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Riassunto completo del libri "Una Pietra Sopra" di Italo Calvino, Schemi e mappe concettuali di Critica Letteraria

Riassunto completo del libri "Una Pietra Sopra" di Italo Calvino, per il corso di mediazione culturale con il professor Tortora

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 02/12/2023

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Scarica Riassunto completo del libri "Una Pietra Sopra" di Italo Calvino e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Critica Letteraria solo su Docsity! UNA PIETRA SOPRA - CALVINO Il contesto Nel 1957, un anno dopo l’invasione dell’Armata Rossa in Ungheria e dopo la denuncia dei crimini commessi da Stalin di Chruscev, Calvino decide di abbandonare il Partito Comunista. È un gesto molto importante, se si considera che fino a quel punto lo scrittore era stato fortemente impegnato nel PCI. Aveva inoltre preso parte alla Resistenza (su cui aveva anche scritto un libro) e sosteneva l’esigenza di organizzare forme politiche e strutture sociali a difesa dei diritti, della dignità e della libertà umana, posizione che aveva difeso in numerosi interventi di carattere politico e sociale su giornali e nelle sedi del partito. È però consapevole che queste dimissioni lo avrebbero privato di una parte del campo letterario (quella dei “salotti comunisti”) e dunque formalizza il suo gesto con una lettera, all’interno della quale dichiara di essere più comunista che mai, nonostante la decisione di lasciare il partito. Questo è il suo modo per mantenere i rapporti, per non tagliare completamente i ponti. Dal ‘57 Calvino è a Parigi, e comincia una traiettoria di cambiamento che lo porterà da scrittore impegnato e militante quale era a intellettuale esclusivamente dedito alla narrazione. Nel ‘57 scrive inoltre La Speculazione Edilizia, primo testo dopo l’abbandono del Partito Comunista. La storia, chiaramente autobiografica, racconta di un comunista che ormai non riesce più a vivere in quell’ambiente e decide così di dedicarsi alla speculazione edilizia. La traiettoria iniziata con questo romanzo viene poi portata a termine nel romanzo del ‘63 La giornata d’uno scrutatore, che effettivamente chiude la sua cornice di scrittore impegnato. Durante gli anni a Parigi, Calvino matura l’idea che la complessità del mondo sia al di fuori delle sue capacità intellettuali: tra il mondo e la forza intellettuale del singolo c’è un divario abissale. Si avvicina così ai giochi linguistici, alla semiotica e allo strutturalismo proprio per via del fatto che l’unica cosa che la scrittura può fare è descrivere la difficoltà di rappresentare il mondo, attraverso questi strumenti. La scrittura diventa così complessa e i punti di vista si moltiplicano. In Se la notte d’inverno un viaggiatore Calvino racconta di un Lettore che, nel tentativo di leggere un romanzo, è per ragioni sempre differenti costretto a interrompere la lettura del libro e iniziarne uno nuovo. L’opera diventa dunque una riflessione sulle molteplici possibilità offerte dalla letteratura e sull’impossibilità di giungere a una conoscenza della realtà. Alla fine, Lettore e Lettrice si sposano e con questo finale Calvino vuole suggerire che l’unica storia possibile è la più semplice, la più banale. Non è un romanzo, ma un metaromanzo, che al suo interno contiene dieci stili di romanzo che mimano generi diversi. Con quest’opera Calvino dichiara che raccontare storie è inutile perché il romanzo è in conclusione soltanto una questione di stile (la storia non parte mai e, quando effettivamente parte, si rivela essere la più banale possibile). Dopo il ‘64 questo pensiero subisce un processo: l’intellettuale ha ancora il compito di confrontarsi con la realtà, ma la complessità di quest’ultima è talmente vasta che egli non può illudersi di comprendere il mondo nel quale è calato. A venir meno è proprio la fiducia. Troviamo dunque in questo periodo una diversa tipologia di testo, meno baldanzoso, meno speranzoso e fiducioso, appunto. Esempio sono proprio Le città invisibili, 55 microracconti di città inventate che viaggiano su binari diversi, opera che vuole proprio rendere l’idea della complessità del mondo, non rappresentabile né prevedibile (pur essendo 55 città diverse, tutte rappresentano la stessa città, Venezia). La storia letteraria di Calvino La letteratura, dalla fine dell’Ottocento in poi, si è posta tutta il problema della mimesis e del realismo e, a siglare questo patto di fedeltà al reale con i lettori, sarà proprio il romanzo. La poesia è infatti svincolata da questo atteggiamento mimetico ed entrerà in crisi agli inizi del Novecento, mentre il romanzo diventerà il genere più venduto. E il romanzo di questi tempi è espressione della borghesia europea che, nella storia di un personaggio comune, che attraversa mille peripezie attraverso l’intelligenza e la fatica, fino ad arrivare al successo, ritrova se stessa. L’archetipo di questo tipo di romanzo borghese potremmo ritrovarlo nell’isola di Defoe e nel personaggio di Robinson che, grazie alla sua intraprendenza, riesce a portare civiltà su un’isola deserta. L’unico vero romanzo italiano dell’Ottocento (anche perché non esiste ancora la borghesia nel nostro paese) sono I Promessi Sposi. In questo romanzo, Manzoni sigla un patto con i suoi lettori, dice ciò che dico è vero. E, difatti, tutti gli eventi storici raccontati nel romanzo sono realmente accaduti fra il 1628 e 1630. La peste, la chiusura di Milano, la figura del Cardinal Borromeo sono tutti eventi e figure davvero esistite, così come Renzo e Lucia sono personaggi verosimili, che potevano benissimo esistere. È una storia statisticamente probabile. Un altro escamotage utilizzato da Manzoni è difatti la tecnica del manoscritto ritrovato, ricorrente nella letteratura, che gli permette di dare ai lettori quello che cercano in quel periodo, storie vere. Dopo I Promessi Sposi, Manzoni smette di scrivere romanzi e vive una profonda crisi: in alcuni momenti, nelle sue storie, è costretto ad inserire elementi fittizi e, poiché il romanzo è istanza di realtà, queste aggiunte sono da lui percepite come nocive (quello che sente, fra l’altro, è anche un problema ideologico, di fedeltà cristiana: mentire è immorale, e immorale è dunque anche il romanzo). A Manzoni segue Verga, che introduce il verosimile, personaggi che funzionano e sono simili a controparti reali. A partire dal ‘29 inizia in Italia una vera e propria cultura romanziera, con storie che raccontano la realtà. Quando Calvino nel ‘63-64 rompe con il realismo, si sta allontanando dunque da una storia e da una tradizione di romanzo più che secolare. In questo periodo Calvino ha ormai quaranta anni ed è un autore cardine, con alle spalle un’importante storia politica. Ma, se davvero il realismo è finito, perché la realtà è troppo complessa e gli strumenti e le parole non sono abbastanza per descriverla, allora è necessario reinventarsi. Ed è in questo che troviamo la grande forza dell’autore: Calvino riesce a inventare un genere fuori dalla linearità del tempo ricorrendo alla logica combinatoria (che permette, al contempo, di esprimere la complessità del mondo e di sfidare la linearità del tempo, che viene effettivamente distrutta). A questo punto è possibile rileggere la parabola di Calvino attraverso le parole di Bourdieu: nel ‘45 è un esordiente, che frequenta dunque gli ambienti che gli permettono di imporsi: il PCI e per l’ambiente letterario il Politecnico di Einaudi. Alla caduta del regime fascista e con il mito della Resistenza il centro del campo viene immediatamente sostituito, e sono i giovani a prendere il potere. In questo momento Calvino ha ventitré anni e possiede il vantaggio di venire da una famiglia ricca e colta, condizione che gli permette di frequentare Lettere e di attendere la consacrazione, il successo letterario. Sceglie di aderire al centro del campo, pubblicando per il Politecnico e per Einaudi. Nel ‘57 riconsegna la tessera del partito, ma il terremoto politico del ‘56 gli permise di fare un simile gesto senza creare troppo scompiglio. conoscenza della realtà dei fatti, Stalin veniva ancora considerato, assieme a Roosevelt e Churchill, come l’eroe che aveva sconfitto il nazismo: l’URSS è dunque percepita come una grande nazione che, seppure con i suoi limiti, avrebbe portato alla rivoluzione comunista che tutti aspettavano. Dopo il ‘56, invece, la fiducia nell’URSS viene meno e, se si può comunque continuare a credere nell’ideale comunista, risulta impossibile credere che sarà l’URSS a portare alla suddetta rivoluzione, proprio perché il suo lato violento e totalitario è ormai svelato. Il midollo del leone fa da sintesi a questi mutamenti. Calvino rimane fermo su un punto, e cioè che la letteratura debba creare un prodotto che sappia sì rappresentare la realtà, ma anche esercitare una sorta di attrito, di forza opposta, in modo da indicare una prospettiva. Il lavoro che Calvino svolge in questo saggio è un’analisi sui personaggi, un’indagine sui tipi d’uomo caratteristici della letteratura italiana. Individua nella letteratura dell’immediato ieri (l’ermetismo, una letteratura che in realtà è di paesaggi e non di persone) un’immagine d’uomo ben caratterizzata: l’uomo ermetico, un uomo senza appigli, “sfuggente come un anguilla”, che resta sempre al margine della scena. Più tardi troviamo figure di personaggi più impegnati, dotati di risolutezza intellettuale e morale, che gli scrittori delineano per rappresentare le proprie epoche. È il caso, ad esempio, di un personaggio di Pavese (autore che, in effetti, non credeva nei personaggi): Clelia di Tre donne sole, che apre a Torino un negozio di moda, che rappresenta una donna lavoratrice e autosufficiente e che si è fatta da sé. Pavese, “per quella sua triste violenza autolesionista”, usava dare di sé stesso immagini limitative e contraffatte, e mai, secondo Calvino, riuscì a esprimersi in un personaggio così compiuto, così pavesiano come questa figura di donna (in nessun personaggio tranne che in Clelia, Pavese seppe parlare dell’elemento fondamentale della sua vita: il suo testardo amore per il lavoro). Ma il fatto che per creare un personaggio intero lo si debba immaginare in una figura femminile, significa per Calvino che la figura tradizione dell’intellettuale è sconfitta, e che quest’ultimo riesce ad integrarsi nella società reale soltanto immaginandosi come “altro”, come un qualcosa di diverso. Si è ormai arrivati alla scomparsa dell’io-lirico-intellettuale, e alla nascita di un io passivo che si guarda bene dal formulare pensieri, che si colloca il più lontano possibile da un punto di vista intellettualistico. Calvino crede ancora però che l’impegno politico, il parteggiare, faccia parte dei doveri dello scrittore e, più in generale, dell’uomo moderno. Abbiamo detto quindi che l’intellettuale sembra non avere più un ruolo nella società moderna. Per ovviare a questo problema Calvino cerca di fornire una soluzione: il midollo del leone rappresenta proprio l’intelligenza di estrapolare da un testo la capacità di interpretare la realtà, criterio in base al quale si può stabilire se la cultura sia utile o no. Il nocciolo della questione è proprio l’ideologia nascosta all’interno dell’opera letteraria: quando alla base di questa troviamo un’idea di integrazione e dialogo, allora l’opera può essere valutata positivamente. Quando invece, al contrario, all’interno del testo c’è un senso di caos, l’opera è giudicata in modo negativo. La stessa espressione “midollo del leone”, utilizzata da Calvino, restituisce un’idea di nutrimento che ci può fornire un’opera letteraria, come se questa potesse in qualche modo aiutare ad essere mentalmente più forti. In sostanza, il giudizio ideologico di Calvino implica che la letteratura deve rappresentare sì la realtà, ma sempre mostrando una forza reattiva, di non- accettazione, per indicare al lettore un atteggiamento di opposizione alle ingiustizie del mondo. Calvino ritiene poi che questo atteggiamento contrastivo viene veicolato dal personaggio, che in alcuni casi è il protagonista mentre in altri non è un personaggio specifico ma semplicemente l’idea di uomo che permea il romanzo. Natura e storia nel romanzo Natura e storia nel romanzo è un saggio meno famoso (forse proprio perché meno rispecchia lo spirito militante di quegli anni) ma sorprendentemente teorico, all’interno del quale Calvino propone la sua idea di letteratura. Prendendo ad esempio Guerra e pace, Calvino riferisce che i romanzi si strutturano sempre attorno ad un trittico: individuo, natura e storia. L’individuo, battendosi contro la natura, porta avanti la storia. La natura è chiaramente inesorabile, mentre la storia è dinamica e modificabile. Il rapporto fra questi tre elementi dà vita all’epica moderna. Il primo punto sul quale Calvino si sofferma è l’epica, che rappresenta lo spirito di una comunità e di un’epoca, e il suo rapporto col romanzo che, invece, rappresenta lo spirito moderno. Quest’epica moderna (il romanzo, appunto) deve dunque porsi sia in uno stato di continuità (poiché da un lato è, come la sua controparte antica, il racconto corale di una comunità) sia in uno di discontinuità con l’epica classica. Questo perché l’epica tradizionale è l’espressione di un mondo ancora abitato dagli dèi, mentre nell’epica moderna l’uomo è ormai solo, il singolo è artefice del proprio destino, e le storie di questo nuovo epos sono storie di uomini che si muovono alla ricerca del senso della vita e che partono proprio da una carenza iniziale che dà motivo alla vicenda di cominciare (Renzo deve, ad In conclusione, la letteratura che Calvino apprezza maggiormente è quella che manifesta un atteggiamento positivo, di ostinazione, di azione, nonostante tutte le circostanze avverse. La costruzione di questo tipo di letteratura dev’essere funzionale alla costruzione di una nuova società, all’interno della quale l’individuo è un soggetto agente, che non subisce la storia, ma la modifica. Il mare dell’oggettività In questo saggio emerge preponderante una delle principali forze di Calvino, quella di sapersi sintonizzare con le tendenze culturali e letterarie in atto (cosa che riesce a fare anche perché avido lettore). Calvino percepisce infatti che già negli anni Cinquanta, non tanto in Italia ma più in Francia, nasceva il fenomeno dell’ecole du regard (scuola dello sguardo), nel quale il narratore si riduceva a telecamera e non creava alcuna gerarchia fra le varie scene che si trovava a vedere. Si riduce di conseguenza la coscienza, che in quale modo viene percepita come falsificante, in quanto adatta le immagini esterne alle proprie percezioni personali, e si arriva addirittura a cancellarla (la coscienza) del tutto in nome del mito dell’assoluta oggettività. Per Calvino il problema che si pone non è a livello estetico, e anzi ritiene che questo modo di scrivere, collaudato da Robbe-Grillet, sia addirittura geniale, ma è a livello di politica culturale, in quanto l’azzeramento del soggetto e la mancanza di frizione fra soggetto e oggetto, fra io e mondo, fra individuo e natura, sembra sottolineare la mancanza di fiducia nell’uomo, non più capace di indirizzare il corso delle cose, che vanno avanti da sole, che fanno parte di un insieme così complesso che l’unico sforzo possibile è quello di comprenderlo e accettarlo. Così, se nei primi quaranta anni del Novecento era il flusso della soggettività prorompente (l’espressionismo, il surrealismo, l’Ulisse di Joyce) che pareva voler inondare tutto, adesso è l’oggettività che annega l’io. Si arriva così ad una crisi dello spirito rivoluzionario (rivoluzionario è, infatti, chi non accetta il dato naturale e storico e vuole dunque cambiarlo, la resa all’oggettività nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia in questo compito). Nella parte conclusiva del saggio Calvino cerca di spiegare agli scrittori cosa fare: passare da una letteratura dell’oggettività ad una letteratura della coscienza (l’esempio è quello del Pasticciaccio di Gadda: in mezzo alle sabbie dell’oggettività bisogna pur trovare quel minimo d’appoggio che basta per lo scatto di una nuova morale, di una nuova libertà). La letteratura, dunque, non deve essere accettazione della situazione data, ma scatto attivo e cosciente, ostinazione senza illusioni. Tre correnti del romanzo italiano d’oggi Calvino afferma che spesso gli è stato chiesto di parlare della letteratura italiana contemporanea, ma che questo compito, nonostante l’autore reputi la nostra letteratura come una delle più ricche, risulta molto difficile. A tal proposito fa l’esempio di un suo collega francese, che, chiamato come lui a visitare l’America tenendo conferenze, può facilmente rispondere ad una simile domanda circa la letteratura francese, citando ovviamente l’ecole du regard. Infatti, i francesi hanno sempre imposto, sul panorama internazionale della letteratura, i loro prodotti attraverso etichette che diventano subito popolari, come ad esempio il surrealismo. In Italia, invece, non ci sono delle vere e proprio scuole letterarie, ma soltanto personalità di scrittori molto diverse fra loro. Nonostante ciò, quando la letteratura italiana voleva proporsi come letteratura dell’ineffabile, un’etichetta ce l’aveva: è il caso dell’ermetismo e, più recentemente, del neorealismo (uno dei rari movimenti italiani di cui il pubblico internazionale ha avuto cognizione). È da questa corrente neorealista che Calvino mosse i suoi primi passi, sotto l’ascendente di due scrittori come Cesare Pavese ed Elio Vittorini (due autori che in realtà non accettarono mai questa etichetta). Oltre a queste due grandi personalità, la generazione di Calvino trasse la sua lezione anche dall’ermetismo, e in particolare da Montale e dalle sue poesie dure, chiuse, difficili, imparando così a ridursi all’osso, a essere sicuri di pochissime cose. Una lezione, si potrebbe dire, di stoicismo. Ci fu poi un evento di straordinaria importanza per lo spirito italiano. La Resistenza, vittoriosa lotta popolare contro il fascismo. Questo periodo fece credere possibili una letteratura come epica, carica di una forte energia vitale. Ed è proprio questa tensione mitica che anima le opere di Pavese e di Vittorini, ad essere il frutto più prezioso di quel clima. Questa ondata di vitalità popolare si è ormai fermata, un po’ per il cambiamento di clima storico e un po’ per il bisogno d’approfondimento dei nuovi e giovani scrittori. Si arriva così al presente. Calvino afferma che in Italia sono presenti tre principali correnti, tutte e tre con radici profonde nella tradizione italiana, e tutte e tre che proseguono e trasformano l’iniziale spinta epica della letteratura della Resistenza. ripresi, di appuntamenti procrastinati. I nove romanzi brevi di Pavese costituiscono il ciclo narrativo più denso e drammatico e omogeneo d’Italia d’oggi e anche il più ricco sul piano della rappresentazione degli ambienti sociali, della cronaca di una società. Pavese ci sollecita ad un modo di lettura: vuole essere letto come si leggono i grandi tragici, che in ogni rapporto, in ogni movimento dei loro versi condensano una pregnanza di motivazioni interiori e di ragioni universali estremamente compatta e perentoria. È un modo di inserirci nel reale e viverlo e giudicarlo che abbiamo completamente perduto. Nell’averlo ritrovato sta il valore unico di Pavese oggi nella letteratura mondiale. Dialogo di due scrittori in crisi 1961 Calvino e Cassola partono dall’affermazione “sono in crisi” per discutere di letteratura. Sono di parere contrario: Cassola > la letteratura del nostro secolo ha sbagliato tutto, è intellettualistica, arida, falsata alle radici dalle premeditazioni polemiche, si deve tornare ai sentimenti, all’adesione diretta alla vita dei grandi scrittori dell’Ottocento. Calvino > si deve esprimere la vita moderna, nella sua durezza, nel suo ritmo, e anche nella sua meccanicità e disumanità, per trovare le fondamenta vere dell’uomo di oggi. Secondo Calvino la situazione di crisi per uno scrittore è la sola situazione che dia frutto, che permetta di scrivere proprio quello che gli uomini hanno bisogno di leggere, anche se non si rendono conto di averne bisogno. Riusciremo ad essere veramente tragici solo se riusciremo a esprimere la gioia di vivere dell’umanità. Il romanzo di domani sarà proprio quello che meno siamo oggi in grado di prevedere. L’Italia è in parte un Paese modernissimo, in parte un paese antiquato, immobile, poverissimo. Quale situazione migliore per avere un’idea complessiva del mondo? Una situazione adatta alla sintesi d’un romanziere che volesse rappresentare in tutta la sua complessità il travaglio del nostro secolo. Si chiedono poi: c’è ancora bisogno di scrivere romanzi? Riflessione passando attraverso il cinema, strumento ormai in modo di raccontare bene. Appare sempre più presuntuosa fatuità quella dello scrittore che pretende di affrontare con le sue approssimazioni letterarie problemi che esigono tutt’altro tipo di conoscenza e di studio. Il romanzo non può più pretendere di informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i modi, in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali. Qui soltanto forse possiamo riconoscere che la poesia non avrà mai fine. E così quel caso particolare della poesia che chiamiamo romanzo: la poesia come primo atto naturale di chi prenda coscienza di sé stesso, di chi si guarda attorno con lo stupore d’essere al mondo. Dialogo di due scrittori in crisi Calvino e Cassola partono dall’affermazione “sono in crisi” per discutere di letteratura. Sono di parere contrario: Cassola > la letteratura del nostro secolo ha sbagliato tutto, è intellettualistica, arida, falsata alle radici dalle premeditazioni polemiche, si deve tornare ai sentimenti, all’adesione diretta alla vita dei grandi scrittori dell’Ottocento. Calvino > si deve esprimere la vita moderna, nella sua durezza, nel suo ritmo, e anche nella sua meccanicità e disumanità, per trovare le fondamenta vere dell’uomo di oggi. Secondo Calvino la situazione di crisi per uno scrittore è la sola situazione che dia frutto, che permetta di scrivere proprio quello che gli uomini hanno bisogno di leggere, anche se non si rendono conto di averne bisogno. Riusciremo ad essere veramente tragici solo se riusciremo a esprimere la gioia di vivere dell’umanità. Il romanzo di domani sarà proprio quello che meno siamo oggi in grado di prevedere. L’Italia è in parte un Paese modernissimo, in parte un paese antiquato, immobile, poverissimo. Quale situazione migliore per avere un’idea complessiva del mondo? Una situazione adatta alla sintesi d’un romanziere che volesse rappresentare in tutta la sua complessità il travaglio del nostro secolo. Si chiedono poi: c’è ancora bisogno di scrivere romanzi? Riflessione passando attraverso il cinema, strumento ormai in modo di raccontare bene. Appare sempre più presuntuosa fatuità quella dello scrittore che pretende di affrontare con le sue approssimazioni letterarie problemi che esigono tutt’altro tipo di conoscenza e di studio. Il romanzo non può più pretendere di informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i modi, in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali. Qui soltanto forse possiamo riconoscere che la poesia non avrà mai fine. E così quel caso particolare della poesia che chiamiamo romanzo: la poesia come primo atto naturale di chi prenda coscienza di sé stesso, di chi si guarda attorno con lo stupore d’essere al mondo. La «belle époque» inaspettata Calvino riprende l’immagine della belle époque per descrivere il suo presente, gli anni Sessanta. Questo concetto infatti rimanda al boom economico del periodo, all’aria di cuccagna di quei tempi, a un benessere che si pensava non sarebbe finito mai, nonostante la guerra fredda di mezzo, nonostante la disparità fra i paesi privilegiati e quelli arretrati (ma nell’immagine della folla affamati fuori dalla porta del festino Calvino vede proprio l’iconografia classica della belle époque). In questa situazione di disparità, la sensazione generale (fra i benestanti) è quella di euforia, di mondo prevedibile e rassicurante che si pensa non cambierà mai. Particolare importanza bisogna darla al termine, spesso ripetuto da Calvino, cuccagna, che assume connotati quasi negativi in quanto restituisce un senso di irresponsabilità e crea poi uno scarto linguistico, attraverso l’utilizzo di un termine del registro popolare e parlato, che abbassa improvvisamente lo stile del discorso e spacca il saggio, portando avanti una struttura binaria che oppone gli ideali nobili di ieri alla “cuccagna” di oggi. Questo saggio rappresenta il momento in cui Calvino si stacca da saggi che rispondono prettamente ad esigenze letterarie (fino agli anni ‘60, il discorso di Calvino è esclusivamente letterario perché egli crede fermamente che la letteratura può partecipare alla costruzione di una nuova società; su questo pensiero agisce la cultura marxista e i testi gramsciani), e inizia a proporre invece interventi su argomenti di costumi, di spirito, di società. Sappiamo infatti che nel 1958 il boom La sfida al labirinto È un saggio costruito su un’equazione: alla metà dell’Ottocento in Europa c’è stata la rivoluzione industriale, che ha causato un trauma anche in ambito filosofico- letterario, dal quale le arti non si sono ancora riprese e, anzi, proprio quando sembravamo aver imparato a rapportarci con questo improvviso cambiamento, ecco che ne arriva un secondo, quello del miracolo economico. Da questo concetto si genera la suddetta equazione: così come la rivoluzione industriale dell’Ottocento ha cambiato tutto, allo stesso modo avviene adesso, durante il periodo di miracolo economico, che rappresenta in effetti un secondo trauma. Di fronte allo scandalo della prima rivoluzione industriale, Calvino individua due possibili risposte da parte della cultura: accettarla e farla propria o rifiutarla per contrapporre ad essa un altro mondo di valori. Queste due possibili risposte trovano, secondo Calvino, due teorici: dalla parte del rifiuto troviamo Baudelaire, con la via dell’estetismo, dalla parte dell’accettazione troviamo invece Marx. Queste due vie sono in realtà più collegate di quello che si potrebbe pensare: entrambe sono frutti della rivoluzione industriale, entrambe sparano, da due punti diversi, sullo stesso bersaglio: la figura del borghese. C’è poi, secondo Calvino, un’altra biforcazione che si esprime principalmente nelle arti visive, ed è quella che esprime un futuro industriale che abbia ritrovato una certa bellezza, che abbia espresso un suo particolare stile (si parla ovviamente, ad esempio, del cubismo o del futurismo). Caratteristica fondamentale di questo atteggiamento è l’ottimismo storicista, un pensiero di riscatto estetico-morale del mondo meccanizzato. Inizia così la seconda parte del saggio, in cui Calvino, opera una divisione dell’avanguardia fra linea razionalista e linea viscerale. Secondo Calvino, la linea razionalista, sebbene sia riuscita a imporsi all’interno del mondo industriale nella visione di designers e architetti, ha perso la sua forza creativa. C’è però un’esperienza letteraria della linea razionalistica molto importante che è quella di Robbe-Grillet, che ha cercato di confrontarsi con la realtà attraverso un’interiorizzazione e un massimo sforzo di spersonalizzazione oggettiva. Calvino prende ad esame proprio il libro Nel labirinto, nel quale lo spazio creato da Robbe-Grillet appare proprio come un labirinto spaziale di oggetti al quale si sovrappone il labirinto temporale dei dati della storia, creando una configurazione su molti piani molteplice e complessa, che rappresenta appunto il mondo contemporaneo. Questa idea del labirinto è ormai, secondo Calvino, l’archetipo delle immagini letterarie del mondo e si è dunque riproposta in autori come Borges, Brecht e, per rimanere in Italia, Gadda. Questa letteratura del labirinto ha in sé una doppia possibilità: da una parte c’è l’attitudine ad affrontare la complessità del mondo reale, con l’obiettivo di fornire la mappa più particolareggiata possibile del labirinto, dall’altra c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare l’assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Ciò che Calvino vorrebbe è non una letteratura di resa al labirinto ma una letteratura di sfida al labirinto, ossia una letteratura che definisca l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita (questo perché non è possibile per la letteratura fornire direttamente la chiave per uscirne). L’antitesi operaia Questo saggio è una ricognizione delle diverse valutazioni del ruolo storico della classe operaia e della problematica di sinistra degli anni 60. Nel corso del tempo, la realtà sociale dell’operaio ha conosciuto trasformazioni, distinzioni e oscillazioni. L’operaio è entrato nella storia come personificazione dell’estremo oggetto della disumanizzazione del sistema industriale e, al tempo stesso, estremo soggetto della riumanizzazione del sistema. Parallelamente a questo, si svolge la storia dei modi in cui la definizione d’antitesi operaia è stata rifiutata o criticata. Tra le principali obiezioni troviamo: 1. La subordinazione dell’uomo alla macchina si è fatta sempre più grave, la classe operaia è ridotta sempre più a semplice ingranaggio del sistema. 2. La coercizione del sistema non si attua solo sull’operaio in quanto tale, nelle ore di lavoro, ma continua fuori dalla fabbrica in quanto consumatore, costretto a soddisfare bisogni artificiali che lo allontanano sempre di più dalla realizzazione di sé stesso. Siamo davanti la configurazione di un nuovo mondo dove ogni azione umana è inglobata e diretta dagli interessi della produzione, del consumismo e dalla cultura di massa. Non darò più fiato alle trombe Se il saggio L’antitesi operaia (precedente a Non darò più fiato alle trombe) è L’italiano, una lingua tra le altre lingue Calvino prende posizione con questo saggio ed il prossimo (L’antilingua) sulla questione della lingua, particolarmente sentita in quegli anni. Pasolini aveva infatti dato il via a questa nuovo dibattito sulla lingua italiana del tempo, affermando che l’italiano era finalmente nato, ma che lui stesso non lo amava, perché questo italiano era “tecnologico”. L’italiano in questione era infatti la lingua della produzione e del consumo, nata nelle grandi aziende, che si esprimeva in favore della comunicazione a discapito dell’espressività. Era, insomma, l’italiano dei telegiornali e della televisione. Il punto di questo saggio è l’idea che l’italiano debba assumere strutture e contaminarsi con altre lingue, perché è solo così che questo può finalmente diventare una lingua moderna, che non sia soltanto espressione dell’interiorità e dell’identità ma che sia anche una lingua comunicativa e concreta. Un limite molto forte sentito da Calvino a proposito dell’italiano standard, ribadito in entrambi i saggi dedicati a questa lingua, è la troppa genericità: per l’autore occorrerebbe ricorrere a espressioni più concrete e precise. Da notare è sicuramente l’atteggiamento di Calvino assolutamente propositivo. Per Calvino, l’italiano ha qualche vantaggio sulle altre lingue: la nostra lingua è infatti molto duttile, e questo ci permette di tradurre dalle altre lingue in maniera migliore di quanto non sia possibile in nessun’altra lingua. Questo, però, è un vantaggio che ha una forte controparte: l’italiano è dunque una lingua isolata, intraducibile, e la sua duttilità, strumento di soccorso per i traduttori italiani, diventa un grande ostacolo per i traduttori stranieri. Questo è il danno dell’isolamento culturale in cui siamo vissuti per tanto tempo. Per Calvino questa intraducibilità dell’italiano è un inconveniente molto grave, perché nel mondo contemporaneo ogni questione culturale diventa subito internazionale, e ha bisogno di essere esposta su scala mondiale (soprattutto, secondo Calvino, in ambito politico, all’interno del quale esistono in Italia numerosi spunti che potrebbero risultare interessanti anche sul piano internazionale, ma che risultano però intraducibili). L’antilingua Con un ironico esempio, Calvino sottolinea l’estrema macchinosità del linguaggio burocratico italiano, quella che più in generale lui stesso definisce un’antilingua, parlata da avvocati, funzionari, redazioni di giornali e telegiornali. Caratteristica principale di questa antilingua è il “terrore semantico”, la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia un significato. Nell’antilingua, infatti, i significati sono costantemente allontanati, nascosti in fondo a una serie di vocaboli che di per sé non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. Chi parla quest’antilingua ha sempre paura di mostrare interesse per le cose di cui parla. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza di un vero e proprio rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per sé stessi. La lingua invece vive di un rapporto con la vita che diventa comunicazione, perciò dove trionfa l’antilingua, l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”, la lingua viene uccisa. Se Pasolini afferma quindi che è appena nato l’italiano, Calvino dice invece che l’italiano sta morendo da un pezzo, e sopravviverà soltanto se riuscirà a diventare una lingua moderna. E i futuri sviluppi dell’italiano dipenderanno dai sui rapporti con le lingue stranieri: l’italiano si definirà in rapporto alle altre lingue con cui ha continuamente bisogno di confrontarsi, che deve tradurre e in cui deve essere tradotto. L’epoca attuale è definita da una contraddizione: da una parte c’è bisogno che tutto quanto quello che viene detto sia immediatamente traducibile in altre lingue, dall’altra c’è la coscienza che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé stante, intraducibile per definizione. Per questo, secondo Calvino le lingue si muoveranno seguendo due indirizzi: un indirizzo di immediata traducibilità nelle altre lingue, con l’avvicinamento a una sorta di interlingua mondiale, e un indirizzo all’interno del quale si svilupperà l’essenza più peculiare e segreta della lingua. L’italiano, secondo Calvino, ha tutto quello che serve per muoversi verso entrambi questi indirizzi, ma per diventare una vera lingua moderna ha bisogno di respingere l’antilingua, che rappresenta un serio pericolo per la lingua del bel paese. surrealista di “cambiare la vita”. In questo modo possiamo spiegarci perché nella contemporaneità europea, Vittorini si situa soprattutto nel contesto post- surrealista francese, nel quale trova il respiro che l’Italia post-crociana è lontana dal dargli. Da ricordare è quanto però, il dialogo con la cultura francese, se pur fondamentale per il Vittorini degli ultimi decenni, non fa che sottolineare le differenze genetiche delle due culture. Questo è proprio il periodo in cui la strada di Vittorini è decisa: si dedicherà interamente al libro-progetto suo, alla nuova fase della sua progettazione di cultura, che vada più in là delle fasi precedenti senza rinnegarle. In uno degli ultimi interventi, Vittorini rimpiange d’aver “mollato presto” nello scontro con i politici, di non aver continuato a puntare sul possibile “effetto politico” del proprio lavoro. Resta chiara l’indicazione di metodo, la linea su cui Vittorini costantemente si è mosso: il primato dell’esperienza e dell’immaginazione. Qui sta il senso di un lavoro che cerca il nome del futuro non per cristallizzare il futuro ma perché nome vero è solo quello che quando lo si trova si ha bisogno di cercarne un altro ancora più vero, e così via. Filosofia e letteratura Il rapporto tra filosofia e letteratura è una lotta. È continua la disputa nel corso dei secoli, ognuna delle due parti sicura di aver compiuto un passo avanti nella conquista della verità o almeno di una verità. L’opposizione tra filosofia e letteratura non esige di essere risolta, è una guerra in cui i contendenti non devono mai perdersi di vista ma nemmeno intrattenere rapporti troppo ravvicinati. Dostoevskij e Kafka ci riportano ai due massimi esempi in cui l’autorità dello scrittore coincide con l’autorità del pensatore al livello più alto. Il che vuol dire anche che “l’uomo di Dostoevskij” e “l’uomo di Kafka”, hanno cambiato l’immagine dell’uomo anche per chi non ha una particolare inclinazione per la filosofia. Il terreno tradizionale per l’abbraccio tra filosofia e letteratura è l’etica. O meglio: l’etica ha costituito quasi sempre un alibi perché filosofia e letteratura non si guardassero direttamente in faccia. Il clima dominante dei giovani scrittori al tempo in cui scrive Calvino si presenta più filosofico che mai, ma di una filosofia interna all’atto stesso dello scrivere. La letteratura tende a presentarsi come una attività austera e impassibile. Per far valere questo quadro anche per il domani e non solo per l’oggi, dobbiamo comprenderci un elemento fino ad ora non menzionato: la scienza. Quest’ultima si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura; costituisce infatti modelli del mondo continuamente messi in crisi. Abbiamo alcuni esempi di una letteratura che respira filosofia e scienza ma che mantiene le distanze. Parliamo della straordinaria e indefinibile zona dell’immaginazione umana da cui sono uscite le opere di Lewis Carroll, di Queneau, di Borges. Da Lewis in poi si instaura un nuovo rapporto tra filosofia e letteratura. Gli scrittori appartenenti a questo gruppo intrattengono rapporti diversi con diverse filosofie e ne nutrono diversissimi mondi visionari e linguistici. Caratteristica di questa famiglia di scrittori è l’attitudine a coltivare le più compromettenti passioni speculative senza mai prenderle sul serio fino in fondo (sul confine di questo regno troviamo anche Gadda). Definizioni di territori: il comico Calvino ci dice che l’elemento letterario del comico ha per lui grande importanza ed è interessante osservare che la satira abbia una componente di moralismo e una di canzonatura. Quello che Calvino cerca nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca, è la via di uscire dalla limitatezza e univocità di ogni rappresentazione e ogni giudizio. Calvino ama e apprezza lo spirito satirico quando viene fuori senza una particolare intenzione e senza forzature, attraverso una rappresentazione disinteressata. Per chi si scrive? Si scrive pensando ad un ipotetico scaffale composto di libri accanto ai quali mettere il nostro, scaffale in cui l’ingresso del nostro libro crea uno scompiglio, scombinando l’ordine delle preferenze, dei gusti e delle priorità del lettore. Ma soprattutto, secondo Calvino, si scrive per un lettore che ancora non c’è, o per un lettore che, proprio attraverso il nostro testo, muterà e non sarà più lo stesso. La letteratura che interessa a Calvino è dunque non quella che ripete, afferma e conferma se stessa, ma quella capace di sovvertire e mettere in discussione la scala dei valori, innescando un processo di cambiamento e di crescita. Tanto più il libro che stiamo scrivendo è pensato per uno scaffale ancora in divenire, tanto più il nostro sarà un lavoro interessante. Uno scaffale, soprattutto, nel quale ancora non sono state trovate tutte le possibili combinazioni e dove nuovi accostamenti possono provocare scosse e corto circuiti. Secondo Calvino, in Italia, lo scaffale ipotetico degli anni 1945-50 era sostanzialmente storico-politico: ci si rivolgeva dunque a un pubblico interessato alla cultura politica e alla storia contemporanea. Ma la cultura politica, nel dopoguerra italiano, era un qualcosa di certamente non fisso, stabilito, ma qualcosa di ancora in divenire, che dunque doveva essere ancora messa in discussione. Nel decennio successivo, negli anni ‘50-60, lo scaffale ipotetico viene imbottito di tutto quel decadentismo letterario europeo che trovava esiti positivi soltanto in ambienti molto ristretti, e che era dunque inevitabile che saltasse in aria, cosa che avviene proprio negli anni ‘60, quando l’informazione è più ricca, e non si guarda più alla tradizione ma all’ampia questione globale attuale. Ciò che interessa a Calvino non è la realizzabilità pratica di una simile macchina, capace di scrivere, sostituendosi così al poeta e allo scrittore, ma la risolvibilità teorica di un simile problema, che può portare ad una serie di riflessioni. Per dirsi davvero compiuta, una macchina del genere dovrebbe essere in grado non di arrivare a una produzione letteraria “di serie”, meccanica, ma a una produzione che riesca a mettere sulla pagina tutti quegli elementi che siamo soliti considerare attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza umana, dell’imprevedibilità degli umori e delle illuminazioni interiori. Una macchina perfetta, dunque, dovrebbe essere in grado di staccarsi dal classicismo e arrivare a una produzione tipicamente umana, quella del disordine. La vera macchina letteraria sarà dunque in grado di sentire il bisogno di produrre disordine proprio in reazione a una sua precedente produzione di ordine, proprio come l’uomo, insoddisfatto dal proprio tradizionalismo, propone nuovi modi d’intendere la scrittura. La letteratura, così come la intende Calvino, è un’ostinata serie di tentativi di far stare una parola dietro l’altra seguendo certe regole definite o non definite ma estrapolate da una serie di protocolli, o regole da noi inventate o che abbiamo derivato da regole seguite da altri, e in tutte queste operazioni la persona io si frammenta in figure diverse, in un io che sta scrivendo e in un io che è scritto. L’io dell’autore nello scrivere si dissolve: la cosiddetta personalità dello scrittore è interna all’atto di scrivere, è un prodotto della scrittura, e questo è un risultato al quale anche una macchina scrivente può arrivare, proprio perché lo scrittore stesso è in un certo senso sempre stato una macchina scrivente: quello che spesso viene indicato come genio o ispirazione, non è altro che il trovare la strada a naso, là dove la macchina seguirebbe invece un cammino sistematico. Se la letteratura è dunque un processo combinatorio fra elementi dati, è anche vero che la tensione della letteratura è sempre rivolta ad uscire da questo numero finito, punta sempre a dire qualcosa che non sa o non può dire. È da qui che si arriva al mito, la parte nascosta d’ogni storia, la zona non ancora esplorata perché ancora mancano le parole per arrivare fin là. Questo non dicibile equivale proprio all’inconscio, a ciò che è stato espulso fuori dai confini del linguaggio e rimosso in seguito ad antiche proibizioni. E la letteratura vuole proprio riscattare questi territori inesplorati e annetterli nuovamente al linguaggio, dare parola all’inconscio, quello che Calvino identifica nei fantasmi (es. Poe che dà vita agli spettri che l’America puritana si porta dietro). E il gioco combinatorio trova spazio anche in questa ricerca dell’inconscio, in letteratura: il poeta sperimenta accostamenti di parole, e prima o poi scatta il dispositivo per cui una delle combinazioni ottenute, indipendentemente da ogni ricerca di significato, si carica di un significato inatteso. Una particolare combinazione, dunque, che crea uno shock proprio per via dei fantasmi nascosti attorno all’individuo e alla società. Due interviste su scienza e letteratura - Che relazione esiste oggi tra scienza e letteratura? Barthes tende a considerare la letterata come la coscienza che il linguaggio ha di essere linguaggio; il linguaggio per la letteratura non è mai trasparente, mai neutro. Mentre l’idea che del linguaggio si fa la scienza sarebbe invece quella di uno strumento neutro. Su questa via, Barthes arriva a sostenere che la letteratura è più scientifica della scienza. Nello stesso numero, Queneau parla di scienza in modo completamente diverso. Queneau è uno scrittore che ha l’hobby della matematica e i suoi amici sono matematici che uomini di lettere: nel suo articolo egli sottolinea il posto che il pensiero matematico sta prendendo nella cultura umanistica e quindi nella letteratura. Le due posizioni che Calvino descrive definiscono abbastanza bene la situazione: due poli, tra cui ci troviamo ad oscillare, avvertendo i limiti dell’uno e dell’altro. - Lei ha detto recentemente che il più grande scrittore italiano è Galilei. Perché? Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galilei per la precisione e l’eleganza congiunte (da ricordare che la lingua leopardiana, poesia inclusa, deve a Galileo). Calvino, riprendendo il discorso precedente ci dice che Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva. L’ideale di sguardo sul mondo che guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. La questione tra miglior scrittore italiano per Calvino, si pone tra Machiavelli e Galileo. Quel che ci dice è che, nella direzione in cui sta lavorando in quel momento, trova maggior nutrimento in Galileo, come precisione di linguaggio, come immaginazione poetico-scientifica. Ma Galileo – dice Cassola – era scienziato. Calvino trova questa affermazione semplice da smontare, dicendo che anche Dante faceva opera enciclopedica e cosmologica. Calvino riconosce una profonda vocazione della letteratura italiana che passa da Dante a Galileo: l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere mosso da spinte di natura completamente differente tra di loro. Calvino chiude dicendo che sente, in questo momento storico, che la letteratura italiana è per lui indispensabile quanto non lo è mai stata prima. Calvino dice che il discorso scientifico tende ad un linguaggio puramente formale, matematico, basato su una logica astratta, indifferente al proprio contenuto. Il discorso letterario tende invece a costruire un sistema di valori, in cui ogni parola è un valore per il solo fatto d’esser stato scelto e fissato sulla pagina. Non ci potrebbe essere nessuna coincidenza tra i due linguaggi, ma ci può essere una sfida, una scommessa tra loro. In qualche situazione è la letteratura che può indirettamente aiutare lo scienziato e così, in altre situazioni, il contrario. Per una letteratura che chieda di più (Vittorini e il Sessantotto) A due anni dalla morte di Vittorini, Calvino tenta di immaginarsi come l’autore avrebbe reagito di fronte agli sconvolgimenti del ‘68. carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario, una sorta di “mondo alla rovescia”. Bachtin sottolinea il fatto che “le leggi che determinano il regime e l’ordine della vita normale, cioè extra carnevalesca, durante il Carnevale sono abolite. È abolito anzitutto l’ordinamento gerarchico e tutte le forme ad esso collegate di terrore ed etichetta. È abolita qualsiasi distanza tra le persone”. Ecco perché il Carnevale interessa tanto al critico letterario: per questa liberazione della parola, che la fa diventare eccentrica, tale da essere giudicata inopportuna in qualsiasi altra occasione che non sia questo tempo eccezionale. Il rito del Carnevale consisteva innanzitutto nell’incoronazione di un re da burla e nella sua successiva scoronazione. Il re del Carnevale è colui che verrà detronizzato e deriso alla fine. Così già nelle scorpacciate e bevute carnevalesche, c’è il presagio dell’austerità quaresimale. Bachtin ritrova nel tardo medioevo e nella Roma antica, il pieno realizzarsi della funzione del Carnevale (quando la festa cortigiana in maschera si sottrae dal vero elemento del Carnevale, ossia la piazza, è già in declino). Anche nel Rinascimento, la festa era ben viva, tanto che la più importante eredità che il Carnevale ha lasciato alla letteratura è in questo periodo che dà i maggiori frutti (es. Cervantes). Le grandi città del tardo medioevo ci appaiono, nell’esposizione di Bachtin, in una inattesa luce di società carnevalesca, perché il Carnevale si estendeva ai giorni di fiera, di vendemmie, di sacre rappresentazioni. Si può dire, con alcune riserve, che l’uomo medievale viveva due vite: una ufficiale, sottomessa ad un rigore gerarchico, e un’altra carnevalesca, di piazza, libera, piena di riso ambiguo, di profanazioni e sacrilegi. Entrambe le vite erano legalizzate, ma divise da rigorosi confini temporali. Definizioni di terrori: l’erotico (il sesso e il riso) In letteratura, la sessualità è un linguaggio in cui quello che non si dice è più importante di quello che viene detto. Questo principio non vale solamente per gli scrittori che affrontano i temi sessuali più o meno indirettamente, ma anche per quelli che investono in essi tutta la forza del loro discorso. Perfino agli scrittori la cui immaginazione erotica vuole oltrepassare ogni barriera, accade di usare un linguaggio che, partendo dalla massima chiarezza, passa a una misteriosa oscurità proprio nei momenti di maggiore tensione, come se il suo punto d’arrivo non potesse essere altro che l’indicibile. La spessa corazza simbolica sotto cui l’eros si nasconde non è altro che un sistema di schermi coscienti o incoscienti che separano il desiderio dalla sua rappresentazione. La maggior parte degli scrittori si situa in zone intermedie tra i due estremi. Per molti, l’approccio di segni del sesso si è svolto attraverso il codice del gioco, del comico, o almeno dell’ironico. Oggi il rigore intellettuale tende a condannare come superficiale lo strizzare l’occhio alle cose sessuali. Polemica giustissima, secondo Calvino, ma in questo modo si rischia di far dimenticare il legame profondo che intercorre tra sesso e riso. Perché il riso è pure difesa per padroneggiare lo sconvolgimento assoluto che il rapporto sessuale può scatenare. L’atteggiamento ilare che accompagna il parlare del sesso dunque può essere inteso anche come riconoscimento del limite che si sta per varcare. Definizioni di territori: il fantastico Non è un caso che il termine fantastico si imponga negli anni ‘70: una simile parola è infatti per sua definizione antirealista. Se in Francia il termine fantastico è usato (soprattutto nelle storie di spavento) per implicare un rapporto col lettore che deve credere a ciò che legge, accettarlo per essere colto da un’emozione, in Italia lo stesso termine indica invece non un tuffo del lettore che aderisce al testo, ma al contrario una presa di distanza. Dunque, ciò che Todorov dice nei suoi nuovi studi, a proposito di quello che chiama il meraviglioso, basato sull’accettazione del fantastico, è applicabile soltanto alla letteratura francese, mentre fallisce per quanto riguarda il panorama italiano. Il romanzo come spettacolo (Dickens) Dickens durante il corso della sua vita ha pubblicato molti giornaletti sui quali uscivano a puntate i suoi romanzi. Questi fascicoli, di cui Dickens spesso era editore direttore e uno collaboratore, consistevano soprattutto in un’unica dispensa del romanzo che lo scrittore stava scrivendo. Dava molta importanza alle illustrazioni e al rapporto con i disegnatori: Dickens segnava sul manoscritto il punto in cui doveva essere inserita una vignetta. Per Dickens, essere autore di un romanzo non voleva dire solamente scriverlo, ma anche essere regista della sua interpretazione visuale, dirigendo l’illustratore, e il ritmo delle emozioni del pubblico, per cui il farsi del romanzo va quasi sotto gli occhi del lettore, in dialogo con le sue reazioni. Le riviste dickensiane presentavano i romanzi come facevano gli antichi novellieri, ossia attraverso l’espediente della finzione che faceva da cornice ad altre finzioni: erano storie piene di natura romanzesca. Cassola fa segnare a Flaubert la fine del “romanzesco” e lo tiene presente come modello nella sua poetica personale. A fare il punto su ciò che avviene negli anni 70 nei laboratori letterari più specializzati, rileviamo due aspetti che sembrano contradditori: da una parte il romanzo ha come prima regola il non rimandare più ad una storia (un mondo) fuori dalle proprie pagine; dall’altra parte c’è un convergere di studi, un’analisi su ciò che è (o è stato) il racconto tradizionale in tutte le sue manifestazioni. Mai come in questi anni questa funzione umana che è il narrare, è stata tanto analizzata, smontata e rimontata nei suoi meccanismi elementari. Se adesso conosciamo le regole del gioco “romanzesco” potremmo costruire romanzi “artificiali”, nati in laboratorio, potremo giocare al romanzo come si gioca a scacchi. Ma siccome gli schemi del romanzo sono quelli di un rito di iniziazione, di un addestramento delle nostre paure ed emozioni, anche se praticato ironicamente, il romanzo finirà per travolgerci nostro malgrado. Per Fourier: 1. La società amorosa L’aspetto della critica alla civiltà occupa in Fourier una parte preponderante, ma di critici della civiltà ce ne sono stati e continuano a essercene parecchi, e non è questo che rende Fourier uno scrittore unico del suo genere, bensì la sua facoltà di vedere un mondo completamente diverso, di descriverlo nei più minuti particolari. A differenza di quasi tutti i pensatori sociali prima e dopo di lui, Fourier non vuole cambiare le “passioni” umane: le “passioni” sono la sola essenza dell’uomo, sono positive per definizione, mentre negativo è tutto ciò che le intralcia e le reprime, cioè la civiltà. Partendo dall’analisi di queste passioni, Fourier costruisce pezzo per pezzo un modello di società in cui le passioni di tutti possono essere soddisfatte, anzi: in cui la soddisfazione delle passioni altrui garantisca la soddisfazione delle proprie. Ne viene fuori un’organizzazione complicatissima che lascia ben poco margine alla spontaneità, al caso, alla determinatezza degli impulsi psicologici: tutto è calcolato e studiato. La trovata più straordinaria e famosa del Fourier pedagogista è quella delle “Piccole Orde”. I bambini che amano giocare con la sporcizia (cioè la gran maggioranza) sono organizzati in piccole orde che hanno l’incombenza della raccolta delle immondizie. Anziché essere disprezzate, le piccole orde sono circondate dalla venerazione pubblica, i loro membri sono considerati dei piccoli santi e questo prestigio stimola la loro dedizione al bene comune. Il frastuono e la rozzezza del linguaggio sono prerogativa delle piccole orde, inscindibili dai loro compiti sociali, che comprendono la caccia ai rettili e la lavorazione delle trippe nelle macellerie. Il cammino che si intraprende nell’infanzia con le piccole orde può essere proseguito nell’età adulta in due campi principali: la gastronomia e la vita amorosa. Il lesbismo riceve da parte di Fourier un’attenzione particolare ma tra tutte le passioni amorose, quella per l’amore platonico sembra suscitare gli aneliti più divoranti; questo aspetto definisce meglio di ogni altro il carattere di Fourier, la sua estrema libertà mentale e il suo fondamentale candore. Per Fourier: 2. L’ordinatore dei desideri nobili, cortigiani, preti; una classe di parassiti che conserva una posizione di egemonia pur avendo perduto qualsiasi funzione sociale) che Saint-Simon ha proposto, si può dire sia quello che ha vinto, quello che guida le scelte sia americane sia sovietiche del tempo. La diminuita distanza dal possibile è la prova del fuoco per l’utopia: o ne resta la cenere come in questo caso, o si sublima. L’utopia, quindi, non ha spessore: puoi condividerne lo spirito, crederci, ma al di là della pagina non continua nel mondo. Chiuso il libro, Fourier non mi segue, devo tornare a sfogliarne le pagine per ritrovarlo lì, testardo e limpido, e ammirarlo. Ma mi sono reso conto che appena avevo saldato questo debito di ammirazione che avevo per lui, ogni passo che facevo era per allontanarmi. A questo proposito, Calvino ci dice che anche il suo bisogno di rappresentazione sensoriale della società futura è scemato, ma solo perché il meglio che si aspetta ancora è altro, e va cercato nelle pieghe, nel gran numero di effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là, più che altrove, è la sua verità. L’utopia che cerca Calvino non è più solida di quanto non sia gassosa: un’utopia polverizzata, corpuscolare e sospesa. L’estremismo “Estremismo” è un termine che Calvino preferisce non usare, anche per la connotazione negativa che gli si dà comunemente. D’altra parte, non si sente di fare critiche all’estremismo in generale: il mondo sta andando in un certo modo ed è normale che molti, cominciando a rendersi conto della necessità di farlo cambiare, sentono più vicino l’appellativo di estremiste. L’importante è vedere come questa spinta di partenza venga poi tradotta in pratica. Per Calvino, l’estremismo è in larga parte questione di temperamento: se per temperamento non sono estremista, si è portati a diffidare da idee o comportamenti estremi. Se invece vogliamo parlare di una storia dell’estremismo, allora dobbiamo definire estremismo la serie di idee e di modi di vita con cui si è cercato di rispondere a una situazione della civiltà diventata tanto intollerabile da esigere solo cambiamenti radicali. Il motivo per cui l’estremismo sembra indivisibile dalla gioventù risiede nel fatto che la gioventù tende all’azione e questa è l’unica via per cui può sfuggire all’astrattezza: sbagliando, prendendo testate contro i muri, cioè facendo un’esperienza che vale solo quando è fatta di persona. Per quanto riguarda la cultura, per Calvino l’arte e la letteratura sono estremiste, si pongono come opposizione totale al linguaggio, alla cultura dominante. Nei paesi come l’Italia, dove la formazione della società è stata più lenta e fragile, la cultura si è trovata a lungo alle prese con compiti di sostegno. Lo spazio per un’opposizione radicale si sta formando in quegli anni (inizio anni 70) ed è ancora presto per un bilancio. La poesia, invece, è per sua natura estremista. Il pensiero anche può e talora deve essere estremista: è bene che ogni idea sia pensata fino alle ultime conseguenze. Le religioni estremiste sono quelle che partono da un’incommensurabile distanza tra gli uomini e Dio, per sanare la quale occorrono prove estreme. Lo stesso si può dire delle dottrine politiche. A tal proposito, un buon dirigente politico può far leva sull’estremismo ma non essere estremista lui stesso. Ossia: deve tendere a una sua immagine ideale di società, che può ancora essere lontana da una possibile realizzazione, magari avvalendosi di estremismi, ma non identificandosi con essi. Lo sguardo dell’archeologo Un testo programmatico per una rivista mai realizzata, progetto pensato assieme ad alcuni amici come Carlo Ginzburg. Calvino ammette immediatamente che i materiali accumulati dall’umanità sono ormai troppo vasti per essere messi in ordine. I metodi, continuamente aggiornati, che per secoli hanno retto sono ormai troppo fallaci. A dargli il colpo di grazia è stato proprio l’uomo delle metropoli, l’uomo dei grandi numeri. Calvino è consapevole che l’unico modo per andare avanti è proprio attraverso il rimettere in gioco qualcosa che già si considerava come certezza, e a tal proposito vorrebbe indagare il mondo con lo sguardo proprio dell’archeologo, che nel suo scavo rinviene utensili di cui ignora la destinazione, cocci di ceramiche che non combaciano. E il suo compito è quello di descrivere pezzo per pezzo anche ciò che non riesce a finalizzare in una storia, a ricostruire in una continuità. Allo stesso modo, Calvino vorrebbe che il suo compito fosse quello di indicare e descrivere piuttosto che di spiegare. I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza (vedi) Per Calvino I Promessi Sposi è un romanzo di rapporti di forza, nel quale più in specifico ci troviamo di fronte a un triangolo del potere. Le tre autorità che si dispongono attorno a Renzo e Lucia sono: il potere sociale, il falso potere spirituale e il potere spirituale vero. Due di queste sono ovviamente avverse ai protagonisti (potere sociale e cattiva Chiesa), mentre l’altra è propizia (la buona Chiesa). Questa figura triangolare si presenta nell’opera due volte in maniera sostanzialmente identica: nella prima parte del romanzo con Don Rodrigo, Don Abbondio e fra Cristoforo, nella seconda con l’Innominato, la Monaca di Monza e il cardinal Federigo. In questi due triangoli si percepisce una somiglianza quasi ripetitiva fra Don Rodrigo e l’Innominato, e lo stesso si potrebbe dire per fra Cristoforo e Federigo. Mentre una cosa diversa accade per il terzo vertice, quello del falso potere spirituale: c’è infatti uno stacco netto fra Don Abbondio e Gertrude, personaggi diversi e autonomi. È chiaro che proprio questo lato del triangolo Manzoni conosce meglio. città. Ogni città ha un suo “programma” implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città, evocando i nomi degli dèi che avevano presieduto alla sua fondazione. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi. Usi politici giusti e sbagliati della letteratura Gli anni della gioventù di Calvino, a partire dal 1945 e per tutti gli anni 50, hanno avuto come problema dominante il rapporto tra lo scrittore e la politica. La sua generazione potrebbe essere definita come quella che ha cominciato a occuparsi di letteratura e politica allo stesso tempo. Negli ultimi anni invece scinde le due cose. Nel momento in cui scrive, pensando a queste due problematiche, avverte una sensazione di vuoto: un vuoto per un progetto politico in cui possa credere e un vuoto per un progetto letterario. Ma è consapevole del fatto che il nodo di rapporti tra la politica e la letteratura non è ancora sciolto. Negli anni 70, tutti i parametri, le certezze, ciò che era classificabile e definibile possono essere messi in dubbio, anche i valori e le categorie che sembravano essere stabili. Negli ultimi anni le sue preoccupazioni sulla politica e sulla letteratura riguardano la loro insufficienza rispetto ai compiti che i cambiamenti della mente impongono. Il nuovo radicalismo politico degli studenti del 68 è stato caratterizzato, in Italia, da un rifiuto della letteratura. Non era la letteratura della negazione che veniva proposta ma la negazione della letteratura. La letteratura veniva accusata di essere una perdita di tempo contrapposta alla sola cosa importante: l’azione. Forse questo atteggiamento non era poi così sbagliato perché ci si avvicinava in qualche modo ad una giusta valutazione della funzione sociale della letteratura, ma era anche un segno di ristrettezza di orizzonti. Comunque sia, l’appuntamento tra le due nuove avanguardie, letteraria e politica, non avvenne. In tutto questo, c’è un errore di fondo. Ciò che si chiede allo scrittore è di garantire la sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano. Il premio Nobel di quell’anno, 1976, è andato a Montale, ma pochi ricordano che la forza della sua poesia è consistita nel suo parlare a bassa voce, senza enfasi, con tono dubbioso. Proprio questa sua presenza è stata di impatto su tre generazioni di lettori. È così che la letteratura scava la sua strada: il suo potere, se esiste, è di questo tipo. La società degli anni 70 chiede invece allo scrittore di alzare la voce se vuole essere ascoltato ma non è così che deve essere, né per lo scrittore, né per il lettore. Noi che viviamo in una condizione di libertà letteraria sappiamo che questa libertà implica una società che si muove e che cambia, e anche in questo caso il rapporto che conta è quello tra il messaggio letterario e la possibile creazione di una società che lo riceva. Questa è la relazione che conta, non quella tra letteratura e politica. Ciò che pensa Calvino è che ci siamo due modi sbagliati di considerare una possibile utilità politica della letteratura: 1. Il primo è quello di pretendere che la letteratura debba illustrare una verità già posseduta dalla politica. Quest’opinione implica un’idea di letteratura come qualcosa di ornamentale e superfluo, ma implica anche un’idea di politica fiera e sicura di sé. 2. L’altro modo sbagliato è quello di vedere la letteratura come un assortimento di eterni sentimenti umani, come la verità di un linguaggio umano che la politica tende a dimenticare e che va dunque ricordata ogni tanto. Se accetta questa funzione, la letteratura limita sé stessa ad una funzione consolatoria. Come ci sono due modi sbagliati, ce ne sono anche due giusti: 1. La letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa dà voce a ciò che non ha voce o a ciò che ancora non ha un nome. La letteratura è come un orecchio che può ascoltare al di là di quel linguaggio che la politica intende. 2. La capacità della letteratura di imporre modelli di linguaggio, la creazione di modelli-valori essenziali in ogni progetto d’azione, specialmente nella vita politica. A questo punto, Calvino afferma di credere ad un tipo di educazione attraverso la letteratura che può dare i suoi effetti solamente se implica l’arduo raggiungimento di un rigore letterario. Qualsiasi risultato raggiunto dalla letteratura, se rigoroso, può essere visto come un punto fermo per ogni attività pratica. Calvino aggiunge poi un terzo uso giusto: 3. È un uso giusto che si collega al modo critico con cui la letteratura vede sé stessa. Non dobbiamo mai dimenticarci che ciò che a volte i libri comunicano resta talvolta inconscio allo stesso autore, che i libri dicono talvolta qualcosa di diverso da quello che si proponevano di dire. Questo genere di consapevolezza può essere utile alla politica per farle scoprire quanto di essa è solo costruzione verbale. La politica, come la letteratura, deve innanzitutto conoscere sé stessa e diffidare da sé stessa. La penna in prima persona (per i disegni di Saul Steinberg) Il primo a considerare gli strumenti e i gesti della propria attività come il vero soggetto dell’opera è stato Guido Cavalcanti. Il poeta è troppo disperato e gli arnesi dello scrivere si rivolgono allo stesso lettore, chiedendo compassione. Guido Cavalcanti apre con questi versi la poesia moderna. Dopo di lui i poeti preferiscono dimenticarsi che mentre scrivono stanno scrivendo e non stanno facendo altro. Petrarca per più di trecento sonetti fa finta di credere che sta camminando per l’aperta campagna in preda a sofferenze mentre invece è seduto tranquillo nel suo studio. La penna che Cavalcanti ha lasciato cadere viene raccolta da Steinberg. Ogni linea presuppone una penna che la traccia e ogni penna presuppone una mano che la impugna. Il mondo disegnato ha una sua prepotenza e tutto è risucchiato dal disegno come da un vortice. La sostanza grafica si rivela come la vera sostanza del mondo. Il mondo viene trasformato in linea e l’uomo anche. E quest’uomo trasformato in linea è finalmente padrone del mondo e padrone di sé stesso perché può costruirsi o decostruirsi segmento per segmento. Possiamo anche dire che gli resta sempre la suprema libertà di condurre la linea nella direzione che meno ci si aspetta. La vocazione irresistibile di Steinberg è quella di muoversi nello spazio a n dimensioni del disegnato e del disegnabile, di stabilire una comunicazione tra gli universi stilistici più contraddittori. I multiformi e innumerevoli modi di usare penne, matite e pennarelli si incontrano sul foglio di Steinberg. Le parole che usa Michelangelo nei dialoghi romani sconvolgono il rapporto tra mondo e arte: ci si apre un nuovo orizzonte in cui il mondo vissuto è visto come opera d’arte e l’arte propriamente detta come parte dell’opera complessiva. Il mondo, quindi, è progetto delle nostre mani. Diremo dunque che l’uomo è uno strumento di cui il mondo si serve per rinnovare la propria immagine di continuo. L’arte sarà riflessione delle sue forme e sarà anche riflessione sul mondo dato come oggetto visuale. Galileo Galilei, tra le molte metafore riguardanti le discussioni del moto della terra intorno al sole nel Dialogo dei Massimi Sistemi, ne ha una in cui si parla di una nave, di una penna e di una linea: si immagini sulla nave una penna che lasci il segno del suo percorso in una linea continua. La vera linea, che corrisponde al moto della nave, non resta sulla carta perché il moto della nave è comune alla carta e alla penna. Questo esempio serve a Galileo a dimostrare che stando sulla terra non ci accorgiamo del moto della stessa intorno al sole perché tutto ciò che sta sulla terra partecipa allo stesso moto. Con questo, la dimostrazione è finita. Ma l’immagine della linea invisibile che la penna traccia nello spazio assoluto muovendosi insieme alla nave (o alla terra), continua ad incantare l’immaginazione di Galileo. Note sul linguaggio politico 1. Il rifiuto del discorso L’intolleranza, a giudicare dal largo numero di episodi che conosce Calvino, si manifesta come rifiuto di ogni discorso. A ben vedere, che una grave malattia colpisse la parola era chiaro da tempo: per esempio, nel linguaggio politico si è verificato un impoverimento. Tendere alla condizione in cui nulla può raggiungerci dal fuori, in cui l’altro non interviene continuamente a scombinare lo stato di compiutezza che crediamo di aver raggiunto, vuol dire invidiare la condizione dei morti. In qualche caso, l’intollerante è mortifero. 2. I discorsi approssimativi Il diavolo oggi è l’approssimativo. Per diavolo Calvino intende la negatività da cui non può venire alcun bene. Nelle genericità, nell’imprecisione di pensiero e di linguaggio, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza. Lo sforzo di cercare di pensare e di esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile. 3. Il linguaggio politico in Italia e in Francia
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