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Riassunto completo "Dal Neoclassicismo al Romanticismo", Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto completo del libro Dal Neoclassicismo al Romanticismo di Chiara Savettieri per l'esame di Storia della Critica d'arte - UNIPI 2021/22. All'interno del testo sono inclusi anche i saggi.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 02/02/2023

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Scarica Riassunto completo "Dal Neoclassicismo al Romanticismo" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! DAL NEOCLASSICISMO AL ROMANTICISMO C. Savettieri I. I FONDAMENTI TEORICI DELL’ARTE I.1. Il rapporto con la natura: dall’arte come imitazione all’arte come creazione (Pag. 27 e 365) 1. Imitare la natura, ma in che senso? L’arte come imitazione della natura è un concetto classico che si rifà ad Aristotele e che, tra la fine del 700 e l’inizio dell’800 viene messo in discussione. Diderot si domandò infatti perché la musica, quella delle tre arti che meno rappresenta con precisione la natura, sia quella che scuote di più l’animo dell’uomo. L’affermarsi della musica come arte modello è l‘altra faccia della medaglia della crisi dell’arte come imitazione della natura. Solo qualche anno prima, nel 1746, Batteux (1. Il verosimile, non il vero, è la materia delle belle arti, da Les beaux arts réduit à un même principe, trattato del 1746) aveva delineato il sistema delle belle arti ricondotte all’Imitazione della natura e il carattere artificiale del prodotto artistico ma il punto debole della sua teoria era nell’applicazione del principio alla musica e alla danza. Corresse il suo pensiero sostenendo che l’arte non era imitazione ma espressione della natura: l’uomo si esprime infatti con dei segni – parole, voce, gesti; l’artista scopre cosa sia un oggetto, non lo inventa, è un creatore perché osserva e sta nelle regole della natura, senza andare oltre, ecco che il genio (tutti gli artisti) imita la natura e la materia delle belle arti non è il vero ma il verosimile. Diderot, nel contestare la teoria di Batteaux, sosteneva che funzione dell’arte era quella non di imitare ma di comunicare il bello, con il proprio linguaggio, con i propri geroglifici, teoria simile a quella di Batteaux per la musica e la danza. Con Batteaux concordava nel prodotto artistico come prodotto artificiale. 2. Il sole del pittore non è quello dell’universo, da Salon de 1767: commento a due opere perdute del pittore Casanova: l’arte non riproduce fedelmente la natura, essa ha uno scarto che qualcuno approva, altri condannano, non si può chiedere all’arte più di quello che è nelle sue possibilità. 3. L’attore grande mistificatore, da Le paradoxe sur le comedien, dialogo sulle doti di un bravo attore: i gesti dell’attore sono il frutto di un lungo studio e di una precisa tecnica, sono preparati e misurati. Un grande attore è un grande mistificatore tragico o comico, al quale il poeta ha dettato le parole. Il rapporto stretto che si instaura tra arte e bello, dell’arte come imitazione solo del bello della natura e che si pone su un piano superiore alla natura segna la nascita dell’estetica: Winckelmann teorizzò il bello ideale, una vera e propria religione del bello, concepito in termini intellettuali, che idolatra l’arte greca classica come modello. NB: La cultura neoclassica condanna l’arte come riproduzione fedele della realtà, perché inganna. Canova in (9) Illudere, non ingannare, da Pensieri sulle belle arti, 1824, dichiarò che funzione dell’arte non è ingannare ma dare un’illusione di vita, per l’artista è importante aver vinto in parte la materia con l’arte ed essersi avvicinato al vero. Du Bos parla del teatro come di inganno dei sensi, che però lascia lo spettatore convinto che non si tratti di realtà. Moses Mendelssohn è sulla stessa linea, è il teorico dell’inganno, parla di inganno consapevole dello spettatore che si commuove ma sa che si trova su un piano diverso dalla realtà. L’arte rococò supera la concezione barocca dell’arte come persuasione e la riconduce sul piano dei sensi: l’arte ha come fine quello di piacere. Il neoclassicismo riporta l’arte sul piano intellettuale: l’arte esprime l’idea della natura, senza riprodurla, così condanna l’illusionismo e il principio di imitazione della natura. Contraddizione del neoclassicismo: l’arte continua ad essere una rappresentazione della natura, si riferisce ad una realtà oggettiva, non ha superato del tutto l’idea dell’imitazione e teorizza così l’imitazione selettiva della natura: si parte dal reale per arrivare, attraverso un processo di idealizzazione, a qualcosa di ideale, depurato dei caratteri tipici della vita sensibile. Si torna all’idea dell’illusione di Canova. Esteban de Arteaga, nel suo trattato La bellezza ideale (Imitare la natura, non copiarla, 1789), non originale ma sintetico, chiarisce la differenza tra copia e imitazione: l’arte è un’imitazione relativa (non assoluta) della realtà, che lascia spazio allo spettatore di vedere e colmare le differenze con la stessa. L’imitazione si spinge fin dove arriva la flessibilità della materia, senza forzarla e l’imitatore non pretende di ingannare. Quatremère de Quincy (L’illusione dell’arte non mostra la realtà, ce la fa immaginare, da Essai sur la nature, le but et les moyens de l’imitation dans le beaux arts, 1823) costruì la teoria dell’imitazione sostenendo che l’imitazione artistica è un’apparenza che riproduce la realtà in modo incompleto e su questa incompletezza si fonda l’identità dell’arte. È l’incompletezza dell’illusione artistica a costituire motivo di piacere dell’osservatore, il quale colma con la propria immaginazione quella lacuna. Egli sosteneva che l’essenza dell’arte era nel non mostrarci la realtà ma nel farcela immaginare. Lessing (autore tedesco di Laokoon) sostenne che l’artista debba rappresentare non un insieme di eventi, ma un solo secondo: il “momento fecondo”, stimolando il fruitore ad immaginare il resto. Goethe (Conoscere l’essenza della natura per giungere allo stile): espresse in modo più perentorio la necessità di superare il concetto di imitazione. L’arte, come descrive in un suo saggio del 1789 ha 3 livelli: 1. mera imitazione 2. maniera come modo in cui si esprime l’artista 3. stile come comprensione da parte dell’artista delle leggi della natura Il prodotto artistico rimane un prodotto a sé stante (= presa di posizione contro teoria imitativa) rispetto alla natura, può anche non essere coerente con essa e l’arte ha un fine conoscitivo. Goethe (L’arte come organo autosufficiente, 1789, dialogo fra il Difensore dell’artista, che sostiene l’autonomia dell’arte e lo Spettatore, per il quale nell’arte tutto deve apparire vero e reale): l’arte è qualcosa di affine all’illusione, può incantare quando è affine all’armonia, un’opera d’arte perfetta appare come un’opera della natura quando si accorda con la natura di chi la guarda, essa è sovrumana. Kant nel suo Critica della capacità di giudizio, 1790 riprese le posizioni di Goethe, sostenendo che l’arte è un organismo autosufficiente che non imita la natura; tuttavia, egli non assegna alla natura un fine conoscitivo. Erasmus Darwin (L’arte rapisce lo spettatore andando oltre la natura, da The botanic Garden, 1789, dialoghi tra il poeta ed il suo libraio) in Inghilterra sostenne l’autonomia dell’arte dalla realtà, l’arte è come i sogni, rappresentano qualcosa che non c’è, vanno oltre la realtà e così è l’arte; neanche l’arte più alta riesce ad illudere, ma a volte lo spettatore è così assorto e rapito, che l’arte può apparire come un sogno, a condizione che (come durante il sonno), non ci siano interruzioni provocate da oggetti esterni e che ci sia una totale sospensione del movimento del corpo e della mente. In presenza di queste condizioni e a patto che la materia interessi per la sua sublimità, bellezza e novità si raggiunge un’estasi completa. Non importa che le rappresentazioni corrispondano perfettamente alla natura, ma devono seguirne le regole, e se la oltrepassano producono il sublime. 2. L’arte come creazione e rivelazione K.P. Moritz (scrittore tedesco 1756-1793) segna la svolta sul problema della mimesi: nel saggio Sull’imitazione formatrice del bello (1788) egli dimostrò che l’arte coincide con ciò che non è utile, in quanto l’utile presuppone un rapporto con qualcosa, mentre il bello è autosufficiente, basta a sé stesso. L’artista non imita la natura ma crea come la natura: esegue il processo creativo della natura, l’artista crea esattamente come fa la natura e non crea altro da sé ma crea continuando l’opera della natura (concezione organicista del mondo). Ogni cosa, per poter non essere utile, deve essere un intero autosufficiente: il concetto di intero è connesso con quello di bello, che a sua volta è tutto ciò che viene abbracciato dai nostri sensi o dalla nostra immaginazione. Ogni intero che nasce dalle mani dell’artista è un’impronta del bello supremo del grande intero della natura; quindi, il riflesso del bello la natura lo crea attraverso l’artista ed essa, librandosi al di sopra della propria realtà, produce un miraggio che ad un occhio mortale è ancora più attraente della natura stessa. Schelling (Cogliere lo spirito creatore della natura, saggio da un discorso del 1807, pronunciato all’Accademia delle Scienza di Monaco, di cui il filosofo era membro eccellente, 1807), principale esponente della Naturalphilosophie, scardinò la teoria dell’imitazione, criticando il concetto di natura e non di imitazione di per sé: la natura è stata considerata per secoli qualcosa di passivo, una cosa morta, così anche l’artista quando crea riproduce una cosa morta. La natura in realtà è forza vitale e produttiva e se l’artista coglie questo, genererà qualcosa che fa parte dello stesso processo produttivo. La natura e l’arte sono parte di uno stesso procedere creativo, in cui l’assoluto si fa materia. L’artista riproduce solo oggetti belli della natura e di questi, solo ciò risvegliano grandi idee e piacere, ma è un tutto che si annienta, che dà la sensazione che tutto perisca. È una situazione tipicamente sublime. Per Kant questa autoconsapevolezza è il fondamento della presa di coscienza della superiorità della ragione e della sua destinazione soprasensibile rispetto alla forza inconsapevole della natura. Torso del Belvedere di Winckelmann (Il pianto dell’arte per un capolavoro mutilato, 1759), capolavoro dell’arte letteraria, parte dal frammento per ricostruirlo idealmente attraverso l’immaginazione che ricrea unità e armonia, ha un ruolo consolatorio e compensatorio rispetto alla frammentarietà del reale. Teoria non lontana da quella di Rousseau sul potere consolatorio dell’immaginazione. Winckelmann si distingue invece da Diderot perché prevale in lui un atteggiamento integrativo, è assente la convinzione del fascino della rovina in sé per sé, ma per l’amante d’antichità prevale l’atteggiamento di ricostruzione della realtà e la nostalgia per i numerosi capolavori perduti. Winckelmann vede nell’ideale greco e nella sua armoniosa unità le cause che rivelano il carattere frammentario della condizione umana. Girodet, rappresentante dell’estetica neoclassica ne L’immaginazione ripopola le rovine, 1804-1824, che narra la storia di un pittore da quando si sveglia in lui il genio artistico fino alla vecchiaia, e il rapporto tra rovina e immaginazione: è solo dopo aver contemplato le rovine che si aspira a ripristinare l’unità svanita, l’ideale è qualcosa a cui tendere per compensare i traumi del tempo ma suo presupposto è la coscienza della frammentarietà; l’arte moderna trae da esse i suoi insegnamenti. Dalle rovine lo sguardo s’eleva all’eterno, (entrambi da Le Peintre): immagine di Poussin nel poema girodettiano, rievocato mentre medita dinanzi alle rovine, sottolinea l’importanza della solitudine dell’artista che ammira il passato, eleva il suo pensiero e forgia la sua arte sublime. Quatremère (La rovina e l’illusione dell’infinito, da Le Jupiter Olympienne ou l’art de la sculpture antique…, 1815, in cui tratta della riscoperta della statuaria antica a Roma) - e tutti gli appassionati d’arte antica - vede nelle rovine la sensazione di infinito, l’amore per l’antico si nutre della morte dell’antico, del suo frammento, del piacere di immaginarne una ricomposizione: il vuoto lasciato dalla distruzione e dal tempo, restituisce la speranza di scoperte sempre nuove e stimola il desiderio di ricostruire i grandi monumenti passati con l’erudizione e l’immaginazione. Ciò dipende dal bisogno che la nostra anima ha di aumentare le sue conoscenze e i suoi piaceri e di perfezionare il sentimento del bello. Al piacere si accoppia però una nostalgia generata dalla consapevolezza che ciò che restava dell’antico era inferiore, qualitativamente e quantitativamente a quanto s’era perduto. ® Il frammento romantico Differisce dalla concezione neoclassica (ciò che resta di quanto non esiste più ed è soggetto all’inesorabile fluire del tempo) perché è un microcosmo che rinvia al grande macrocosmo della natura, si basa sulla coscienza dell’infinità di una natura creatrice. Il frammento neoclassico rinvia alla morte, quello romantico alla vita e al divenire. Per Schlegel (L’opera d’arte come frammento, da Frammenti dell’Athenaeum, 1798) il frammento è un organismo autosufficiente e al contempo parte del grande organismo della natura, è quindi un ossimoro (finito e infinito, autonomo e dipendente). Il carattere frammentario permette all’opera d’arte di assimilare in una forma finita l’infinito. Il frammento antico lo è diventato, quello moderno nasce come tale. Il frammento fu un genere “romantico” per eccellenza: musica di Schumann, preludi di Chopin, opere di Delacroix. ® Incompiutezza Allo schizzo e al frammento si unisce il tema dell’incompiutezza e della disperazione dell’artista che, insoddisfatto della propria opera, la considera perennemente incompiuta e per questo è spinto a modificarla all’infinito. Secondo Diderot l’arte non può rendere la vita in tutti i suoi aspetti ed è imperfetta se confrontata con la natura: in natura sia le bellezze che le deformità hanno la sua ragion d’essere (es. della Venere velata) Balzac affronta il tema nel romanzo Il capolavoro sconosciuto, in cui l’artista nel voler dipingere una splendida donna come fosse vivente, la trasfigura rendendola irriconoscibile; nell’arte la vita appare come un frammento e tale è nei confronti della natura. Compito dell’artista non è imitare la natura (l’eccesso di vita disintegra la forma), ma penetrarla, scoprendo affinità e armonie nuove. I.3 Le forme del bello (Pag. 45 e 397) 1. Il bello ® Bellezza espressiva Winckelmann ebbe un seguito per le sue idee sul bello, anche se poco innovative. Esse si rifacevano al pensiero di Bellori, secondo il quale Dio crea i modelli originari delle creature che, nelle sfere celesti, eterne ed immutabili sono perfetti ma nel mondo reale in cui spirito e materia si mescolano, si presentano imperfette: l’artista, imitando il creatore e l’idea di bellezza non corrotta nella sua mente, le riporta a perfezione, partendo dall’osservazione della natura e dalla conoscenza del mondo sensibile. Da questa idea Winckelmann sostiene che i greci erano talmente abituati a osservare una natura bella che trascesero dalla bellezza terrena, per arrivare ad una spirituale, concepita solo intellettualmente (così anche Raffaello scrive nella sua lettera a Baldassarre da Castiglione in occasione del dipinto su Galatea): Winckelmann concepisce l’immagine spirituale del bello presente nella mente dell’artista, che nasce dall’osservazione della natura. Nella Storia dell’arte degli antichi (1764) - Geschichte der Kunst des Alterthums, Winckelmann parla della bellezza suprema che è in Dio e del concetto di bellezza umana, che diventa perfetta se pensata in armonia con l’essenza suprema. Il bello supremo che è in Dio è unitario, indistinto, semplice, statico, mentre il bello della natura è molteplice. C’è un’aspirazione all’assoluto. Nella sua Geschichte, parla della rappresentazione del bello nell’arte che si divide in bellezza individuale e ideale: se la somma bellezza è in Dio, l’artista si avvicina ad essa attraverso il bello ideale, partendo dalla natura e correggendola, innalzandosi alla sfera spirituale. Egli divide la storia dell’arte greca in 4 periodi corrispondenti a 4 stili: • epoca antica: stile solenne ma duro • epoca di Pericle (V sec. a.C) con Fidia: stile sublime ed elevato, è quello che si è più avvicinato alla bellezza suprema, in cui l’arte ha toccato la vetta più alta; la perfezione artistica della Grecia è frutto di un contesto climatico, sociale e politico; egli, per aver storicizzato il bello ideale, si distacca da Bellori • terza età: bello stile (grazia e piacevolezza) • epoca di Alessandro Magno fino all’arte romana, della decadenza: imitazione di capolavori precedenti Winckelmann nella Geschichte si concentra sull’espressione, che è in rapporto dialettico con la bellezza e che è imitazione dello stato attivo e passivo dell’anima e del corpo. Lo stato per lui più confacente alla bellezza è quello di quiete. La bellezza, ago della bilancia: la grandezza dei greci sta nell’aver concepito la bellezza come ago della bilancia dell’espressione. Di questa bellezza ne sono esempio il gruppo di Niobe con le figlie, nel momento della morte il corpo non si rende conto del dolore, ne è indifferente e l’artista coglie quel momento, in cui la bellezza è rappresentata in modo sublime, senza cedere all’espressione; il Laocoonte, in cui viene colto invece il momento di massimo dolore e l’artista lo rende con la massima bellezza, rispecchiando la grandezza d’animo e la forza morale. Per Lessing, invece l’artista greco pose un freno all’espressione delle passioni, non perché spinto dalla grandezza d’animo ma perché talmente forti ed estreme che avrebbero perturbato il bello, prevale per lui la concezione opposta di bellezza inespressiva, senza risvolti etici, è da qui che deriva la grandezza dell’artista greco. Sacrificare l’espressione alla bellezza, da Laokoon, 1766: egli sostiene il limite delle arti dello spazio (la pittura e la scultura) che riescono a rappresentare un solo momento, mentre la poesia è l’unica arte - arte del tempo - che, snodandosi in una successione temporale, riesce a rendere espressioni estreme seguite da espressioni più pacate (espressione subordinata alla bellezza). Anche la pittura e la scultura devono puntare alla bellezza, cui va subordinata l’espressione, come facevano gli antichi, attenuando e mitigando lo strazio, il turbamento etc. (per es. nel Laocoonte), poiché questa se manifestata in forma eccessiva deforma la bellezza. Tra fine 700 e primi 800 c’è un’oscillazione tra la soluzione lessinghiana (bellezza subordina l’espressione) e affermazione del valore della bellezza espressiva: - Mengs ne Il composito paradigma della bellezza (1762) condivide la prima soluzione: sostiene che unico fine degli antichi era la bellezza, a metà tra la perfezione e l’umanità, e che l’arte moderna invece non è riconducibile ad un solo valore. L’artista moderno per ben operare deve guardare alla bellezza degli antichi e di tre grandi artisti moderni, Raffaello per l’espressività, Tiziano per la verità ed il colore, Correggio per l’armonia: soluzione eclettica, a differenza di Winckelmann per il quale l’eclettismo è indice di decadenza. - Reynolds (Il metodo per raggiungere il bello, da Discourses on art, 1770) sostiene che per avere la bellezza indeterminata occorre osservare quanti più esemplari possibili di un oggetto naturale cogliendone le regole generali: tuttavia non vi sono regole precise ed immutabili, quello che conta è l’esperienza, che riesce a vedere i difetti della natura e a correggerli, creando un’idea astratta più vicina alla perfezione di qualunque forma originale. - Blake nelle Annotazioni a Reynolds (La bellezza ideale non si acquisisce perché è un’idea innata) sostiene che la bellezza ideale non possa essere acquisita perché è un’idea sorta nell’immaginazione dell’artista, tutte le forme sono perfette nella mente del poeta, esse sono composte dall’immaginazione, non dalla natura. - Spalletti Il bello è caratteristico, dal suo saggio Sopra la bellezza (1765), dedicato a Mengs, è un sostenitore del bello caratteristico e dei tratti distintivi della realtà, colti dal bravo artista. La verità è il fondamentale criterio di giudizio dell’arte. - Cos’è il bello? Il maggior numero di idee nel più breve tempo possibile, da Lettre sur la sculpture, 1769: - Hemsterhuis sostiene che il bello comunica il maggior numero di idee (bellezza, pericolo etc.) nel minor tempo, quindi deve essere altamente comunicativo. Passione e azione sono preferite alla stasi. - Secondo Lavater (pittore svizzero, Zurigo 1741-1801, L’espressione, specchio dell’anima) nei Frammenti di fisiognomica la fisiognomica coglie i tratti fisici dell’espressione individuale, cioè la scintilla divina, l’interiorità di ciascun uomo, che a suo modo è insostituibile ed indispensabile. La natura è perfetta di per sé, non occorre correggerla, anche ciò che è deforme ha la sua ragion d’essere, anche il peggiore degli uomini ha umanità. Giunge ad un passo dalla rivendicazione romantica del valore del particolare, dell’espressione, della deformità. Visione altamente espressiva. - La forza dell’espressione nell’arte antica, da Aphorisms, chiefly relative to the Fine Arts, 1788-1818): Füssli nel Laocoonte vede una inaudita forza espressiva che sconvolge la forma (per Winckelmann invece c’era il dominio del dolore). Sottolinea come gli artisti antichi si fossero serviti del colore di materiali diversi per valorizzare il carattere espressivo delle loro statue. ® Riabilitazione del brutto Herder nel suo saggio Plastik riabilita la bruttezza, distinguendo tra pittura = arte moderna “romantica”, che per non essere monotona e sterile deve rappresentare tutto e non solo il bello, e la scultura = arte legata al bello ideale e all’antichità classica. Arteaga nella Bellezza ideale (1789) riserva la rappresentazione del brutto solo alla poesia e all’arte drammatica: per lui sia il bello che il brutto non sono la rappresentazione di oggetti belli o brutti, bensì sono l’immagine o l’idea che l’arte si propone di produrre. Il brutto quindi si identifica con un’imitazione incapace di produrre l’illusione e il piacere. Marchese De Sade considera il brutto come categoria positiva che colpisce e commuove più del bello, preannunciando la rivincita romantica del brutto, di cui V. Hugo si sarebbe fatto alfiere. 2. La grazia Si deve a Winckelmann la teorizzazione sulla grazia. La tradizione neoplatonica rinascimentale ha teorizzato la grazia in chiave religiosa: Marsilio Ficino parla di grazia come riflesso divino sulla materia, che suscita nell’uomo amore nei confronti del creatore. Fortuna nella riflessione estetica successiva: grazia come entità che influisce sul sentimento e non sulla ragione, sfugge a qualsiasi definizione, a regole o proporzioni, imperscrutabile. Da qui il concepire l’anima come immortale che godrà del pieno bene in una dimensione ultraterrena. È un mix di materia e spirito, di fisico e metafisico. Il piacevole secondo ragione: Winckelmann, nel suo saggio Von der Grazie in den Werken der Kunst (1759) contrappone al concetto di grazia frivola e mondana che aveva elaborato il rococò una grazia che è dono del cielo, emanazione celeste, come piacevole secondo ragione, lontana dalle passioni e da tutto ciò che è troppo umano, prepara l’uomo a cogliere la bellezza più alta: funge da tramite tra cielo e terra. Per merito di essa, tutto quello che l’uomo fa diventa piacevole. NB: Nell’arte essa costituisce la prova convincente della superiorità delle opere antiche e da queste occorre trarre l’insegnamento del più alto concetto di bellezza astratta, che riguarda tutti gli aspetti della figura umana, sia i gesti che la posizione ma anche gli ornamenti e La natura rappresentata è diversa dal sublime perché è selvaggia, irregolare (ma non infinita), spontanea (ma non incombente sull’uomo). È anche distante dal bello inteso come regolarità, simmetria, immutabilità. Il giardino può essere considerato il luogo principe del pittoresco: la moda del giardino cinese contiene tutti gli ingredienti del pittoresco: spontaneità, mancanza di affettazione, varietà e sorpresa. Horace Walpole si fa promotore della moda del gotico ma anche del giardino inglese arricchito di rovine goticheggianti ed elogia i giardini dell’arch. Kent caratterizzati da varietà e asimmetria, contrapposti a quelli francesi e italiani, in cui dominano regolarità e simmetria. Walpole e la sua residenza di Strawberry Hill, definita in stile gotico-rococò. La ruvidezza, carattere distintivo del pittoresco, da Three essay on Picturesques Beauty, 1794, William Gilpin (1724-1804) teorizza per primo il pittoresco, distinguendolo dal bello per la sua ruvidezza (per le superfici), scabrosità (per i contorni), irregolarità, varietà, contrasto, che contiene l’idea del non finito e del frammento: per questo riconosce nella rappresentazione delle rovine un tratto del pittoresco. Gilpin sostiene che una cosa bella in natura, per essere resa bella in pittura poteva essere trasformata in rovina (per es. ville palladiane). Quando l’anatomia è esatta, il corpo in movimento è più pittoresco, ma sono poche le sculture di antichi maestri mostrate in azione molto animata, che destano ammirazione (Antinoo, Laocoonte). Una linea elegante deve essere perfetta, perché in essa si nota anche il minimo errore, cosa che non si nota in un oggetto scabro. Anche il colore nel pittoresco dà più possibilità di esprimersi al pittore. Infine, l’occhio pittoresco trova i suoi maggiori oggetti nella natura, ma talvolta anche nelle immagini artistiche che hanno determinate caratteristiche. Il giardino pittoresco: un paese di illusioni, da Jardin de Monceau près de Paris, 1779, Carmontelle: molti furono i giardini inglesi realizzati in Europa, vd. quello realizzato per il duca di Orleans, Parc Monceau, a Parigi, realizzato da Louis Carrogis detto Carmontelle: è un giardino inusuale, vario, che rompe con la monotonia dei giardini inglesi, è una sorta di viaggio nel tempo e nello spazio, è mutevole come il clima, il suo fine è divertire per la varietà che si trova in natura, ma la natura è celatamente addomesticata, solo apparentemente selvaggia, spontanea e naturale. Il fascino dei giardini cinesi, da Designs of Chinese Buildings, Furnitures, Dresses, Machines and Utensils, 1757: l’architetto William Chambers, vissuto in Oriente, contribuì alla diffusione della moda cinese in Europa, anche nei giardini; egli sosteneva l’originalità di questo popolo e non vedeva difficoltà, nonostante l’architettura cinese non rispondesse alle esigenze di quella europea, a rifinire alcuni giardini secondo il loro gusto, che prevede di rifarsi alla natura e di imitarla in tutte le sue irregolarità, alternando scene di orrore a scene piacevoli, poiché il contrasto agisce sull’animo umano; così il loro modo di nascondere parte della composizione stimola la curiosità. II. NASCITA E SVILUPPO DELL’ESTETICA: UN PERCORSO ESSENZIALE (Pag. 67 e pag. 427) È alla metà del XVIII secolo che il filosofo Baumgarten (Definizione della scienza estetica), con il secondo tomo dell’Estetica (1750-58, aggettivo dal greco, significa ciò che si percepisce con i sensi, sottintende conoscenza, fa parte della gnoseologia ma è distinta dalla logica, che riguarda la conoscenza intellettuale) dà un contributo fondamentale allo sviluppo di questa branca, legata all’esperienza dei sensi, che inizia a coniugare arte e bellezza ed è proprio in questo secolo che si unificano le arti visive, poesia e musica. Il concetto di arte nei secoli ha subito profonde modificazioni: nell’antichità e nel medioevo esse erano divise tra arti meccaniche, fondate sulla forza fisica, e liberali – fondate sull’intelletto, suddivise in: Trivio – grammatica, retorica, logica, cui fu unita la poesia – e Quadrivio – aritmetica, geometria, astronomia e musica. Nel Rinascimento si arrivò alla concezione moderna di arte, affrancata dalle arti meccaniche ed assimilata a quelle liberali ma scientifiche, e posta sullo stesso piano della poesia, nel frattempo divenuta l’arte più importante del Trivio. Dal manierismo e poi nel Seicento si consuma definitivamente la scissione arte-scienza e si crea il terreno adatto per arrivare, durante il Settecento, con il trattato di Batteux, a concepire le belle arti come un sistema, unite dal principio dell’imitazione della natura, di cui facevano parte le arti figurative, musica, danza, poesia, distinte da quelle meccaniche, che fondevano utilità e piacere. Il costituirsi della nozione “belle arti” e la nascita dell’estetica, con il riconoscimento di un’esperienza estetica autonoma dalla logica, è espressione di una cultura che si sforza di definire il carattere costitutivo dell’arte, prendendo coscienza della sua autonomia: con Winckelmann, nasce la storia dell’arte che identifica lo stile con l’elemento fondamentale dell’opera artistica, nascono i musei e la creazione artistica viene concepita come organismo autonomo. L’estetica deriva dalla definizione di Cartesio di verità, chiara e distinta (dove il distinto sta ad un livello superiore rispetto alla chiarezza), e da Leibniz che aveva unito il distinto con il razionale e il confuso con il sensibile. Baumgarten, partendo da qui, definisce l’estetica come scienza della conoscenza sensibile, gnoseologia inferiore, prerazionale, inferiore rispetto alla logica, una forma di conoscenza chiara ma indistinta: le cose sensibili, le immagini fantastiche, le passioni etc. fanno parte dell’uomo e non sono indegne dei filosofi e la confusione, madre dell’errore, fa scoprire la verità. Fine dell’estetica è la perfezione della conoscenza sensibile (= complesso delle rappresentazioni che restano al di sotto della distinzione) e questa coincide con la bellezza. La conoscenza sensibile non è solo quella percepita dai sensi, ma anche quella che ci fa percepire diversi caratteri di un oggetto in una volta sola, senza distinguerli e comprende tutte le perfezioni delle forme esteriori (linee, superfici, volumi etc.). L’essenza delle belle arti e delle belle lettere consiste in una rappresentazione artistica sensibilmente perfetta, in una perfezione sensibile rappresentata per mezzo dell’arte. Fu Mendelssohn (seguace di Baumgarten) nel suo trattato del 1757 (Bellezza e sentimento) a unire esplicitamente estetica e arti, distinguendo le stesse in base all’uso dei segni e individuando gli effetti che ha l’esperienza estetica (perfezione della conoscenza sensibile) sull’anima umana: attraverso il bello e i suoi effetti era possibile ricavare informazioni sul funzionamento dell’anima. Per il suo effetto sull’uomo, il filosofo non si può disinteressare alle belle arti e lettere, perché lo studio dei sentimenti apre nuove prospettive sulla dottrina dell’anima, inesauribile come la natura, che i soli ragionamenti non svelerebbero. La bellezza ci incanta in natura, ma l’uomo ha imparato a riprodurla nelle opere d’arte ed essa penetra nella nostra anima attraverso i sensi, anche se i gradi di soddisfazione ed insoddisfazione sono diversi, perché diverse sono le facoltà dell’uomo e le belle arti agiscono diversamente sulla nostra anima. Fu Hutcheson a soggettivizzare l’esperienza estetica, sostenendo che il bello non è una proprietà oggettiva delle cose, ma una percezione mentale: concezione soggettivistica dell’esperienza estetica. Fu Hume a sostenere che il bello è una forma che produce piacere. Kant arrivò ad una sintesi dei due approcci, rifiutando l’idea di Baumgarten secondo cui l’esperienza estetica era una forma sensibile del conoscere e legandola al sentimento che non ha alcun fine conoscitivo e ad una forma di conoscenza intuitiva e sensibile, basata sulle categorie di spazio e tempo, che non aveva nulla a che vedere con l’arte ed il bello. Successivamente la legò ad esse, ma non come atto conoscitivo (Baumgarten) e, superando le teorie soggettivistiche legate al sentimento, la concepì come frutto congiunto di immaginazione e intelletto (il bello è un oggetto che piace per l’armonia tra le due componenti), i cui principi di funzionamento sono universali e quindi esso è ad un tempo soggettivo e universale, si basa sulla capacità di giudizio estetico dell’individuo, che coinvolge a fini non conoscitivi sentimento ed intelletto, che è uguale in tutti gli uomini. Nel XIX secolo Schelling (L’arte, l’unico ed eterno organo della filosofia), mutuandola dal primo Romanticismo di Novalis, Schlegel, Hoelderlin, nel suo trattato riconobbe nell’esperienza estetica (che per Kant era priva di funzioni conoscitive), lo strumento per arrivare all’Assoluto, incondizionato, sciolto da ogni legame, alla verità suprema: per questo l’arte sarebbe la forma più alta di conoscenza, superiore alla filosofia, capace di dissolvere la contraddizione tra conscio e inconscio, finito e infinito, soggetto ed oggetto, io e natura, è fruibile a tutti gli uomini. Essa è creata inconsciamente, quindi prossima alla natura, ma allo stesso tempo prodotto della libertà e della coscienza (elemento soggettivo), è intuizione intellettuale divenuta sensibile. Essa è inoltre la presentazione dell’infinito nel finito e il bello è l’infinito espresso in modo finito, è la forma suprema di conoscenza, mentre la conoscenza cui giunge la filosofia si basa solo sull’elemento soggettivo. L’arte è quindi strumento fondamentale della filosofia. Kant nella Critica della ragion pura (La capacità di giudizio estetica) indicava nell’estetica trascendentale una forma intuitiva di conoscenza, senza rapporto con l’arte e il bello, nella terza Critica egli la trasforma in capacità di giudicare in cui intelletto e immaginazione innescano uno stato d’animo di piacere e dispiacere. Hegel nelle sue Lezioni di estetica (1817) considera l’arte come strumento per attingere all’assoluto e distingue tre fasi del suo sviluppo, che coincidono con le fasi di sviluppo dell’umanità: simbolica, dove l’idea non si fonde con il sensibile e rimane astratta (architettura), arte classica greco-romana, dove c’è una perfetta unione tra forma e contenuto (scultura), romantica, dove con il cristianesimo fa sovrabbondare lo spirito sulla forma (pittura, poesia, musica). Con l’affermazione della borghesia, prosaica e riflessiva, l’arte cessa la sua funzione di appagamento dello spirito e coerentemente allo spirito dell’epoca (in cui stava emergendo il romanzo) l’artista perde il suo ruolo sacrale: Baudelaire in L’albatro esprime la condizione di esilio dell’artista, imprigionato in un mondo mediocre. Su questo, sulla società di massa e sulle conseguenze della riproducibilità meccanica delle opere che così perdono la loro aurea di unicità, Walter Benjamin ha scritto molto. III. LE ARTI VISIVE E LE ALTRE ESPRESSIONI ARTISTICHE (Pag. 75 e pag. 435) L'affermarsi del sistema delle belle arti nel 700 è frutto della consapevolezza che tra le diverse forme d’espressione artistica ci sono affinità: si affermarono due schieramenti contrapposti il primo dei quali pose l'accento sulle affinità auspicandone la fusione (Reynolds) ed altri (Lessing, Quatremère, Goethe) che sostenevano l’autonomia d’ogni arte. 1. Ut pictura poesis L'idea di una somiglianza tra pittura e poesia risale all'antichità, ma si consolida nel Rinascimento, momento nel quale si rivendica la dignità intellettuale dell'arte figurativa con l’ut pictura poesis. Nel Seicento, con il crollo del modello arte come scienza, si consolida il principio della pittura come poesia, che comportò la nascita di una gerarchia dei generi pittorici, al cui vertice si poneva la pittura di storia. Nella seconda metà del Settecento il rapporto tra arti figurative e poesia mutò, si comincio a concepire pittura e poesia come arti diverse, ciascuna con i propri limiti. Diderot, insoddisfatto del sistema di Batteux, che riconduceva le arti al principio dell'imitazione della natura, egli era consapevole che ognuna di esse avesse un suo codice e utilizzasse i suoi segni. Così ciò che appare bello in poesia non necessariamente lo è in pittura. Diderot è già convinto che il problema dell’artista risiede nella scelta di un momento appropriato alla raffigurazione pittorica. Lessing nel suo Laokoon, dà un duro colpo al principio dell’ut pictura poesis, dichiarando che la pittura e la poesia non possono imitarsi reciprocamente, perché la pittura è un'arte spaziale, oggetto ne sono i corpi e quindi deve puntare alla bellezza fisica, mentre la poesia è un'arte temporale e suo oggetto sono le azioni. La pittura non può rappresentare più momenti di un'azione ma solo un istante. In contrapposizione alla teoria accademica seicentesca secondo cui il principio dell’ut… doveva rispettare le norme della verosimiglianza, Reynolds (Pittura e poesia hanno il medesimo fine: colpire l’immaginazione, da Discourses on Arts, 1786) sostenne che unico era il fine delle arti sorelle, ovvero colpire l'immaginazione andando oltre la natura e non imitandola, svalutando la gerarchia dei generi (stralcio dai suoi discorsi accademici). La poesia si rivolge alle stesse facoltà della pittura ma con mezzi diversi. Genio e immaginazione, argomenti centrali nella cultura inglese settecentesca, favorirono una nuova libertà nel rapporto tra le arti: Shakespeare, che rappresentava l’esempio di teatro anticlassico, e Milton, il poeta del terribile, autorizzavano gli artisti che ne illustravano le opere a rappresentare il soprannaturale, il grottesco, l'onirico, il terribile. Winckelmann e Lessing affermavano invece la diversità tra poesia e pittura. Pittura e poesia s’elevano a concezioni metafisiche, Girodet, pittore-poeta neoclassico di cultura letteraria estremamente fine, estremizzò il pensiero di Reynolds in chiave antiaccademica: il suo poema Le Peintre (1801-24), che si inserisce nel filone della poesia descrittiva, mirava a dipingere con le parole. Si legge un’appassionata difesa dell’ut pictura: il rapporto tra le due arti non è un semplice rifarsi del poeta a soggetti pittorici e viceversa, ma si riconduce ad una ispirazione di idee e di spirito, così egli paragona la purezza del Vangelo alla pittura di Raffaello, o la maestà terribile della Bibbia a quella di Michelangelo. In questo modo poesia e pittura si elevano a concezioni metafisiche. Secondo Lessing invece la poesia era più adatta ai voli della fantasia, per questo le attribuiva un primato, ed intendeva anche liberarla dai vincoli della mimesi, da cui però era esclusa la pittura. Secondo lui l'arte non deve dire tutto ma lasciare qualcosa in sospeso, per stimolare l’immaginazione del fruitore, e in questo la poesia era più adatta rispetto alla pittura. Girodet sostiene il carattere metafisico della poesia ma, contrariamente a Lessing, crede che anche la pittura possa elevarsi al di sopra della realtà, essere veicolo di idee, facendosi satira attraverso l'allegoria. Questo pensiero è confermato da suoi dipinti, che infrangono il principio accademico della verosimiglianza fino ad apparire complicati dalle allegorie, le quali compromettono le finalità della verosimiglianza che l'accademia affidava alle arti, indicate anche da Orazio, ovvero il dilettare e istruire. Tuttavia, la pittura di Girodet anche se puntava al superamento del principio mimetico, non abbandonava l’idea che dovesse imitare in qualche modo la realtà, a differenza invece di William Blake, nella sua pittura infatti la realtà è solo un supporto che rimanda ad un’idea astratta e metafisica. 5. Fusione o separazione delle arti La riflessione sulla specificità delle singole arti ingloba la questione della validità estetica della loro fusione. Mendelssohn, dopo Batteux, teorizza la distinzione in base all'uso di segni naturali, le cosiddette beaux-arts (pittura, scultura, architettura, danza) o artificiali, le belles lettres (poesia, eloquenza), ulteriormente distinte in segni continui o successivi (anticipa Lessing con distinzione tra pittura come arte dello spazio e poesia come arte del tempo). Egli si dimostra scettico a proposito di una fusione tra arti che rappresentano bellezze in una serie contigua con arti che le rappresentano in una serie consecutiva. Unire le arti per potenziare la verosimiglianza è sbagliato, da Dissertation sur les Operas bouffons, 1789, anche Quatremère è sostenitore dell'autonomia delle arti e vede nella musica un ruolo predominante rispetto al testo poetico, questa è un linguaggio autonomo dalla poesia ed è in grado di emozionare maggiormente lo spettatore e gli si scaglia contro la diffusa convinzione che l'unione di arti differenti conferisca all'opera una più completa illusione di realtà, in quanto il fascino di ogni arte risiede proprio nell’incompletezza delle illusioni che crea e completarle con l’ausilio di un’altra arte significa snaturare il significato della creazione artistica. Tenere distinte le arti, dal primo numero della rivista “Propylaien”, fondata da Goethe, anche Goethe sostiene che l'opera d'arte sia un organismo autosufficiente e che le arti siano autonome. Erede della posizione di Reynolds fu il pittore Neveu (Mescolare le arti non aumenta il fascino, dalla rivista del politecnico dove insegnava) che vedeva nell'unione delle arti un mezzo per colpire l'immaginazione e rapire l'animo dello spettatore. Il fatto che le varie arti usino mezzi diversi non vuol dire che siano in opposizione, le loro differenze sono un’attrattiva in più, ma per unire le arti servirebbe un genio più che umano, un artista che fosse contemporaneamente pittore, poeta, musicista etc. e con l’unità di stile e di composizione infonderebbe le sue opere della più perfetta unità e dell’effetto più imponente. Le arti devono superare i loro limiti, dalla 22° delle lettere sull’educazione estetica dell’uomo, pubblicate nel 1795 nella rivista “Die Horen”, Schiller più di tutti teorizzò la necessità che le singole arti valicassero i propri confini e si identificassero: quando un'arte arriva al più alto grado creativo essa è pura forma, non contenuto, è stile, non imitazione della realtà o illusione della realtà. A livello di pura forma le arti si assomigliano e superano i loro confini, andando oltre il principio mimetico, e dialogano tra loro. Questo vagheggiamento romantico di una fusione tra arti esclude il potenziamento dell'illusione di realtà ed implica la rottura col principio di imitazione della natura con esiti che sfiorano l'astrazione. Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento la musica fu riconosciuta come arte significativa ed espressiva e come arte autonoma dal testo cantato: la musica strumentale era pura musica con una dignità superiore che non aveva nessun riferimento al reale e potesse quindi rivelare i sentimenti dell'uomo in modo assoluto. Wackenroder dichiarava che essa rappresenta i sentimenti umani in maniera soprannaturale. Legare la pittura alla musica significava aspirare a un'arte in cui l'aspetto formale fosse protagonista ed il rapporto con la realtà del tutto secondario. Interessante la posizione di Runge sul rapporto tra pittura e musica: nel 1803-04 fece una serie di sperimentazioni sull’arabesco, in cui elementi naturali sono ricomposti in un insieme musicale, con valenza decorativa e non rappresentativa della natura. Il rapporto pittura-musica poteva presentarsi anche sotto la forma del concepimento di un’opera pittorica accompagnata da un testo musicale: in quegli stessi anni fu elaborato il progetto del ciclo delle Tageszeiten, fasi del giorno, di cui saranno realizzate due versioni a olio del Mattino e un abbozzo del Giorno. Runge accompagnò il ciclo con un commento in versi, che a sua volta sarebbe stato messo in musica e presentato in un’architettura gotica. Il ciclo fu da lui inteso come una poesia astratta, pittorica, fantastico-musicale con cori, una composizione per le tre arti riunite. In una lettera al fratello Daniel del 1803 (Rendere il visibile il legame di matematica, musica e colori), Runge ricordava il legame della matematica, della musica e dei colori scritto in grandi fiori, in figure e in linee. Negli anni successivi la riflessione proseguì con un'indagine sui rapporti strutturali tra pittura e musica (L’analogia di colori e suoni, da Conversazioni intorno all’analogia dei colori con i suoni), tra colori e suoni, luce ombra e bassi alti. Pittura e musica: una simbiosi, da una lettera a Schukowski del 1835, in cui descrive come dovevano essere collocati e fruiti i dipinti, Friedrich riprende l'idea rungiana di accompagnare i dipinti con brani musicali e realizzò acquarelli su carta trasparente rappresentanti allegorie dei vari tipi di musica, che potessero essere illuminati da dietro; quindi l'accompagnamento musicale era concepito come parte integrante del significato allegorico dei dipinti; l'opera doveva essere fruita in una sorta di messa in scena teatrale. Lo spettacolo rapiva così l'osservatore in una sfera sinestetica. L'idea di cicli pittorici ispirati alla musica di Runge e Friedrich sarà ripresa in seguito da Max Klinger e Klimt. Il sogno sinestetico romantico è collegato all'idea che nella primissima infanzia le nostre percezioni sensoriali siano unite e che si separino solo più tardi: l'arte allora cerca di ricreare la luce originaria, l’unità sensoriale che rispecchia la natura, su cui si fondava la concezione organicistica del mondo tipica del primo Romanticismo. Lo scrittore Hoffmann (Un meraviglioso concerto di colori, suoni, profumi, creò un suo alter ego nel musicista immaginario Kreisler, che scrisse una serie di testi sulla musica) vide nelle impressioni multisensoriali che si provano nel dormiveglia una forma di regressione all’unità percettiva originaria. La sinestesia e fusione fu sostenuta anche da Wagner e costituirà presupposto importante per la cultura simbolista e per alcune avanguardie storiche: Scrjabin, Kandinsky, Ciurlionis, Kafka realizzeranno veri e propri dipinti musicali. Tra fine 800 inizio 900 sfociarono nell'astrattismo, in un ambiente in cui si praticava l'occultismo: l'artista era come un medium capace di entrare in contatto con il mondo che sta al di là dell'apparenza e di trasmettere agli altri le tracce. L'arte visiva diventa musicale perché rispecchia e veicola, per mezzo di linee e colori privi di alcun riferimento al reale, le onde e gli impulsi di quella dimensione occulta. L'artista medium trova il suo antecedente nel profeta, che va al di là di ciò che appare per cogliere l'unità psicofisica originaria, laddove le percezioni sensoriali sono fuse. IV. LA TEORIA ARCHITETTONICA: DAL FUNZIONALISMO ALL’ARCHITETTURA PARLANTE L'Illuminismo si caratterizzò per la revisione critica posta al vaglio della ragione, di molti temi, compresi i modelli architettonici del passato, come Vitruvio, sino ad allora ritenuto intoccabile, ed impose radicalità, essenzialità e funzionalità. Nel 1709 l'abate De Cordemoy, con il Nouveau traites de toute l'architecture, sottopose a revisione critica gli ordini architettonici, liberandoli da quelle alterazioni subite nel corso della storia, che avevano offuscato la funzione primaria e pose come modello l'architettura greca, ritenuta superiore alla romana, e quella gotica, auspicando una fusione dei due stili nella pratica costruttiva moderna. Tali considerazioni furono estremizzate dall'abate gesuita Laugier, che rivalutò l'essenzialità della capanna primitiva, assurgendola a modello dell'arte architettonica, e caratterizzata da quegli elementi orizzontali, verticali ed obliqui, che costituiscono elementi essenziali (colonna, trabeazione, tetto) per il lavoro dell’architetto: non si toglie nulla ad esso, l’architettura non è ridotta a zero (come qualcuno obietta), perché se egli ha talento e sa di geometria, potrà realizzare infinite forme senza difetti. La capanna risaliva a Vitruvio (modello di origine dell’architettura, poi evolutasi attraverso il tempio e la creazione dell’ordine dorico), ma con il gesuita (La natura come fondamento dell’architettura: la capanna primitiva, da Essai sur l’architecture, 1775) essa scavalcò la storia per tornare all'origine dell'architettura proprio come il disegno al puro contorno, in voga nella seconda metà del secolo. Tali teorie erano l'espressione delle tendenze primitiviste dell'epoca, che esprimevano un’aspirazione alla tabula rasa e che sostenevano la superiorità dell'architettura greca che a differenza della romana non avrebbe tradito il modello primitivo (da qui la fortuna dell'ordine dorico, per esempio a Paestum) e del gotico. La capanna era per Laugier sinonimo di natura e ragione, perché nata dal bisogno dell'uomo di ripararsi e nella sua essenzialità assolve la sua funzione. Se la bellezza consisteva dunque nell'essenzialità, a ciò si univa un rifiuto del superfluo, dell'ornamento, un'esaltazione della funzione. Tali posizioni furono criticate: Guillaumot (L’architettura opera dell’uomo, non della natura, da un saggio del 1768) biasimò l'abate per aver considerato l'architettura opera della natura e non dell'uomo, avendone ridotto le possibilità, limitandola al rozzo prototipo primitivo solo perché più naturale, e per aver rilevato presunti errori in capolavori architettonici del passato (colonnato del Bernini, per es.); egli lo criticò anche per aver valutato positivamente l'architettura gotica, ritenuta testimonianza dell’ignoranza e del cattivo gusto dei barbari. La posizione di Laugier non fu isolata: l'architetto Soufflot, per esempio, fece uno studio dettagliato della chiesa di Sainte Geneviève (Pantheon), come struttura ridotta all'essenza delle sue funzioni, in essa greco e gotico erano fusi in un’aspirazione alla autenticità e alla purezza. Tali riflessioni relative alla associazione di greco e gotico si allargarono anche alla storia dell'arte. Prima di Laugier, l'abate veneziano Carlo Lodoli fu convinto assertore del funzionalismo in architettura: egli non lasciò scritti, ma le sue idee furono rese note dal seguace Andrea Memmo (Parola d’ordine: funzione, da Elementi di architettura lodoliana, 1786). Egli considerava il materiale e la tecnica fattori stilistici fondamentali, ogni elemento estraneo andava bandito e reputava necessario che gli edifici mostrassero nella loro forma anche la loro funzione, applicando queste idee anche ad oggetti (sedie, gondole) che dovevano essere comodi e rispecchiare le esigenze di chi li usava ed abitava. Quando il bello coincide con il necessario, da Principi d’architettura civile, 1785, anche Milizia, fautore delle idee più rigoriste, comprensive della teoria che considerava la capanna come esempio e modello d’architettura, sosteneva che la bellezza doveva scaturire dalla necessità e che in un edificio ogni elemento (anche l’ornato) dovesse rispondere ad una funzione precisa. Da illuminista egli sottolineò altresì il relativismo del gusto architettonico che, cambiando in ogni epoca, non poteva costituire una fonte di verità, da qui le cosiddette autorità come Vitruvio non rappresentavano modelli assoluti, ma andavano corretti alla luce della ragione. Seguire la ragione, non l’autorità, da Principi d’architettura civile: egli afferma la superiorità del gotico, come stile che si è imposto per più di 10 secoli, sia in Grecia che in Italia, e lo considera come modello di razionalità dal fondamento naturale: egli vaglia le ipotesi sulla sua origine, si mostra favorevole all’idea che le chiese derivino dai boschi, poiché lo stile deriverebbe da popoli pagani dell’Europa settentrionale, abituati a pregare i loro dei nei boschi che, una volta convertitisi al cristianesimo, decisero di costruire chiese sul modello del loro ambiente di preghiera originario. I movimenti funzionalisti del XX secolo trovarono in queste teorie i loro precedenti. L'idea di una superiorità dell'architettura greca rispetto a quella romana si diffuse sia grazie ai Gedanken del 1755 di Winckelmann che ad altri testi, ma contro tale convinzione si scagliò Piranesi, che nel 1761 pubblicò Della magnificenza e architettura dei romani, sottolineando come tale arte fosse autonoma e originale e come essa avesse corretto l'arte greca. I puristi sostenitori delle teorie razionaliste e funzionaliste passarono al contrattacco contestando punto per punto le affermazioni di Piranesi, che rispose nell'opuscolo Osservazioni sopra la lettera di Mariette (Ragioni o libertà di ornato? 1765), concluso da un dialogo immaginario tra Protopiro, assertore delle tesi rigoriste e Didascalo, portavoce delle idee di Piranesi, sul parere sull'architettura: egli dimostra che se si eleva a un altro criterio la semplicità e la funzionalità, si eliminano i presunti abusi, ma anche le ragioni dell'architettura, e si disattende al gusto del pubblico, che ama la varietà e la sorpresa. Le fantasie architettoniche delle incisioni pubblicate nell'opuscolo comprovano questa conclusione e costituiscono una provocatoria visualizzazione della rivendicazione della libertà che l'architetto ha di inventare ornati e mescolare gli stili. Egli concepiva il passato come un grande serbatoio di maniere e stili diversi cui attingere, nessuno dei quali aveva regole certe nei modelli validi universalmente, ma una ricchezza di soluzioni da cui trarre ispirazione. Da qui la rivalutazione dell'architettura romana. La coscienza del relativismo del gusto che spingeva Laugier ad andare oltre la storia, portava Piranesi sulla strada opposta della mescolanza degli stili, cosa che però escludeva qualunque innovazione, concentrandosi unicamente sull’ornato. NB: Nel rigorismo dei grecisti e nello storicismo di Piranesi si manifestano i due volti del XVIII secolo, che in Winckelmann trovano un’originale sintesi. Estremamente innovativi furono invece due architetti francesi Boullée e Ledoux, che aspiravano ad un’architettura di solidi geometrici puri, non riconducibili a nessun prototipo classico. Ledoux, nel suo trattato del 1804, sosteneva che l'architetto doveva mostrare nella forma la funzione e il carattere dell'edificio, in una sorta di architettura parlante. Il carattere espressivo degli edifici conferiva loro una funzione sociale e morale, la stessa che a partire da La Font de Saint-Yenne, fu conferita alla pittura di storia. Queste stesse idee furono elaborate da Boullée in Consideration sur l'importance et l'utilité de l'architecture, 1799, e Architecture. Essai sur l'art, il cui esordio (L’architettura parlante: gli edifici come poemi) contiene dichiarazioni fondamentali prese altrove (Dare ai monumenti il carattere che loro è proprio): le forme architettoniche devono suscitare nello spettatore sentimenti omogenei all'uso per cui sono fatte e grazie alla capacità di agire sulla sfera sentimentale, esse possono essere considerate una forma di poesia (cita la chiesa metropolitana, i monumenti funebri come es.) La capacità di suscitare sentimenti deriva dalla scelta di determinate forme: il problema della scelta è sviluppato in un'altra parte dell'Essai (Creare servendosi della natura) laddove dimostra che forme irregolari generano confusione, mentre quelle regolari si adattano alla conformazione umana, che ha in sé armonia, simmetria e proporzione: la forma perfetta è la sfera, in quanto sintesi di queste qualità; essa rappresenta la simmetria più perfetta (perché è immagine di ordine e perfezione), da cui deriva la varietà più infinita (che piace agli uomini perché soddisfa il bisogno dell’anima di abbracciare oggetti diversi), sviluppa la massima rappresentare la Morte del generale Wolfe, il quale permise all’Inghilterra di conquistare il Nordamerica, estromettendo i francesi, e lo fece facendo indossare ai personaggi le vesti reali e non quelle storiche, destando lo stupore perfino di re Giorgio III. L’attualità veniva elevata ad una dignità senza pari, rappresentata senza travestimenti mitologici o antichizzanti; in America, ancor più che in Inghilterra, la mancanza di una tradizione accademica aveva dato adito ad una vera e propria dichiarazione d’indipendenza dal mondo antico. Un altro americano impiantato a Londra, Singleton Copley, andò oltre West, raffigurando con Watson e il pescecane (1778), un fatto di cronaca, attraverso un linguaggio alto, ispirato ai capolavori del passato, che costituisce un innegabile precedente della Zattera della medusa di Géricault (1819). Nell’Ottocento la pittura di storia perde il suo significato morale: vd. Esecuzione dell’arciduca Massimiliano d’Austria di Manet (1867), che evoca un vuoto emozionale. 2. Il ritratto Oggetto di varie riflessioni, nasce con la leggenda di Plinio della fanciulla di Corinto, Dibutade, che tracciò il profilo del suo amante ricalcando il contorno dell’ombra proiettata su un muro. Non godeva di un’alta considerazione: La Font considerava l’abbandono del grande genere storico dell’epoca di Luigi XIV a vantaggio del ritratto come un fattore di decadenza della pittura francese, era un genere che costringeva il pittore a ritrarre chiunque, anche gente indegna, dietro promessa di un guadagno. Da qui l’ammissione del ritratto solo per certe categorie di cittadini, come per re, governatori, ministri avveduti, che si distinguevano per loro qualità e meriti. Su questa scia Diderot (Il ritratto: un genere repubblicano, da Essai sur la Peinture, 1766), secondo il quale ci sono tanti generi di pittura quanti sono i generi poetici, lo considerava un genere repubblicano, perché adatto a ritrarre coloro che contribuivano al bene pubblico. Lo riteneva un genere nobile, poiché tutti i grandi pittori avevano ritratto ed il suo abbandono a favore di altri generi lo considera un segno di decadenza. Egli nel Salon de 1767 (Il ritratto dell’imbrattante e quello del pittore di storia) sottolinea che il pittore di storia è un cattivo ritrattista, perché non si è mai occupato dell’imitazione rigorosa della natura e perché segue molte regole che dirigono il suo pennello. Trovò una certa diffusione in Germania il ritratto silhouette, che partiva dal disegno dei contorni sulla base di un’ombra, proprio come Dibutade. Lavater lo considerò come l’immagine più fedele dell’uomo esaltandone il carattere scientifico. C’era invece chi sosteneva che la somiglianza fosse uno svantaggio, perché quando si punta ad un ritratto eterno è necessario che lo stesso sia ideale e non verosimile: nel tempo, infatti è l’immagine artistica che sopravvive, non quella somigliante. Nel 1768 Joseph von Sonnenfels disse che il ritratto doveva essere eterno e sopravvivere al suo modello ed in questa prospettiva di lunga durata egli era convinto che il ritratto fosse destinato non tanto alla famiglia quanto ad un museo pubblico, che interessava per ragioni estetiche, qualità formali e solo in seconda istanza per il personaggio ritratto® sintomo del vacillare della teoria dei generi che si basava proprio sulla nobiltà del soggetto. Anche Reynolds (Vantaggi e svantaggi del nobilitare un ritratto, da Discourses on Art, 1770) lo reputava un genere inferiore perché legato al modello, ma fu un fautore del ritratto idealizzato, in cui il pittore, a scapito della somiglianza, doveva cogliere l’idea, l’immagine espressiva, in questo modo anche un genere inferiore poteva migliorarsi, prendendo a prestito dal grande. Così anche Milizia, per quanto sostenesse che un ritratto dovesse essere somigliante, si dichiarava apertamente per il ritratto ideale, in cui alcuni tratti (quelli che lui chiama “grandi”, ovvero la fronte, il naso, il mento, le guance) erano adattati, per esaltare le caratteristiche del soggetto ritratto: nel Dizionario delle belle arti del disegno, 1797, fa un Elogio della menzogna, in cui questa entra nelle espressioni della verità, rendendo tutto ideale e magico agli occhi dello spettatore, attraverso il prestigio dell’imitazione. Secondo lui i ritrattisti sono artigiani meschini che sono riusciti artisti. Era anche espressione dell’idea neoclassica dell’illusionismo ingannatore, l’arte deve puntare alla verità dell’idea, per ingannare la morte. ®La pittura di genere Corregger i vizi: La via del sublime e del grottesco, da Salon del 1761, William Hogart spiega le motivazioni che lo hanno spinto a realizzare La via del gin, raffigurando tutte le conseguenze dell’alcolismo, e La via della birra con i vantaggi che arreca, se bevuta al posto del gin, puntando su uno stile a metà tra il sublime ed il grottesco, al fine di correggere i vizi dilaganti della società (alcolismo). Egli realizza le sue opere in modo che siano facilmente divulgabili e fruibili dal pubblico meno abbiente, poiché il suo fine è sociale. La pittura morale di Greuze, da Autobiographical Notes, 1751, Diderot apprezza la pittura di Greuze, che realizza scene di genere d’ambientazione borghese e contenuto moraleggiante e ne recensisce positivamente la Pietà filiale, esposta al Salon, perché pittura morale. Quando un pittore di genere fa un dipinto di storia, da Salon de 1769, Diderot: in questo scritto fa un resoconto della vicenda del dipinto di storia Settimio Severo di Greuze, con cui il pittore tentò di passare dal grado di agrée (il più basso), con cui era entrato all’Accademia come pittore di genere, a quello di academicien, come pittore di storia. Fu premiato più per la carriera che per questo dipinto, giudicato indegno dalla giuria. Difesa della pittura di genere, da Reflexion sur la restauration des tableaux, 1764 Jean Baptiste Le Brun: il pittore, presentando alla Società degli Artisti un progetto sull’organizzazione di un concorso per la selezione dei restauratori delle collezioni del Louvre, polemizza con un collega che disprezzava i quadri fiamminghi e sostiene che tutti i soggetti sono degni di essere dipinti, quando essi non avviliscono l’uomo. Egli li osserva o come cittadino virtuoso occupato nella cura della sua famiglia, o come l’imitazione perfetta della natura, unico fine dell’arte. Utilità sociale e politica della pittura di genere, da Lettera al Presidente dell’Institute de France, 1799, Nicolas Quinette: è il ministro dell’Interno, che chiede che venga riconosciuta dignità ai pittori di genere, poiché i loro soggetti sul dramma domestico sono utili al governo, più di quelli dei soggetti storici. ®La natura morta Elogio di Chardin, da Salon de 1763 Diderot: è la entusiastica recensione del Boccale di olive di Chardin, esposto al Salon nel 1763, in cui Diderot esalta la pittura di Chardin, che sembra saltar fuori dalla tela. Egli sostiene che copiare la natura è ugualmente difficile che copiare altri soggetti. Lo ritiene un grande pittore, ma non di storia. 3. Il genere agréable e il genere “eroico” Per fugare gli effetti di sensualità e disimpegno dell’arte rococò, La Font de Saint-Yenne auspicò un ritorno alla pittura di storia, capace di istruire il pubblico: tale auspicio si realizzò con David, che impose al pubblico una pittura grandiosa, solenne, severa e spartana, un neoclassicismo etico, dove il recupero dell’antico era un auspicio al ritorno alla moralità dei romani. Tuttavia, la riscoperta dell’antichità ebbe tanti volti, uno di questi fu il genere agréable, che si trova a metà strada tra neoclassicismo e rococò. Del primo condivide l’ambientazione antica, soggetti mitologici, architetture, abiti antichi, stile senza virtuosismi, gamma cromatica fredda e smaltata; del rococò prendeva l’erotismo, il disimpegno e l’assenza di carica morale. Crea un’atmosfera più rilassata ed edonista. Questo genere prosegue poi nell’800 con il nome di “anacreontismo”. David si cimenta nel genere agréable, Autobiographie, 1793, David, pittore di storia per eccellenza, si cimentò prima dello scoppio della Rivoluzione, anche in questo genere di pittura realizzando (alla maniera greca) un dipinto Amori di Paride ed Elena commissionato dal fratello del re, il Conte Artois: fu un’eccezione per l’artista e non può essere interpretato come una denuncia della corruzione morale dell’aristocrazia (non ci si poteva prendere tali libertà nei confronti del committente). Egli stesso nella sua autobiografia dichiara di aver voluto fare un dipinto greco con una precisione inaudita nella descrizione dei dettagli. Lo stile era perfettamente neoclassico, ma mancava del carattere morale tipico di David; egli ritorna a questo genere all’inizio dell’800, ad impegno politico esaurito. Con quest’opera si inaugura la pittura anacreotica, che ebbe diversi rappresentanti. Canova, il trionfo del grazioso, o il fallimento dell’eroico, da una raccolta di testi di Fernow del 1806-1808, destinati a far conoscere la cultura italiana, Canova, veneto, residente a Roma dal 1780, grande disegnatore e scultore, ispirò molti artisti francesi, mostrò fin da subito una inclinazione per i soggetti erotici e per uno stile in cui prevaleva la dolcezza, la piacevolezza, il delicato, la grazia. Il critico tedesco sostenne che tali caratteristiche costituirono un limite a soggetti che andavano trattati con energia, forza etc. (Danzatrice con le mani ai fianchi e Maddalena). Secondo Fernow le sue opere sono eccesive e piene di forzature: egli non arriva al sublime, non tratta quindi in modo degno soggetti eroici, riesce bene solo nell’ambito del piacevole. Va tuttavia apprezzato il fatto che David e Canova si siano cimentati, sperimentando, in generi a lor poco affini. 4. Il paesaggio Fu questo genere che minò seriamente la gerarchia dei generi. Considerato inferiore alla pittura di storia, perché privo di figure viventi, cominciò ad assumere importanza da inizio Seicento con Annibale Carracci, Domenichino e Poussin, che inventarono il paesaggio ideale, ovvero come dovrebbe essere la natura, una sua selezione e idealizzazione, nobilitata da scene mitologiche o bibliche, una sorta di corollario alla pittura di storia. A metà del Settecento la situazione cambiò, perché la natura veniva vista nella sua spontaneità, verità, libertà, colma di misteri e di fascino. Cambiò lo sguardo con cui veniva osservata, perché non si ricercavano più gli aspetti ideali, bensì il fine era quello di comprenderla: da qui l’esigenza di uno studio diretto della natura e la pittura en plein air. Vernet, il mago della pittura, dal Salon de 1765, Diderot recensisce 25 dipinti in modo entusiastico per la sua bravura. Thomas Jones (1742-1803) e Valenciennes (1750-1819) praticarono la pittura en plein air e fu per loro una tecnica fondamentale per comprendere la natura, tecnica che divenne regolare solo nel 700. Il primo partiva da un’esigenza di razionalità, il secondo dall’empirismo britannico. La pratica en plein air, da Memoirs (diario di un viaggio in Italia), 1° maggio 1776, Thomas Jones racconta la visita a Civita Lavinia, cittadina nel Lazio poco conosciuta, dove si era recato con altri colleghi per fare alcuni bozzetti. Racconta in particolare l’episodio in cui un teppistello si era messo tra Pars e il soggetto che stava dipingendo e come il pittore inglese gli fece con pochi tratti un ritratto, suscitando l’ilarità di tutti gli altri ragazzi. Elogio del paesaggio ideale, da Elements de perspective pratique a l’usage des artistes, 1800, Valenciennes, in questo trattato, affronta il tema della prospettiva, della tecnica pittorica e le teorie sul paesaggio. Sostiene che vi siano due modi di vedere la natura, uno per come è, il che la fa rappresentare fedelmente, eliminando gli oggetti meno interessanti e aggiungendone altri, e uno per come potrebbe essere, per il quale occorre esperienza, genio, cultura approfondita. L’artista contro il tempo: la natura varia ad ogni istante, Valenciennes: la natura varia ad ogni istante, per le condizioni climatiche e per la luce, concetto importante che verrà ripreso dagli impressionisti e che indicò un nuovo rapporto con la natura, ovvero l’esigenza di aderire ad essa e alle sue trasmutazioni. Nella prima parte del suo trattato fa importanti considerazioni sui colori, la luce, le ombre. Per lui lo studio en plein air costituiva un momento preliminare da cui non si poteva prescindere, a cui poteva seguire il lavoro nello studio, ma solo perché la memoria del primo passaggio consentiva al pittore di mantenere l’aderenza alla realtà. ® Paesaggi romantici Il paesaggio: natura e sentimento, da Lettre sur le paysage en peinture, 1795, Chateaubriand, scrittore e politico, considerato il fondatore del romanticismo francese, esorta all’utilizzo di tale tecnica, in quanto la sola che garantisce la comprensione della natura, prima guida del pittore, natura che non va cambiata né corretta, ma solo compresa. È solo esplorando la natura che si può arrivare a capire la sua carica sentimentale e in questa capacità del paesaggio di veicolare sentimenti il genere si nobilita in modo anche più intenso rispetto alla pittura di storia. Così come la pittura che rappresenta la natura umana deve invece occuparsi dello studio delle passioni, al fine di conoscere il cuore dell’uomo, che serve a raffigurare il suo viso, così bisogna conoscere la natura, che ha il suo carattere morale, affinché essa parli. L’immaginazione dell’uomo non è più ricca di quella della natura, ma è grazie a questa che il pittore stupirà con la sua opera. Il binomio natura-sentimento è il fondamento dei paesaggisti romantici: è l’individuo che proietta i suoi sentimenti nella natura e nel paesaggio, che non è altro da sé, ma un insieme organico in cui lo spirito si manifesta in forme diverse e l’arte rivela la divinità della natura, il volto spirituale. Il paesaggista, medico, scienziato e naturalista tedesco Carus nelle Lettere sulla pittura di paesaggio, 1815- 24, che rappresentano l’essenza dell’arte per il romanticismo, ritiene che l’espressione artistica riveli la divinità dello spirito umano, la bellezza di un paesaggio si attua nella rappresentazione di uno stato d’animo dell’uomo, attraverso la raffigurazione di un momento della natura = mondo dei fenomeni sensibili. La rappresentazione del paesaggio corrisponde al bello se esprime la vita affettiva attraverso la rappresentazione di un momento della vita naturale della terra. Rapporto tra bellezza naturale e bellezza di un paesaggio artistico: la prima è più divina, perché l’incarnazione immediata dello spirito divino ci innalza, la seconda è più umana, perché la percezione della divinità dello spirito umano avviene attraverso un copiare, e quindi ha legami più fragili, ma più stretti. Attraverso l’arte si schiude il senso della natura, è come se essa venisse interpretata in un linguaggio affine all’uomo. L’uomo considera bella la presenza del divino nella natura, che significa riconoscere sé stessi come natura: Dio, uomo e natura sono una cosa sola. Le illustrazioni dell'affresco costituiscono una cartina tornasole del modo in cui si osservava l'antichità: caratteristica degli originali era una fattura impressionistica, tipica della pittura romana del I secolo d.C., ma le incisioni furono riprodotte con una linea di contorno che nega la fluidità cromatica e il dissolvimento delle forme dei prototipi, poiché rispondevano alle esigenze estetiche dell'epoca, ovvero di un’arte che sfuggiva al mondo dei sensi, che visualizzava l'idea della natura piuttosto che la natura stessa. Nasceva una mania per l'antichità, che va distinta dagli atteggiamenti di Winckelmann o di Goethe, ma che costituisce un fattore interessante per comprendere fino a che punto l'antico penetrasse nella vita delle persone, soprattutto appartenenti ad un élite sociale e culturale. Questa mania si manifestava come un'ossessione archeologica, un rovello collezionistico, come un fenomeno di costume. Ad intensificare ciò, i numerosi libri corredati di incisioni che illustravano opere e monumenti antichi: oltre alle antichità di Ercolano esposte, la Collection of Etruscan. Greek and Roman antiquities from the honorable William Hamilton, di d’Hancarville che riproduceva la collezione dell'ambasciatore inglese a Napoli, i cui volumi furono acquistati dall'imprenditore Joshua Wedgwood, che fondò una manifattura di ceramica, la Etruria, i cui prodotti si ispiravano a prototipi antichi, come quelli illustrati nella Collection. Questo è solo un esempio di un fenomeno diffusissimo, la smania per l'antico moltiplica la produzione manifatturiera moderna in oggetti di uso comune (mobili, gioielli, ceramiche, tessuti e carte da parati). Roma in quegli anni era meta obbligata per chiunque volesse occuparsi di antichità e fu anche un prolifico centro di produzione di souvenir: era una delle mete del Grand Tour, già riscoperta nella seconda metà del Cinquecento dagli aristocratici inglesi, che viaggiano in Europa per completare la loro educazione, e che nel Settecento divenne usanza diffusa in tutta Europea. Roma era l'emblema di quella antichità: alcuni si facevano ritrarre dinanzi ai resti antichi da artisti come Pompeo Batoni, altri acquistavano piccoli oggetti in sughero che riproponevano grandi monumenti antichi, oppure mosaici minuti che riproducevano dipinti antichi e moderni. Quell’intenso commercio di stampe con vedute della città di Roma coinvolse un sempre crescente numero di artisti, disegnatori, incisori, stampatori e editori (stampe di Piranesi). Grazie alla testimonianza di Grimm (scrittore e diplomatico tedesco realizzò una cronaca della vita intellettuale parigina, lasciata manoscritta per evitare censure e spedita a poche persone illustri, tra cui Caterina di Russia), è possibile capire la fortuna di cui godette a Parigi la moda à la grecque, proprio per la superiorità sostenuta dell'arte greca rispetto a quella romana: la moda si allargò alla decorazione, agli oggetti di uso comune, alle pettinature, alla pubblicità di alcuni prodotti, in un eccesso che sfiorò il ridicolo. Qualcuno (tra cui Cochin) si scagliò contro la decorazione rocaille, stigmatizzata perché antifunzionale e priva di razionalità e criticò la diffusione della decorazione alla grecque. In generale l'arte greca era considerata come un modello di razionalità, funzionalità e semplicità, ma tale moda rischiò di trasformare e deturpare l'ornato antico, modificato senza logica e senza rispetto. La moda non bastava, si voleva vivere come vivevano i greci: ciò è testimoniato con un romanzo, Le voyage du jeune Anacharsis dell'abbate Barthelemy, che diventò un bestseller e dava notizie dettagliate su usi e costumi del popolo greco del IV secolo, epoca in cui è ambientata la storia narrata. La pittrice madame Vigée Le Brun (134 Una cena greca improvvisata, da Souvenirs – le sue memorie - 1788), sulla scorta di questo testo, organizzò una cena greca: l'antichità era diventata ludus. Passione e imitazione ma anche falsificazione dell'antichità, tanto che un dipinto riuscì ad ingannare perfino Winckelmann, che lo pubblico nella Storia dell'arte degli antichi. Stando alla testimonianza di Goethe nel brano Un falso antico d’autore, da Italienische Reise, 1786 – che scrisse di questo episodio vissuto durante il suo viaggio in Italia, Mengs in punto di morte dichiarò di esserne l'autore. Possedere l'antico con tale voracità fu un fenomeno che non ebbe precedenti: memorabili le pagine con cui Goethe rievoca la visita nella misteriosa collezione sotterranea di William Hamilton, che si appropriava indebitamente di oggetti destinati al museo di Portici; la frode per l'antico. 2. Antichi e moderni Superiorità o inferiorità degli antichi? Nei Gedanken (1755), opera precedente al suo trasferimento in Italia, Winckelmann affermava che per essere inimitabili occorre imitare gli antichi: gli artisti trovano in queste opere la più bella natura, ma anche di più, della natura. È questo un ossimoro, che si capisce se si interpreta l'atto di imitare come un atto dal valore conoscitivo, che non ha nulla a che fare con il copiare senza pensare. Suo strumento non è solo l'occhio soprattutto il pensiero: imitare significa capire il processo attraverso il quale gli antichi giunsero, partendo dalla natura, al bello ideale, significa scoprire i metodi, i procedimenti, il segreto della bellezza della sua originalità. Per essere originali bisogna quindi ripartire dall'arte greca classica, solo così i moderni possono sperare di assurgere essi stessi a modello. Winckelmann si ricollegava allo pseudo Longino, autore del trattato del Sublime (I secolo d.C.), per il quale il contatto con capolavori sublimi stimolava il desiderio di emularli, creando opere altrettanto sublimi. Questa affermazione di Winckelmann sembra contraddetta quando afferma l'inferiorità di Virgilio rispetto a Omero, delle opere romane rispetto agli originali greci: imitare dunque significa anche rimanere inferiori rispetto a ciò che si imita, il che implica che i moderni sono condannati all'inferiorità. Questa duplicità del pensiero di Winckelmann scaturisce dalla complessità del concetto di origine: l'arte greca è l’origine della bellezza, va imitata, ma l'origine, in quanto tale, è originale e unica, quindi inimitabile. Fin dai Gedanken, Winckelmann concepisce la perfezione greca come il risultato di concrete condizioni (198), approfondite nella Geschichte (1764), a cui si aggiunge il fattore politico, che provocherà un distanziamento tra i greci e il mondo moderno: lo studioso calò per la prima volta il modello greco in una condizione storica concreta, evidenziandone anche l'abisso di separazione. Questo fa la differenza tra il Neoclassicismo e il classicismo dei precedenti. Duplicità: da una parte imitare gli antichi, dall'altro l’imitazione è inferiore all'originale e non ritrovabile. Questo concetto divenne una certezza nella Storia dell'arte degli antichi (= Geschichte, 1764), il cui finale è pervaso da una dolente nostalgia nei confronti di un mondo morto per sempre: un’antichità perduta. Tali posizioni furono riprese anche in Francia. Winckelmann trasse dai moderni l'astoricità - la Grecia come modello esemplare valido per tutti i tempi - e dagli antichi la prospettiva storica - arte greca come fatto storico. Rivelare la storicità del bello greco, come fece Winckelmann nella Geschichte, implicò la presa di coscienza della storicità dell'arte di ogni epoca, come avrebbe fatto di lì a poco Herder, filosofo, padre della storicità (Valutare ogni epoca secondo i suoi principi, da un testo del 1774) e i romantici tedeschi. Essi riconoscerebbero che ogni fase dell'arte è connessa a condizioni storiche precise e quindi ha una sua originalità: la storia dell’umanità è una catena in cui ogni anello, cioè ogni epoca, è stato come doveva essere: necessario perché l’umanità si evolvesse; Winckelmann, invece, ha avuto una visione parziale del mondo, avendo messo a paragone epoche diverse, tra loro non confrontabili, perché caratterizzate da un’intrinseca diversità, un gusto e un sentimento diverso. Winckelmann però non si spinse a tanto, affermò la supremazia della bellezza ellenica e la dichiarò irraggiungibile. D'altro canto, nei Gedanken, i moderni potevano aspirare all'originalità attraverso l'imitazione, mentre nella Geschichte l'imitazione assume una connotazione negativa: l'inarrivabile altezza dell'arte greca classica esclude che la si possa imitare, come invece egli aveva affermato nel 1755. La conseguenza di ciò che i moderni devono trovare una loro originalità indipendentemente dagli antichi? È quanto sosterranno i romantici, ma è ciò che Winckelmann nega, in quanto ai moderni non è dato né di imitare, né di giungere quella perfezione e originalità. Tra fine Settecento e inizio Ottocento, la cultura di matrice winckelmanniana fu percorsa da tensioni contrastanti: annullare la storia per cercare l'origine o riconoscere la storicità dell'arte e il valore della modernità; imitare gli antichi o essere originali, alternativa quest'ultima oggetto di un saggio abbozzato del giovane Hölderlin, secondo il quale i moderni non imitano gli antichi, ma seguono la loro spontanea tendenza a “formare”, connaturata l'umanità; in questo egli si contrappone all’assunto dei Gedanken (imitare gli antichi per diventare inimitabili). Ciò che, secondo il Winckelmann dei Gedanken, rendeva l'arte antica tanto superiore alla moderna, era la nobile semplicità e la quieta grandezza in cui si rivelava la capacità dell'uomo greco di dominare le passioni: Nobile semplicità degli antichi, focosità insolente dei moderni, che riflette la dignità e la grandezza d’animo del popolo greco, che trova nel Laocoonte la massima incarnazione; la bellezza greca era ideale espressione di grandezza d'animo, capace di sopportare sofferenze atroci con dignità. Dalla bellezza, in quanto non inquinata dalle passioni estreme da cui derivano gli aspetti più istintivi ed emotivi dell'uomo, egli ne traeva un'immagine celeste, lontana dalla dimensione terrena, un trionfo dell'anima sul corpo, scienza spirituale divina dell'uomo, sulla componente animalesca e sensuale. Il Laocoonte sorgeva ad emblema della raffigurazione del dolore fisico minato da una dignitosa e sublime sopportazione, ed era lo specchio di un popolo, la cui qualità eccelsa consisteva nella grandezza d'animo. La fustigazione dell'arte moderna, che si compiaceva, secondo Winckelmann, a esibire passioni estreme, si ammantava di un significato morale, oltre che estetico, configurandosi come un giudizio critico dell'uomo moderno, che ha perso quella dignità. Nei Gedanken la superiorità greca riguardava soprattutto la scultura, anche perché all'epoca non era stata ritrovata nessuna pittura antica e quella romana era espressione di un’epoca di decadenza: ciò proiettò una luce negativa sull'arte pittorica antica, anche se la raffinatezza del disegno, le proporzioni e la resa delle espressioni dei bassorilievi greci, facevano ipotizzare le medesime qualità in una pittura ellenica ormai perduta. Winckelmann ammette comunque che esistesse una perfezione della pittura moderna sotto certi aspetti che i pittori antichi non avevano raggiunto: egli riuscì a sintetizzare le diverse posizioni, superiorità dei greci nel disegno, superiorità dei moderni nel colore e nella prospettiva. Egli sembra concepire la scultura come l'arte di una raggiunta perfezione e la pittura come un'arte sviluppatasi e perfezionatasi in età moderna. Da qui, alcuni studiosi ritennero che la scultura fosse un'arte appartenente al passato classico, mentre la pittura un'arte moderna, romantica. Anche altri studiosi giudicavano negativamente la pittura romana, tra questi Cochin, che stroncò le osannate pitture di Ercolano, secondo lui carenti nella composizione, nel colore e chiaroscuro, inventiva ed originalità (La pittura antica è inferiore alla moderna, 1754): egli aveva una impostazione empirista e sensista, di fiducia nel progresso, che lo attirava dalla parte dei moderni. Secondo lui la pittura romana aveva commesso l'errore di trasferire nella propria arte un modello di bellezza concepito nella scultura: la critica di Cochin muove quindi da presupposti culturali molto diversi da quelli di Winckelmann. Caylus affermò invece la diversità della pittura antica, non compresa dai moderni, perché caratterizzata da una semplicità molto diversa da quella che essi erano abituati a vedere secondo le loro categorie estetiche (relatività del gusto): Inferiorità o superiorità relativa, da un testo del 1757. Altri invece, come lo scultore Falconet, criticavano sia la pittura che la scultura antica, piena di errori, e rivendicavano l'originalità e superiorità degli scultori moderni. Se la scultura antica era considerata come un modello, in che modo gli artisti contemporanei dovevano porsi nei confronti della natura, imprescindibile punto di partenza per la creazione artistica? Winckelmann suggerì una soluzione di compromesso ma troppo astratta: imitare gli antichi per comprendere il modo in cui essi si rapportavano alla natura. Se ne accorse Diderot (Imitare l’antico per imparare la natura, da Salon de 1765), che riteneva che la posizione del tedesco fosse troppo sbilanciata per l'arte antica a scapito della natura: lo studio dell'arte antica non doveva far trascurare quello sulla natura, visto che i capolavori antichi si basavano proprio su questa. Qualche anno dopo egli rilevò che il bello ideale greco fosse il frutto di un lungo percorso di correzione dell'imperfezione della natura, cosa che i moderni non potevano fare, poiché tra sé e la natura avevano il modello antico, e quindi avevano smarrito la spontaneità. Anche d'Hancarville (Antichi originali, moderni copisti, dalla prefazione al testo che illustra le antichità della collezione di William Hamilton, del 1766) definì gli antichi come creatori e i moderni come imitatori, nel senso deteriore del termine, poiché oppressi dal peso della tradizione e condizionati dalla maniera dei maestri: per liberarsi di tale bagaglio, gli artisti dovevano tornare ai fondamenti primi dell'arte, cioè alla natura, espressi nei capolavori antichi. Egli non si chiedeva se i moderni potessero raggiungere il bello ideale greco, quanto piuttosto voleva indicare il modo in cui l'arte moderna potesse liberarsi del passato per ripristinare la purezza creativa originaria: la sua soluzione (di compromesso e contraddittoria) era la contemplazione ragionata della natura. Lavater, padre della fisiognomica (presentata come una scienza basata sull'idea che i tratti del volto facessero risalire al carattere) partiva dal presupposto, opposto a Winckelmann, della perfezione della natura in quanto creazione divina e dalla corrispondenza sfera fisica e spirituale: la natura è specchio del divino e quindi è perfetta, mentre l'arte in quanto opera umana è imperfetta, la natura è quindi sempre superiore all'arte. Il bello ideale greco è un assurdo, nessun artista può correggere la natura, perché già perfetta (I greci non idealizzavano, ma imitavano una natura migliore): il bello ideale è imitazione della natura ed è inferiore alla stessa. Affermava che l'arte greca era superiore alla moderna, perché avevano sotto gli occhi una natura più pura, mentre i moderni hanno sotto gli occhi una natura degenerata e possono dar vita solo ad un’arte corrotta (posizione simile a quella di Winckelmann per le condizioni sociali, climatiche etc. dell'epoca greca). Per Lavater dimensione fisica e spirituale si compenetrano, per Winckelmann dimensione terrena e sensibile e dimensione delle idee e dello spirito sono scisse e l'arte può illusoriamente saldare questa scissione, rappresentando non la natura, ma l'idea della stessa. Di fronte a Roma, Goethe (Cercare l’antica Roma nella nuova, da Italienische Reise, 1787) prendeva coscienza dei problemi degli studi sull'arte antica: il presente era frutto di una stratificazione storica in cui ogni fase era legata a ciò che la precedeva e la seguiva, in una coesistenza tra antico e moderno: il lavoro di distinzione delle epoche degli stili era ai primordi. L’antichità rivive Erano tanti coloro che credevano di infondere nuova vita all'antichità con il calore della cultura e della passione. Tra questi vi era Lady Hamilton (al secolo Emma Hart), amante di Nelson, prima, e compagna di Non disperdere l’impulso formativo per seguire gli antichi, da un abbozzo di saggio del poeta del 1799, Hölderlin: l’antichità appare opposta all’impulso originario di dare forma all’informe, di perfezionare l’originale etc. e ciò fu la causa della caduta di tutti i popoli, la loro originalità e natura vivente ha dovuto soccombere di fronte alle forme positive, al lusso dei loro padri. La salvezza è che l’impulso formativo degli uomini non si perda. 3. La liberazione dell'arte greca: i marmi Elgin Dalla sua Geschichte appare la consapevolezza che la ricostruzione fatta da Winckelmann dell'arte greca si fondasse perlopiù su copie romane: la vicenda del trasporto delle statue fidiache del Partenone a Londra all'inizio dell'Ottocento provocò una svolta nella percezione dell'antico. Questo importante monumento, costruito nel V secolo ad Atena parthenos, fu realizzato per volontà dell'assemblea ateniese guidata da Pericle, capo del governo, nel cuore dell'acropoli, subì vari danni nel corso dei secoli e nel Settecento fu meta di spedizioni di viaggiatori europei, come Piranesi, l’architetto James Stewart, il pittore Hamilton, l'architetto Nicolas Revett. Questi ultimi due, nel 1755, al loro ritorno in Inghilterra, scrissero un'opera monumentale Antiquities of Athens, in tre volumi, di cui il secondo interamente dedicato all'acropoli. Alla fine del XVIII secolo divenne ambasciatore francese a Costantinopoli il conte Choisel-Gouffier, che si fece raggiungere dal disegnatore Fauvel e dall' architetto Foucherot, per i quali ottenne il permesso di studiare i monumenti dell'acropoli. Dopo lo scoppio della rivoluzione, l'ambasciatore si rifugiò a Pietroburgo, mentre Fauvel continuò il suo lavoro: calchi e reperti furono spediti a Marsiglia e, nel 1801, Bonaparte (nominato primo console) li fece trasportare a Parigi ed esporre a Louvre. Intanto nel 1799 Thomas Bruce VII conte di Elgin, nominato ambasciatore inglese Costantinopoli, chiamò Giovan Battista Lusieri, per il quale ottenne un'autorizzazione a prendere sculture e iscrizioni dell'acropoli: fu così che furono portate a Londra, dopo varie traversie, 56 lastre del fregio, 15 metope e 12 sculture dei frontoni. Nel 1803 lasciò Costantinopoli, ma Lusieri continuò il suo lavoro e a partire dal 1807 Elgin espose i marmi al pubblico in una dimora a Londra; dal 1812 arrivarono altri marmi, bloccati a Malta, e dopo alcuni dibattiti alla camera dei comuni le opere fidiache vennero acquistate dal British Museum. La visione di tali opere creò un profondo sconvolgimento, che si può leggere dalle pagine dell'autobiografia del pittore Haydon, che visitò il capannone dove Lord Elgin aveva portato le sculture del Partenone a partire dal 1801. NB: l’antichità appariva diversa dall'idea che ci si era fatti fino ad allora con le copie romane e gli scritti degli autori neoclassici, le opere di Fidia dimostravano che il bello ideale era fondato sulla natura, che i greci apparivano degli dèi perché erano riusciti a infondere la vita al marmo, sostenuta da Haydon, da Visconti e da Canova. Morbidissima carne piena di vita: nel 1814 Lord Elgin andò a Parigi e chiese a Visconti, all’epoca conservatore del Louvre, di andare a Londra a vedere i marmi del Partenone, per suggerire eventuali restauri ed egli, tornato a Parigi, in una lettera a William Hamilton del 1814, segretario di Elgin, esaltava i marmi del Partenone e attribuiva a Fidia la paternità (negata dal collezionista Pain Knight, secondo il quale essi erano di età adrianea); nel suo resoconto Visconti sosteneva come le opere d'arte antica fossero state determinanti nello sviluppo dell'arte italiana dal Cinquecento (per Michelangelo, Raffaello) in poi e, nello stesso modo, tali marmi avrebbero innescato un nuovo corso nell'arte inglese. Nel novembre del 1815 Canova era a Parigi per recuperare le opere d'arte trasportate in Francia in seguito al trattato di Tolentino del 1796 (Canova difensore del patrimonio presso Napoleone, da Conversazione con Napoleone, 1810) e ne approfittò per osservare le sculture del Partenone: il suo primo soggiorno a Parigi fu nel 1802, egli espresse il suo dispiacere all’imperatore per le spoliazioni, richiamandosi direttamente alle Lettres di Quatremère. Vera carne, da una lettera all'amico Quatremère, 1815: Canova espresse il suo entusiasmo per la naturalezza, i marmi apparivano "carne vera", i greci erano veri imitatori della natura, rappresentata senza affettazione ed esagerazione, avevano vinto la durezza della materia, qualità riconosciute anche a Canova da suoi estimatori. Era proprio così che si esprimeva Quatremère nel 1808 per la Maddalena penitente del Conte Sommariva, esposta al Salon di quell'anno: Canova aveva la capacità di creare piuttosto che lavorare la materia, infondendo quella vita e quella bellezza che rendeva le sue opere superiori alla natura. Egli aveva congiunto la bellezza alla natura e infuso la vita alla materia, caratteristiche che lo scultore, imprimendo maggiore naturalismo, realizzò anche nel Teseo in lotta col centauro, opera secondo lui degna di sostenere il paragone con le sculture di Fidia. Quatremère conobbe le parole di Canova nel giugno del 1818 quando si recò a Londra e, in una serie di lettere inviate allo scultore, in particolare nella quinta, spiegava che la qualità dei marmi rivelava l'illusione della vita, cancellando l'apparenza della materia, illusione che lui identificava con la grazia. Ci fu però chi criticò l'operazione di Elgin, considerata un vero e proprio furto, tra questi vi era Lord Byron che, nel 1818, si trovava ad Atene, e che in un taccuino di viaggio riversò tutta la sua rabbia, paragonando Elgin a Verre, per l’ultimo carico di statue che Lusieri stava preparando per spedirle a Londra. Anni dopo, approfittando della sua polemica con Bowels (La poesia dei luoghi, da In Controversy between Byron and Bowels), che sosteneva che le immagini ricavate da ciò che è bello e sublime in natura sarebbero più belle e sublimi di quelle delle opere d'arte, Byron asserì che la poeticità di un luogo non dipende dalla natura in sé, ma dalla presenza in essa di monumenti artistici e quindi asportare un'opera da un luogo significa privarlo della sua risorsa poetica. Di questo legame aveva scritto fin dal 1798 Quatremère, nelle sue Lettere a Miranda, in cui aveva deprecato le spoliazioni francesi in Italia, ma egli non criticava il trasporto dei marmi fidiaci a Londra, poiché i capolavori ad Atene sarebbero stati poco sicuri, mentre a Londra avrebbero stimolato gli artisti moderni. Anche Chateaubriand ritornò sul tema del contesto, in particolare nel suo Itinéraire de Paris a Jerusalem, pubblicato nel 1811, in cui si scagliò contro Elgin, ma, a differenza di Byron, egli sosteneva che non sarebbero stati i luoghi a diventare meno poetici, bensì le opere avrebbero perduto la loro bellezza ed il loro fascino, una volta sradicate dal loro luogo di nascita. Un salto nel presente ci porta a sostenere la tesi che riportare tali marmi nel loro luogo di origine sarebbe un'operazione antistorica, poiché essi a Londra avevano provocato una svolta epocale nella percezione dell'antico ed avevano rappresentato lo straordinario naturalismo dell'arte greca, modificando anche la valutazione delle altre opere antiche visibili a Roma che, in confronto a quelle di Fidia, perdevano parte del loro valore esemplare. Da Londra l'arte di Fidia diventata patrimonio comune degli artisti. VII. ALLA RICERCA DELLE ORIGINI L'arte occidentale, da un certo punto in poi, ha assunto un volto particolare, compiendo veri e propri salti temporali e spaziali. Per esempio Gauguin, Picasso, Dubuffet. È più corretto parlare di “primitivismi”, tutti alimentati dal desiderio di autenticità, di non contaminazione dalla cultura, dai pregiudizi e dalle convenzioni caratterizzati da una nostalgia per l'innocenza perduta, nonché dalla ricerca di un’origine, di un ritorno a una tabula rasa. I primitivismi otto-novecenteschi si caratterizzano e differenziano per: • il radicale rifiuto del presente, della sua cultura, sinonimo di corruzione e falsità e per la ricerca di un’origine perduta, da ritrovarsi in modelli al di là della storia stessa, immersi appunto nel primitivo; aspirazione alla rigenerazione quindi, ma anche aspirazione all'originalità ovvero alla ricerca dell'origine; • quanto più la società progredisce in senso tecnologico, industriale e scientifico e quanto più essa si mercifica, diventando falsa e corrotta, tanto più l'artista viene relegato ad un ruolo marginale: l'arte così cerca la propria differenza ed alterità, cerca di tagliare i ponti con l’illusionismo (emblema della società corrotta), attraverso cui l’uomo si ferma alle apparenze e non coglie verità profonde. Questa esigenza di distacco si realizza in un’arte antinaturalistica o tendente all'astrazione; • il ritorno all'antico settecentesco si distingue per coscienza della profonda distanza che separa gli antichi dai moderni (Winckelmann degli anni romani): l'antichità greca è un paradiso perduto, irrecuperabile, esempio di autenticità, verità e bellezza, da contrapporre all'arte barocca e rococò, simbolo di una società degenerata. L'antico era sinonimo di rigenerazione, purezza, innocenza perché remoto, lontano, diverso dal presente: il neoclassicismo come prima forma di primitivismo, perché aspira a epoche e luoghi lontani e quindi diversi, riscopre l'arte medievale e quella preraffaellita: è proprio con il neoclassicismo che comincia il fenomeno dei primitivismi, che ha rappresentato uno dei filoni più fecondi della cultura occidentale degli ultimi secoli e la cui essenza si ritrova nella necessità di regredire per avanzare, come dimostra il rifiuto dell'illusionismo, in quanto rispecchia la falsità e l'artificiosità della cultura moderna, e che riscuote successo con i panorami e va di pari passo con i progressi tecnologici, i sistemi di divisione del lavoro. 1. Stato di natura e stato di civiltà È con il mito biblico della caduta del paradiso terrestre che nasce il vagheggiamento di un'epoca e di una condizione di felicità perduta: nel XVIII secolo esso acquista forza e si afferma la coscienza di una distanza incolmabile tra stato di natura e civiltà. È la grande svolta della cultura europea che tra fine Seicento e inizio Settecento, che coincide con la diffusione dello spirito scientifico e razionalistico, fino ad allora proprio di una élite intellettuale, che vede l'affermarsi di un approccio razionalista e meccanicistico della natura, della laicizzazione della cultura, che culmina con la rivoluzione industriale degli ultimi decenni del Settecento. Parallelamente il progresso porta all'inclinarsi del rapporto con la natura, all'ipocrisia, falsa coscienza, alla perdita di spontaneità e innocenza. Se Rousseau è considerato il teorico della scissione tra stato di natura e stato di civiltà, molte sono le espressioni della coscienza di una contrapposizione tra mondo moderno e mondo utopico di purezza e autenticità. Tra queste, Von Haller e il poemetto Die Alpen del 1729 (Le Alpi, ovvero uno stato di natura), che vede la vita delle Alpi contrapposta alla vita della città, essa è come una sorta di stato di natura, in cui non esiste l'ineguaglianza e tutto è semplice e sincero. Questo scritto dà al mondo un’immagine diversa della Svizzera, fino ad allora terra sconosciuta, alterna parti idilliache a parti didascaliche, in cui per es. descrive minerali, la flora, la fabbricazione del formaggio; egli si rivolge ai discepoli della natura. Giambattista Vico, con i suoi Principi di Scienza nuova (che ebbe tre versioni, del 1725, 1730, 1744), può essere considerato il fondatore del moderno storicismo, in quanto egli applica l'ermeneutica (scienza dell'interpretazione) alla storia, che si rinnova continuamente secondo una successione progressiva, che inizia con l'età degli dei (della creazione dei miti religiosi primitivi), continua con l'età degli eroi (quella dei poemi omerici) e finisce con l'età degli uomini (quella della nascita del pensiero filosofico e della legislazione). Il corso della storia segue un ordine stabilito dalla provvidenza ed ha un fondamento antropologico: se la causa della storia è l'uomo, le leggi che regolano lo sviluppo storico sono le stesse che regolano il funzionamento della mente umana, che ha tre gradi ascendenti che fanno sviluppare la mente dell'uomo, cioè senso, fantasia e ragione, a cui corrispondono appunto le tre età della storia, dominate da un tipo di conoscenza sensitiva, poetica e razionale. L'uomo prima sente senza avere coscienza, poi avverte con animo commosso, infine riflette attraverso la ragione. Lo sviluppo della vita dell'uomo da bambino a adulto riflette lo sviluppo storico, anche se queste tre fasi o età non vanno intese in modo rigido. Il pensiero di Vico è importante perché, in opposizione al giusnaturalismo, sostiene che lo spirito umano si trasforma nell'individuo e nell'umanità. La storia dell'uomo comincia dopo il diluvio universale, i figli di Noè si spargono e, privi di raziocinio ma dotati di sensi molto sviluppati e di un'accesa fantasia interpretano i fenomeni naturali come immagini di divinità: nasce così la sapienza poetica, una conoscenza intuitiva e fantastica, estranea alla ragione, a cui segue la nascita del linguaggio. A Vico così deve il riconoscimento del valore della verità poetica, pre logica, fantastica, autonoma da quella logica, egli sottrae la creazione poetica al razionalismo in cui la cultura ottocentesca tendeva a collocarla, a lui si deve il nesso tra sapienza poetica e fanciullezza dell'umanità, poiché la poesia appartiene ai primitivi, poiché essi come i bambini hanno connaturata la fantasia; la filosofia è invece dei moderni, al comparire della ragione scompare la poesia, secondo la teoria dei corsi e ricorsi: il medioevo per lui è l'età della “barbarie ritornata”, che ebbe massima espressione nella poesia di Dante. NB: I primitivismi si baseranno sull'idea che la creatività poetica è propria dell'uomo primitivo o del fanciullo. Come l'Illuminismo pone fiducia nel progresso inteso come allontanamento dallo stato naturale, Rousseau attacca i principi fondamentali della ragione e del progresso, sostenendo che la natura umana non è ragione, ma istinto, sentimento, spontaneità, tutti elementi che devono guidare la vita dell'uomo. Nella Nouvelle Heloise egli afferma che il matrimonio deve essere frutto di una libera scelta, nel Discorso sull'uguaglianza del 1755, concepisce il progresso come fenomeno negativo che porta l'infelicità dell'uomo, a sua volta causata dall'ineguaglianza, prodotta dall’avvento della proprietà privata e dall'oppressione dei ricchi sui deboli. Da qui il vagheggiamento di un ipotetico stato di natura in cui le ineguaglianze non esistono, l'uomo era felice e libero: Lo stato di natura: vera giovinezza del mondo, dai Discourses sur l’origine et les fondaments de l’inegalité, 1755, egli distingue 4 età dell’uomo, nella prima l’uomo vaga dominato dall’istinto di autoconservazione e da istinti animali, nella seconda scopre il lavoro, costruisce capanne dove le famiglie si riuniscono, produce solo ciò che serve in armonia con la natura e con i propri simili – è l’età che i moderni devono rimpiangere – nella terza scopre il linguaggio, si accentua la capacità riflessiva, fa progredire la tecnologia e la scienza, comincia a produrre il superfluo con la divisione del lavoro, e la sete di possesso, cui segue una fase in cui cerca di assoggettare gli altri. L'allontanamento dallo stato di natura e la decadenza dell'uomo sono cause accidentali ed estranee, su cui la volontà umana può agire, regredendo a quello stato di natura, che è il vero progresso a cui l'uomo deve aspirare. Nella prefazione dell'opera Rousseau precisa che lo stato di natura non esiste più, forse non è mai esistito e non esisterà mai, è una dimensione utopica volta a giudicare e criticare il presente. Questo è un aspetto che spesso si ritrova nelle varie forme di primitivismo, che guardano ad epoche remote e lontane per proiettarvi una felicità utopica. Al vagheggiamento dello stato di natura corrisponde in Rousseau l’esaltazione dell'immaginazione, del mondo delle illusioni, anch'esso inesistente, che per Foscolo fonderà il senso della vita e che Leopardi rievocherà opponendo all'arido vero. 4. All'origine della pittura: Il disegno come puro contorno L'arte mentale di cui parla Winckelmann nei Gedanken è coerente con il ruolo primario assegnato al disegno che, dal XVI secolo, era stato concepito come fondamento intellettuale delle tre arti. Secondo lo studioso tedesco, la bellezza si esprime nella forma e momento costitutivo ne è il disegno, che è legato all'intelletto, mentre il colore significa piacevolezza e qualità ed è legato alla sfera dei sensi. L'elogio del contorno di Winckelmann (Gedanken) deriva da Kant, esso non si ottiene dall’imitazione della natura, ma si può imparare solo dai greci e pochi degli artisti moderni hanno acquisito questa capacità: non Rubens, né altri, l’unico che si è avvicinato è Michelangelo, ma solo per le figure forti e muscolose, nei corpi dell’età eroica, non in quelli giovanili, né femminili. Una simile interpretazione si riscontra nella Critica della capacità di giudizio (1790) di Kant, Il disegno è l’essenziale, in cui si ritrova il concetto del disegno come origine della forma, che a sua volta è elemento essenziale della bellezza in tutte le arti figurative: la bellezza piace esclusivamente per la forma, non per i colori, che dando risalto alle forme, rientrano nell’attrattiva e possono vivificare l’oggetto per la sensazione ma non renderlo bello. Il disegno a puro contorno, detto anche “al tratto”, si distingue da quello chiaroscurale, perché il primo circoscrive la forma nella sua essenziale purezza e trae ispirazione dalla pittura vascolare e dai bassorilievi antichi, il secondo la rivela come un volume nella luce. Alla fine del Settecento il disegno al tratto incarnava l'ideale di un'arte, poiché eliminava la volumetria, il chiaroscuro e gli altri espedienti illusionistici, contribuendo a visualizzare la natura come essenza, idea sottratta al tempo e al divenire e non la rendeva come in realtà era. N.B: risalire dai sensi all'intelletto, dalla natura all'idea significava arrivare agli archetipi del reale, ritornare all'origine metafisica del cosmo, all'origine dell'arte pittorica, alla tabula rasa, poiché si riducevano i mezzi espressivi, azzerando il progresso col fine di avvicinarsi alla natura, per questo il disegno al tratto è considerato una forma di primitivismo, come le teorie architettoniche di Laugier (La capanna come modello di costruzione). È da questo punto di vista che si osservava la produzione artistica antica, nel caso delle riproduzioni a stampa della raccolta Le antichità di Ercolano esposte (1757-92), che non era fedele dal punto di vista filologico, ma sicuramente interessante per la storia della cultura, poiché le danzatrici e le menadi erano interpretate in chiave lineare. Il puro contorno era quindi messo in rapporto con l'origine della pittura che, secondo la leggenda narrata da Plinio nella Naturalis historia, individuava la figlia di Butade la prima ad eseguire un disegno, nato come delineamento di un contorno, in una rappresentazione semplificata. John Flaxman (incisore e scultore) raggiunse un elevatissimo livello di purezza nel disegno, i suoi outline drawings erano di una semplicità primordiale, le figure puro contorno, caratterizzati da assenza di tridimensionalità ed immersi in una purezza che sfiorava l'astrazione, come se fossero immagini mentali, metafisiche del reale. Egli illustrava capolavori come l'Iliade, l'Odissea, le tragedie di Eschilo, la commedia dantesca, testi appartenenti o a un’antichità o a una “barbarie ritrovata”. Flaxman: semplici linee senz’ombre: la sua attività fu ben descritta in una lettera della moglie, indirizzata a Hayley, suo amico, che fece un resoconto dell'attività durante il soggiorno romano del marito, periodo in cui egli stava realizzando i disegni per la Commedia, inserendo il commento di un francese (probabilmente di Girodet), secondo il quale tali disegni andavano aldilà dell'antichità, erano di una purezza angelica; questi disegni, aggiungeva la moglie, erano fatti con semplici linee, senza ombre, di un bellissimo gusto gotico. Flaxman fornì spesso disegni per l'Etruria (la manifattura di Wedgwood), che produceva vasi secondo lo stile degli Etruschi, con silhouette semplificate e senza profondità, molto apprezzati dai collezionisti, come ad esempio l'ambasciatore inglese a Napoli William Hamilton, la cui raccolta fu conosciuta grazie alla pubblicazione curata da d'Hancarville, Collection of Etruscan. Produrre vasi all'antica significava riattualizzare la leggenda di Butade, il cui padre era un vasaio che, sulla base del disegno della figlia sul muro, produsse un modello in argilla. Vasai e pittori: Wright of Derby e la fanciulla di Corinto, da una lettera a Joshua Wedgwood del 1782: Joseph Wright of Derby, pittore inglese, realizzò per Wedgwood un'opera che raffigurava la storia della figlia di Butade. Il disegno al tratto ebbe un corrispettivo in architettura negli edifici di Boullée e Ledoux. I solidi regolari sono più conformi al nostro organismo), caratterizzati da puri solidi regolari, in cui non si avvisano gli stili del passato, anche qui in un ritorno alla tabula rasa, che annulla la storia ed in cui si risale all'origine metafisica, all'essenza del cosmo. Era il sogno della ragione, l'utopia di un mondo in cui la bellezza corrisponde all'intelletto. Da qui l'affinità con i paesaggi della ragione, filone del paesaggio razionalista, in cui le vedute urbane sono depurate da ogni contingenza e trasformate forme geometriche primarie. Tra questi pittori, anche Humbert de Superville che, nel suo Essai sur le signes inconditionels (1828) considera il segno come assoluto, espressivo in sé, capace di comunicare emozioni oggettive, la cui percezione è universale: con lui la linea perde valore mimetico per acquistare una funzione espressiva. Le incisioni a puro contorno furono adottate anche per la riproduzione di opere medievali, come l'Histoire de l'art par les monuments di d'Agincourt, che studiò l'arte dei secoli bui, in un'ottica storica, non estetica, colmando una lacuna della storiografia artistica: egli utilizzò disegni di artisti come de Superville e altri, che ammiravano l'arte dei primitivi. Il puro contorno si adattava perfettamente ai caratteri formali delle opere medievali, per la semplicità antica e l'essenzialità. Bellezza relativa di Cimabue e Masaccio, da una lettera a Greville del 1775: un altro artista inglese, il pittore Romney, durante il suo viaggio in Italia, espresse la sua ammirazione per Raffaello ma anche per alcuni “primitivi” e realizzò disegni essenziali per la semplicità che si rifaceva a Giotto ed alla forza di carattere di Masaccio. Medioevo e puro contorno: una svanita età dell’oro, Affinità elettive: medioevo e disegno al tratto sono ricordati da Goethe, nel romanzo che narra di Carlotta, impegnata nel restauro di una chiesa medievale, per il quale il suo architetto le mostrò illustrazioni di antichi monumenti funerari germanici e disegni al tratto di immagini sacre dell’arte medievale tedesca, che ricalcavano gli originali, conservando il loro carattere antico, in cui si intravedeva una purissima natura (tutti sembravano belli, angelici) ed in cui si manifestava una svanita età dell'oro, un paradiso perduto. La linea, regola aurea dell’arte, da A descriptive Catalogue, 1809: anche il pittore e poeta inglese William Blake elogiava il puro contorno, in quanto la perfezione dell'arte risiedeva, secondo lui, in una linea di contorno definita, netta e forte, la cui assenza dimostra la mancanza dell'idea nella mente dell'artista. Egli produsse una vera requisitoria contro la tecnica della pittura ad olio, alla quale contrapponeva un'arte squisitamente antinaturalistica, dai colori chiari, le linee ferme e definite, non spezzate da ombre ed in cui tracciare una linea significava esprimere il trionfo dell'immaginazione, allontanarsi dal caos, la vittoria della creazione sulla percezione, principio di forma e di vita, che era alla base anche della creazione musicale. La linea di contorno era conosciuta da grandi artisti quali Apelle, Protogene, Raffaello, Michelangelo, Dürer. Questa idea corrisponde a uno dei più radicali esempi di primitivismo tra 700 e 800, che comportava la rivolta contro il predominio della ragione, contro il progresso, causa di una industrializzazione disumana e diabolica, capace di sconvolgere l'ordine della natura. L'immaginazione era forma e origine del divino, unica facoltà capace di rivelare l'infinito presente in ogni uomo. Nel rigetto dell'illusionismo, nel recupero di tecniche medievali, nell'esaltazione del linearismo gotico e del suo brillante cromatismo, si ritrova la forza di una mente che rinnega la sterilità del mondo moderno e del materialismo, che esalta la soggettività, la fantasia, l’interiorità: si spazzava così via la tradizione artistica occidentale e si trovava nella tabula rasa la ragion d'essere della creazione artistica. 5. La riscoperta del Medioevo Di solito attribuita alla cultura romantica, ha coinvolto autorevoli esponenti del Neoclassicismo. Tale fenomeno si verificò anche nel campo architettonico: Milizia, illuminista radicale e fustigatore del Barocco, ammirava l'architettura gotica per la sua serrata logica costruttiva, ma già prima Cordemoy e Laugier avevano indicato nell'architettura greca e in quella gotica i valori comuni come l'essenzialità e la funzionalità. ® Inghilterra L'interesse per il gotico si riscontra anche in un contesto diverso da quello neoclassico. Horace Walpole, nella sua residenza a Strawberry Hill e nel suo romanzo The Castle of Otranto (1764), fu estimatore del valore estetico dell'architettura gotica e del gotico rococò, un gotico interpretato in chiave leggiadra, frivola. L'uso del gotico nella sua residenza è paragonabile a quello che se ne faceva nei giardini inglesi del tempo: in entrambi i casi il gotico, come le cineserie, erano un fatto esotico, legato al gusto del pittoresco, alla varietà e alla sorpresa, alla tradizione per il diverso tipico della cultura settecentesca. Elogio del gotico è descritto in un capitolo dei suoi Anedoctes on Paintings (basati su appunti dell’architetto inglese George Vertue, da lui acquistati, rielaborati e pubblicati dopo la sua morte, 1762): a differenza dell'architettura antica (es. arco a tutto sesto), che si identifica con equilibrio, regola, gusto, quella gotica (es arco acuto come rielaborazione del primo) fa presa sullo spettatore, perché sinonimo di passione, genio, sfrenata libertà. Egli invita gli architetti ad ispirarsi al gotico per acquistare maggiore libertà e svincolarsi dal dogma dell'imitazione dell'antico, ponendo i presupposti dell'interpretazione romantica del gotico, che faceva leva sui concetti di genio, sentimento, libertà. Gotico e sublime, da appunti di viaggio, mai pubblicati e riversati in un saggio pubblicato postumo: così Thomas Warton, poeta inglese e viaggiatore, alla luce della lettura dell'Inquiry di Burke elenca gli elementi della cattedrale gotica, capaci di suscitare il sublime, come la lunghezza ed altezza degli archi, i costoloni, gli elevati timpani, gli affusolati pinnacoli, le colonne uniformi. Warton e Walpole indicavano lo stile gotico come prettamente britannico, poi entrato in crisi con l'affermarsi del gusto italianizzante della corte di Enrico VIII e lo consideravano nazionale in opposizione all'universalismo del mondo classico. ® Germania Anche in Germania il gotico era simbolo di genialità e libertà e incarnava il più nobile spirito tedesco, come dimostra il giovane e ancora anticlassico Goethe (Gotico, arte autentica, da un saggio giovanile del 1763) che descrive la cattedrale di Strasburgo, simbolo dell'unica vera arte capace di rispecchiare il più autentico popolo Germanico, una totalità vivente, un insieme unico ed organico in cui ogni elemento contribuisce all'armonia del tutto in una visione organicista del gotico che, nella successiva fase classicista, egli applicherà all'arte in generale. ® Italia Anche la storiografia italiana rivalutava l'arte medievale, ma le motivazioni erano diverse: essa non era sinonimo di libertà da regole, ne incarnava lo spirito nazionale, ma era un esempio di semplicità, autenticità, efficaci antidoti contro il falso retorico barocco. Spesso però nei suoi estimatori prevaleva la componente localistica e campanilistica, come per il senese Guglielmo della Valle nelle cui Lettere senesi del 1781 elogiava gli artisti medievali della sua città, fino a spingersi a quelli all'età paleocristiana, come dimostra una lettera del 1782 indirizzata al cardinale Stefano Borgia (Le origini dell’arte cristiana), un importante collezionista nella Roma della seconda metà del 700, nella cui immensa raccolta vi erano opere egizie, greco- romane, indiane, messicane ed anche opere sacre medievali. Era questo un atteggiamento storicista, che concepiva ogni fase storica come momento unico ed irripetibile dello spirito umano. Fondamentale il ruolo di Wackenroder nell'idealizzazione del Medioevo: negli Sfoghi del cuore di un monaco innamorato dell'arte del 1796, pietra miliare del primo romanticismo tedesco, egli saldò la religiosità all'amore per l'arte: il monaco vede nell’arte il riflesso dello spirito divino dell’uomo, riconosce nei primitivi il modello di un’arte devota, condanna l’arte moderna, perché manierata, corrotta, e rievocando artisti primitivi come l'Angelico e Dürer, sullo sfondo di un medioevo armonioso, pacifico, in cui domina la figura dell'artista artigiano ed in cui l'arte e la natura sono le due lingue attraverso cui Dio parla agli uomini; da qui il valore sacrale della creazione artistica. Egli ripristinava l'originaria funzione religiosa dell'arte, persa con la laicizzazione della cultura moderna e il progresso, al fine di recuperare quell'innocenza e purezza che rendevano l'artista primitivo capace di farsi portavoce del divino. L’innocente semplicità di Dürer, dal romanzo del 1797: emblematiche sono le riflessioni su Dürer, la sua innocente semplicità, la sua arte seria e nobile, contrapposta al virtuosismo dei moderni. Nell'arte medievale tedesca egli riconosce l'espressione più autentica dello spirito germanico: come per Goethe, anche per Wackenroder il ritorno al medioevo era un ritorno alle vere origini del popolo tedesco e alla propria identità nazionale. Il padre spirituale del primitivismo in Germania è stato il filosofo Friedrich Schlegel, che animò un circolo culturale romantico e che, tra il 1803-04, quando si trovava a Parigi e vide gli effetti delle requisizioni napoleoniche, ebbe modo di ammirare i capolavori italiani, tra cui la Trasfigurazione di Raffaello (opera caratterizzata da uno stile già corrotto). Raffaello primitivo e Raffaello moderno, da Pagine su Raffaello, scrive alcune riflessioni ispirategli dalle opere dell'urbinate: secondo lui Raffaello era anello di congiunzione tra i primitivi e i moderni, l'ultimo dei primitivi e il primo dei moderni, il primitivo più comprensibile ai moderni, ed egli prediligeva il Raffaello più arcaico. Egli esortava i suoi contemporanei a prenderlo come guida scoprire la genuina semplicità dei pittori medievali e del primo Rinascimento. Gli scritti di Wackenroder e Schlegel furono una guida spirituale per i Nazareni, movimento nato da due giovani artisti, Overbeck e Pforr, ribellatisi all'accademia di Vienna per il rifiuto dei loro modelli e l'ammirazione dei primitivi. Questa svolta fu determinata anche dalla scoperta dei primitivi tedeschi nelle collezioni imperiali e del Belvedere. Nel 1809 i due fondarono la confraternita di San Luca, sul modello di quelle medievali e, come dimostra una lettera di Pforr a Overbeck del 1809 (Funzione morale dell’arte e semplicità di stile), il loro obiettivo era realizzare un’arte semplice, schietta, in cui si ammirasse il soggetto principale, dagli alti contenuti morali e religiosi, con il recupero di temi devoti (desunti dalla Bibbia) e di rifiuto di soggetti profani e mitologici, in cui l’attenzione era catturata da artifici. conoscenza dell’Italia da parte del re francese, che chiamò artisti italiani (Leonardo, Andrea del Sarto, Primaticcio etc.) a corte e fece arrivare calchi di importanti statue antiche. Nello stesso periodo in Inghilterra arrivarono Toto del Nunziata, Rovezzano, Holbein, ma arrivò anche la Riforma ed il paese fu impegnato in controversie e fermenti religiosi, che rallentarono la produzione artistica. Qualche tentativo di introdurre l’arte fu fatto da Carlo I, ma il bigottismo religioso vinse e si affermò solo il ritratto, mentre nei secoli a seguire l’arte non era matura abbastanza. Come Winckelmann, Barry ha in comune l’idea che l’arte sia legata al contesto storico concreto. 2. Il senso della storia e la nascita dello storicismo Storicismo = atteggiamento teso a comprendere ogni epoca individualmente, secondo le sue caratteristiche. Dante: nel Canto XI del Purgatorio afferma che la fama di Cimabue è stata superata da quella di Giotto, con ciò mettendo il seme dell’avvicendamento storico che ha portato alla ribalta gli artisti moderni, che si distaccarono dallo stile bizantino di Cimabue. La letteratura artistica 400/500esca fa di Giotto l’iniziatore di una rinascita, seguito da Masaccio, Brunelleschi e dai grandi artisti del 500. Vasari: modello di sviluppo storico (Vite) che suscita opposizione e la nascita di una storiografia regionale. Giulio Mancini (1559-1630, medico, collezionista d’arte, scrittore, nel XVII secolo sostiene che per giudicare le pitture bisogna considerare i tempi in cui sono state fatte (contesto), tiene a distanza i dogmatismi e per la prima volta sostiene la continuità artistica nei secoli oscuri del medioevo. Nel 600 Filippo Baldinucci (1624-1697, storico d’arte, politico, pittore) nell’ordinare la collezione di disegni del granduca Leopoldo de Medici adottò un criterio cronologico, da cui emerge un senso dello sviluppo storico e un piacere nel verificare attraverso la successione dei disegni i progressi dell’arte. Già il Libro dei disegni del Vasari conteneva questa successione, ma era uno sviluppo di singole biografie, mentre Baldinucci costruisce una storia che parla attraverso i disegni, le opere stesse, focalizzata sull’aspetto visuale e non aneddotico delle vite degli artisti. Nel 700 cominciano a formarsi raccolte che presentano una successione di opere dal Medioevo all’età contemporanea: Lodoli, abate veneziano, forma una raccolta di dipinti dall’arte bizantina al 700, vera e propria storia visuale dell’arte. La storiografia moderna nasce dando continuità a tutti i periodi storici, anche al medioevo, considerato fondamentale per la ricostruzione di uno sviluppo storico, ma molti erano ancora i pregiudizi rispetto all’apprezzamento estetico. Lo sviluppo parallelo dell’arte antica e moderna, dal testo che illustra la collezione di Hamilton: d’Hancarville, dopo aver esaminato le scene di tre vasi di diverse epoche dell’arte antica, sottolinea come la pubblicazione in successione cronologica delle antichità permetta di valutare lo sviluppo storico dell’arte antica, che ha avuto un corso simile a quello dell’arte moderna a partire da Giotto. Valutare ogni epoca secondo i suoi principi, da un testo del 1774: Herder invece va oltre concependo la storia come una catena in cui ogni anello, cioè ogni epoca, è stato come doveva essere, è fondamentale di per sé e diverso e unico dagli altri, necessario perché l’umanità si evolvesse e dunque non va paragonato ad altre epoche (Winckelmann ha avuto una visione parziale del mondo, avendo messo a paragone epoche diverse, tra loro non confrontabili, perché caratterizzate da un’intrinseca diversità, un gusto e un sentimento diverso). Arte e tolleranza, dal romanzo del monaco, 1797: Wackenroeder ha una concezione mistica dell’arte, in cui ogni opera è espressione dello spirito divino che in ogni epoca acquista forma diverse. 3. La storiografia artistica da Winckelmann a Cicognara e Fiorillo Il conte Caylus (archeologo, pittore, antiquario 1692-1765), seppur non storico dell’arte, con la catalogazione della sua collezione di oggetti antichi contribuì a rendere l’antiquaria una scienza capace di fornire materiale utile alla storia dell’arte. Non gli interessavano le grandi opere ma oggetti d’uso comune, mediocri ma significativi della cultura di un determinato popolo, essi spiegano i loro usi, illuminano i fatti oscuri mal spiegati dagli autori, mostrano il progresso delle arti, servono da modello. Il suo metodo fu rivoluzionario, poiché sposta l’attenzione sull’opera invece che sui testi scritti, per lui l’osservazione diretta dell’opera (tecnica e stile) lo porta a classificare le opere secondo tipologie e ricostruirne la funzione. L’oggetto antico è valutato in sé e per sé, confrontato ad oggetti simili. Fondò una metodologia empirista: nella premessa al suo catalogo c’è l’illustrazione di un nuovo metodo, che si basa sulla catalogazione in classi generali, relative ai paesi di produzione e, in ogni classe, un ordine cronologico. Il suo metodo ha un profondo legame con la cultura scientifica, per: - la centralità data all’opera da integrare con testi letterari - lo studio diretto del materiale, delle tecniche, dello stile e i confronti incrociati con oggetti simili: ciò consente di capire lo spirito e la mano dell’artista, la sua esecuzione, il gusto di un popolo. - l’uso di un linguaggio aderente all’opera Ci sono analogie e differenze con Winckelmann (la cui Geschichte fu ben recepita): 1. l’opera di Winckelmann non è una cronaca ma una storia, si oppone al genere delle Vite vasariane ed ambisce a mostrare le linee evolutive dello stile nel tempo, in rapporto al contesto, l’essenza dell’arte e non le notizie aneddotiche e biografiche degli artefici, per arrivare ad una visione d’insieme sull’origine, lo sviluppo, i cambiamenti e la decadenza dell’arte, oltre che sui diversi stili in relazione ai popoli, alle epoche e agli artisti, mentre Caylus esamina oggetti anche mediocri senza ambire alla costruzione della storia; 2. Il suo obiettivo è il bello delle opere, non la vita degli artisti, ma prima del giudizio è necessario descrivere l’opera; la storia dell’arte deve a suo giudizio istruire, rendendo conto di come l’arte nasce, si sviluppa e decade, di come si modificano gli stili, esaminandoli in rapporto ai popoli, epoche e artisti; 3. è necessaria un’esperienza diretta delle opere, ciò implica una selezione, vanno escluse dalla trattazione sia le opere perdute sia quelle che non sono utili a determinare lo stile o l’epoca artistica; 4. è importante considerare gli interventi di restauro, spesso trascurati, che dovrebbero essere inseriti nelle incisioni o nelle illustrazioni. La complessità della storia dell’arte antica, da Italienische Reise, 1787: Goethe esprime le difficoltà di valutare correttamente lo sterminato patrimonio di Roma, in termini di stili e scuole (come suggerirebbe Winckelmann), poiché una vera capacità di giudizio si acquisisce con una lunga esperienza sull’antichità. Storia della pittura veneziana, 1771, Antonio Maria Zanetti (1706-1778, bibliotecario, scrittore) è il primo in Italia a scrivere una storia della pittura e dello stile, anche se non ha basi dottrinali e normative solide come Winckelmann (e forse non lo ha letto), come lui rifiuta l’approccio biografico e ne segue uno più empirico, guardando con gli occhi di chi va a vedere opere d’arte e mettendosi anche nei panni del visitatore meno dotto, dilettante. La rivalutazione di artisti medievali e del 400 è condotta però in funzione antibarocca. Archeologia e storia dell’arte, da Il museo Pio Clementino, 1782, Ennio Quirino Visconti, archeologo, curatore del Museo Pio Clementino, ebbe l’incarico di redigere un’opera che illustrasse le opere ivi conservate e produsse così un lavoro in 7 volumi con un apparato imponente di immagini. A livello metodologico partì dai principi storiografici di Winckelmann (204), sviluppandoli ulteriormente: egli cercò di dare all’opera un’immagine più completa possibile (significato, epoca, distinzione, pregi), evitando prolissità inutili, partendo dall’esame diretto delle opere, della tecnica, della distinzione dei restauri, dello stile, dei confronti con altre opere e si aiutò con fonti scritte di Winckelmann. Una storia dell’arte attraverso i monumenti, Jean Baptiste Sèroux D’Agincourt, nella sua Histoire de l’art par le monuments, concepita a Roma nel 1779, ma stampata – a causa della Rivoluzione – nel 1811, continuò il lavoro di Winckelmann sia sotto il profilo del metodo, illustrando lo sviluppo dell’arte e degli stili attraverso i monumenti, che del contenuto, classificandoli secondo il tempo, gli stili, la destinazione, l’importanza, colmando la lacuna e inserendo anche il medioevo, periodo che lui giudica decadente. La parte estetica della sua opera è quella in cui la storia dei monumenti si trasforma in storia dell’arte. La scelta di D’Agincourt di colmare la lacuna è coraggiosa perché dettata dal senso della storia e non dai suoi orientamenti estetici, il suo ribrezzo per quel tipo di arte, il suo giudizio estetico negativo è superato in nome di un fine superiore, quello dettato dalla completezza del metodo storico e filosofico, che impongono di ricostruire l’anello mancante, i secoli bui entrano così nella storia dell’arte non perché apprezzati, ma perché la storia non si interrompe mai. Suoi modelli: • Voltaire e Montesquieu, i promotori di una storia filosofica, contrapposta ad una storia antiquaria, che spiegava lo sviluppo del genere umano non solo attraverso i fatti politici e militari, ma anche con la religione, la cultura, il commercio, ovvero la storia di un popolo non è più fine a sé stessa ma finalizzata alla ricostruzione di una civiltà. • Edward Gibbon (1737-1794, storico, scrittore e membro del parlamento inglese) riprese molte idee da Montesquieu, ma riunì il metodo della storia antiquaria a quello della storia filosofica (concentrata su singoli fatti), ricostruendo la caduta dell’impero attraverso una ricca e dettagliata raccolta di documenti: la storia filosofica cessò così di essere approssimativa. Stessa cosa aveva fatto Winckelmann nella Geschichte: l’esame attento delle opere era funzionale alla ricostruzione della evoluzione globale dello stile nell’arte antica, in rapporto ai contesti economici, politici, sociali. Dimostrano come la decadenza dell’Impero Romano aveva comportato la decadenza della letteratura, delle belle arti, della cultura in generale. D’Agincourt si ispirò a entrambi ricostruendo per primo la storia dell’arte medievale, ma non fu l’unico ad apprezzarla: Vasari, Mancini, Muratori, Montfaucon, esprimono apprezzamenti per l’architettura gotica, lo sviluppo del collezionismo (Stefano Borgia, Seroux stesso), i musei cristiani; l’Etruria pittrice di Marco Lastri, fervore di studi storici sull’arte locale (che ampliò non di poco la conoscenza dell’arte medievale, come quello di Della Valle con Lettere senesi), in generale c’era una cultura erudita in fermento. D’Agincourt aveva un interesse storico, molti invece estetico = arte in sé. Una storia dell’arte indipendente, da Mémoirs sur les anciennes sepoltures nationales, 1799, Legrand d’Aussy, autore di un saggio sulle sepolture nazionali francesi, ringraziò Lenoir per aver salvato le opere del XII e XIII secolo dalle distruzioni della rivoluzione, allestendo il Musée des monuments francais, ma sostenne l’esigenza di andare oltre il medioevo e di creare un museo sulle antiche sepolture galliche, che prendesse in considerazione tutte le epoche, compresa quella dei primitivi francesi, operazione fino ad allora mai fatta. Compito dello storico non è occuparsi di ciò che è bello ma di ciò che è utile alla ricostruzione storica, liberando così la storia da pregiudizi di tipo estetico. Suddivise la storia in sei epoche, proponendo di riprodurne i modelli e di eliminare dallo studio le tombe romane, in quanto monumenti stranieri per i francesi. Esprimeva un’esigenza di separazione dell’architettura celtica da quella romana, con una chiara componente nazionalista: antichità locali ed etnie come polo di individualità nazionale e antichità greco-romana come polo della classicità sovranazionale, dei valori universali. La cultura romantica prediligerà il primo polo. Propose di intraprendere campagne di scavi in tutta la Francia, anche se la piena rivalutazione della cultura gallica avvenne più tardi. ® Pittura Storia pittorica dell’Italia (1795) di Luigi Lanzi (gesuita, archeologo, storico dell’arte) nella prefazione descrive i criteri in base al quale ha redatto l’opera, richiamandosi a Winckelmann per il riferimento ad ogni stile e scuola, a Zanetti, omettendo però i pittori viventi, a Tiraboschi, sintetizza i risultati di ricerche fatte in tutta Italia da molti eruditi e li unifica. Individua le scuole=stile, ne indica i caratteri generali, i successi e le motivazioni alla base, l’origine, ne individua i capiscuola; suddivide le scuole in epoche e ne distingue 3-4, a cui corrispondono i cambiamenti di gusto, di ogni periodo e ne illustra lo stile (anche quello che fa regredire). Fonti: si basa sulle vite, su opuscoli, cataloghi, abbecedari etc, focalizzandosi non sull’uomo-pittore, ma sulla sua opera, così la storia pittorica diventa simile a quella letteraria. Anche su suo suggerimento insieme all’allora direttore della Galleria degli Uffizi Bencivenni Pelli, nel 1782 aprono una sala di pitture antiche cioè di primitivi toscani, suddivise per scuole e per ordine cronologico, metodo che verrà ripreso nella Storia pittorica. Dal 1783 estese le sue conoscenze alla pittura italiana, con ricerche che lo fecero viaggiare, si oppose al genere delle biografie, sostenendo che l’attenzione doveva essere puntata sul pittore e non sull’uomo e dunque sul talento, il metodo, lo stile, la varietà. Suo obiettivo era colmare la mancanza di una storia globale della pittura italiana, dando unità, significato e correttezza alle informazioni e non dimenticando le diverse scuole regionali, che costituivano una base imprescindibile per la storia italiana. Il risultato era una storia che rispecchiasse le grandi connessioni stilistiche. A differenza di Winckelmann però la sua è una visione policentrica, in cui non c’è uno stile perfetto, ma tante scuole con una propria individualità ed evoluzione. Anche lui rifiuta il genere biografico. Un altro obiettivo lanziano era contribuire all’avanzamento dell’arte: componente didattico-dottrinale i cui destinatari sono sia gli artisti del suo tempo sia il pubblico generico. ® Scultura La storia della scultura, da Prospetto della storia della scultura: il conte Leopoldo Cicognara, grazie alla stretta collaborazione del letterato Pietro Giordani, presentò la scultura come parte di una storia globale dell’arte, dove protagonista è il fattore stilistico e dove le biografie non sono considerate. La storia è divisa in cinque fasi e l’esame delle opere è diretto. Propone una storia della scultura che, attraverso l’esame delle opere, ricostruisca una storia dello spirito. Ritiene la scultura una disciplina prettamente italiana, su cui nessuno ha scritto e su cui un italiano può scrivere meglio: per il metodo si rifà a Winckelmann e a d’Agincourt, non trascura i collegamenti con la pittura e l’architettura, descrive l’ingegno umano, i progressi nel produrre il bello, gli ostacoli e gli aiuti. Religione e politica: le ruote motrici della storia, Domenico Fiorillo (storico dell’arte tedesco, 1748-1821) svolse la monumentale impresa della storia dell’arte europea (1798), con una sterminata estensione cronologica e biografica, comprendendo anche fonti medievali. Il metodo lo acquisì da Lanzi, ma a differenza sua, non L’arte deve mettersi al passo con la rivoluzione, rigenerandosi: in un discorso dello stesso periodo (10 agosto 1793, tenuto all’apertura del Salon, in occasione della formazione della giuria per l’assegnazione dei premi), egli spiega con quali criteri ha designato i membri ed afferma che se l’artista imita il bello della natura e l'arte agisce profondamente, oltre che sugli occhi, sui cuori, allora l'artista deve conoscere perfettamente, oltre alla natura, l'uomo, deve essere una sorta di filosofo, poeta, un’anima forte. → Tale percorso continua negli anni del Direttorio, con Le Sabine, opera dallo stile più greco, che segna una svolta estetica e politica, mirando a sensibilizzare la fine degli spargimenti di sangue. In seguito, David si farà cantore dei fasti napoleonici, per poi dedicarsi ad un’arte disimpegnata: esaurimento definitivo della sua passione politica. Il ruolo dell'arte nei valori rivoluzionari si mantenne con il Direttorio, incarnazione degli interessi borghesi, assunse un messaggio prettamente nazionalista: discorso agli artisti del Ministro degli interni Benezech del 1796 “Dipingere i fatti gloriosi della rivoluzione”, tenuto in occasione della rinascita dell’Accademia, inaugurata il 4 aprile 1796. In questi anni di ritorno all'ordine, in cui si afferma la politica delle spoliazioni, che parte nel 1796 da Roma e dallo Stato Pontificio, il ministro invita gli artisti a celebrare la storia contemporanea della rivoluzione, per promuovere un’arte nazionale. Negli altri paesi la rivoluzione costrinse molti artisti a fare scelte diverse: Canova fu conservatore e filo papalino e, pur soffrendo per le spoliazioni francesi, lavorò anche per Napoleone; egli fu apolitico, la politica cioè non era per lui fonte di ispirazione nel processo artistico e sosteneva che un'opera aveva una sua essenza ed in virtù della sua autonomia, può ammantarsi in un secondo momento di significati politici, anche di segno opposto. Conservatrice o rivoluzionaria? L’adattabilità dell’arte a esprimere messaggi politici opposti: ne è esempio una lettera del 1799 dello scultore al conte Roberti, suo amico, in merito ad una commissione napoletana del 1795, poi revocata, del colossale gruppo raffigurante Ercole e Lica: nel 1799 il consiglio di Verona, di cui era portavoce Roberti, chiese una scultura per rappresentare la vittoria austriaca sui francesi a Magnano, Canova, essendo oberato di lavoro, propose di adattare Ercole e Lica, nata senza alcun significato politico, a quel significato politico; nella stessa lettera Canova racconta di un aneddoto in cui, qualche tempo prima, alcuni francesi videro la destinazione ideale gruppo scultoreo a rappresentare la Francia rivoluzionaria: Ercole che scaglia in mare Lica poteva rappresentare la Francia che getta al vento la monarchia. Canova poi ne ribalta il significato, proponendo di leggere la statua in chiave conservatrice, come immagine della monarchia che getta la licenziosa libertà. Così si dimostrava la docile disponibilità dell'arte a adattarsi ai più disparati e opposti scopi di parte. Sarebbe un errore etichettare in modo rigido la posizione politica di un artista che, in quanto uomo, è soggetto a ripensamenti e incoerenze. La libertà prostituta: una lettera del pittore austriaco Koch mostra come un artista potesse cambiare idea riguardo alla rivoluzione: prima infiammato dagli ideali Giacobini, egli si ritrovò nella effimera Repubblica partenopea a vedere gozzovigliare sedicenti patrioti, cambiando così posizione politica. 2. La guerra dei simboli e il vandalismo rivoluzionario La rivoluzione si pone come ritorno all'origine e quindi sarà in primo luogo distruttiva, al fine di eliminare il preesistente, annullare il tempo, distruggere tutto ciò che non coincide con essa, ovvero il bene, e incarna il male: fare tabula rasa. Questa ideologia spiega atti come l'instaurazione del calendario repubblicano, una nuova onomastica, nuove carte da gioco. Distruggere è un atto rigenerante e creativo, sublime e non bello, perché produce armonia ma si fonda sul terrore, sul dolore, sulla morte. Come comportarsi dinanzi agli emblemi della monarchia, le opere realizzate per nobili ed ecclesiastici e tutta l'arte prodotta sotto l’ancien regime? La prima risposta fu distruggere, contrapponendo altri emblemi, come gli alberi della libertà, il tricolore, il berretto frigio, oppure mutilare. Significativa fu la vicenda del monumento di Luigi XIV in Place des Victoires, che presentava ai suoi angoli 4 schiavi: Come distruggere il presunto significato politico di un monumento, 1790, in cui Lameth, in vista della festa per l'unità della nazione, propose di farli rimuovere, poiché essi, erroneamente interpretati come personificazione delle regioni annesse al regno dopo la guerra con l'Olanda, potevano offendere le province francesi, che sarebbero accorse per la festa. L’opera, tuttavia, costituiva anche una creazione dello spirito umano, era un elemento autonomo, un’espressione artistica in sé; quindi, forse andava rispettata e conservata e Talleyrand tentò di conciliare il nesso arte-politica, ma la mozione di Lameth fu approvata. Tuttavia un’altra proposta viene avanzata da un gruppo di artisti, guidati da David, che chiese invece che gli schiavi fossero utilizzati per creare un nuovo monumento di significato politico opposto: privati delle catene e dei simboli della schiavitù, con due targhe esplicative, essi subivano forse una forma più sottile ma non meno violenta di distruzione, perché in questo modo al monumento della feudalità si dà un significato totalmente differente, come un castigo esemplare, massima umiliazione. Cominciata nel 1790, l'ebrezza distruttiva si scatenò nel 1792, trasformandosi in vera e propria foga iconoclasta: essa coincise con l'invasione austro-prussiana e con la crisi e la caduta della corona; l'11 agosto il popolo parigino iniziò a distruggere le 5 statue di re francesi collocate in città, il 14 agosto l'assemblea decretò che fossero tolti tutti i monumenti che ricordavano il dispotismo, da sostituirsi con monumenti in onore della libertà. Che significava rimuovere gli emblemi feudali? Difficoltà dell’Assemblea a barcamenarsi tra esigenza di distruggere il significato politico presente in quei monumenti e consapevolezza che, in quanto opere d’arte, andassero salvaguardate. Far sparire i monumenti della feudalità, da Discorso alla Convenzione nazionale, 25 novembre 1792, David chiese (per la seconda volta) che i resti dei marmi e del bronzo provenienti dai basamenti delle statue dei re distrutte a Parigi in agosto, fossero impiegati come ornamento a due monumenti da erigersi a Lille e Tionville, per celebrare la vittoria delle due città contro gli austriaci. Le macerie delle statue dei re come macerie del dispotismo, da Discorso alla Convenzione nazionale, 7 novembre 1793: anche nel ‘93 il pittore propose di erigere una statua colossale in onore del popolo francese nella piazza del Pont Neuf, ai cui piedi andavano ammassati alla rinfusa i resti delle 28 monumentali statue dei re di Notre Dame, abbattute qualche tempo prima, con il significato politico che il popolo francese trionfava sulle macerie del dispotismo. Al di là delle sottili inversioni di significato, nel 92 e nel 93 la mutilazione e la distruzione imperarono. Il vandalismo dipendeva dalla confluenza di due spinte, una irrazionale dal basso e l'altra ideologica dall'alto e conobbe una nuova impennata nel 93, dopo l'abolizione del cristianesimo: Mercier, un pubblicista giacobino moderato descrisse il quadro delle distruzioni, che non risparmiava niente, tanto che Chateaubriand, quando tornò nel 1800 in patria, trovò città del tutto nuove, private della loro memoria. Egli descrive le distruzioni rivoluzionarie in una memorabile pagina: le statue dei Re di Notre Dame furono orribilmente profanate, ridotte a immondizia, ma lo sfregio più devastante lo subirono le tombe di Saint Denis, ne furono distrutte ben 51 nel 1793, furono sottratti i sigilli di piombo e bronzo, poi fusi, furono riesumati i cadaveri, i frammenti di marmo furono trasportati al deposito dei Petits Augustins, diretto da Lenoir, nato per conservare i beni provenienti dalla nazionalizzazione dei beni degli emigrati e da quelli derivati dalla costituzione civile del clero (280). La Francia rivoluzionaria riuscì a superare il vandalismo poiché, fin dallo scoppio dell'ondata iconoclasta, si erano levate voci contrarie, che ritenevano importante conservare la memoria storica nazionale a rischio di cancellazione. A sostenere questa ideologia, Reboul, un oscuro deputato, che dichiarò che distruggere le statue non significava distruggere il dispotismo, così anche un altro deputato, Dusaulx, che lanciò un grido d'allarme contro la distruzione della porta di Saint Denis, consacrata a Luigi XIV, ma capolavoro delle arti. NB: il dilemma tra valenza politica dell'arte e valore estetico, tra dipendenza dell'arte dal contesto politico e autonomia della stessa, tra rigenerazione del presente/cancellazione del passato e memoria storica si imponeva con forza. La strada che portò alla condanna del vandalismo coincise con la delineazione del ruolo del museo del Louvre: dovere della Francia rivoluzionaria era proteggere le arti del passato e costituire un deposito universale. Musealizzare il passato per depoliticizzarlo, da Discorso all’Assemblea nazionale, 22 agosto 1792: questa posizione fu espressa dal deputato Cambon, secondo il quale le opere conservate in un museo si depoliticizzano, assumevano valore puramente culturale ed estetico e si impose, come notò anche il deputato Mathieu, la nazionalizzazione dell'eredità artistica proveniente da nobiltà e clero, divenuta proprietà dei cittadini, che era ora motivo di gloria e simbolo di libertà. Questo diverso orientamento si affermò con il Direttorio e consacrò la vocazione del Louvre, il trionfo della libertà e la grandeur della nazione, facendo di Parigi il centro universale delle arti: Annuncio della nascita del Louvre, da Lettera di Jean Marie Roland (ministro dell’Interno) a David, 17 ottobre 1792: i primi progetti per la creazione del Louvre risalgono al 1788, ma solo con la rivoluzione e la messa a disposizione di una smisurata quantità di opere provenienti dalla chiesa e dagli émigrés che si sviluppò un dibattito concreto: il 1 ottobre 1792 Roland creò la Commission du Museum, con il compito di svolgere i lavori necessari all’apertura e in questa lettera informa David del progetto, il 10 agosto 1793 il Louvre è istituito e concepito come museo universale, aperto a tutto il mondo, capace di elevare le anime. Se l'arte è libertà allora solo la Francia, in quanto patria della libertà, può essere la vera patria dell'arte: nel 1794 questa idea è ampiamente condivisa e costituirà la base ideologica alle requisizioni, iniziate in Belgio nello stesso anno. Il Louvre assumerà una vocazione universalistica, il vandalismo è condannato. Fu emanata un'istruzione sul modo di inventariare e conservare gli oggetti, le scienze e le arti furono concepite come uno strumento di istruzione e Boissy d'Anglas porterà alle estreme conseguenze l'intuizione di Talleyrand, affermando che le opere artistiche create nell'era del dispotismo ne hanno provocato la caduta: l'arte è così saldata alla Rivoluzione. Eliminare il vandalismo perché le arti sono figlie della libertà, Henry Gregoire, da Rapport sur le distructions opérées par le Vandalisme, et sur les moyen de le réprimer, 31 agosto 1794: è il resoconto sul vandalismo redatto dall’abate e presentato alla Convenzione, in cui egli esprime l’idea che il vandalismo sia una mossa dei controrivoluzionari e (dopo la fine del Terrore) pensò che dietro di essa ci fosse Robespierre. Il rifiuto del vandalismo si collega all'esaltazione del ruolo della Francia non solo come luogo di raccolta del patrimonio nazionale, ma anche delle ricchezze artistiche del mondo intero, è la presa di coscienza del valore storico e artistico dei monumenti, che diventano indipendenti dal contesto politico in cui sono creati. Così nel 1795 Lenoir trasformò in Musée des Monuments francais il deposito ai Petits-Augustins, nato per raccogliere opere di provenienza monarchica e nobiliare. L'eredità del passato era salva, ma alto fu il prezzo pagato e sarebbe stato alto quello delle nazioni straniere vittime di quell'ideologia: il pianto di Roma era ormai alle porte. 3. La festa Giacobina La festa è nata con la società, quella per eccellenza è il carnevale che consacra il rovesciamento delle gerarchie dell'ordine costituito, ha in sé il germe della licenza, è lo scatenamento di ciò che abitualmente è represso, ma anche il mezzo con cui veicolare messaggi ideologici ed una valvola di sfogo delle tensioni sociali. Le feste giacobine scandiscono le tappe della rivoluzione ed assumono il peso di atti politici deliberati: la forte valenza politica delle feste giacobine si spiega in modo diverso dalle feste dell'ancien regime, qui ad essere protagonista è il popolo. Elogio della festa del popolo, la lettera a d’Alembert sugli spettacoli di Rousseau, scritta in risposta all'articolo Genève del 1757 dell'Enciclopedie, in cui si sosteneva la necessità di erigere un teatro a Ginevra, esprimeva la contrarietà dell’intellettuale svizzero, poiché il teatro era destinato ad un pubblico ristretto, in cui attori e spettatori erano separati ed era privo di valore didattico, etico e politico, era inoltre, una forma di rappresentazione, di inganno. Tale polemica va di pari passo all'attacco che Rousseau fa, in nome della semplicità, contro la società e la sua ipocrisia, sognando la trasparenza assoluta, la purezza, che lo spinge a considerare il teatro come espressione di un mondo corrotto, in opposizione a Diderot, per il quale il paradosso dell'attore è fingere sentimenti ed azioni non reali ma fittizi per veicolare valori morali. Al teatro Rousseau contrappone la festa popolare, aperta a tutta la collettività, democratica, in cui si annulla la distinzione tra attore e spettatore, dove protagonisti sono i cittadini, che non si fonda sull'inganno della rappresentazione ma sul popolo che si celebra, per il solo gusto di stare insieme, per questo lo spettacolo è strumento di coesione sociale in cui la collettività prende coscienza di sé. Tali idee erano coerenti con la cultura rivoluzionaria, Le feste nazionali devono sorgere spontanee, da Discorso alla Convenzione Nazionale, 10 settembre 1791, in cui Talleyrand si ispirò proprio ad esse: come l'arte, le feste svolgevano una funzione didattica e civile, erano ispirate a un sentimento di benevolenza universale, nascevano per volontà del popolo e avrebbero dovuto essere irregolari, non periodiche né scadenzate, ma questa fu un'utopia, poiché esse in realtà dovevano avere una regia, essere orientate ideologicamente e quindi gestite dai governanti. I progetti di festa ideati da David, infatti, non corrisposero mai a quell'idea vagheggiata da Talleyrand e del resto neanche Rousseau le aveva pensate come eventi spontanei, l’importante era che il popolo fosse protagonista, rappresentare sé stesso, senza finzioni, unito, uguale e libero. Così fu pensata la festa della Riunione repubblicana del 10 agosto 1793, da David a Parigi: fulcro della festa era il corteo, scandito da 5 stazioni, che rappresentavano i luoghi significativi della rivoluzione; la parte del piano che riguardava la prima stazione aveva una forte componente russoviana, il popolo infatti si offriva come spettacolo agli occhi dell'eterno, era sovrano e protagonista, unito ma diviso in tre gruppi (le società popolari, i membri della Convenzione Nazionale, il popolo), in cui ogni differenza scompariva, mescolati ma individuabili. Questa festa espresse la rivoluzione come in realtà non fu, inneggiando ai valori di libertà uguaglianza e fraternità, in un momento in cui regnava la violenza, il disordine, scontri fratricidi. Nei dettagliati piani di David, il popolo aveva il ruolo principale ma le azioni erano rigidamente fissate, nulla era lasciato al caso: il 10 novembre 1793, in occasione della festa della Dea Ragione, con un forte accento diffondere il buon gusto non solo presso gli artisti ma anche nel pubblico, ammesso a seguire alcune lezioni, nell’intento che artigiani e professionisti acquisissero capacità che innalzassero il livello della produzione manifatturiera. In modo molto realistico, egli distingueva la genialità dal tipo di insegnamento che può fornire l'accademia e dal tipo di artisti che può sfornare. 2. La crisi delle accademie nell'epoca della rivoluzione Sul finire del 700 le proteste contro questa istituzione si accesero non solo nella Francia rivoluzionaria, ma anche in Spagna e Germania: la dialettica che percorre la cultura neoclassica, tra ricerca dell’origine, del modello primo, perfetto e universale e ricerca dell’originalità. Già dagli anni 60 in Italia fu Algarotti, in un saggio sull'Accademia di Francia a Roma del 1763 a criticare il fatto che gli allievi francesi vincitori del Prix de Rome fossero costretti a risiedere solo a Roma, senza poter conoscere altre città italiane, sedi di scuole pittoriche regionali e da ciò ne derivava una uniformità stilistica, che impediva loro di scegliere cosa studiare e di imitare la scuola più vicina alla propria inclinazione naturale. In Italia fin dal XVII secolo si era affermata, in opposizione al toscano-centrismo vasariano, l’idea della esistenza e validità di differenti scuole pittoriche e tale diversità fu consacrata da Luigi Lanzi nella sua Storia pittorica. Vedere una sola scuola era come leggere un solo libro. Simile fu la protesta di Girodet, allievo di David, residente a Roma come vincitore del Prix de Rome, dalla primavera del 1790 all'inizio del 93: Un artista insofferente propone una riforma dell’Accademia di Francia a Roma, in una lettera del novembre 1791 al suo tutore, esprime il senso di impotenza, il desiderio di ribellione al potere oppressivo dell'accademia ed elabora una sorta di progetto di riforma simile a quello di Algarotti ed affine alla riforma di Quatremère del 1781; secondo Girodet era necessario lasciare maggiore libertà agli allievi, dando loro la possibilità di viaggiare non solo in Italia, ma in altri paesi, proprio come il pittore protagonista del suo poema Le Peintre: egli non intendeva annullare la tradizione in nome dell'originalità, ma dare la possibilità e la libertà di scegliere i propri modelli, quelli più vicini alla propria personalità, di seguire il proprio talento, prendendo ispirazione dalla tradizione artistica, così da avere uomini di genio e produzioni nuove e non omologate. La proposta riformatrice di Quatremère è sulla stessa linea, in uno scritto del 1791 egli dichiara che è assurdo credere in un sistema di insegnamento universalmente valido ed è necessario evitare qualsiasi forma di imposizione (tra i due eccessi, meglio lasciare più libertà), poiché compito della scuola è scoprire il genio ed il talento e assecondare le inclinazioni. Con il radicalizzarsi della rivoluzione e davanti l'inamovibile rigidezza delle accademie, tali soluzioni apparivano blande: l’avvento della libertà politica segnava anche il pieno riconoscimento del genio, mentre il carattere dispotico delle accademie sembrava il residuo del regime assolutistico appena abbattuto. Fin dal 1790 si era instaurato un centro di potere alternativo, la cosiddetta Commune des Arts, costituita da artisti filo-rivoluzionari e guidata da David, giacobino, membro del governo di Robespierre e protagonista della stagione del terrore, alla quale successe la Société populaire des arts: regime accademico insopportabile in una nazione libera. La soluzione estrema: abolire le accademie: nel 1792 fu soppressa, grazie all'azione congiunta di artisti francesi ribelli residenti a Roma, tra cui Girodet, e David, la carica di Direttore dell'accademia di Francia a Roma, a cui seguì, l'anno successivo, l'abolizione di tutte le accademie francesi: David nel discorso in cui chiedeva alla nazione l’abolizione di tale sistema accademico del 8 agosto 1793, sottolineava la politica tirannica dei suoi membri, il meschino spirito corporativo, le basse gelosie, la riprovevole regola di emarginare gli allievi diversi e la biasimevole prassi di far ruotare annualmente i maestri che, basandosi sul principio didattico dell'oggettività dell’insegnamento, disorientava gli allievi; egli si faceva strenuo sostenitore del rapporto soggettivo che doveva instaurarsi tra maestro e allievo, carattere peculiare dell'atelier di David, nonché preludio alle meisterklassen ottocentesche. L'accademia era così pronta a rinascere con l'Institut de France, inaugurato il 15 ottobre 1795: in realtà nulla era cambiato se non il nome, fatto notato da François Pommereul in un testo dal tenore antiaccademico del 1796, che espresse l'esigenza di dare maggiore libertà ai giovani artisti, permettendo loro di trarre ispirazione non solo a Roma, di emanciparsi dal modello greco, cercando il bello nella natura. L'istituto, nella sezione Beaux-Arts guidata da David e seguaci, mostrava un'unica differenza rispetto alla vecchia accademia, ovvero la separazione tra gli scopi associativi e quelli didattici, che diventavano di competenza della scuola. Più tardi Gericault, seguendo una posizione definibile come romantica, espresse riprovazione per questo sistema, accusando l'accademia di soffocare le scintille del genio. Negli anni 90 un'esigenza di revisione emerse anche in Spagna e Germania. Nel 1792 il vice protettore dell'Accademia di San Fernando, Bernardo de Iriarte invitò gli accademici a fare proposte per il miglioramento dell'insegnamento. La posizione di Goya: libertà degli allievi: in occasione della nomina della commissione di riforma da parte dell’Accademia di Madrid, Goya si distinse per la forza con cui egli biasimò l'istituzione, senza però proporne l'abbattimento o negare l'importanza della tradizione del passato come fonte d'ispirazione, anzi egli mantenne rapporti cordiali, ma affermò che non esistono leggi in pittura e che ognuno doveva seguire la propria inclinazione, secondo una visione prettamente romantica. Secondo lui scopo dell'artista è raccogliere il divino nella natura, non correggerla sulla base dei modelli greci, considerati universali e assoluti, perché l'arte è dentro l'artista ed egli con la natura deve instaurare un rapporto libero e spirituale. Lettera di Fernow a Jens Baggesens, 1795: emblematica la ribellione di Carstens, pittore danese, titolare di una cattedra di insegnamento all'accademia di Berlino dal 1789 a Roma, che si distinse per la sua indipendenza e per il suo spirito critico: si evince l'intollerabilità di un sistema opprimente e incapace di cogliere il carattere personale e soggettivo della formazione di un artista. La rivolta di Carstens: l’artista appartiene all’umanità, non a un’accademia, da una Lettera a Friedrich, 1796: il pittore danese, profondo conoscitore degli antichi, di Michelangelo e Raffaello, mentre era a Roma grazie ad una borsa di studio avuta dal governo prussiano, manifestò il suo scontento verso il sistema accademico tedesco e non inviò all'accademia opere che documentassero il progresso dei suoi studi in Italia e, in uno scambio di lettere con il ministro prussiano, attaccò violentemente il sistema, non ritornò a Berlino e proseguì liberamente il suo cammino. 3. Verso le meisterklassen Come imparare l’arte senza maestri: nel 1795, anno della fondazione dell'Institut de France, il pittore, restauratore, mercante d'arte e collezionista Jean Baptiste Le Brun, nipote del più noto Charles, pubblicò un opuscolo il cui obiettivo era guidare il giovane artista nell'apprendimento della sua arte, sostituendo la figura dell'insegnante, il quale cerca di imporre la propria maniera, facendo creare ai giovani una serie illimitata di copie, mentre è l'allievo che deve scegliere il suo modello in base al suo talento naturale; a proposito della composizione per esempio, egli non indica esempi sul modo di comporre dei grandi artisti del passato, per far scegliere all'apprendista la strada da seguire. Per lui anche il museo ha un ruolo fondamentale, perché mostra la più ampia varietà di stili, garantendo la più ampia scelta possibile e dando la possibilità di imparare a essere originali: il rapporto tra originalità e tradizione è da lui non inteso in termini dialettici, ma creativi. Il progetto di Le Brun era utopico, in quel periodo nasceva l'Institut e l'accademia tornava di fatto alla ribalta ma esprimeva l’esigenza di svecchiare l’insegnamento. Un diverso metodo didattico era applicato anche nell'atelier di David, una sorta di accademia privata, da cui nacquero nel corso del Settecento accademie-studio di vari artisti, che svolgevano le stesse attività delle accademie vere e proprie, in particolare il disegno dall'antico. Quella di David ebbe prima sede al Louvre, poi all'Institute de France, ed essa ovviava alla rotazione dei professori, poiché vi era un unico maestro che non ebbe però un atteggiamento dispotico: lo sappiamo da uno dei suoi allievi, (L’atelier di David: non una bottega, ma un’accademia con un solo maestro), Delécluze, che nel 1855 pubblicò un libro di suoi ricordi personali, da cui si ricavano informazioni sul funzionamento dell'accademia davidiana, sull'importanza prioritaria del disegno, sui consigli che David dispensava, non invitandoli a seguire la sua maniera e i suoi modelli, ma spronandoli a prendere coscienza della loro inclinazione naturale e ad assecondarla, secondo un metodo maieutico. Tale resoconto fu confermato anche da un articolo del Mercure de France del 1824. Il metodo davidiano coincideva in parte con quello vagheggiato dei Nazareni, che si sarebbe realizzato anni dopo nell’accademia tedesca. Carus (paesaggista, medico e naturalista) L’interiorità, non la scuola come origine della creazione, da le Nove lettere sul paesaggio, 1815-24: la vera opera d'arte sbocciava dall'intuizione del divino nella natura, senza alcuna intermediazione di insegnamenti o scuole, in un processo spontaneo e ingenuo, secondo quella cultura romantica seguita anche da Friedrich, Carstens, Anton Koch o Chic. Altri personaggi del movimento romantico tuttavia non rifiutavano l'insegnante, ma gli attribuirono un ruolo intimo, spirituale nel rapporto con l'allievo. Il movimento Nazareno, nato dall’opposizione di Franz Pforr e Friederich Overbeck all’accademia di Vienna, si basava sul principio ispiratore della verità in natura e in religione quale si manifestava nelle opere dei pittori primitivi, in contrapposizione alla maniera accademica. Fondarono la Confraternita di S. Luca che attirò altri artisti, come Cornelius, ed ebbe commissioni importanti. Nel frattempo in Germania le idee romantiche facevano breccia nelle accademie di Monaco e Düsseldorf e nel 1819 Cornelius tornò in Germania su invito del principe Ludwig di Baviera, che gli conferì un'importante commissione ed anche l'incarico di riformare l'accademia secondo le concezioni nazarene, ma la riforma di Cornelius, che avrebbe portato alla nascita delle meisterklassen, cioè classi con un solo maestro col compito di far sviluppare le potenzialità degli allievi, rimase sulla carta: a realizzarlo fu il suo successore a Düsseldorf, Wilhelm Shadow, che apri un atelier studio sul modello di David, come fece anche Wilhelm Wach a Berlino. 4. Appendice sul genio: qualche interpretazione Il concetto di genio ha origini lontane: teoria platonica dei furores, dottrina aristotelica del temperamento saturnino. Nel Rinascimento viene ripreso da Marsilio Ficino (neoplatonico) affermando che l’entusiasmo creativo, secondo Platone, poteva sorgere solo in un temperamento saturnino. Il genio era qualcosa di innato, che paradossalmente convisse per molto tempo con la convinzione che l'arte potesse essere insegnata e si basasse su regole e principi e solo nel 1700 il concetto fu percepito come contrario a qualsiasi precetto normativo ed opposto al principio di imitazione di modelli, e fu legato all’immaginazione e originalità. Fu Edward Young nel 1759 ad affermare che il genio vive di spontaneità, non sopporta le regole, è autentico e fedele alla propria natura individuale e non si uniforma alla massa. Per definire il genio ci si riferisce a idee risalenti alla antichità e al Rinascimento: accanto all'indefinibilità, si affiancò l'idea dell'impossibilità di insegnarlo, che sua volta fu accostata alla creazione artistica, finendo con il cozzare contro i fondamenti teorici dell'accademia. La nozione di genio va messa in rapporto anche a quella di gusto che, secondo un pensiero che va da Pascal a Kant, è capacità di cogliere la bellezza. Nel XVIII secolo è spesso collegato alla sfera sentimentale ed emotiva piuttosto che a quella razionale. L’Abbé du Bos è di fondamentale importanza nell’elaborare una vera e propria estetica della ricezione fondata sul sentimento: se lo spettatore coglie il bello per via sentimentale, non razionale, d’altro canto è bello ciò che è capace di mettere in movimento il cuore del pubblico, funzione tipica del genio: i due concetti sono dunque uniti dall'appartenenza alla dimensione del sentimento. In seguito, il gusto fu concepito come una sintesi di ragione e sentimento, una facoltà naturale che però poteva essere perfezionata e educata, a differenza del genio. La distinzione si ritrova nell'articolo Genie dell'Encyclopédie, che dà un'immagine di genio molto vivida: se il genio è un puro dono della natura, il gusto invece è opera dello studio e del tempo. Diderot nel 1757 pubblicò l’opera teatrale Le fils naturel, Dorval è un uomo affascinato dalla natura e lo spettacolo naturale fa sorgere in lui un fremito che fa di bollire la sua mente di idee, nessuna mediazione che regola il rapporto uomo geniale-natura, tutto è spontaneo, la natura per Diderot è dinamica, si configura come la dimora sacra dell’entusiasmo e dunque motore del genio. Più tardi il pensiero di Diderot subirà un’evoluzione: il genio ora è assimilato all’osservatore profetico, capace di intuire e prevedere ciò che gli altri non immaginano neppure. Pur distinguendolo dal genio, Diderot salva il valore del gusto, condannato invece da Rousseau, perché prodotto di una società raffinata, sinonimo di corruzione in quanto allontanamento dalla purezza della natura. Duff nel suo An Essay on Original Genius del 1767 afferma che la genialità poetica si è manifestata agli albori delle civiltà in società non raffinate ed evolute: è l’interpretazione del genio in chiave primitivista. L’opera del genio è una scintilla divina, dal suo saggio Lavater concepisce il genio in chiave religiosa, come scintilla divina che lo definisce come tutto ciò che non si può apprendere o acquisire, che è intimamente proprio, inimitabile; il genio prima di osservare e creare intuisce, non organizza e ciò si contrappone alla concezione settecentesca dell'immaginazione come rielaborazione di dati provenienti dai sensi. Il segreto del genio: la semplicità, Guerin, pittore neoclassico francese, nel 1821, in un discorso accademico all’Institut de France, pur definendo il genio come facoltà sconosciuta e misteriosa, ne indica il segreto, che non è la sua origine divina, come pensava Lavater, ma è una qualità squisitamente linguistica, di tipo espressivo ovvero la capacità di esprimere molto con poco, la cui incarnazione sta, ai suoi occhi, nel Déluge di Poussin. 5. La critica all'eclettismo Il riconoscimento della libertà dell'artista e il maestro che asseconda il talento personale sono concetti collegati alla originalità. Secondo Le Brun occorre seguire l'ispirazione, seguendo i modelli più vicini alla propria sensibilità e la scelta di un modello piuttosto che un altro implica una rinuncia all'eclettismo. espresse il desiderio di venire a Roma; Canova gli disse che senza i capolavori il paese non poteva risollevarsi, poiché non aveva fondi. I capolavori tornano in Italia, da Lettera a Leopoldo Cicognara sulle Opere italiane trasferite in Francia, 1815: caduto Napoleone, nel novembre del 1815 Canova andò a Parigi come capo della delegazione pontificia incaricata della restituzione delle opere d’arte requisite, potendo contare sull’appoggio dell’Inghilterra trionfatrice di Waterloo e trovando l’opposizione dei francesi (direttore del Louvre, Talleyrand e di Luigi XVIII). Scortato dalle truppe austriache e prussiane si recò al Louvre e riuscì a riportare in Italia la maggior parte delle opere requisite. 2. La tutela Risalgono al XVIII secolo i primi esempi di provvedimenti a tutela del patrimonio storico artistico, al governo pontificio va il primato nella promulgazione di provvedimenti legislativi per la salvaguardia di monumenti e scavi archeologici e la movimentazione delle opere. Altri importanti provvedimenti di tutela furono emessi nel Granducato di Toscana, per gli scavi archeologici di Volterra, dal Regno di Napoli, per le scoperte di Pompei ed Ercolano, a Venezia, per l’inventario dei quadri nei luoghi di culto. I fondamenti della tutela, Chirografo pontificio firmato da Pio VII Chiaramonti, 1802, primo provvedimento epocale con cui si ebbe la svolta legislativa, che fece da spartiacque tra vecchio e nuovo modo di concepire l’intervento dello stato sui beni pubblici. Il documento fu scritto da Carlo Fea (curatore della I° traduzione della Geschichte), il quale fu, tra l’altro, testimone delle requisizioni dei francesi e delle costanti pratiche di trafugamenti e vendite clandestine fatte dallo stesso clero, a danno dello stato pontificio e delle chiese romane. A differenza delle leggi precedenti, il provvedimento del 1802 voleva fortemente arginare la pratica diffusa dei trafugamenti e dei permessi d’esportazione delle opere d’arte da Roma, rilasciati sulla base del criterio del capolavoro di ispirazione winckelmanniana, secondo il quale si lasciavano partire tutte le opere che non fossero pezzi unici, capolavori esemplari e assoluti. L’idea della inscindibilità della produzione artistica dal suo contesto geografico e culturale si stava però affermando, insieme alla convinzione che gli artisti minori erano indispensabili per comprendere quelli maggiori, il senso della scuola artistica: principi che si sarebbero affermati poco più tardi con Lanzi e Quatremère. Fea si distinse per l’accanimento con cui volle combattere queste prassi. Il fondamento dell’editto è infatti il divieto di esportazione e divieto di mutilazione o alterazione che, per i seguenti fattori, non ha precedenti nella storia legislativa: • gamma di oggetti protagonisti del divieto • liste di beni pubblici che i privati detengono e che non devono né vendere né mutilare • conseguenti ispezioni periodiche a musei e collezionisti privati • sanzioni severe per chi contravveniva a tali obblighi • fondi destinati all’acquisto di opere a vantaggio dei musei (fonte di sviluppo e vantaggi economici) NB: Si afferma il concetto di patrimonio artistico come bene collettivo che prevale sui diritti dei privati. Il consolidamento istituzionale della tutela, Editto Pacca 1820: il secondo importante provvedimento, che perfezionò quello del 1802, venne emanato dal cardinale Pacca e prevedeva una più strutturata definizione degli organi amministrativi preposti alla tutela, rimasti in vigore fino all’unità d’Italia: commissione centrale a Roma, commissioni provinciali, altre figure amministrative, divieto di disporre dei beni, autorizzazioni a scavare ecc. 3. Il ruolo del museo pubblico Museo = dal greco luogo di culto, era l’altare dedicato alle Muse che proteggevano l’arte e la scienza. Età ellenistica: designa il museo di Alessandria. Caduto in disuso nel Medioevo, l’istituzione riacquista significato nel Rinascimento in riferimento alle biblioteche e alle collezioni di varia natura. La rinascita del termine si collega al sorgere di collezioni durante il XVI secolo e ciò è importante perché il museo moderno è composto da collezioni, ma in un’accezione particolare che la differenzia dalla collezione privata: • appartiene ad un’entità morale e non ad una persona fisica • pubblica • permanente • inalienabile Istituzione caratteristica del secolo dei lumi, che vede queste tappe importanti: 1. 1471: importante per le sue implicazioni non solo politiche è la donazione di Papa Sisto IV al popolo romano (entità morale), collocata in un luogo pubblico (Campidoglio) di resti antichi trovati nel lateranense, che va a costituire il primo nucleo del Museo Capitolino; 2. 1596: Giovanni Grimani (patriarca di Aquileia, figlio di una nobile famiglia veneziana) dona alla Repubblica di Venezia la propria collezione per essere esposta al pubblico e va a costituire il primo Statuario pubblico, primo museo archeologico aperto a Venezia; 3. Fine 500 il granduca di Toscana Francesco I trasforma gli studioli e le raccolte medicee in una galleria all’ultimo piano degli Uffizi e la apre al pubblico, con la finalità di salvaguardare le opere e renderle pubbliche: la proprietà delle collezioni è privata, ma moralmente le stesse sono del popolo, quindi sono pubbliche e vanno conservato e rese accessibili. È del 1602 il primo provvedimento di tutela che vieta l’esportazione al di fuori della Toscana dei dipinti fissati in un’apposita lista. NB: L’intuizione del museo è la presa di coscienza del valore culturale, estetico, storico ed educativo del patrimonio artistico. Dal 1750 il museo pubblico è una realtà europea, spesso è frutto del dispotismo illuminato. Con Le Vite del Vasari la storiografia italiana raggiunge la piena maturità: nascono le accademie e si sviluppa l’esigenza di tutela, nel 1700 si intrecciano 3 temi intorno al museo: • educazione degli artisti e del pubblico attraverso la presentazione di “modelli”: in Francia nel XVIII secolo alcuni musei nascono in stretto rapporto ad accademie e scuole, con collezioni pubbliche di supporto agli allievi, così in Italia vari musei svolgono una funzione didattica in rapporto ad accademie e scuole; • visualizzazione del percorso storico dell’arte, che istruisce sull’evoluzione storica dell’arte, è la coscienza del valore estetico e storico dell’oggetto d’arte, cominciarono anche ad essere realizzati cataloghi ed altri strumenti che ne illustravano il contenuto e l’allestimento; • protezione del patrimonio artistico; Episodi significativi del processo di definizione del museo pubblico nel 1700: • 1683 inaugurazione del Museo Ashmolianum all’Università di Oxford, dalla donazione di Elias Ashmole, concepito come una sorta di biblioteca di oggetti che costituiscono un grande libro della natura, fonte di istruzione, il museo è utile e istruisce; • 1714 Scipione Maffei viene nominato “padre” dell’Accademia filarmonica di Verona e della collezione epigrafica • 1730-50 Collezioni veneziane private caratterizzate da prospettiva storica e recupero dei primitivi come quella dell’abate Lodoli e dell’abate Facciolati a Padova; • 1734 a Roma fu riorganizzato e aperto al pubblico il Museo del Campidoglio, voluto da Clemente XII; • 1770 Museo Pio Clementino fu aperto su iniziativa del tesoriere di Clemente XIV e ampliato nel 1784 grazie ad una squadra di esperti (Cavaceppi per restauri, Visconti come commissario di antichità e il figlio Ennio Quirino che redasse il catalogo) e all’intensificazione di scavi archeologici, fu completato negli anni 90 con architettura ispirata alla Roma imperiale; • 1759 aperto il British Museum nato dall’acquisto della collezione e biblioteca di Hans Sloane; • 1742 a Dresda Algarotti elaborò un progetto di riorganizzazione della collezione principesca di Augusto II di Sassonia in forma di museo universale, con finalità didattica e concepito come bene pubblico; • Il Belvedere di Vienna: un museo ordinato cronologicamente e per scuole: trionfò la divisione in scuole, il museo diventò un “deposito di storia visibile dell’arte”, in cui si apprende l’evoluzione dell’arte nelle sue varianti nazionali, così anche a Vienna, dove l’imperatore Giuseppe II fece trasferire al Belvedere, riordinare ed aprire al pubblico la quadreria imperiale. L’esigenza di classificazione cronologica ed in scuole, catalogazione e razionalità deriva direttamente dalla mentalità illuminista, finalizzata all’utilità pubblica – didattica e di ornamento della città - e per questo si differenzia con l’organizzazione delle Wunderkammern del 500 e 600. Gli Uffizi Nel 1737 la principessa Anna Maria Ludovica (ultima erede dei Medici) donò allo stato di Toscana la collezione della famiglia, dandogli carattere permanente e pubblico. Nel 1765 Pietro Leopoldo di Lorena razionalizzò la galleria, concependola come bene pubblico. Nel 1769 la galleria diventò statale ed accessibile quotidianamente. Si affermò la figura del direttore colto, al posto del direttore custode. Razionalizzazione: alcuni materiali vennero scartati, altri acquistati per arricchire le collezioni o colmare lacune. Le opere furono ordinate per classi omogenee e il nuovo allestimento era un insieme utile all’istruzione. Nel 1773 Cocchi propose di formare una collezione dei migliori dipinti della scuola toscana, per valorizzare opere meno prestigiose e importanti. Il riordino degli Uffizi e la sala delle “pitture antiche”, da La Real Galleria di Firenze, 1782, l’abate Luigi Lanzi e il neodirettore Bencivenni Pelli contribuirono, negli anni 70, a cambiare volto agli Uffizi che, da un ordinamento ispirato alle Wunderkammern (in cui si mescolavano rarità naturali, dipinti, medaglie, sculture e oggetti eterogenei) si trasformò in un vero e proprio museo: l’ordinamento venne eseguito nelle diverse camere e nei tre gabinetti; il quarto, quello delle pitture antiche, che comprendeva anche capolavori dei greci e italiani prima del Buonarroti, raccontava l’evoluzione dell’arte pittorica toscana e le sue eccellenze. Fu fatta una anche ricognizione del patrimonio dei “primitivi”, disseminato nelle ville medicee, chiese etc, per inserirli nella Galleria: si formò così la sala delle pitture antiche, che illustrava le prime tappe evolutive della scuola pittorica toscana. Nel 1795 le collezioni vengono ordinate per scuole e secondo i tempi, secondo l’enciclopedismo storicistico, venne conferita luminosità nell’allestimento, pareti sobrie. Il Louvre Nasce con la rivoluzione, la caduta della monarchia e la nascita del regime repubblicano, ma i primi germi nascono durante la corona: Aprire al pubblico il Louvre, da Réflexion sur quelques causes de l’état présent de la Peinture en France, 1747: il critico d’arte francese La Font de Saint-Yenne sostiene che il fine dell’apertura del Louvre (palazzo che suscita la meraviglia degli stranieri e la loro sorpresa nel vederlo abbandonato) è valorizzare la pittura di storia, che nell’età del re Sole aveva raggiunto l’apice, e di contrastare lo stile rococò, ma le collezioni erano in stato di abbandono e tutto ciò sarebbe stato possibile se il re avesse riordinato la collezione dei dipinti, conservata a Versailles, che però era compromessa dallo stato d’incuria ed aveva come contraltare, per l’ordinato allestimento e l’accessibilità, la collezione del Duca al Palazzo del Lussemburgo. Nel 1750 viene deciso di trasferire al Palazzo di Lussemburgo alcune opere della collezione di Versailles, e di aprirlo 2 giorni a settimana: è questo nucleo che costituisce il primo museo pubblico francese, ma non riscosse però un grande successo e la galleria fu chiusa nel 1779 e La Font riprese il suo attacco alla corona. Il conte d’Angiviller (politico e militare, 1730-1810) direttore generale degli edifici del re dal 1774 riprese l’idea della pittura di storia e procedette a fare acquisti, sia per colmare le lacune (per es. della scuola fiamminga) sia per aumentare il numero delle opere del secolo d’oro francese. Tali iniziative ebbero una doppia connotazione: politica/patriottica – memoria della storia nazionale – ma anche didattica, il museo infatti doveva essere fonte di ispirazione di modelli per gli artisti e doveva accogliere le loro opere. Annuncio della nascita del Louvre, da Lettera di Jean Marie Roland (ministro degli Interni) a David, 17 ottobre 1792: i primi progetti per la creazione del Louvre risalgono al 1788, anno in cui Luigi XIV approvò il progetto di adattamento e ristrutturazione, operazione più difficile e lenta, bloccata dalla crisi finanziaria e dallo scoppio della rivoluzione. Solo con essa, tuttavia, si ottenne la disponibilità di una smisurata quantità di opere provenienti dalla confisca dei beni della chiesa (1789) e dagli emigrati (1791) da inventariare e conservare pubblicamente, e si sviluppò un dibattito concreto, che sfocerà nella fondazione del Louvre nel 1793, concepito come museo universale, aperto a tutto il mondo, capace di elevare le anime. Il 1° ottobre 1792 Roland creò la Commission du Museum con il compito di svolgere i lavori necessari all’apertura e in questa lettera informava David del progetto, nel frattempo Quatremère criticava il metodo di insegnamento accademico, secondo lui troppo rigido e da questo punto di vista il museo poteva essere un liceo universale. Musealizzare il passato per depoliticizzarlo, da Discorso all’Assemblea nazionale, 22 agosto 1792: durante la rivoluzione francese, nel vivo del dibattito sull’iconoclastia ed il vandalismo, questa posizione fu espressa dall’esperto di finanze Cambon, secondo il quale le opere conservate in un museo si depoliticizzano, assumevano valore puramente culturale ed estetico e si impose, come notò anche il deputato Mathieu, la nazionalizzazione dell'eredità artistica proveniente da nobiltà e clero, divenuta proprietà dei cittadini, era ora motivo di gloria è simbolo di libertà. Il museo liberava dai precedenti condizionamenti dispotici, diventava uno strumento con cui la rivoluzione distruggeva l’ancien regime e svolse il compito di conservazione del valore estetico e storico. Così il ministro degli Interni Roland prese dei provvedimenti importanti: • denunciò gli atti vandalici • assunse su di sé la responsabilità della conservazione delle opere delle case reali di Parigi ordinando il loro trasferimento al Louvre • formò la prima struttura amministrativa ad esprimere il passaggio da un sentimento all'altro. Fu questa una delle qualità più osannate di Canova, nelle numerose ekfrasis a lui dedicate: La cessante ira e la nascente compiacenza del Perseo di Canova, da Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova, 1809: così la Teotochi Albrizzi che commenta il Perseo, ricorda le parole di Winckelmann a proposito dell'Apollo del Belvedere, in entrambe le ekfrasis si rappresenta la fase del passaggio emotivo, evento molto sentito all'epoca. La Maddalena penitente: quando il dolore diventa parte della bellezza, da una lettera di Saverio Scrofani, agronomo siciliano, a Visconti, 1809): Canova aveva la capacità di creare piuttosto che lavorare la materia, infondendo quella vita e quella bellezza che rendeva le sue opere superiori alla natura. Egli aveva congiunto la bellezza alla natura e infuso la vita alla materia, caratteristiche che lo scultore, imprimendo maggiore naturalismo, realizzò anche con il Teseo in lotta col centauro, opera secondo lui degna di sostenere il paragone con le sculture di Fidia. La compresenza di due stati d'animo diversi, il passaggio dall'uno all'altro, furono notati in altre opere di Canova, come la Maddalena penitente di Saverio Scrofani. Un caso esemplare: le ekfrasis del Laocoonte A partire dalla seconda metà del secolo, le ekfrasis del celebre gruppo assumono un'importanza estetica nuova ed offrono esempi di svariati modi di concepire la antichità. L'ekfrasis dei Gedanken (1755) è celebre, di fatto ne esistono due versioni successive, una manoscritta del 1756 circa, l’altra pubblicata nella Geschichte. Nel più grande dolore si mostra la più grande bellezza: le differenze descrivono l'oscillazione di Winckelmann tra due diversi modi di osservare e interpretare l'antichità: • la versione del 1755 fu elaborata a Dresda, prima che egli vedesse il capolavoro e resta di fatto astratta, il Laocoonte diventa un'allegoria della grandezza d'animo e morale dell'uomo greco che trionfa sul dolore, il cui animo è nobile e calmo • nella versione del 1756, redatta a Roma, dopo un confronto diretto, è sostituita da un esame concreto, che comprende anche dettagli tecnici, i cui cambiamenti più rilevanti riguardano la bocca del protagonista che, nella prima versione non grida, nella seconda invece emette un lamento angosciato • nella terza versione della Geschichte questo approccio concreto viene meno: nell'oscillazione di Winckelmann c'è uno sguardo empirico e uno idealistico, che riflette la sua dialettica tra storia e ideale; l'ekfrasis della Geschichte del 1764 si distingue poi da quella dei Gedanken del 1755 poiché, rispetto a quest'ultima, è più analitica nella raffigurazione del dolore. Lessing criticò la lettura etica di Winckelmann dei Gedanken, poiché secondo lui il protagonista è rappresentato in modo nobile ed elevato non per esprimere la forza morale di fronte al dolore, ma per motivi estetici. Il Laocoonte: un’onda pietrificata che si frange sulla riva: Goethe interpreta ancora diversamente il gruppo scultoreo, insistendo sull'aspetto temporale: all'inizio del saggio egli sottolinea che un'autentica opera d'arte, come un'opera della natura, è infinita per il nostro intelletto e può essere solo contemplata e non propriamente conosciuta. Rileva i limiti del discorso verbale quando si confronta un universo visuale, come quello della natura o dell'arte, ma decide ugualmente di descrivere l'opera e di trascrivere attraverso il medium della scrittura ciò che vede, in una transizione temporale. Affinché un’opera si animi agli occhi dello spettatore, deve cogliere un momento di passaggio (vd. Diderot sulla Composition e affinità con Albrizzi e Scrofani) e allora si vedrà muovere tutto il marmo. Goethe coglie l'istantaneità del momento scelto dall'artista, distanziandosi da Lessing, poiché l'opera è un lampo fissato nel suo bagliore, è un momento di passaggio (è l'istante in cui il serpente non ho non ha ancora morsicato), in cui si coglie ancora un residuo della situazione precedente. Nella sua descrizione egli coglie il nesso stretto tra causa ed effetto, secondo la sua concezione organicista dell'arte, che vede l'opera come organismo autosufficiente: l'arte nel momento in cui raggiunge il livello dello stile non è un’imitazione della natura, ma una comprensione delle sue leggi. Laocoonte: un ribelle della società e degli dei, da Ardinghello di Heinse: agli antipodi l'interpretazione e l'ekfrasis neoclassica di Heinse nell'Ardinghello che aveva criticato, in un'ottica anticlassica, l'idea principe dei Gedanken, il principio di imitazione degli antichi, poiché l'arte è scaturita da un genio originale ed è dominata da una bellezza naturale: il Laocoonte assurge quindi a emblema di questa visione anticlassica. Rifacendosi a Servio, egli fa del protagonista un criminale, un nemico che soffre, un ribelle della società e degli dei, in una ekfrasis espressionistica, che evidenzia la dimensione fisica, carnale, quasi sensuale dell'opera ma che si inverte sul finire, venendo meno il carattere immorale del personaggio, che diventa espressione del dolore dell'umanità; così demitizza il protagonista. L'ekfrasis erotica È un filone neoclassico, in cui tra spettatore e opera, la quale sembra emanare le attrattive di una donna fascinosa, si crea un rapporto di tipo sensuale, l'opera viene addirittura corteggiata, riattivando il mito di Pigmalione e Galatea, che riprendono vita. Una fanciulla da consolare, dal Salon de 1765: il tutto comincia con Diderot, che descrive un dipinto di Greuze la Fanciulla che piange l'uccellino morto: in una sorta di dialogo a tre, lo scrittore fa un vero e proprio corteggiamento, a cui il terzo personaggio sembra far da testimone, mentre Diderot è corteggiatore, consolatore, amico, complice, in un discorso che sottintende, elude, allude, ammicca ma in cui il gioco verbale è esibito; egli conduce il lettore a intuire il significato erotico del dipinto, per far instaurare a chi legge un rapporto più diretto con l'opera (i destinatari dei Salons non potevano vedere le opere). Egli così travalica il modello tradizionale di ekfrasis, la parola non fa vedere l'immagine, ma la fa animare, piangere, sorridere, è un oggetto di consolazione del desiderio. Qualcosa di simile si verifica nella Promenade Vernet, dove linguaggio si trasforma in un racconto autobiografico e trasfonde emozioni che l'autore ha provato nell'osservare dipinti. È in questo filone che si manifesta la crisi del genere ecfrastico, di cui le statue di Canova sono state oggetto privilegiato: le creature canoviane hanno nel corso del tempo suscitato su illustri spettatori sensazioni e reazioni di tipo erotico. Foscolo, Stendhal e Flaubert, fino ad arrivare al XX secolo con il rondista Antonio Baldini: queste opere sono statue da sfiorare, accarezzare, baciare di nascosto. Foscolo afferma che la Venere antica gli sembra una dea, mentre quella di Canova gli appare come una bellissima donna: le sculture canoviane sono figure ideali ma non astratte, creature perfette, eppure umane, la sua scultura si presta a questo tipo di approccio, una bellezza che si fa umana, diventando sensuale in modo sommesso e desiderabile ma allo stesso tempo ideale. Altre ekfrasis a lui dedicate sono per le Galatee, che si animavano illusoriamente sotto lo scappello dello scultore-Pigmalione e sotto lo sguardo del pubblico: Sommariva, il più celebre collezionista dell'età dell'impero, considera la Tersicore canoviana come la sua sposa e lo scultore come il suocero. L'ekfrasis in versi La descrizione di un'opera può assumere anche una veste poetica, come l'ekfrasis de L’incubo di Füssli: quando orridi sogni conquistano la mente, contenuta nel poemetto di The Botanic Garden, di Darwin, in cui l'autore rende in versi l'impressione di orrore suscitato dal dipinto, fa vedere ciò che nel dipinto non è rappresentato stimolando l'immaginazione dello spettatore, che si chiede quale sia l'incubo che attanaglia questa fanciulla, simbolizzato dall’animale spaventoso che giace sul suo grembo: la parola gode qui di una libertà assoluta rispetto all'immagine, anzi la completa. La Ebe di Canova: ovvero i passi scolpiti, da Sonetto: altro esempio è la descrizione in versi di Ippolito Pindemonte sulla Ebe di Canova, in cui il carattere ritmico e musicale dei versi si adatta perfettamente alla statua, in cui pietra e moto sono "in un congiunti". L'ekfrasis romantica: esperire l'infinito Le palpebre recise: il 13 ottobre 1810 Kleist pubblicò nel Berliner Habendblatter un articolo intitolato Sentimenti dinanzi a un paesaggio marino di Friedrich, firmato C.B., una descrizione del celebre dipinto raffigurante un monaco dinanzi al mare e che si tratta di una versione modificata e accorciata di un lungo testo redatto da Brentano e Arnim. Il rimaneggiamento irritò i due autori e Kleist fu costretto a dichiararsi autore dell'articolo. Egli lo aveva rimaneggiato perché non aveva gradito il tono ironico usato dai due autori, che ritenevano l'opera incapace di suscitare nell'osservatore lo stesso sentimento di infinito della natura reale: secondo lui tale descrizione non era appropriata al carattere tragico e sublime del dipinto e la sua versione cercò di sottolineare la dimensione tragica del paesaggio, eliminando le scene burlesche, ma diventando un testo enigmatico ed oscuro. Kleist capovolse quella che Brentano e Arnim chiamarono la “vuota velleità” di Friedrich, che voleva mettersi sullo stesso piano della natura, attraverso un processo di identificazione, ovvero il rapporto che si instaura tra osservatore e paesaggio è lo stesso che stringe lo spettatore all'opera, si identifica con il monaco e fa esperienza dell'infinito della natura. L'opera è concepita non come rappresentazione della natura infinita, ma come esperienza dell'infinito. Si allinea alla concezione romantica dell'arte espressa da Moritz, Schelling e Wackenroder: la percezione dell'infinito percepita dall’opera di Friedrich attraverso l'idea delle palpebre recise, è perché lo spettatore si sente perduto nel mezzo all'immensità che non ha confini e i suoi occhi non possono chiudersi, perché ciò che ha davanti è infinito, illimitato. 2. I Salons La nascita dei Salons Rappresenta un momento fondamentale nella ricezione delle opere d’arte, poiché le opere contemporanee sono sottoposte al giudizio di un pubblico eterogeneo, anche se la fruizione pubblica non era una novità: essa fu praticata nelle processioni religiose fin dall'antica Atene, poi nel Medioevo e in età moderna; a volte la fruizione era legata a gruppi sociali ben identificati, nella maggior parte dei casi per rispondere a funzioni di tipo religioso o per soddisfare le esigenze il gusto dei committenti o del pubblico cui l'artista si rivolgeva, erano situazioni diverse da quelle di un'esposizione pubblica. Nei Salons parigini, nei primi tempi, erano esposte opere commissionate, ma l'artista le sottoponeva agli occhi degli spettatori più disparati che si recavano in quel luogo solo ed esclusivamente per giudicare, criticare, curiosare: questa apertura permise la nascita di una critica d'arte contemporanea, più libera. L'idea di un'esposizione pubblica nacque in ambito accademico, in quanto il XXIV statuto dell'Accademia del Disegno fondata da Vasari, prevedeva piccole mostre in occasione della festa di San Luca; anche tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento le esposizioni erano organizzate o nelle accademie o in occasione di celebrazioni religiose. I Salons parigini videro la nascita in seno all'Accademie Royale, nata nel 1648, la cui attività era prevalentemente pedagogica, di conferenze finalizzate ad analizzare i migliori dipinti del cabinet del re; l'accademia aveva una sua collezione di dipinti, morceaux de réception, che candidati sottoponevano al collegio per essere ammessi, ma essa prevedeva anche che i membri fornissero qualche opera per decorare il luogo e così nel 1665 fu organizzata una prima mostra e nel 1666 Colbert stabilì la periodicità di 2 anni, anche se divenne sempre più discontinua (tra il 1700 e il 1724 ce ne furono solo due). Solo le opere eseguite per il Grand Prix de Rome erano regolarmente esposte nei locali dell'Accademia ogni 25 agosto. Chi non apparteneva all'accademia poteva mostrare le proprie opere al grande pubblico in occasione della fiera di Saint-Germain- des-Prés, ma l’esposizione più importante era il Salon della gioventù, organizzato dalla parrocchia di Saint Barthelemy, divenuta talmente famosa che vi partecipavano, nonostante il divieto anche alcuni accademici, lì potevano esporre tutto e non solo soggetti a carattere storico, mitologico o religioso, come richiedeva invece l’Accademia. La svolta arrivò nel 1737, quando il Salon fu ristabilito definitivamente: il direttore generale dichiarò che per mostrare il progresso delle arti, affinché ciascuno ricevesse il tributo di lodi o censure che meritava, l'accademia rendeva conto al pubblico (vasto) dei suoi lavori. Con la rivoluzione, fin dal 1789, Le Brun all'interno di locali da lui acquistati, fece esporre per qualche settimana, prima dell'inizio del salone ufficiale, artisti non appartenenti all'accademia. Intanto i membri più rivoluzionari, tra cui David, formarono la Commune des Arts, al fine di chiudere l'accademia: il direttore generale de Batiment du Roi, d'Angiviller reagì sopprimendo il salone del 1791, ma il 21 agosto l'Assemblea Nazionale decretò che il salone sarebbe stato un'esposizione libera e universale sia per il pubblico che per gli artisti, così il numero dei visitatori aumentò enormemente e qualunque tipo di discriminazione fu eliminato. Nel 1793 fu soppressa l'accademia, culmine del processo di democratizzazione culturale del paese, ma nel 1795, in una fase di ritorno all'ordine, essa rinacque all'interno dell'Institute de France e con essa fu ristabilito il principio della selezione delle opere. Il pubblico La quantità delle opere esposte crebbe velocemente e molti si soffermarono su questo fenomeno squisitamente sociologico. La fenomenologia del Salon, da Salon de peinture, 1781-89: Mercier notava l'eterogeneità delle opere esposte e la varietà del pubblico, giudice della verità, erano fatti per essere giudicati dall'occhio del pubblico. Il pubblico: un melange sociale, da Letters sur l’Academie royale de sculpture et de peinture et sur le Salon de 1777: Pidansat de Mairobert pur sentendosi oppresso dalla calca, restò incantato da questa mescolanza e secondo lui anche il più rozzo artigiano poteva essere utile all'artista: il salone era l'unico luogo pubblico della Francia che corrispondeva all'immagine di libertà. I punti di vista degli spettatori: Carmontelle sottolinea la varietà del pubblico ma crede che il popolo minuto sia influenzato nel giudizio da personaggi illustri, mentre per chierici, mercanti e commessi, svolgendo un Il dipinto di Girodet, esposto al Salon del 1806, aveva destato reazioni contrastanti e numerose furono le stroncature, poiché l'opera disturbava, suscitava una sensazione d'orrore, disgusto (era raffigurata una famiglia che cercava invano di salvarsi da un’inondazione colossale, aggrappata ad una roccia scoscesa, su uno spaventoso abisso di acque, erano in posizioni insicure e instabili, il destino prevedibile). Girodet aveva colto il momento estremo dell'azione, l'acme, che comportava una rappresentazione accesa dell'espressione del protagonista maschile, da cui tutto dipendeva, egli aveva fatto l'opposto di quello che predicava Lessing, rappresentare cioè la sospensione dell'azione, momento di stasi e bellezza. Questo successo potrebbe rappresentare la vittoria di una pittura d'espressione su un linguaggio improntato al bello ideale, anche se il verdetto della giuria non andrebbe preso troppo sul serio, proprio per la sua severità immotivata per il dipinto di David e quindi sospetta. Tra l'altro il Ministro dell'Interno si mostrò perplesso sulla scelta di classificare l'opera nel genere dei dipinti di storia e la decisione di Napoleone non fu mai resa pubblica, anche se un documento inedito prova la preferenza dell'imperatore per il capolavoro di David. Indipendentemente dal fatto che la sua vittoria fosse il risultato di una mossa della giuria contro David, il dibattito fu infuocato e anche Girodet ebbe numerosi sostenitori e l’anonimo recensore del Journal de Paris li riassume Preferire l’audacia di Girodet all’eleganza di David: il dipinto di David era troppo accademico, privo di quel naturale, di quell'espressione e movimento, fonte primaria di ogni bellezza, incarnava il bello ideale greco, ormai giudicato come superato e inattuale rispetto a nuovi valori, come quello dell'espressività, dell’arditezza del soggetto, dell'originalità della composizione e dell’esecuzione. Così anche un recensore del Mercure de France. Lenoir, il più celebre difensore di David, riprese le critiche scagliate contro il dipinto di Girodet al Salone del 1806, si trattava di una scena che non aveva alcuna verosimiglianza nell’azione e il dipinto era ripugnante, ma ormai si trattava dello scontro di due concezioni dell'arte, una legata all'ideologia del bello di Winckelmann e Mengs, l'altra ancora confusa che dava priorità alle espressività, movimento, all'originalità secondo una concezione del tutto romantica. Quatremère giudicò come negative le conseguenze di questo sistema artistico, nel quale l'artista si trovava imbrigliato in un meccanismo perverso che gli imponeva di concentrarsi sulla sua arte, cercando di distinguersi secondo le proprie capacità, un'arte senza destinazione, l'arte per l'arte: come nei musei le opere del passato erano decontestualizzate, paragonate e giudicate, così ora si faceva arte senza alcuna funzione concreta, solo perché fosse confrontata con altra arte. Un'opera scandalo: la Zattera della medusa di Géricault Il Salon del 1819 segna una decisiva svolta nel panorama artistico francese della restaurazione, in cui coesiste ancora la vecchia guardia neoclassica (con la Galathée di Girodet, inizia l'arte pompier, trionfa la pittura ufficiale accademica) ma si affaccia, con la Zattera della Medusa un vento di novità: come tutte le opere innovative e audaci fece scandalo, poiché il dipinto alludeva a un tragico evento accaduto nel 1816, che suscitò un’ondata di proteste da parte dei liberali contro la negligenza del governo Borbonico, indulgente su quel capitano, colpevole del naufragio della nave che doveva conquistare il Senegal. I naufraghi da 149 rimasero in 15 al salvataggio. In questa chiave il dipinto assume una valenza politica antiborbonica, il soggetto del dipinto non è solo dettato da ragioni estetiche ma è di stampo antimonarchico: il soggetto era di attualità, presentava non il secondo avvistamento della nave Argus da parte dei naufraghi, ma il primo in cui spicca la delusione dei naufraghi, in cui il contenuto era umano ed esistenziale, era una vicenda contemporanea che rompeva con il passato, non mostrava eroi, non celebrava, non esaltava, ma mostrava una tragica storia umana di gente comune, niente gesta gloriose, nessun messaggio morale, ma solo di morte, il tutto esposto con la severità di Caravaggio. Questo infastidiva i critici: ciò che spiazzava nel dipinto è che tutto è orribilmente passivo, non ci sono figure principali né episodi, i naufraghi affrontano la fame, il delirio, il terrore, la morte. Le critiche di Coupin furono significative, lo giudicava un ammasso di cadaveri disgustoso e ripugnante, non orribile nel senso di sublime. La scena si svolge su una diagonale, in una gradazione di stati d'animo, dalla disperazione in primo piano, alla vana speranza sullo sfondo, niente di teatrale, né di rassicurante. Un'altra critica di Coupin, amico di quel Girodet che aveva scosso il pubblico francese con il Déluge, riguardava la monotonia del colore, fissato su tonalità scure: Girodet però aveva scelto la teatralità acrobatica, l'orrore sublime, mentre Gericault aveva preferito il disgustoso, andando ben oltre i principi sacri della pittura di storia. Girodet, al Salone del 19, aveva presentato la Galathee, una sorta di cigno, il sogno neoclassico di bellezza ideale animata da un’illusione di vita, un'arte consolante di fine carriera. Una progressione di sventure, 1819: tra le critiche positive quella di Delécluze che, pur ammettendo alcuni difetti (colore uniforme, maniera sciatta), coglieva uno dei tratti fondamentali dell'opera, la vera e tragica unità dell’azione dei personaggi, determinata dalla progressione di sventure che si svolge lungo la diagonale della composizione. Critiche al barocco e al rococò Dalla metà del 700, con un ritorno ai valori dell'arte classica, e con l'affermarsi dell'illuminismo, comincia una critica feroce al barocco e al rococò, sia in Italia che in Francia: alla retorica illusionistica del primo e alla sensualità del secondo si contrappone un linguaggio semplice, anti-illusionistico, rivolto all'intelletto più che ai sensi, volto a rappresentare un'idea di natura. Per Winckelmann, fautore di ritorno ai valori dell'arte classica, e Diderot, sostenitore della cultura illuminista e della ragione come criterio guida, le motivazioni alla base della critica sono diverse, ma accomunate dall'esigenza di semplicità e dal desiderio di moralità, in quanto i due stili sono reputati falsi, manierati, espressione di una società fasulla e corrotta. La componente primitivista si manifesta qui nel vagheggiamento di una autenticità e semplicità originaria, che può essere identificata col mondo primitivo, con quello greco o con l'età medievale. In Italia nella prima metà del Settecento si diffuse una variante più leggiadra e decorativa del barocco, mentre la vera culla del rococò fu la Francia e altri paesi del nord. Il barocco era un'arte retorica, volta a coinvolgere e sbalordire, propria dei poteri assoluti del XVII secolo. Bernini, l’opposto degli antichi, fu molto criticato da Winckelmann, che faceva coincidere la fioritura artistica con la libertà politica e vagheggiava un’arte pura, semplice e genuina, si scagliò contro Bernini, la cui grazia era lontana da quel piacevole secondo ragione, il quale si allineava al cattivo gusto dell’epoca. In Italia il più critico contro Bernini e Borromini fu Milizia, guidato dalla ragione illuministica e dall'esigenza di verificare i principi di razionalità, funzionalità, utilità, contraddetti nell’architettura e nello stile della Basilica di San Pietro in Vaticano. Requisitoria contro San Pietro, alla quale preferisce San Paolo fuori le mura. Il barocco: la peste del gusto, da Dizionario delle belle arti del disegno: la più forte stroncatura è nella voce di Borromini, nel suo dizionario di architettura, la cui arte dall'eccesso, delirio alla contraddizione di ogni principio razionale funzionale, alla sovversione di ogni regola e ordine, al trionfo dell’irregolarità e del bizzarro. San Pietroburgo: l’inizio di un gusto semplice e puro, da Lettera a Pier Antonio Serassi, 1780: nell'ambito delle critiche al barocco, interessante è quella dell'architetto neoclassico Quarenghi su San Pietroburgo, città nella quale risiede dal 1779 al servizio di Caterina di Russia: la città nasce per opera dello zar Pietro il Grande nel 1703, grazie anche ad architetti stranieri, tra i quali alcuni italiani, e acquista un aspetto barocco. Nella seconda metà del 700 in Italia fu la corrente polemica antibarocca e illuminista a rivalutare l'arte medievale. In Francia, la critica più forte all’arte rococò, considerata come disimpegnata, sensuale, virtuosistica, leggiadra, venne da La Font de Saint Etienne (L’impero degli specchi) che invocava il ritorno alla pittura di storia, che parlava all'anima. L'arte adesso era soffocata dalle raffinate decorazioni, divenute puro ornamento, il cui unico fine era dilettare o lusingare, attraverso i ritratti gente senza meriti. La pittura rococò gli apparve quindi frivola e corrotta. Diderot vede nell’arte di Boucher, un'arte corrotta, che riflette il decadimento dei costumi: egli critica il linguaggio manierato, affettato, falso, e considera Boucher un grande ipocrita, non tanto per l'erotismo dei suoi soggetti, quanto per la mancanza di spontaneità, di un messaggio morale, per il disimpegno e la mancanza d’adesione in modo diretto alla natura, cui contrappone pittura di genere di Greuze, la freschezza di Chardin o i paesaggi di Vernet, il tutto nell'ambito delle sue riflessioni sulla maniera e sul vizio di una società troppo raffinata. L'arte rococò trova terreno fertile nelle arti decorative: Supplica agli orefici, di Cochin che va contro la proliferazione di questo tipo di decorazione, all’opposto della razionalità, funzionalità, buon senso per la sua bizzarria e irregolarità, il gusto per la novità e l'artificio. Egli spera in un ritorno all'arte antica, nonostante non sia mai stato un fanatico dell'Antico. La funzione dell'arte Nel tardo Settecento l'arte era considerata come un mezzo per arrivare a un fine piuttosto che fine a sé stessa, ad essa era attribuita l’importanza di accrescere il significato. L'arte come utilità sociale è invocata da artisti e intellettuali di culture diverse. Un ruolo fondamentale lo ebbe l'Encyclopédie e la diffusione di tali idee aiuta a chiarire fenomeni coevi, apparentemente distanti, come la nascita dei musei pubblici o lo sviluppo della teoria architettonica funzionalista. Rendere amabile la virtù e odioso il vizio, da Essai sur la peinture, 1766, Diderot: era l’estremo paladino della funzione morale dell'arte, della pittura di genere di Greuze, piena di intenti edificanti, l'arte doveva esaltare azioni gloriose, gesta eroiche, virtù e stigmatizzare i vizi che corrompevano la società, continua a denigrare Boucher. Il ruolo delle arti nello stato: il testo più programmatico, che ha la funzione civile e morale dell'arte è l'articolo Beax-Arts dell'Encyclopédie, redatto dallo svizzero Sulzer, secondo il quale l'essenza delle arti risiede nel fare in modo che gli oggetti raffigurati agiscano sullo spettatore elevando il suo animo, il suo dovere civico anche nelle circostanze più difficili, in una insostituibile funzione civile. Contro il sonno della ragione: incisioni che denunciano i mostri partoriti dal mostro della ragione: anche in Spagna l'utilità pubblica dell'arte e la lezione illuminista era diffusa, Goya ne fu interprete: è nota è la sua introduzione ai Capricci, in cui spiega che il fine della pittura è la censura degli errori e dei vizi umani, rivelandoli e mettendoli in ridicolo. Se l'arte ha la funzione di pubblica utilità, all'artista non resta che stare al servizio dello Stato, è l’idea che si afferma nella Francia rivoluzionaria e in una nazione giovane come gli Stati Uniti, modello di democrazia per tutto l'Occidente. Mettere l’arte al servizio dello stato, dalla lettera del pittore americano Trumbull al presidente Jefferson comunica il suo desiderio di mettersi al servizio dello stato, per decorare edifici pubblici, esprimendo la sua fiducia nel ruolo civile e pubblico dell'artista: nel 1817 egli ebbe l'incarico dal Congresso di dipingere 4 scene della guerra rivoluzionaria per il Campidoglio di Washington, cui seguirono repliche in quattro dipinti. Anche in Italia è diffusa l'idea che l'arte debba esortare i cittadini a grandi imprese ed abbia una nobile funzione civile. Esortare a grandi imprese, da Orazione per le belle arti, 1806, Pietro Giordani si lamenta che negli edifici pubblici manchino, a differenza degli antichi, degli exempla, egli crede che esista anche un’altra concezione riguardo la funzione dell'arte: solo l’arte può riscattare l’umanità dal male di vivere grazie al suo sublime potere d’immortalare ed eternare quella bellezza che nella vita umana è transitoria. (L’arte ci riscatta dalla transitorietà e dal male di vivere, nella prima parte dell'orazione in onore di Canova, 1806. Una visione neoclassica dell'arte, il trasformarsi di ogni cosa si contrappone alla bellezza ideale, in una visione consolatoria e compensatoria dell'arte che così contrasta con una concezione utilitaristica e civica. Così anche Foscolo, nel quale convivono questi due aspetti: nei Sepolcri egli canta l'arte come eternatrice delle Virtù universali che infiammano gli uomini, l'arte che riscatta dalla morte. Nell'orazione Dell'origine e dell'ufficio della letteratura, pronunciata a Pavia nel 1809 egli esalta il ruolo civile della letteratura, che crea valori, disattesi dalla realtà, in un'ottica compensatoria dell'arte, che non rimuove dolore ma lo assorbe con immagine di soave bellezza, che si ritrova nelle Grazie, che ci consegnano immagini di Canova che agisce "in terra vestir d'eterna giovinezza in marmo" in una illusione di immortalità. Poema di Girodet Le Peintre: monumento del ruolo consolatorio della creazione artistica e alla sua capacità d’infondere all’esistenza una speranza d’eternità. L’idea cardine è che l'arte non sia rappresentazione della realtà, ma evocazione di ciò che non esiste perché è morto o non esistente, l'arte sconfigge la morte, è una consolazione illusoria, è ciò che non è o non è più o che è morto. Alla radice di questa riflessione, vi è l'idea di Rousseau per cui l'unico mondo degno di essere vissuto è quello creato dall'immaginazione: un mondo inesistente per i sensi e per la ragione, ma vivo come illusione e consolazione. XIII. L'ARTE E LA SCIENZA, LA TECNICA, L'INDUSTRIA Il capolavoro della cultura illuminista è l'Encyclopédie, pubblicata tra il 1751 e il 1772, il cui fine era rifondare il sapere sulla ragione, rifuggendo da pregiudizi e dogmi. Un posto importante è riservato alle arti, alle scienze e alle tecniche, che il sapere accademico aveva delegato a rango di inferiorità. Prevale l'approccio sperimentale alla realtà fondato su una visione unitaria di teoria e prassi, arti liberali e arti meccaniche. La voce Art dell'Encyclopédie esprime bene la concezione quasi febbrile, concreta di ogni sapere che sta alla base della cultura dei lumi. Nel XV secolo si era imposta la figura dell'artista scienziato e l'arte era una forma di conoscenza della natura, in seguito prevalse il modello fondato tra artista e poeta, secondo la formula dell’ut pictura poesis. Non mancarono momenti di dialogo tra arti e scienze, soprattutto nell'ambito delle illustrazioni scientifiche: secondo Buffon, autore dell’Histoire Naturelle, il mondo è comprensibile attraverso l'osservazione, la descrizione, da qui il ruolo rilevante delle immagini e della rappresentazione artistica, che acquisisce funzione conoscitiva e scientifica. Ne consegue soprattutto in Inghilterra un sodalizio tra artisti e scienziati, sullo sfondo Le catastrofi naturali L’età della ragione è anche quella che ne ha sondato i limiti: la discesa negli inferi della psiche e l’attrazione verso la natura più selvaggia e misteriosa, sono due facce della propensione verso l’ignoto, che trova la sua incarnazione nel sublime. Si diffonde un’attenzione verso le catastrofi naturali e l’eruzione vulcanica è uno dei fenomeni più attraenti per gli spiriti settecenteschi. Nel Grand Tour non si trascurava una visita al Vesuvio. Napoletani tra Dio e la natura, da Italienische Reise: celebre è rimasta la scalata di Goethe al vulcano in eruzione. L’interesse per i fenomeni vulcanici era scientifico ed estetico, infatti le rappresentazioni pittoriche ebbero grande successo e divennero un genere in cui molti artisti si specializzarono: • il pittore francese Pierre-Jaques Volaire, attivo a Napoli si specializzò in dipinti a soggetto vulcanico; • Wright of Derby, pittore dagli interessi scientifici e tecnologici, fu autore di 30 dipinti sul Vesuvio • Erasmus Darwin, che nel suo poema Botanic Garden celebra i progressi della scienza, della tecnica e dell’industria, immortalò Wright come pittore del Vesuvio: L’arte come sapere materiale. L’attrazione per il Vesuvio era motivata dal fascino per il sublime, ma anche da interessi scientifici, come ne fa fede William Hamilton, l’ambasciatore britannico a Napoli, celebre collezionista, con Campi Phlegraei, la cui esperienza si allargò alla Sicilia: il suo approccio era rigorosamente scientifico e razionalista e vedeva nelle eruzioni non l’espressione del sublime di una natura infernale, ma la manifestazione della straordinaria energia della terra. Cronaca di un’eruzione: come un moderno Plinio il Vecchio descrisse la salita al Vesuvio durante l’eruzione del ‘67: uno dei modi in cui l’antico poteva rivivere. Ci fu poi il pittore Pietro Fabris che realizzò 54 tempere in un esempio di cooperazione tra scienza e arte. La rivalutazione delle tecniche L'Encyclopédie ebbe un ruolo fondamentale nella rivalutazione delle tecniche. La voce Art redatta da Diderot nel 1751 è un testo programmatico che va aldilà dello specifico problema e ripropone una ridefinizione. Egli non distingue nettamente tra arti e scienze, dà una definizione generale di arte, che comprende le arti meccaniche e quelle liberali, secondo una concezione che vede teoria e prassi strettamente legate: nelle prime prevale l'attività manuale, nelle seconde quella intellettuale. Tuttavia, questa distinzione portò a concepire le prime come inferiori e così lui con la voce Art si pone la questione della cultura materiale, del valore sociale e intellettuale del lavoro umano, del rifiuto di una separazione dottrinaria e astratta tra Belle Arti e arti meccaniche, tra lavoro manuale e intellettuale, anticipando un rapporto tra arte bella e produzione tecnica, industriale o artigianale che ebbe molteplici soluzioni, a partire dalle Arts and Crafts movement di William Morris, all'integrazione dell' ideazione artistica nel processo produttivo industriale del Bauhaus. Secondo Diderot in tutte le arti liberali speculazione e tecnica, ideazione ed esecuzione sono le componenti indispensabili e complementari in un unico processo produttivo: egli insiste sull’operatività del conoscere e sull’intellettualità del fare, ponendo le basi per una valorizzazione dell'arte come sapere materiale e quindi delle tecniche. Arte e industria L'utilità pubblica è uno dei valori portanti della società dei lumi, è per questo che si sviluppano i musei pubblici, che si afferma il moderno concetto di tutela, indica la dignità delle tecniche e delle arti meccaniche, si sostengono le teorie architettoniche e funzionaliste ed una nuova concezione della bellezza, secondo cui la forma è bella in sé, è utile. Anche alle arti figurative è attribuito un ruolo di utilità sociale, si pensi al rilancio della pittura di storia, capace di comunicare valori morali e civici e alla condanna della pittura rococò per il suo carattere frivolo. Rivendicando il ruolo di utilità, spesso si usa l'antichità come modello come fa Cochin nella condanna del rococò, ma anche Piranesi e Milizia. La pretesa semplicità e funzionalità facevano dell'arte antica, un modello adatto a un tipo di manifattura che elevava il gusto del pubblico ed era utile con le sue produzioni, in un processo in cui l'industria stava crescendo e si diffondeva in larghe fasce della popolazione. Il caso più fecondo di ritorno all’antico fu il connubio tra arte e tecnologia e Industria nella manifattura Etruria di Joshua Wedgwood. D'Hancarville presentò la sua opera che illustra con incisioni la raccolta di antichità di Sir Hamilton: poteva costituire una sorgente feconda per chi realizzava ceramiche e porcellane; stessa affermazione venne fatta una quarantina di anni dopo in occasione delle requisizioni francesi dal diplomatico francese Caucault al Ministro degli Interni Delacroix quando rimarcava le positive ricadute economiche sulla Francia dei capolavori requisiti, di un miglioramento della produzione manifatturiera. Si delineava uno scenario in cui l’arte antica poteva diventare modello per la produzione di oggetti d’uso. Il gusto antichizzante in manifattura trovo una sintesi perfetta nell'industria di Wedgwood, che a tal fine studiò modelli e tecniche che gli consentissero di realizzare vasi di gusto etrusco differenziando i prodotti. Wegwood: la parola d’ordine è semplificare, in una lettera di Wedgwood a Bentley: nata nel 1769, testimonia le finalità che si ponevano i due soci, ovvero semplificare e mantenere i prezzi accessibili. Per i disegni delle decorazioni Wedgwood si era affidato a Flaxman, raffinato artista dal linguaggio limpido, primordiale, semplice, che rifiutava ogni illusionismo. Wedgwood riuscì a immettere sul mercato oggetti di alto livello mantenendone basso il prezzo, attraverso l’ideazione, affidata al disegnatore, e la parcellizzazione del lavoro che però svalutava il ruolo creativo dell'artigiano, figura a rischio di estinzione. William Morris cercò di riportare in auge il lavoro artigiano opponendosi all’industria; tuttavia, il ripristino della dimensione artigianale implicava necessariamente un aumento dei prezzi. Valida risposta l’avrebbe data la Bauhaus nel Novecento accettando l’industria ma piegandola ai fini di una produzione razionale, funzionale e largamente accessibile. Fin dal suo inizio la rivoluzione industriale ebbe sostenitori entusiasti, come Klingender, Erasmus Darwin, membro della Lunar Society etc. che puntavano sul dialogo tra arti, scienze e industria ed avevano una grande fiducia nel progresso. Darwin divenne celebre col poema The Botanic Garden, pubblicato tra il 1789 e il 1791, nel brano La mitologia dell’industria è emblematica la descrizione del filatoio ad acqua, inventato da Arkwright. L'opera elabora una vera e propria mitologia del progresso mescolando antico e moderno. Come Darwin fu il poeta delle grandi speranze, Wright of Derby ne fu il pittore, immortalò oggetti moderni in schemi classici, esattamente come fece il poeta nel Botanic Garden. Anche l'agronomo Arthur Young nei suoi Annals of agriculture dà un'immagine dell'Inghilterra come di un gigantesco laboratorio di esperimenti eccitanti in cui si compiono grandi opere di ingegneria, non più sognate dall'età dei romani. Nell'opera descriveva il paesaggio di Coalbrookdale, uno dei centri della rivoluzione, in modo da affascinare i paesaggisti per la sua singolarità. Esso divenne così un luogo di prova per studiare nuove relazioni fra uomo e natura create dall'industria. Coalbrookdale, il sublime industriale: Young facendo il resoconto di un suo viaggio nella regione nel 1776, contrappone la bellezza naturale alla varietà di orrori creati dall'industria, che secondo lui si adatterebbero meglio a un paesaggio aspro e roccioso, cioè sublime. La contrapposizione di bello e sublime rievoca Burke per il quale il sublime è legato a situazioni di pericolo e terrore ed è esemplificato da una natura minacciosa e indomabile, mentre il sublime industriale è un prodotto dell'uomo, che aveva creato qualcosa di così spaventoso da poter competere col terrore generato dalla natura. L’industrializzazione inclinava inesorabilmente il rapporto tra uomo e natura, anzi per Blake essa era profanata e poteva sembrare opera di Satana. All'età delle grandi speranze era ormai successa quella che Shelley definì nel 1817 l'età della disperazione.
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