effetti dell'atto. L'accettazione tacita si atteggia alla stregua di un tipico comportamento per fatti concludenti in cui però è insita una manifestazione di volontà della parte, il che presuppone la consapevolezza del vizio in capo al soggetto stesso. Risponde ad un bisogno di efficienza la sanatoria per acquiescenza che fa discendere dalla richiesta di giudizio abbreviato proposta nell'udienza preliminare la sanatoria delle nullità relative e delle nullità a regime intermedio. La stessa regola vige nel caso in cui la richiesta di questo rito sia presentata entro 15 giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato. Alla seconda figura di sanatoria si riferiscono invece i casi in cui la parte si sia avvalsa della facoltà il cui esercizio lato messo o nullo è preordinato, formula che ha inteso designare con maggiore concretezza la tradizionale sanatoria per il raggiungimento dello scopo rispetto a tutti gli interessati. La clausola di salvezza posta all'inizio dell' art. 183 esclude che le sanatorie generali operano nei confronti delle nullità assolute insanabili. Per contro, non è dubbio che esse valgano oltre che per le nullità relative anche per quelle a regime intermedio. La sanatoria speciale prevista dall'art. 184 scatta nei confronti del PM, delle parti private e dei loro difensori in ordine alla nullità di una citazione o di un avviso, nonché delle relative comunicazioni e notificazioni. La comparizione deve essere personale; inoltre deve essere volontaria. In ogni caso la comparizione opera come sanatoria ancorché la parte non abbia consapevolezza del vizio o non sia intenzionata a sanarlo. Secondo una regola tradizionale la parte che dichiara di essere comparsa con l'unico intento di far rilevare l'irregolarità non impedisce il verificarsi della sanatoria ma ha diritto ad un termine a difesa non inferiore a 5 giorni. Per la sola citazione a comparire al dibattimento il termine a difesa non può essere inferiore a 20 giorni pari cioè a quello contemplato in via ordinaria per il giudizio davanti al tribunale o la Corte d'assise. Data la generalità del disposto questo nuovo termine dilatorio parrebbe valere altresì per il giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica. Una volta escluso che ricorrano limiti all'eccezione o alla deduzione della nullità ovvero che si siano verificate cause di sanatoria, il giudice deve dichiarare la nullità dell'atto. La nullità di un atto comporta anzitutto l'invalidità di quelli consecutivi che dipendono da esso: di qui il concetto di nullità derivata che si trasmette nello stesso tipo di quella anteriore. Il riferimento alla consecutività chiarisce che in ogni caso la propagazione si riferisce solo ad un rapporto di successione cronologica tale da tradursi in un nesso di causalità oh sul piano logico ovvero sul piano giuridico. Peraltro la giuri suole ritenere che l'omesso invio dell'informazione di garanzia determina la nullità dell'atto per il quale doveva essere inviata e che la nullità dell'udienza di convalida non si riverbera sull'ordinanza cautelare emessa in tale sede dal giudice per le indagini preliminari. Il giudice che dichiara la nullità dispone la rinnovazione dell'atto soltanto qualora essa sia necessaria e possibile. La rinnovazione diviene invece sempre obbligatoria per gli atti aventi natura propulsiva. Se la nullità è dichiarata in uno stato o grado diverso da quello in cui la stessa si è verificata il codice opera una distinzione. La dichiarazione di nullità comporta indipendentemente dalla tipologia della nullità in gioco la regressione del procedimento allo stato e grado in cui è stato compiuto l'atto nullo purché si tratti di un atto di natura non probatoria. Peraltro, l'obiettivo di reintegrare le parti nella posizione in cui si trovavano al verificarsi della causa di nullità non è sempre perseguito per ragioni di economia processuale. Ispirandosi a questo principio le sezioni unite hanno precisato che la mancata sottoscrizione della sentenza di appello da parte del presidente del collegio, generando una nullità relativa, comporta l'annullamento della sentenza- documento con la regressione del processo in grado di appello nella fase successiva alla deliberazione affinché sia redatto un nuovo documento-sentenza sottoscritto dal presidente e dall’estensore. Se invece si tratta di nullità concernenti le prove, il giudice non può avvalersi della regressione ma deve provvedere alla rinnovazione sempre che ciò sia necessario ai fini della decisione e la prova sia ripetibile. CAPITOLO III: PROVE Non è certamente casuale che il codice abbia dedicato l'intero libro III alla tematica delle prove concentrandovi la disciplina dei mezzi di prova e dei mezzi di ricerca della prova. L'idea di racchiudere in un unico contesto normativo la disciplina delle prove corrisponde ad una duplice esigenza. Da un canto a quella di sottolineare la centralità del tema nell'ambito di un processo caratterizzato dalla adesione allo schema accusatorio; dall'altro all'esigenza di ripudiare l'impostazione frammentaria cui erano ispirati i codici previgenti che proprio attraverso tale impostazione manifestavano l'orientamento a ravvisare nella fase delle indagini il vero baricentro del processo. Nella conseguita unitarietà di collocazione formale del regime delle prove si riverbera anche il proposito di una sostanziale unitarietà di fondo delle previsioni che vi sono dettate, in vista della costruzione di un vero e proprio sottosistema normativo dedicato alle prove penali come tale necessariamente articolato sulla regolamentazione del diritto alla prova, nonché sui rapporti tra prova e decisione. Alla base di questa scelta non è difficile cogliere l'aspirazione legislativa verso il recupero di quadro di di maggior rigore sul piano della legalità della prova allo scopo di sottolineare la funzionalità delle relative regole rispetto alla formazione del convincimento del giudice. Le disposizioni generali collocate a mò di preambolo del libro sulle prove costituiscono una specie di catalogo dei principi guida da osservarsi in materia probatoria, come tali logicamente prioritari rispetto alla regolamentazione dei singoli mezzi. Sia per la loro attitudine unificatrice in rapporto all'intero sistema delle prove, sia per i loro contenuti innovatori le suddette disposizioni generali costituiscono probabilmente in assoluto uno dei settori di più elevato risalto ideologico e culturale dell'intero codice. Esse delineano in concreto le nervature del diritto delle prove e prima ancora pongono le premesse di una teoria della prova. Ci si deve domandare se le disposizioni contenute nel libro III possono oh devono trovare applicazione anche al di là delle aree processuali tecnicamente destinate alla formazione della prova quali sono la fase del dibattimento e quella di svolgimento dell'incidente probatorio. Il quesito circa la sfera di incidenza della normativa contenuta nel libro III anche nelle fasi preliminari risulta piuttosto problematico. Non si vede per esempio come potrebbe sostenersi che le norme del libro sulle prove non devono applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento con riferimento ai diversi momenti in cui è previsto l'intervento del giudice ora in funzione di organo di garanzia ora in funzioni di organo di decisione anche nel merito. Cominciando da questa seconda ipotesi e quindi facendo riferimento all'attività del giudice in sede di udienza preliminare, sembra fuori discussione che il medesimo giudice debba attenersi di regola alle norme sancite nel libro III. La conclusione non può essere diversa, salvi i necessari adattamenti anche riguardo alle ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad intervenire nel corso delle indagini preliminari Nell'adempimento del suo tipico compito di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali. Si deve ritenere che il giudice in questa ipotesi di fronte agli elementi probatori forniti a supporto delle richieste possa utilizzare alla base del proprio provvedimento solo quelli il cui impiego non sia incoerente con la corrispondente disciplina stabilita in materia di prove. Assai più delicato è il discorso per quanto concerne l'operatività delle disposizioni sulle prove contenute nel libro III rispetto alle indagini preliminari svolte dal PM: sia a causa della loro ordinaria idoneità conseguire risultati utilizzabili come prova in sede dibattimentale, sia a causa della stessa scelta legislativa di adottare per molti di tali atti di indagine una terminologia diversa rispetto ai corrispondenti atti compiuti di fronte al giudice. Ciò non può significare tuttavia che il PM si trovi nella condizione di un organo che non ha alcun obbligo di osservanza almeno dei principi di fondo dettati sul terreno probatorio. Non solo perché vi sono determinati atti del PM per loro natura destinati ad essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento e altri atti che il medesimo valore possono assumere per effetto del verificarsi di determinate circostanze o in conseguenza del loro impiego per le contestazioni dibattimentali ma anche su un piano generale perché dipende in definitiva dal consenso delle parti che tutti gli atti di indagine preliminare compiuti dal PM possano venire utilizzati come prova sulla base di una sentenza di merito idonea a definire il procedimento prima del passaggio al dibattimento. In altri termini, se è vero che le indagini preliminari del PM sono suscettibili di assurgere a livello di prova non è seriamente pensabile che le medesime possano svolgersi al di fuori di qualunque riferimento alla disciplina dettata nel codice in materia di attività probatoria. Alzi, e da ritenere che tale disciplina debba operare anche con riguardo alle predette indagini nella misura della oggettiva compatibilità con le stesse, fermo restando il principio che esclude la ordinaria utilizzabilità degli atti compiuti nelle fasi preliminari ai fini della sentenza dibattimentale. Se ne desume anzitutto che le disposizioni generali con cui si apre il libro III devono senz'altro applicarsi anche nel corso delle indagini preliminari del PM ovviamente entro i limiti consentiti dalla natura e dalla finalità delle stesse. Il discorso deve essere diverso poi a seconda che si faccia riferimento alle norme concernenti i mezzi di prova ovvero i mezzi di ricerca della prova. Per quel che concerne la disciplina dei mezzi di ricerca delle prove precostituite non sembra dubbio che essa debba venire osservata dal PM. Appare decisivo il rilievo che se le medesime non dovessero trovare applicazione nella fase preliminare al dibattimento, non si comprenderebbe la loro stessa ragion d'essere con l'ulteriore inconveniente di lasciare praticamente all'arbitrio degli organi inquirenti i casi e i modi di svolgimento delle corrispondenti attività. Se poi si aggiunge che le attività in questione in quanto caratterizzate dalla dimensione della sorpresa corrispondono agli atti non ripetibili da includersi nel fascicolo per il dibattimento ai fini della loro utilizzabilità per la formazione del convincimento del giudice, ci si rende conto a maggior ragione come non possa ammettersi che le medesime si svolgano senza l'osservanza delle norme correlativamente dettati in tema di mezzi di ricerca della prova. Lo stesso non può dirsi invece in ordine alla disciplina dei mezzi di prova che non a caso risulta dettata facendo di regola riferimento al giudice. Del resto depone a sostegno di questa interpretazione la circostanza che gli atti del PM corrispondenti a tali mezzi di prova siano stati definiti e regolati avendo cura di usare tra l'altro anche una differente nomenclatura (accertamenti tecnici, perizie, ricognizioni, esame ecc). Sembra allora doversi concludere che le norme relative ai diversi mezzi di prova non devono in linea di massima applicarsi nel corso delle indagini preliminari del PM. Ciò non significa peraltro che non si possa talora pervenire in sede interpretativa a ritenere applicabili le norme dettate per i mezzi di prova anche con ammettere la rinnovazione dell'esame dei soggetti in questione all'accertamento di un presupposto ben definito o comunque ad una valutazione di necessità. E non sembra dubbio che quest'ultima valutazione debba riservarsi sempre al giudice secondo i principi generali in tema di ammissione della prova senza alcun vincolo alle richieste e alle prospettazioni avanzate da taluna delle parti. L'area di incidenza dei principi espressi nell'art 190 non è da ritenersi circoscritta nell'ambito della fase dibattimentale. Essi risultano di per sé applicabili nell'intero arco del procedimento e quindi anche nelle fasi anteriori al dibattimento. Si deve aggiungere peraltro che proprio in rapporto alla fase dibattimentale sono previste vistose eccezioni al principio di iniziativa di parte sul terreno probatorio, accanto a quelle stabilite in via generale nell'ambito della regolamentazione di singoli mezzi di prova. Ci si riferisce alle diverse ipotesi in cui il codice configura determinati poteri di iniziativa probatoria come esperibili ex ufficio, attribuendoli ora al presidente del collegio, ora al giudice del dibattimento. Senonché, per quanto rilevante e significativa sul piano dei rimedi agli eventuali squilibri verificati nel contraddittorio tra le parti, l'attribuzione all'organo giurisdizionale di un simile potere di intervento assume un risalto secondario e marginale, tale in ogni caso da non compromettere l'originaria impronta accusatoria della disciplina probatoria. Vediamo la regola che sancisce la non utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, cioè ammesse o assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. Una regola diretta a sottolineare la portata garantistica delle norme sulla prova, esplicitando nel contempo la reazione negativa dell'ordinamento di fronte al fenomeno delle prove illegittime, perché acquisite contra legem cioè nella inosservanza di un divieto. Assume in tal modo risalto formale la categoria della inutilizzabilità intesa come vizio e per altro aspetto come sanzione processuale predisposta in via generale nel caso di violazione dei divieti probatori risultanti ex lege, nella quale si riflette palesemente l'indirizzo politico legislativo diretto a diversificare la sanzione prevista per i vizi del procedimento di acquisizione della prova rispetto alla tradizionale sanzione della nullità. Questa differenza viene in rilievo tra l'altro soprattutto con riferimento al regime di rilevabilità del vizio che non ammette sanatorie. La inutilizzabilità della prova infatti è rilevabile anche d'ufficio in ogni Stato e grado del procedimento quindi anche nell'ambito del giudizio di Cassazione. Quanto ha la sfera di operatività della sanzione prevista dall'art. 191, essa va individuata avendo riguardo ad ogni ipotesi di inosservanza di un divieto sancito dalla legge processuale in materia di ammissione ovvero di acquisizione probatoria, ivi comprese le ipotesi in cui il divieto per sua natura possa emergere soltanto ex post rispetto al momento acquisitivo e quindi si concreti esclusivamente nel momento di valutazione della prova. In altri termini, il disposto dell'art. 191 si configura da un lato come norma generale di previsione della sanzione dell’inutilizzabilità, destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che pur sancendo un divieto probatorio non prevedono alcun riflesso sanzionatorio per l'ipotesi della sua trasgressione. Dall'altro, come norma generale di riferimento per il regime normativo del vizio della inutilizzabilità, destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui singole disposizioni dichiarino tout court inutilizzabili determinati atti probatori. In definitiva si deve ritenere che la sanzione della inutilizzabilità operi in via generale di confronti di tutte le prove acquisite contra legem, cioè nell’inosservanza di un divieto di ammissione o di acquisizione stabilito per legge. Passando al regime di valutazione della prova, ne risulta anzitutto ribadito il principio del libero convincimento del giudice. Al riguardo deve subito porsi in evidenza come tale principio venga affermato con esclusivo riferimento al momento della valutazione della prova, non anche a momenti anteriori del procedimento probatorio: una valutazione che può avere ad oggetto soltanto l'aria delle prove legittimamente ammesse ed acquisite, dunque utilizzabili. Questa esigenza di legalità circa il momento valutativo della prova trova la sua conferma nella previsione del necessario raccordo tra le valutazioni operate dal giudice e la motivazione dei provvedimenti che ne siano derivati nella quale dovrà essere dato conto sia dei risultati acquisiti sia dei criteri adottati. Come dire che l'obbligo di motivazione dei provvedimenti se da un lato rappresenta un limite intrinseco alla libertà di convincimento del giudice, dall'altro si configura quale premessa logica imprescindibile per l'esercizio del successivo controllo sulle linee di formazioni di quel convincimento. Per conseguenza il giudice dovrà ricostruire il percorso logico-conoscitivo che lo abbia condotto ad apprezzare in un certo modo le prove disponibili e a trarne determinate conclusioni. In particolare, all'interno della motivazione non solo dovranno essere indicati i criteri di valutazione della prova adottati, ma dovranno altresì essere enunciate le ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie. Oltre al limite razionale derivante dall'obbligo della motivazione il principio del libero convincimento del giudice incontra anche alcuni limiti di tipo normativo. Più precisamente, è lo stesso art. 192 ad enunciare due specifiche regole di giudizio volte a circoscrivere la sfera di libero apprezzamento probatorio del giudice. Im primo luogo si esclude che a tale fine possano venire utilizzati elementi di natura soltanto indiziaria, a meno che in ed esimi possano qualificarsi come gravi, precisi e concordanti. Quando si accerti una simile caratterizzazione degli indizi entrati nella sfera conoscitiva del giudice, infatti, la regola probatoria risulta ribaltata: gli indizi così intesi nel loro organico complesso assumono valenza di prova e diventano senz'altro idonei ad integrare la piattaforma di convincimento da cui può essere desunta l’esistenza di un fatto. In secondo luogo, con riferimento alla peculiare situazione dei coimputati del medesimo reato, ovvero degli imputati in un procedimento connesso, si stabilisce che le dichiarazioni di natura sostanzialmente testimoniale provenienti da una di tali persone non possano venire valutate ex se, ma debbano sempre esserlo unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità. E lo stesso vale anche nei confronti delle dichiarazioni rese dall’imputato di un reato collegato. Questa scelta normativa hai il merito di imporre al giudice un preciso impegno di verifica in vista della corroborazione di dichiarazioni particolarmente delicate per la loro provenienza, facendogli intendere che in assenza dei necessari elementi di supporto, le medesime non potrebbero venire utilizzate ai fini della decisione. Tutto dipenderà allora dagli sforzi realizzati dal giudice al fine di vagliare la sussistenza il adeguatezza di ulteriori elementi probatori, capaci di corroborare le suddette dichiarazioni del coimputato. Ed è palese che in questo contesto torna ad emergere la logica del libero convincimento quale dovrà esprimersi nella motivazione circa la sufficienza e l'attitudine di altri elementi ad attestare l'attendibilità della prova così confermata. Da ultimo, una ulteriore ipotesi di limite al principio del libero convincimento del giudice e quella che si esprime nel divieto di valutazione sancito dall'art. 526 c.1-bis, con l'escludere che tale prova possa essere ottenuta sulla base di dichiarazione rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato può del suo difensore. La testimonianza Il libro III del codice colloca in due titoli separati la disciplina singoli mezzi di prova. In particolare, mentre i mezzi di prova si caratterizzano per la loro attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente utilizzabili ai fini della decisione, lo stesso non può dirsi per i mezzi di ricerca della prova, che non integrano di per sé una fonte di convincimento giudiziale ma risultano funzionalmente diretti a permettere l'acquisizione di cose, tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria. Da un punto di vista diverso, la distinzione si giustifica anche sotto un profilo più tecnico e operativo, dal momento che i mezzi di ricerca della prova si caratterizzano specialmente in quanto diretti a propiziare l'acquisizione al processo di elementi probatori in vario modo precostituiti rispetto al medesimo, laddove i mezzi di prova si qualificano al contrario per la loro funzionalità ad assicurare la formazione della prova in sede processuale. Quanto alla tematica della testimonianza merita anzitutto di essere posta in luce l'articolata normativa dettata per il fenomeno della c.d. testimonianza indiretta. Più precisamente, da un lato viene sancita in termini generali la inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia indicare la persona oh la fonte da cui abbia preso la notizia al centro dell'esame testimoniale. E di qui deriva il tradizionale corollario rappresentato dal divieto di acquisizione e di impiego delle notizie provenienti dagli informatori confidenziali dei quali gli organi di polizia e dei servizi di sicurezza non abbiano rivelato i nomi. Il tutto in applicazione del principio che vieta le testimonianze di provenienza anonima. D'altro lato, viene previsto che allorquando il testimone riferisce fatti o circostanze la cui conoscenza dichiari di aver appreso da persone diverse, queste ultime non solo possono essere chiamate a deporre d'ufficio dal giudice, ma devono comunque esserlo su richiesta di parte appena di inutilizzabilità delle dichiarazioni. In questo quadro era stato stabilito il divieto di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni, configurando così una deroga piuttosto rigida rispetto alla ordinaria disciplina della testimonianza indiretta. Una deroga motivata dall'esigenza di garantire il principio di oralità della prova privilegiando l'esame testimoniale dei loro autori il luogo di quello degli ufficiali e agenti. Alla esigenza di assicurare l'operatività di un controllo sulla fonte delle deposizioni di seconda mano, ubbidisce anche la regola di esclusione della testimonianza dei soggetti che facciano riferimento a fatti conosciuti da persone titolari di un segreto professionale ovvero di un segreto d'ufficio sempre che le medesime persone non abbiano disposto sugli stessi fatti o non gli abbiano altrimenti divulgati. Dice si sofferma poi a descrivere la disciplina delle incompatibilità con il relativo ufficio, e in particolare le ipotesi di incompatibilità a testimoniare dell'imputato. Va sottolineato come tale disciplina trovi la sua imprescindibile premessa negli avvertimenti preliminari che devono essere dati ad ogni persona sottoposta ad indagine in sede di interrogatorio. Per quanto concerne l'area dell'incompatibilità, essa risulta oggi circoscritta in termini assoluti alla situazione di chi sia coimputato del medesimo reato uh imputato in un procedimento connesso a norma dell'art, 12 c.1 l. a), sempre che nei suoi confronti già non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento. A questa ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare dell'imputato si affianca un'ulteriore ipotesi di incompatibilità ad essa speculare con riferimento alla situazione di chi sia imputato in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 c.1 l. c) ovvero di un reato collegato a norma dell'art. 371 c.2 l. b), sempre che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena. Se ne desume che quest'ultima causa di incompatibilità non opera allorché si realizzino le circostanze descritte nell’art. 64 c.3 l. c), Dopo che all'imputato dichiarante sia stato dato il relativo avvertimento. In eventualità del genere infatti gli imputati assumono il ruolo di testimone in ordine ai fatti concernenti la responsabilità di altri che siano stati oggetto delle proprie precedenti dichiarazioni. Tutto ciò trova conferma nell'art. 197-bis, destinato a disciplinare la posizione delle persone che rivestendo la qualifica di imputato in un procedimento connesso o collegato, nondimeno possono ricoprire l'ufficio di testimone. Tali sono in primo luogo tutti gli imputati che si siano trovati nelle situazioni descritte dall'art. 197 l. a) e b), allorquando nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento ovvero sentenza irrevocabile di condanna. Tali sono in secondo luogo tutti gli imputati in un procedimento connesso o di un reato collegato i quali in sede di interrogatorio abbiano reso dichiarazioni concernenti l'altrui responsabilità essendo stati preavvisati circa le conseguenze del rilascio di simili dichiarazioni. Quanto all' ambito soggettivo degli imputati destinatari della particolare disciplina delineata nell'art. 197-bis c.1 e 2, con riferimento all'ipotesi in cui gli stessi assumono l'ufficio di testimone si tratta di un testimone che è tale a tutti gli effetti e rispetto al quale dovranno perciò osservarsi i comuni adempimenti relativi all'introduzione della prova testimoniale. Ma anche un testimone che gode di un regime particolare dal punto di vista delle garanzie in ragione del rischio che dall'adempimento del dovere di deporre possa derivargli qualche pregiudizio sul terreno dell'accertamento delle proprie eventuali responsabilità. Anzitutto si stabilisce che nelle ipotesi in questione il testimone venga assistito da un difensore e sebbene adesso non venga attribuito in diritto di partecipare all'esame non sembra tuttavia dubbio che al medesimo difensore debba riconoscersi si ha il diritto di presenziare all'esame dei testimoni sia in quella sede il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve a tutela della posizione del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale. A tale proposito, per quanto concerne gli obblighi di quest'ultimo testimone di fronte al giudice va sottolineato come in aggiunta alla clausola generale derogatoria ex art. 198 c.2, l'art. 197-bis c.4 individui due altre specifiche ipotesi con riferimento alle quali il medesimo testimone non può essere obbligato a deporre e quindi può legittimamente rifiutarsi di rispondere alle relative domande. E in primo luogo si stabilisce che il testimone è esonerato dall'obbligo di deporre sui fatti per i quali in giudizio sia stata pronunciata a suo carico sentenza irrevocabile di condanna allorché nel procedimento e gli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione. Inoltre, quando si versi in una delle situazioni previste dal c.2 art. 197-bis, si stabilisce che il testimone è del pari esonerato dallo pubblico di deporre su fatti concernenti la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti. Ma non è tutto, poiché accanto a queste garanzie destinate ad operare ex ante, il c.5 dell’art. 197-bis si preoccupa di predisporre anche un diverso tipo di garanzia destinata ad operare ex post, cioè con La disciplina dell'esame dei soggetti in questione risulta costruita sulla base di un assetto intermedio tra quello del testimone e quello dell'imputato: e da un lato sotto il profilo del richiamo delle norme concernenti la citazione, l'obbligo di presentazione e l'eventuale accompagnamento coattivo dei testimoni; dall'altro sotto il profilo della necessaria assistenza difensiva, se del caso anche attraverso la nomina di un difensore d'ufficio, ove manchi quello di fiducia, salvo comunque il diritto del difensore di partecipare all'esame; nonchè ancora sotto il profilo dell' esplicito riconoscimento a tali soggetti del diritto al silenzio, del resto coessenziale alla loro qualità di imputati in un procedimento connesso allo scopo di tutelarli rispetto al rischio di dichiarazioni contra se. Quanto all'ambito di operatività dell'istituto disciplinato dall'art. 210 occorre precisare che con l'introduzione nel sistema processuale penale dell'art. 197-bis, tale ambito si è ridotto rispetto a quello definito dal testo previgente del medesimo art. 210 c.1, il cui ambito è stato modificato circoscrivendo la cerchia soggettiva dei destinatari della procedura qui descritta. Ne deriva che i soggetti cui dovrà applicarsi la particolare disciplina dell'esame attualmente prevista dall'art. 210 sono solo quelle non ricomprese nell'area degli imputati che assumono l'ufficio di testimone. Ciò significa che lo speciale meccanismo di acquisizione della prova dichiarativa ex art. 210 risulta oggi riservato alle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 210 c.1 l. a), Le quali non possono assumere l'ufficio di testimone. Per quanto riguarda invece le persone imputate in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 c.1 l. c) o di un reato collegato a norma dell'art. 371 c.2 l. b), occorre distinguere sulla base della loro precedente condotta processuale in forza del combinato disposto degli art. 210 c.6 e 197-bis c.2. Più precisamente dispone l'art. 210 Che la disciplina contenuta nell'intero articolo debba applicarsi anche ai soggetti in questione, ma solo quando i medesimi non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato. Attraverso una simile precisazione ci si riferisce sia all'ipotesi in cui tali persone non siano mai state sentite da alcuna autorità interrogante, sia all'ipotesi in cui pur essendo state interrogate non abbiano reso in tale sede alcuna dichiarazione sull’altrui responsabilità. Se non che a questa ipotesi sembra doversi equiparare anche quella in cui le suddette persone abbiano beh si è reso dichiarazioni sul fatto altrui nel corso del loro interrogatorio ma senza aver ricevuto l'avvertimento. Con riguardo a tutte queste ipotesi è previsto che in linea di regola la disciplina dettata dall'art. 210 si applichi anche agli imputati. Tuttavia, si prevede altresì che a tali soggetti venga comunque dato l'avvertimento previsto dall'art. 64 c.3 l. c), nel qual caso ove non si avvalgono della facoltà di non rispondere gli stessi assumeranno l'ufficio di testimone. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali Cominciando dai confronti ammessi esclusivamente fra persone già esaminate o interrogate, nel caso di dichiarazioni in contrasto su fatti e circostanze importanti, si tratta di un mezzo che dovrebbe trovare largo impiego anche nel corso delle indagini preliminari. Circa le modalità dell'atto, nei risulta evidenziata la funzione propulsiva attribuita al giudice nel richiamare le precedenti dichiarazioni nonché nell’invitarli alle reciproche contestazioni, quando le medesime siano state confermate. La disciplina delle ricognizioni si caratterizza in ispecie per la accuratezza e analiticità della descrizione degli adempimenti preliminari e quindi dei modi di svolgimento dell'atto a causa di una certa diffidenza legislativa verso l'attendibilità dei risultati di questo mezzo di prova. Addirittura si prevede che sia causa di nullità anche soltanto la mancata menzione in sede di verbale dell'osservanza delle forme prescritte per scandire la relativa procedura, dai suoi preliminari alla vera e propria attività ricognitiva. A quest'ultimo proposito va sottolineata l'attribuzione al giudice del potere- dovere di adottare lei necessarie cautele volte ad impedire che la persona chiamata ad effettuare la ricognizione possa subire intimidazioni da parte di quella sottoposta all'atto. È prevista la ricognizione di voci, i suoni o di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale. Si tratta di una figura probatoria riconducibile all'ambito delle prove non disciplinate dalla legge. Sia nel caso dei confronti, sia in quello delle ricognizioni è innegabile che la persona chiamata compiere l'atto viene a trovarsi nella condizione di dover rilasciare dichiarazioni che sono assimilabili per il loro contenuto informativo a quelle rese dall'imputato in sede di interrogatorio ovvero di esame o rispettivamente dal testimone in sede di a sommarie informazioni ovvero di esame. Per conseguenza, quando si tratti dell'imputato non sembra dubbio che nei suoi riguardi debbano operare le garanzie ispirate al principio Nemo tenetur si detegere, quali si concretano nel riconoscimento al medesimo del diritto a non collaborare allo svolgimento dell'atto ovvero della facoltà di non rispondere alle domande che gli vengono rivolte. E le stesse garanzie devono valere anche nei confronti dei coimputati dello stesso reato, non chiede gli imputati in un procedimento connesso o di un reato collegato. Quanto agli esperimenti giudiziali, mezzo di prova tipicamente finalizzato ad accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo, attraverso la riproduzione della situazione e la ripetizione delle modalità relative al suo presumibile svolgimento, la preoccupazione del legislatore si è appuntata soprattutto sull'esigenza di una maggiore specificazione in ordine alle forme da osservarsi per fare il luogo alla relativa procedura. Di qui la dettagliata previsione sia dei contenuti dell'ordinanza che abbia disposto l'esperimento sia dei poteri del giudice diretti ad assicurare un'efficace e corretto svolgimento dell'atto. Perizia Circa l'oggetto della perizia, esso risulta delineato in via generale attraverso la definizione del presupposto di ammissibilità della prova peritale facendo cioè riferimento alle situazioni in cui occorre svolgere indagini ovvero acquisire dati o valutazioni quali richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Quando il giudice accerti la sussistenza di una di queste necessità egli sarà obbligato ad ammettere la perizia anche d'ufficio mediante un'ordinanza che accanto alla nomina del perito dovrà tra l'altro recare la sommaria enunciazione dell'oggetto delle indagini. L'ammissibilità della perizia è esclusa in rapporto a determinati oggetti. Salvo quanto disposto in sede di esecuzione della pena o della misura di sicurezza infatti sono vietate le perizie concernenti il carattere e la personalità dell'imputato, le forme qualificate di pericolosità sociale e in genere le sue qualità psichiche indipendenti da cause patologiche: non è consentita cioè la perizia psicologica e criminologica al di fuori della fase esecutiva. Per quello che riguarda la disciplina della nomina del perito va sottolineata la preoccupazione legislativa di assicurare un adeguato livello di specifica qualificazione delle persone qui da perizia venga affidata. Ciò si realizza da un canto adottando quale criterio principale per la nomina del perito quella della sua iscrizione negli appositi albi professionali; e dall'altro imponendo al giudice di disporre una perizia collegiale quando le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero quando le medesimi richiedono distinte conoscenze in differenti discipline. Quando si proceda per delitti di una certa gravità oltre che negli altri casi espressamente previsti dalla legge, se per l'esecuzione di una perizia sia necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale e in proposito manchi il consenso della persona interessata, il giudice può disporre d'ufficio con ordinanza l'esecuzione coattiva sempre che essa risulti assolutamente indispensabile per la prova dei fatti. Al riguardo si stabilisce che la suddetta ordinanza debba contenere oltre alle generalità della persona da sottoporre all'esame peritale, l'indicazione delle ragioni che rendono assolutamente indispensabile sul terreno probatorio l'effettuazione del prelievo o dell'accertamento, unitamente all'avviso della facoltà riconosciuta alla stessa persona di farsi assistere da un difensore o comunque da persona di fiducia. Quanto allo svolgimento delle operazioni peritali, si prescrive anzitutto che le stesse non potranno comunque contrastare con espressi divieti di legge ne potranno mettere in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute della persona o del nascituro e nemmeno potranno essere tali da provocare sofferenze di non lieve entità. Dopodiché allorquando la persona invitata a presentarsi per l'espletamento della perizia non risulti comparsa senza addurre un legittimo impedimento, il giudice potrà disporne l'accompagnamento coattivo; mentre allorquando essa sia comparsa ma rifiuti di prestare il proprio consenso agli atti o agli accertamenti da compiersi nei suoi confronti, il giudice potrà disporne l'esecuzione in forma coattiva attraverso L'uso dei necessari mezzi di coercizione fisica da impiegarsi in misura proporzionata allo scopo e comunque per il solo tempo strettamente necessario all'esecuzione del prelievo o dell'accertamento. In ogni caso si prevede che l'atto peritale sia nullo quando la persona che vi è sottoposta non sia assistita dal difensore. Tornando alla disciplina generale della perizia, una volta che il giudice abbia conferito l'incarico con la formulazione dei relativi requisiti si segnalano le disposizioni riguardanti le attività peritali. Circa l'espletamento delle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti che gli siano stati proposti, si prevede che il perito possa essere autorizzato dal giudice ad assistere all'esame delle parti e all' assunzione di altre prove mentre potrà prendere visione degli atti e delle cose prodotti dalle parti solo nei limiti in cui i medesimi siano acquisibili al fascicolo dibattimentale. È consentito poi che il perito raccolga notizie dall’imputato, dall offeso o anche da altre persone ma con la precisazione che gli elementi così acquisiti potranno essere utilizzati solo ai fini dell'accertamento peritale. Quanto alla relazione finale della perizia, si prevede che il perito risponda immediatamente ai quesiti proposti e comunque in forma orale mediante parere raccolto nel verbale salvo il potere del giudice di autorizzare anche la presentazione di una relazione scritta ove la stessa risulti indispensabile ad illustrare il parere. Qualora il perito non sia in grado di fornire una risposta immediata e sempre che il giudice non ritenga di sostituirlo, si prevede la concessione di un termine non superiore a 90 giorni entro il quale il medesimo dovrà fornire il prescritto parere. A questo proposito va tenuto presente in risalto che la presumibile durata dell'accertamento peritale assume quale presupposto di ammissibilità dell'incidente probatorio chi in tale luogo possa farsi luogo a perizia quando la medesima se fosse disposta nel dibattimento ne potrebbe determinare una sospensione superiore a 60 giorni. Per la tutela dei diritti delle parti è prevista la partecipazione dei consulenti tecnici lungo l'intero arco di svolgimento della perizia. Quanto alle modalità di intervento dei consulenti tecnici, essi sono autorizzati ad assistere al conferimento dell'incarico e quindi a partecipare a tutte le operazioni peritali non solo formulando osservazioni e riserve ma anche proponendo al perito lo svolgimento di specifiche indagini con la previsione che delle une e delle altre debba darsi atto in sede di relazione. Essi possono sempre prendere visione delle relazioni ed essere autorizzati dal giudice ad esaminare le persone, le cose e i luoghi oggetto della perizia purché non ne derivi ritardo all'esecuzione della perizia o al compimento delle altre attività processuali. Vi è la possibilità di nomina e di intervento dei consulenti tecnici delle parti anche nelle ipotesi in cui non sia stata disposta perizia con la conseguente attribuzione a tali consulenti del potere di esporre al giudice il proprio parere su singole questioni, eventualmente attraverso la presentazione di memorie. Qualora successivamente alla nomina del consulente tecnico il giudice si decidesse a disporre perizia, al medesimo consulente sarebbero riconosciuti i diritti e le facoltà ordinariamente previsti ex artt. 226 c.2 e 230. Qualora invece la perizia non venisse disposta si deve ritenere che il consulente tecnico possa di sua iniziativa svolgere le indagini e gli accertamenti consentiti dalla oggettiva disponibilità delle persone, delle cose o dei luoghi assunti come oggetto della consulenza: col risultato non solo di fornire alla parte interessata agli apporti tecnici necessari per gli ulteriori sviluppi processuali ma anche di porre giudice nelle condizioni di non poter prescindere dal contenuto del parere e delle eventuali memorie che gli vengono presentate. La prova documentale Si è tenuta distinta l’area dei documenti in senso stretto (formati fuori dall’ambito del processo nel quale devono essere introdotti affinchè possano acquistare rilevanza probatoria) da quella degli atti (formati all’interno del processo e rappresentativi di quanto vi sia accaduto), e solo ai primi si riferita la disciplina degli artt. 234-243. Dove, accanto ai tradizionali scritti, e con innegabile intento estensivo, viene consentita l’acquisizione come documento di ogni altra cosa idonea a rappresentare fatti, persone o cose attraverso la fotografia, la cinematografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo. Esclusa la possibilità di acquisire documenti concernenti le voci correnti nel pubblico, ovvero la moralità in generale delle parti e dei testimoni, viene ammessa l’acquisizione dei documenti necessari al giudizio sulla personalità dell’imputato e, se del caso, della persona offesa dal reato, ricomprendendovi anche quelli esistenti presso gli uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di sorveglianza. Per i certificati del casellario giudiziale e per le sentenze divenute irrevocabili. È sempre consentita l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso, del legittimo titolare. Sulla base di una distinzione tra i documenti come ordinario mezzo di prova e i documenti costituenti corpo del reato, un regime differenziato è stato sancito per questi ultimi, escludendosi che ad essi si applichi la comune disciplina relativa ai primi, e stabilendosi in via generale che i medesimi devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga. Una normativa ad hoc è inoltre dettata per i documenti provenienti dall’imputato, nel senso che di essi è sempre consentita l’acquisizione anche d’ufficio, sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti. le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, ma anche quelle che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo. Si tratta delle stesse cose per la cui ricerca può essere disposta perquisizione, sicchè è del tutto coerente con i meccanismi del sistema che si instauri un rapporto di logica consequenzialità tra perquisizione e sequestro. Da tutto ciò parrebbe doversi desumere che, nell’ipotesi di perquisizione eseguita contra legem, dalla illegittimità dell’attività perquirente dovrebbe scaturire in via derivata la illegittimità del sequestro ad essa conseguente e quindi la inutilizzabilità come prova dei suoi risultati. Tuttavia, dopo una lunga serie di contrasti giurisprudenziali, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la sanzione dell’inutilizzabilità non operi quando si tratti di sequestro ex art. 253 del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, sulla base del rilievo che in tali ipotesi debba reputarsi irrilevante il modo con cui allo stesso si sia pervenuti e debba invece prevalere l’obbligo dell’autorità procedente di disporre il sequestro. Il codice passa quindi a disciplinare alcune fattispecie peculiari di sequestro. Rientrano in questa cornice le ipotesi di sequestro di corrispondenza, del sequestro presso banche, nonché le diverse figure di sequestro aventi ad oggetto atti o documenti rispetto ai quali venga eccepita la sussistenza di un segreto. Cominciando con il sequestro di corrispondenza è previsto da un lato la sequestrabilità negli uffici postali di lettere, pieghi, pacchi e di ogni altro oggetto presumibilmente spedito all’imputato od a lui diretto o che comunque possa avere relazione con il reato. E, d’altro canto, qualora proceda al sequestro un ufficiale di polizia giudiziaria, è previsto l’obbligo per il medesimo di consegnare gli oggetti sequestrati al magistrato senza aprirli né alterarli, e senza prendere in altro modo conoscenza del loro contenuto, è imposta l’immediata restituzione all’avente diritto delle carte e dei documenti sequestrati, laddove si accerta ex post la loro estraneità all’ambito della corrispondenza suscettibile di sequestro. Più delicata appare, invece, la tematica dei rapporti tra sequestri e segreti. Anche qui, tuttavia, non vi sono rilevanti particolarità da segnalare, essendo state in concreto ricalcate le linee della normativa già dettata a proposito dei rapporti tra testimonianza e segreti, sulla base del generale dovere di esibizione imposto alle persone indicate negli artt. 200 e 201, a meno che le medesime persone vi si oppongano dichiarando per iscritto il vincolo derivante da un segreto professionale o d’ufficio, ovvero da un segreto di stato. Quanto a quest’ultima ipotesi, rispetto agli atti o documenti in questione, gli adempimenti prescritti all’autorità giudiziaria risultano corrispondenti a quelli delineati dall’art. 202 a proposito della analoga eventualità in ordine alla prova testimoniale, con il conseguente epilogo della sentenza di non doversi procedere nel caso di conferma del segreto, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, su una prova ritenuta dal giudice essenziale per la definizione del processo. Mentre, allorquando tale conferma non venga tempestivamente fornita, l’autorità giudiziaria potrà senz’altro disporre il sequestro degli stessi atti o documenti. Il decreto di sequestro è impugnabile mediante richiesta di riesame per la quale viene richiamata la procedura descritta dall’art. 324, con riguardo alla parallela richiesta contro i decreti di sequestro conservativo e preventivo. Da notare che quando il sequestro riguarda i fati informatici memorizzati in un pc, di regola l’apparecchio viene immediatamente restituito, previa estrazione di copia integrale della memoria. Merita qualche cenno la disciplina dettata in rapporto alle vicende estintive del sequestro. Ciò che interessa è soprattutto l’assetto della tematica relativa alla restituzione delle cose sequestrate, non a caso trasferita dal tradizionale ambito dell’esecuzione civile in materia penale a quello della regolamentazione del sequestro come mezzo di ricerca della prova. Questa diversa collocazione sistematica tende a sottolineare come l’estinzione del vincolo imposto attraverso il sequestro e, quindi, la restituzione delle cose ad esso assoggettate dipendano, in linea di principio, dal venir meno delle esigenze probatorie che avevano determinato il provvedimento. In particolare, quando non è necessario mantenere il sequestro ai fini di prova, le cose sequestrate devono essere restituite a chi ne abbia diritto anche prima della sentenza. A questa regola si collega, in chiave derogatoria, la previsione relativa alle ipotesi di conversione del sequestro, da misura con finalità probatoria a misura con finalità cautelare: non si tratta tuttavia di una conversione di tipo automatico, giacchè la vigente normativa è esplicita nel subordinare il passaggio tra l’una e l’altra forma di sequestro alla pronuncia di un apposito provvedimento, nel rispetto delle ordinarie procedure, limitandosi in sostanza ad operare una saldatura tra il momento estintivo del sequestro penale e il momento di eventuale adozione della cautela reale. Più precisamente, una volta venuto meno il presupposto probatorio del sequestro penale, il giudice, ove ne sia ritualmente richiesto potrà disporre il mantenimento del vincolo a titolo di sequestro conservativo o di sequestro preventivo solo quando abbia verificato la sussistenza dei presupposti cautelari richiesti per l’una o per l’altra misura. Tornando al procedimento per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro penale, il relativo provvedimento può venir pronunciato de plano allorchè non vi siano dubbi sulla loro appartenenza, mentre quando sorga controversia sulla proprietà delle stesse la sua risoluzione dovrà essere rimessa al competente giudice civile, fermo restando il vincolo del sequestro. Quanto alla competenza, normalmente riconosciuta al giudice procedente, si prevede tuttavia che, nel corso delle indagini preliminari, sulla restituzione delle cose sequestrate deve provvedere il pm con decreto motivato. Dopo di che, contro il decreto che abbia disposto la restituzione, ovvero abbia respinto la relativa richiesta le persone interessate potranno proporre opposizione, sulla quale sarà chiamato a decidere il giudice per le indagini preliminari. Le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni Il settore dei mezzi di ricerca della prova si conclude con la disciplina delle intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni la cui delicatezza è testimoniata dalla protezione offerta dall’art. 15 Cost dove è precisato che la libertà e la segretezza delle comunicazioni definite inviolabili, possono venire limitate solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge. Il testo originario del codice è stato oggetto negli anni di diverse proposte di modifica che hanno portato a due differenti regimi normativi contemporaneamente vigenti: il primo applicabile ai procedimenti instaurati prima del 31 agosto 2020, il secondo applicabile a quelli successivi. Vediamo ora il testo originario. L’art. 266 definisce anzitutto, con riferimento ala natura e alla gravità dei reati per i quali si stia procedendo, i limiti oggettivi entro i quali deve ritenersi ammissibile l’intercettazione di conversazioni ovvero di comunicazioni di qualunque specie. Deve ritenersi sempre consentita anche l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici tutte le volte mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche. Negli stessi casi si po' procedere ad intercettazione di colloqui tra presenti (c.d. intercettazioni ambientali) per mezzo di appositi strumenti di ascolto. Tuttavia, come regola generale, nei luoghi di domicilio tale intercettazione è consentita solo se vi risulti in corso di svolgimento l’attività criminosa. Particolarmente delicato e frequente nella prassi era l’impiego a questi fini di captatori informatici. Le Sezioni unite nel silenzio della legge, hanno chiarito che per i delitti di criminalità organizzata fosse legittima l’intercettazione mediante il captatore informatico di conversazioni tra presenti anche nel domicilio, a prescindere dallo svolgersi dell’attività criminosa, senza necessità che venisse specificato nell’autorizzazione trattandosi di dispositivo portatile, il luogo in cui l’operazione poteva essere compiuta. Di regola, l’intercettazione può venire disposta dal pm solo a seguito di autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari, il quale vi provvederà con decreto motivato, quando in presenza di gravi indizi di reato, non necessariamente già orientati a carico di una determinata persona, l’intercettazione stessa risulti assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Tuttavia nei casi di urgenza, qualora cioè vi siano valide ragioni per ritenere che il ritardo provocherebbe gravi pregiudizi alle indagini, si ammette che l’iniziativa di disporre l’intercettazione possa venire direttamente assunta dal pm con decreto motivato, peraltro da convalidarsi entro 48h. Si era in passato ritenuto sulla base di un’interpretazione giurisprudenziale che alla medesima disciplina autorizzativa dovesse soggiacere anche l’acquisizione dei tabulati attestanti il flusso del traffico telefonico relativo ad una certa utenza: con il corollario, quindi, della inutilizzabilità di tali tabulati, quando fossero stati acquisiti in violazione dell’art. 267. Senonchè questa interpretazione è stata successivamente ribaltata dalle medesime Sezioni unite che hanno escluso la necessità di estendere all’acquisizione dei suddetti tabulati le garanzie dettate in tema di intercettazioni telefoniche muovendo dalla premessa per cui, mentre in quest’ultimo caso viene pregiudicata la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate, nel primo caso, ci si limita ad acquisire la documentazione del fatto storico consistente nelle conversazioni intercorse tra determinati soggetti in determinate circostanze. Sicchè, in proposito, può ritenersi sufficiente il provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria impersonata dal pm. Il decreto del pm stabilisce le modalità e la durata delle corrispondenti operazioni. Esse non possono prolungarsi, in forza di tale decreto, oltre il termine di 15 giorni (peraltro prorogabili dal giudice) e devono venire eseguite dal pm personalmente o tramite un ufficiale di polizia giudiziaria. Una disciplina derogatoria è stata dettata con riferimento alle indagini relative a delitti di criminalità organizzata ovvero al delitto di minaccia con mezzo del telefono, ai delitti di natura terroristica o eversiva ecc. Più precisamente, da un canto si è stabilito che, quando l’intercettazione risulta necessaria per lo svolgimento di tali indagini, essa possa venire autorizzata dal giudice anche solo in presenza di sufficienti indizi di reato. D’altro canto, si è prescritto che la durata delle operazioni così autorizzate non possa di regola superare i 40 giorni ma che la stessa possa venire prorogata previa verifica della permanenza dei presupposti richiesti dalla legge, per periodi successivi di 20 giorni. Alla sfera delle preoccupazioni legislative di tipo garantistico si ricollega la previsione che impone di annotare in un apposito registro riservato, secondo il loro ordine cronologico, tutti i decreti che abbiano disposto, autorizzato, convalidato ovvero prorogato le intercettazioni, nonché in rapporto a ciascuna di esse, i tempi di inizio e di conclusione delle operazioni. Si prevede, inoltre, che queste ultime vengano compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, salvo consentire subito dopo che lo stesso pm possa autorizzare con decreto motivato l’uso degli impianti di pubblico servizio ovvero di quelli in dotazione alla polizia giudiziaria, qualora sussistano eccezionali ragioni di urgenza. Quanto alle ulteriori forme di svolgimento delle operazioni le comunicazioni intercettate sono sempre registrate e nel relativo verbale viene trascritto, anche in maniera sommaria, il loro contenuto. Dopo la scadenza del termine stabilito per lo svolgimento delle operazioni, i verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pm che entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni deve depositarli a disposizione dei difensori delle parti. i difensori vanno avvisati della facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni entro il termine fissato dal pm ed eventualmente prorogato dal giudice. Scaduto il termine assegnato ai difensori per prendere conoscenza degli atti su indicazione delle parti il giudice, in apposita udienza, dispone l’acquisizione delle intercettazioni indicate dalle parti. A questo punto il giudice provvederà per la trascrizione integrale delle registrazioni destinate ad essere acquisite, nel rispetto delle forme e delle garanzie previste per le perizie, salva in ogni caso ai difensori la facoltà di estrarre copia delle trascrizioni e di trasporre le registrazioni: dopo di che le trascrizioni così ottenute, in quanto espressive di atti per loro natura non ripetibili, saranno inserite nel fascicolo per il dibattimento. Può accadere che le intercettazioni debbano essere utilizzate prima della conclusione delle operazioni o comunque senza che sia avviata la procedura acquisitiva davanti al giudice: è il caso assai frequente della richiesta di una misura cautelare richiesta alla quale il pm deve allegare gli elementi che dimostrino la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. A questi fini, se la richiesta precede il deposito o lo stralcio delle intercettazioni, o addirittura la conclusione delle operazioni, possono essere presentate al giudice le trascrizioni sommarie contenute nei verbali della polizia (c.d. brogliacci) che sono utilizzabili per la decisione. Una volta eseguita la misura cautelare l’ordinanza va depositata in cancelleria insieme alla richiesta del pm e agli atti presentati con la stessa. La Corte costituzionale ha peraltro riconosciuto alla difesa il diritto di richiedere copia delle registrazioni. La documentazione delle intercettazioni deve essere di regola conservata integralmente fino al passaggio in giudicato della sentenza. Tuttavia, gli interessati, a tutela della propria riservatezza, possono chiederne la distruzione al giudice. Per quanto attiene al profilo della utilizzabilità probatoria delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli rispetto ai quali siano state autorizzate. Si prevede in deroga alla regola generale della non utilizzabilità, che in contesti del genere le suddette intercettazioni possano venire utilizzate solo quando le medesime risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Ci si è sforzati di circoscrivere il sacrificio delle garanzie difensive, prescrivendosi che, una volta tramessi le registrazioni e i verbali correlativi all’autorità giudiziaria competente, nell’ambito di tale procedimento debba assicurarsi il contraddittorio in ordine alla suddetta documentazione. Si prevede tuttavia che, in ogni caso, ad evitare i rischi connessi ad una trasmissione solo parziale dei verbali e delle risultanti dalle intercettazioni compiute, il pm e i difensori possono esaminare l’intera documentazione delle stesse. Ove la conversazione o comunicazione intercettata costituisca essa stessa corpo del reato è sempre utilizzabile nel processo e pertanto anche in procedimenti diversi da quello d’origine.
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