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Vivaldi e Venezia: Arte, Musica e Instituzioni nella Serenissima, Sintesi del corso di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea

La vita e la carriera musicale di Antonio Vivaldi, che si sviluppò durante il periodo di massimo splendore di Venezia, nota per il suo sviluppo delle arti e della musica. Vivaldi, che insegnò alla Pietà per quasi 40 anni, pubblicò la sua prima raccolta di sonate a tre e collaborò con il principe di Dresda per promuovere la musica italiana in Germania. anche la produzione operistica e sacra di Vivaldi, i suoi viaggi in Europa e le difficoltà che incontrò come impresario.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 20/02/2022

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Scarica Vivaldi e Venezia: Arte, Musica e Instituzioni nella Serenissima e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea solo su Docsity! 1 Antonio Vivaldi Argomento 10 Venezia, la città e le arti; le istituzioni e la vita musicale della Serenissima Venezia, la città e le arti La vita di Antonio Vivaldi e gli anni della sua fama europea come violinista e compositore di musica vocale e strumentale hanno conciso con l’ultimo periodo di splendore della repubblica veneziana, contraddistinto da un notevole sviluppo delle arti e della musica. Si suonava nelle basiliche, nei teatri e negli istituti di assistenza, nelle case dei nobili. Vivaldi visse tra la fine del 600 e la prima metà del 700, c’era un rinnovamento della pittura con numerosi paesaggisti (Piero Longhi e il Canaletto). Le rappresentazioni dei canali e delle piazze veneziane incontrarono molto interesse nei viaggiatori che venivano da tutta Europa. Il Canaletto era menzionato nei diari dei più importanti visitatori europei ad esempio nelle testimonianze del collezionista-mercante Joseph Smith, per il quale dipinse tra il 1720 e 1730 decine di vedute di San Marco e del Canal Grande. Nel 1637 si aprirono teatri dedicati alle rappresentazioni pubbliche e nel secolo successivo la città ebbe un ruolo fondamentale per lo sviluppo della musica strumentale. C’era una grande relazione tra musica e vita sociale: la musica era ovunque. La repubblica e il commercio Fin dall’inizio del secolo la produzione artistica e le attività culturali erano diventati gli aspetti caratteristici della società che non riusciva più ad esercitare il potere politico che aveva contribuito allo sviluppo economico. La potenza economica di Venezia era declinata e solo la cultura costituiva il connotato caratteristico della sua società. La Serenissima attirava da tutta Europa visitatori i quali ammiravano gli edifici, affollavano i teatri e le case da gioco e se ne ripartivano con un souvenir che poteva essere un quadro o una partitura musicale. La dipendenza della pittura e musica veneziane dal mecenatismo straniero (1660) di quella consuetudine nota come GRAND TOUR avvantaggiava il tesoro della repubblica era uno stimolo per la creatività anche se toglieva vitalità alle arti. Tutto sembrava prodotto per l’esportazione e i compositori si dedicavano a generi musicali facilmente esportabili (opera e concerto) a discapito di generi che soddisfacevano le esigenze locali. La funzione della musica all’epoca di Vivaldi era quella di far moda in tutta Europa. Il paradosso di Venezia era dato da una città che si manteneva in base allo splendore passato, e i potenti che non si occupavano del popolo, ma si compiacevano del mecenatismo. I territori di Venezia si espandevano fino al mar Egeo. Non ci fu mai un governo unitario però, e i turchi nel 1453 occuparono Costantinopoli. Intorno al 1400 era la prima potenza in Italia. Ma ingrandendosi il governo si trovo contro anche i francesi e i tedeschi. Nel 1509, ad Agnanello, la Serenissima subì una sconfitta, contro la lega di Cambrai, guidata da Papa Giulio II, e da lì l'espansionismo si interruppe. Al tempo di Vivaldi Venezia esportava anche seta e capi alla moda. Anche l'artigianato era oggetto di esportazione. Nel 1797 Venezia veniva annessa, per opera di Napoleone, all'Austria. Ma era sempre cuore pulsante della cultura e dello svago: trattorie, locande, caffè. La vetrina culturale e il Grand Tour Tra il 500 e il primo 600 si verificò a Venezia una rivoluzione in campo musicale. Nacque la stampa musicale promossa da Ottaviano Petrucci nel 1501 e si diffuse per la capacità di molti stampatori attivi in città. Gli editori veneziani pubblicarono i lavori di alcuni tra i più importanti compositori dell’epoca (Monteverdi, Willaert, Zarlino e anche di compositori di fama europea come Giovanni Gabrieli, Palestrina e Frescobaldi). 2 All’interno di questa produzione un ruolo fondamentale per lo sviluppo della vita musicale fu assunto dalla musica strumentale che durante il XVI secolo di manifestò per la quantità di raccolte e antologie di strumenti e per la messa a punto di una tecnica esecutiva chiamata “diminuzione” descritta da una serie di trattati italiani di metà 500 redatti da musicisti e strumentisti che lavoravano nelle cappelle e nelle corti italiane. Girolamo Dalla Casa, maestro dei concerti a San Marco tra il 1568 e il 1601, che fece uno dei trattati più importanti (Il vero modo di diminuir del 1584). Un altro aspetto essenziale della rivoluzione in campo musicale del 500 e 600 riguarda il nuovo modo di comporre musica con un testo. Se il madrigale, componimento lirico, aveva monopolizzato le tendenze innovative del 500, la monodia sarebbe stata il genere del 600. Il compositore più rappresentativo dei nuovi generi musicali, Claudio Monteverdi, svolse la sua attività nelle corti italiane del nord-est e nella città lagunare. Nel 1613 Monteverdi lasciò Mantova per assumere l’incarico di maestro di cappella della Serenissima. Il suo contributo si concentrava sulla produzione vocale. Durante il 600, i musicisti italiani furono presi a modello da compositori e strumentisti europei che per apprendere i segreti della loro arte musicale facevano viaggi nelle città d’arte italiane. La città di Venezia era tappa obbligatoria per il Grand Tour, al pari di Firenze, Napoli, Roma, ma di più per il suo carnevale e le feste uniche nel suo genere. Il tour in Italia divenne una consuetudine per musicisti, artisti, nobili e collezionisti. Venezia era dotata di una struttura politica repubblicana, priva di un potere principesco e religioso. Venezia rappresentava la tappa più ambita per cantanti e compositori. Era la città operistica per eccellenza. Per tutto il 700 Venezia apparve centro produttore di spettacoli operistici, con una dimensione produttiva vivace che fu frutto dell’iniziativa imprenditoriale di numerose famiglie patrizie. Era la destinazione inevitabile nella carriera degli operatori del settore, trampolino di lancio per il mercato internazionale (da Venezia si raggiungeva Vienna, Praga, Monaco, Francoforte, Londra). Durante il carnevale giungevano in città circa 30.000 stranieri. La popolazione aumentava e determinò un aumento dell’industria del turismo. Si accoglievano nobili, viaggiatori, commercianti, in pensioni, alberghi e locande. La maggior parte della popolazione era ripartita in sei sestrieri (Cammaregio, Castello, Dorsoduro, San Marco, Santa Croce e San Paolo). La società e l’amministrazione L’aristocrazia, occupante il 4% della popolazione, era suddivisa in 3 ordini distinti. Nel primo ordine, il più importante, c’erano le più antiche famiglie di Venezia, legate alla nobiltà. Ai tempi di Vivaldi queste famiglie erano 24 e da loro provenivano la maggior parte dei dogi e procuratori. Negli altri due ordini si trovavano le altre famiglie aristocratiche e i nobili che avevano con il tempo acquisito i diritti di appartenenza alla classe per ricchezza o per speciali incarichi statali. Solo chi apparteneva ai primi due ordini poteva accedere alle più alte funzioni dello stato (dogato). L’8% della popolazione era costituito dal ceto medio, una sorta di “media borghesia” che comprendeva gli amministratori dello stato e i “nuovi ricchi” in ragione delle loro attività commerciali. Il doge – il capo supremo dell’amministrazione dello stato eletto a vita tra i ranghi della nobiltà e dell’aristocrazia veneziana – presiedeva un Collegio che costituiva una sorta di gabinetto ministeriale. Il maggior consiglio deteneva il potere legislativo ed era eletto dai nobili, dal Senato o dal consiglio dei Rogati, a scrutinio segreto. Il consiglio dei Dieci Savi era nominato annualmente dal Maggior Consiglio e da esso provenivano i tre Inquisitori che tra le loro mansioni avevano la tutela della pubblica moralità e controllavano sia il rilascio delle licenze ai teatri sia la concessione del benestare – il cosiddetto facio fede – ai libretti di tutte le opere. L’elezione del doge era particolare: un bambino tra gli 8 e i 10 anni (il ballottino) tirava a sorte 30 nomi tra i nobili del Maggior Consiglio i quali ne estraevano a sorte 9 che eleggevano 40 membri. Tra essi ne venivano estratti a sorte 12, che ne eleggevano 25, che ne sorteggiavano 9 che ne eleggevano 45, che ne tiravano a sorte 11, che ne nominavano 41. Tra questi ultimi veniva votato il doge. Il doge non aveva un programma politico. La funzione del doge era rappresentativa, 5 trovare una soluzione al problema degli organi in conseguenza alle epidemie, guerre e povertà e per dare assistenza ai malati incurabili, divennero le istituzioni più care alla popolazione veneziana. L’educazione e la pratica musicale erano riservate solo alle ragazze; i fanciulli orfani erano dimessi in età adolescenziale per consentire loro di apprendere un mestiere oppure dedicarsi alla carriera ecclesiastica. Invece le ragazze potevano lasciare l’istituto solo se venivano richieste in matrimonio o se decidevano di entrare in convento. Le fanciulle che mostravano delle capacità artistiche e intellettuali, chiamate “figlie del comun”, ricevevano un’educazione incentrata su pratiche di infermeria, artigianato, ricamo. Le ragazze più dotate e che avevano una certa predisposizione ricevevano un’educazione musicale; queste ragazze chiamate “figlie del coro” costituivano una sorta di “aristocrazia” all’interno dell’istituto. Alle più capaci, le “privilegiate di coro”erano riservate più attenzioni poiché su di esse si concentrava l’attività operistica. Le musiciste godevano di alimentazione migliore e abiti più caldi per preservare la salute. Potevano avere permessi speciali per suonare nelle feste dell’aristocrazia veneta. Diventavano attrazione sociale per i loro ammiratori che potevano vederle di persona e non più nascoste da una grata, come accadeva nei concerti negli Ospedali. Dovevano obbedire alle “maestre di coro”, di violino, d’organo e di altri strumenti. La loro funzione era quella di far esercitare le ragazze nella pratica strumentale e corale. Il più antico Ospedale che impartiva l’insegnamento musicale era il San Lazaro dei Mendicanti, fondato nel 1182 e destinato, inizialmente, all’assistenza dei poveri e dei lebbrosi. La gran parte dell’attività musicale che si svolgeva in questo istituto riguardava la musica vocale e attenzione era rivolta agli strumenti a tastiera e agli archi. Forse c’era una predilezione per gli strumenti ad arco poiché a fine 600 i maestri di strumento erano violinisti. Nel 1689 nell’Ospedale dei Mendicanti figurava anche il padre di Vivaldi. L’Ospedale degli Incurabili fu fondato da un gruppo di nobili che cercavano di contenere la diffusione della sifilide, considerata incurabile. Fu realizzato dopo quello dei Mendicanti, intorno al 1522. C’erano insegnanti di grande prestigio come Pollarolo, organista dal 1697 al 1718, Legrenzi. L’Ospedaletto sorse tra il 1527 e il 1528. Tra la fine del 500 e l’inizio del 600 gli Ospedali nati come istituti di beneficenza si trasformarono in scuole specialistiche. Agli studi di latino, retorica e teologia si aggiungeva l’insegnamento di uno strumento e queste istituzioni consentirono alle ragazze, destinate alla miseria e alla prostituzione, di diventare musiciste di ottimo livello. I governatori volevano potenziare l’insegnamento musicale anche per ragioni economiche. Le occasioni musicali negli Ospedali erano programmate in anticipo nella Guida dè forestieri del Coronelli. In tali occasioni, che comprendevano le litanie del sabato, i vespri della domenica, i quattro Ospedali coordinavano le loro attività in modo da espletare tutte le richieste ecclesiastiche e celebrative della città: il secondo sabato del mese presso l’Ospedale dei Mendicanti, il quarto all’Ospedaletto, il primo e il terzo tra gli altri due ospedali. Gli Ospedali attiravano la curiosità di molti viaggiatori, la grata che nascondeva le fanciulle eccitava la fantasia degli spettatori. L’Ospedale della Pietà Aveva un prestigio soprattutto per la musica strumentale. Nel 1726 era in testa a tutte le istituzioni musicali veneziane. Fu fondato poco prima del 1340. L’attenzione dedicata a questo istituto risale ai tempi di Giovanni Gabrieli, quando i maestri di musica che furono assunti erano rinomati strumentisti: Alvise Grani, trombonista fino al 1633, e gli organisti Gualtieri, Giacomo Spada e Bonaventura Spada. L’organizzazione e la gestione dell’istituto, compresa l’attività didattica e musicale, era delegata da due governatori, scelti tra i membri della congregazione. Le mansioni dei governatori riguardavano la scelta del repertorio musicale, l’organizzazione delle esecuzioni, la suddivisione delle mance e la gestione dell’attività liturgica. La responsabilità della preparazione musicale ricadeva su insegnanti appositamente chiamati, scelti sulla base della loro competenza strumentale; i musicisti incaricati potevano a loro volta nominare delle maestre tra quelle assistite che raggiungevano una sufficiente capacità musicale. Ciascuna maestra sorvegliava la 6 condotta e la formazione artistica di un determinato numero di ragazze e, per approfondire la propria formazione, era tenuta a presenziare alle lezioni che erano impartite dai maestri esterni. Gli insegnanti erano scelti tra i musicisti più famosi. Tra il 1703 e il 1740 (il periodo di attività di Vivaldi alla Pietà) l’organico maschile era costituito da professori di violino e viola inglese, di violoncello, di oboe, di faluto traversiere, di canto e di solfeggio. La mancanza della tromba potrebbe attribuirsi alla diversità di suono con gli altri strumenti e si consideravano gli ottoni poco adatti alle donne. Il maestro di coro occupava il vertice più alto della gerarchia interna della Pietà ed era nominato per elezione dalla Congregazione della Pietà, che garantiva della sua competenza e della sua moralità. Il suo incarico, per il quale doveva recarsi all’Ospedale tre giorni alla settimana, consisteva nell’insegnamento della musica e del canto. Tra gli incarichi più importanti del maestro di coro c’era la preparazione delle nuove musiche per le feste principali, in particolare quelle per Pasqua e l’Annunciazione. Il maestro di coro doveva dirigere le prove e le esecuzioni pubbliche accompagnando all’organo i servizi religiosi, doveva controllare l’andamento degli insegnamenti e scegliere le giovani che avrebbero usufruito di tali insegnamenti. Nella prima metà del XVIII secolo, questa carica fu ricoperta da quattro musicisti: Gasparini (1701-1713), Grua (1719-1726), Porta (1726-1737) e Gennaro (1739-1741). Talbot ritiene che fossero le ragazze a cantare nel registro basso. Egli ricorda che negli Archivi della Pietà le giovani venivano spesso nominate con il loro nome e registro vocali: Anastasia dal sopran, Cecilia dal contralto, Anna dal basso ecc. Sebbene le privilegiate e le figlie del coro rappresentasse un’elite all’interno dell’istituto erano costrette all’anonimato: dovevano rassegnarsi a rimanere nell’ombra, rinunciando alle soddisfazioni artistiche e personali. Una volta uscite dall’istituto, nel caso avessero trovato marito, non potevano esercitare quella professione per la quale erano state istruite: a fronte della promessa di matrimonio dovevano rinunciare alla pratica musicale pubblica. I teatri e le rappresentazioni operistiche Un aspetto centrale della vita musicale del 700 veneziano era costituito dalle rappresentazioni operistiche nei teatri di proprietà delle grandi famiglie patrizie. Da genere musicale nato nel primo 600 per soddisfare le esigenze politico-culturali delle corti e della nobiltà, la rappresentazione operistica a Venezia venne trasformata negli argomenti, nella struttura e nella destinazione per soddisfare i gusti e le esigenze di un pubblico variegato, composto da più classi sociali. I teatri veneziani erano costruiti sul principio della verticalità: la tipologia architettonica era arrivata ad un compromesso tra le esigenze degli attori e l’orchestra, il pubblico in platea e nei palchi. I musicisti erano collocati ai piedi del proscenio, gli attori erano sul palcoscenico in uno spazio fisico trasformato dai fondali e dalle scenografie. In platea gli spettatori potevano stare in piedi o seduti. I palchi erano collocati intorno al teatro, in file sovrapposte chiamate “ordini”. Il viaggiatore francesce Chassebras de Cramailles redasse una cronaca del Carnevale veneziano del 1683: a Venezia ci sono otto teatri pubblici che prendono il nome dalla chiesa più vicina al posto in cui sono costruiti. Appartengono tutti ai nobili che li hanno fatti edificare o ricevuti in eredità. I piccoli vengono affidati ai comici che giungono a Venezia, i grandi sono destinati alle opere che questi nobili fanno comporre a loro spese per loro divertimento o a scopi di lucro. I palchi del prim’ordine che si trovano all’altezza del palcoscenico non sono i più ambiti perché sono troppo vicini al pubblico della platea. Quelli del secondo ordine sono i più richiesti e vengono preferiti quelli con il palcoscenico di fronte: qui si trovano solitamente i palchi degli ambasciatori. Molti li affittano per l’intera stagione del carnevale e quindi molti li hanno fatti pitturare o tappezzare internamente. L’occupazione della prima fila dei palchi, che era generalmente evitata dalla nobiltà per la visuale limitata degli strumenti posti davanti al proscenio, riguarda una questione legata alle gerarchie sociali. Alla fine del 600 Venezia deteneva, insieme a Napoli, un primato nella produzione e nel consumo del teatro musicale. L’opera affascinava un pubblico variegato, che riempiva la platea e i palchi secondo un ordine gerarchico tipico della società seicentesca. Le testimonianze 7 dei viaggiatori sulla vita teatrale veneziana tra fine 600 e primo 700 sono molto varie. De Brosses rileva alcune abitudini teatrali della società settecentesca veneziana. A) musica italiana e musica francese. Secondo de Brosses molte delle incomprensioni che esplodevano tra i sostenitori delle varie tradizioni nascevano da una scarsa conoscenza della lingua. B) calendari e abitudini del pubblico a teatro. Il recitare improvvisando era una delle caratteristiche che diversificavano le abitudini e le prassi esecutive italiane da quelle francesi. C) prassi orchestrale, personaggi e uso dei castrati. Se in chiesa si rispettava il tactus e la battuta, questo non avveniva mai nell’opera. Nell’opera italiana mancano i cori, feste cantate e danze che caratterizzano il repertorio francese: pochi personaggi, mezza dozzina, sono sufficienti a fronte di un’orchestra più numerosa e varia. I cantanti sono l’aspetto centrale dello spettacolo. De Brosses si sofferma sulla voce dei castrati. D) struttura dell’opera e costruzione drammaturgica. Nei racconti di de Brosses le opere sono costituite da tre atti molto lunghi, con inseriti degli intermezzi danzati o suonati. Per quanto riguarda la costruzione drammaturgica, de Brosses riconosce l’eccellenza di Metastasio, considerato superiore rispetto ai maestri francesi, perché sapeva introdurre con naturalezza l’apparato delle feste, dei duelli, dei trionfi. E) versificazione e tipologia delle arie. De Brosses propone una divisione delle arie in tre diverse tipologie: le prime, quelle piene di frastuono, musica e armonia, per le voci squillanti, destano immagini di tempeste, vento impetuoso. Le arie di secondo tipo, fatte di melodie piacevoli e raffinate e per voci esili e flessibili, sono costituite da madrigali e canzonette legate a pensieri o eventi naturali delicati, come il canto degli uccelli. Le arie del terzo tipo – appassionate, tenere, commoventi – esprimono la passione e il sentimento e sono usate per i passaggi più intensi dell’opera. Molto spesso le arie sono per voce singola, nella forma col “da capo”. De Brosses la critica dal punto di vista della rottura della continuità narrativa, l’uso di dividere ogni aria in due parti, la prima delle quali riprende dopo che è terminata la seconda. Mecenatismo, committenza e condizione sociale del musicista Sia la musica prodotta all’interno delle istituzioni sia quella realizzata in occasione di feste e ricevimenti nei palazzi della nobiltà e dell’aristocrazia, si rivolgevano ad un pubblico ben definito e rispondevano a scopi ed esigenze precise. Una delle principali funzioni della musica ai tempi di Vivaldi era l’ostentazione dello splendore e del fasto cittadino, di una corte o di un singolo committente. Ogni occasione richiedeva la preparazione di una musica nuova, doveva esserci velocità compositiva. Anche il teatro musicale richiedeva sempre nuove opere e quindi le composizioni precedenti veniva abbandonate; questo spiega anche la mancanza della stampa della partitura, che il più delle volte rimaneva in forma manoscritta. Le motivazioni del mecenatismo toccano anche il gusto e gli interessi di nobili, aristocratici e personaggi della vita pubblica veneziana per i quali commissionare un’opera significava affermare il proprio rango anche in campo artistico, con “operazioni culturali” che servivano ad esibire agli occhi della cittadinanza l’emblema della propria reale o presunta personalità artistica. L’associazione di rango sociale elevato ed una particolare competenza musicale era un collegamento basato su una lunga tradizione: la sua ideologia potrebbe riferirsi al “libro del Cortegiano” di Castiglione, testo completato tra il 1513 e il 1518. Il gentiluomo che avrebbe dovuto dominare la scena cortigiana aveva connotati precisi: necessaria inclinazione alle opere virtuose, di nobile e generosa famiglia, nobile di cuore ecc. Le vicende della committenza musicale veneziana all’epoca di Vivaldi – le attività istituzionali a San Marco, nelle chiese e negli ospedali, nelle feste, ricevimenti e serenate – si collegano alla lettura che è stata data dal mecenatismo di Claudio Annibaldi. Il musicologo romano crede che il sostegno economico di un artista non è tributo al suo genio, ma il mecenatismo musicale si risolve nella produzione e gestione di simboli sonori di gruppo o di classe. Nel caso di attività organizzate da organismi cittadini o ecclesiastici, si può parlare di mecenatismo “istituzionale”: la cappella, la chiesa gestiscono un’attività rivolta alla cittadinanza e ne fanno l’emblema di 10 nati a Brescia il 1645 e 1655. A Venezia Giovanni Battista apprese il mestiere di barbiere dedicandosi anche allo studio del violino (tra il XVII e il XVIII secolo l’associazione del mestiere di barbiere e quella di musicista non era insolita, nelle botteghe infatti si trovavano spesso strumenti musicali destinati all’intrattenimento dei clienti). Acquisì in breve tempo notorietà. Nel 1685, appena Legrenzi fu nominato maestro di cappella a San Marco, e volle riorganizzare e ampliare gli organici, Giovanni Battista fu ingaggiato nell’orchestra della basilica. Giovanni Battista è chiamato “Gio. Battista Rossi” forse per il colore biondo-rosso dei suoi capelli; lo stesso soprannome che fu poi dato al figlio Antonio “il prete rosso”. La carriera di Giovanni Battista fu di ottimo livello. Nella “guida dè forestieri” pubblicata da Coronelli nel 1700 fu definito “violinista assai stimato”, mentre nell’edizione del 1713 fu citato insieme al figlio come uno dei violinisti più importanti della città. Svolse attività didattica all’Ospedale dei Mendicanti dal luglio del 1689 al 1693. L’11 giugno 1676 Giovanni Battista sposò Camilla Calicchio, figlia di un sarto. Dal matrimonio nacquero tra il 1678 e il 1697 nove bambini. A parte il primogenito Antonio, nessuno sembra essersi dedicato alla musica per scopi professionali. Solo tre nipoti lavorarono come copisti. Kolneder pensa che una delle caratteristiche della famiglia fosse il temperamento sanguigno e ciò è in ragione alla condotta di vita spericolata di alcuni suoi componenti (Francesco Vivaldi, parrucchiere, bandito dalla città per aver oltraggiato Antonio Soranzo; Giuseppe Vivaldi ferì Giacomo Crespan, fattorino di drogheria). Vivaldi nacque il 4 marzo 1678 in una casa del “campo grando” alla Bràgora in un giorno ricordato per un forte terremoto. Il bimbo fu battezzato d’emergenza dalla levatrice. Il pericolo di morte viene interpretato come un’asma bronchiale. Lo stato di salute potrebbe essere responsabile di alcuni aspetti stravaganti del suo carattere particolarmente mutevole. La prima formazione musicale L’ambiente familiare, con il padre musicista sicuramente influenzò le sue scelte e contribuì ad aumentare l’interesse per la musica che Antonio dimostrò fin dalla più giovane età. La sua prima formazione musicale e violinistica la ebbe dal padre che aveva l’incarico all’ospedale dei Mendicanti. Pare che dal 1689 al 1692 il piccolo Antonio suonasse con il padre nell’orchestra della basilica e che sostituisse il padre quando doveva recarsi fuori venezia. Nel 1696 Antonio era stato chiamato da Gian Domenico Partenio come violinista per alcuni concerti organizzati a San Marco in occasione del Natale. Questo fatto lascia pensare che Antonio possa essere stato istruito dallo stesso maestro del padre. Tra i possibili insegnanti di Vivaldi c’è anche don Marco Martini, violinista e sacerdote presso la parrocchia di San Giovanni in Oleo il quale celebrò il battesimo della quintogenita di Giovanni Battista. Un altro possibile insegnante potrebbe essere stato Ludovico Fuga, tenore e insegnante alla basilica di San Marco dal 1682 già maestro del padre. Tra i maestri è stato inserito anche Legrenzi per la sua fame di insegnante di teoria e composizione. Legrenzi morì nel 1690, quando Vivaldi aveva 12 anni (Kolneder non pensa sia possibile). Un’altra ipotesi è quella di un periodo di studio con Arcangelo Corelli che si sarebbe svolto a Roma tra il 1700 e il 1703. Il periodo di apprendistato con il compositore bolognese sarebbe stato condotto negli anni tra l’ordinazione come diacono e quella come sacerdote. Il collegamento tra i due compositori si ritraccerebbe in alcune strategie compositive tipiche di Corelli utilizzate da Vivaldi nelle sonate dell’op. I del 1705, e in particolare nell’idea di terminare la raccolta con le Variazioni sopra la Follia. Lo stesso studioso ammette che l’influsso corelliano presente in Vivaldi potrebbe essere spiegato con la notorietà e la diffusione delle partiture di Corelli negli ambienti musicali veneziani. Altra ipotesi quella di Don Bonaventura Spada, maestro di violino alla pietà dal 1673 all’agosto 1703. Oltre che dai rapporti di amicizia tra Giovanni Battista e don Bonaventura, l’ipotesi si basa sul fatto che la conclusione dell’insegnamento alla Pietà di Spada coincise con l’inizio dell’incarico di Antonio, il primo settembre 1703. Nel settembre del 1700, all’età di 22 anni e mezzo, Vivaldi aveva ricevuto il penultimo degli ordini minori (il diaconato) ma doveva aspettare il venticinquesimo anno d’età per 11 diventare sacerdote. Inoltre, avendo concluso la formazione strumentale di base, poteva ottenere il massimo beneficio perfezionandosi con un insegnante diverso dal padre. Esiste un documento che prova la presenza dei due Vivaldi a Torino, dove risiedeva Somis, nel dicembre del 1701. Rimane attendibile l’ipotesi dell’insegnamento paterno, insegnamento che non si limitò ai primi rudimenti ma potrebbe riguardare anche gli aspetti compositivi. All’epoca di Vivaldi la separazione tra composizione ed esecuzione non era così marcata come accade oggi. La carriera ecclesiastica Sulla vocazione di Vivaldi sono state fatte molte ipotesi e spesso sono state evidenziate delle negligenze nell’adempimento dei suoi doveri di sacerdote. Kolneder collega la carriera ecclesiastica di Vivaldi ad un presunto voto fatto dalla madre terrorizzata dal terremoto che colpì Venezia il giorno in cui nacque. Nell’Italia dell’epoca era abituale associare l’attività musicale alla carriera ecclesiastica. Nel caso di Antonio Vivaldi tale scelta potrebbe essere spiegata anche da una logica di natura economica, valida soprattutto nei casi di famiglie numerose: non esistendo a Venezia il diritto di primogenitura, in base al quale il patrimonio di famiglia doveva passare integro ed indiviso solo al primo figlio maschio, la scelta della carriera ecclesiastica evitava l’eccessiva dispersione dei beni e garantiva uno stabile e prestigioso impiego, l’unico in grado di assicurare un miglioramento sociale e culturale. Vivaldi fu educato al sacerdozio dal parroco in una delle scuole sestierali che garantivano la preparazione dei futuri sacerdoti per tutti gli aspiranti che non potevano essere ammessi nei seminari per mancanza di posti o per l’impossibilità di sostenere le spese necessarie alla frequentazione dei seminari. Tra gli insegnamenti impartiti presso queste scuole vi era lo studio del canto gregoriano, svolto da un maestro di canto, generalmente uno dei preti in servizio per la chiesa. Tale insegnamento permetteva di accedere e cantare nel coro della cappella ducale o delle altre chiese veneziane. I futuri sacerdoti oltre a seguire le lezioni nelle scuole sestierali avevano l’obbligo del servizio nelle parrocchie. I parroci di Venezia sceglievano i futuri sacerdoti tra i chierichetti che avevano mostrato impegno nel servizio dell’altare, costanza nel portare la veste talare e che non avessero difetti fisici che potessero indurre allo scherno, come gobba, epilessia ecc. I parroci stavano attenti a non scegliere i loro chierici tra la plebe e tra gente necessaria al pubblico servizio come i gondolieri. I prescelti venivano presentati alle autorità ecclesiastiche per essere ammessi alla tonsura e accedere ai quattro ordini minori e ai tre ordini maggiori. L’età minima per accedere all’ostiariato era 12 anni e gli aspiranti dovevano presentare una dichiarazione del proprio insegnante sulla loro buona indole, applicazione allo studio e buon profitto. Per l’ammissione a ciascun ordine era necessario superare un esame. Vivaldi ricevette la tonsura dal patriarca di Venezia il 18 settembre 1693, a 15 anni e mezzo, e ottenne regolarmente i quattro ordini minori a distanza di un anno l’uno dall’altro. Ottenne poi l’ammissione agli ordini maggiori ad titulum servitutis ecclesiae con l’obbligo quindi di far fronte ai doveri che il titolo richiedeva. Le ammissioni agli ordini maggiori appaiono meno regolari perché per accedere al sacerdozio Vivaldi doveva aspettare il venticinquesimo anno di età. Dopo la tonsura e nell’anno dell’ostiariato, Vivaldi fu associato alla parrocchia di San Germiniano. Vivaldi smise presto di celebrare messa. Nella lettera del 16 novembre 1737, al marchese Guido Bentivoglio d’Aragona, egli specifica che la causa di ciò andrebbe ricercata in un male “che patisco a nativitate”. Nel 1703, appena avuta l’investitura sacerdotale, Vivaldi si trovò a fare delle scelte importanti per la sua carriera e per la vita. Già da alcuni anni lavorava come violinista insieme al padre in città e forse anche in provincia, e nel contempo stava preparando il suo debutto come compositore con la pubblicazione, presso un noto editore veneziano, della sua prima raccolta di sonate. Sempre nel 1703, oltre al prestigioso incarico come insegnante dell’Ospedale della Pietà, Vivaldi ottenne due “mansionerie” che comportavano l’obbligo di dire messa quotidiana per l’anima di due benefattori dell’Ospedale. Ogni tre mesi doveva percepire 20 ducati per il servizio ecclesiastico svolto. Fino al 1705, sappiamo che Vivaldi 12 celebrò messa, sebbene in numero inferiore a quanto dovuto. Il troppo lavoro non era in grado di gestirlo. Quando scrisse la lettera di cui sopra, è chiaro che egli non si riferisse a malanni fisici, ne ad una perdita di fede, ma semplicemente era più interessato alla carriera musicale che a quella ecclesiastica. La formazione ecclesiastica però fornì dei vantaggi alla sua attività di compositore. Ebbe infatti un’educazione e formazione che non avrebbe avuto diversamente. Le lettere e le dediche inserite nelle sue pubblicazioni a stampa sono ben scritte e libere dai venezianismi. Dal punto di vista compositivo lo studio del canto gregoriano lo avvicinarono ad un repertorio legato alla musica sacra. Violinista e insegnante all’ospedale della pietà Nel 1703 Vivaldi venne assunto come maestro di violino presso l’Ospedale della Pietà. Fino a quella data Vivaldi non aveva né pubblicato musica strumentale, né realizzato composizioni per la chiesa o teatro. La fama di Vivaldi doveva provenire dalla sua attività di virtuoso strumentista. La fama del virtuoso precedeva quella del compositore e contribuiva ad accrescere il suo successo, nonché l’ammirazione dei nobili e della società musicale del tempo. Si apprezzava la prassi della “diminuzione” consistente nella creazione estemporanea di ornamenti e passaggi virtuosistici (improvvisazione). Kolneder la definisce “arte della fioritura improvvisata” ovvero una raffinatissima tecnica della variazione che consentiva ai virtuosi di rinnovare figure e profili musicali. Nel passato (fino a metà 700) la partitura era un oggetto d’uso volutamente incompleto, che richiedeva la compartecipazione creativa dell’esecutore che doveva ornare la linea melodica con abbellimenti a sua scelta. Gli interpreti preferivano custodire l’arte segreta delle loro performances perciò non c’era nulla di scritto e ciò rende più difficile la formazione e le caratteristiche di un virtuoso del 700. Alcune testimonianze sul virtuosismo strumentale di Vivaldi Lo storico e viaggiatore inglese Charles Burney, nella sua General History of Music redatta nel 1769, descrisse l’attività musicale di Vivaldi nel capitolo dedicato allo sviluppo del violino in Italia. Nel capitolo vengono descritti in ordine cronologico alcuni dei più importanti violinisti italiani: da Baltarini di Belgioioso a Boccherini fino a Corelli. A Vivaldi è dedicato uno spazio più ampio: “il più famoso compositore per violino era Vivaldi, maestro di cappella al Conservatorio della Pietà in Venezia, che oltre a sedici opere rappresentate nei teatri veneziani e in altre parti d’Italia, tra il 1714 e il 1737 pubblicò 11 lavori per strumenti. La sua qualifica di don deriva dalla sua veste clericale”. Sir John Hawkins in una storia della teoria della pratica musicale scriveva che Vivaldi non fosse eccezionale nelle sue sonate e che la caratteristica peculiare della sua musica era la sua natura sfrenata e irregolare. Alcune delle sue composizioni sono intitolate “stravaganze”, poiché violano le regole della melodia e dell’armonia. Tutte queste opinioni, redatte dopo la morte di Vivaldi, mettono l’accento sul compositore ma anche sulle qualità strumentali del musicista veneziano. Diversamente la testimonianza di von Uffenbach redatta in seguito ad un incontro con il compositore veneziano. Riferiva di un Vivaldi velocissimo: un vero piacere anche per gli occhi. Uffenbach ancora nota che Vivaldi ci tenesse a sorprendere l'ascoltatore con musiche più improntate al ritmo che alla cantabilità, musica che assumeva la forma sensuale e carnale del suono. Queste testimonianze di Uffenbach risalgono al "concerto per violino, archi e basso continuo in re maggiore", cui assistette al teatro sant'angelo nel 1715. Probabilmente, annota Fertonani, il concerto fu scritto interamente da Vivaldi a misura della sua personalità di esecutore: soprattutto perchè le parti soliste di violino erano chiaramente protagoniste. Nel 1713 Vivaldi suonò per una festa tenuta nella chiesa della santa corona a Vicenza. Durante gli intervalli dell'azione sacra, Vivaldi si esibì come virtuoso del violino in una gara con un organo appositamente costruito per la festa. L'ultima testimonianza di cui sappiamo i particolari è del 1717: si tratta di due quartine inserite in una satira sui problemi economici dei musicisti scritturati al San'angelo. 15 loro pubblico, ristamparono anche le prime due raccolte di Vivaldi. Una parte importante della diffusione e del successo della raccolta vivaldiana si deve all’editore olandese Roger, che strinse un rapporto privilegiato con i compositori italiani, che gli affidarono le loro opere. Tale cooperazione iniziò con le dodici sonate per violino dell’op. V di Corelli e proseguì con l’op. III di Vivaldi. Lo stampatore olandese possedeva una grande capacità nello scoprire “talenti” e una superiorità nelle tecniche tipografiche, perché non utilizzava il vecchio procedimento di stampa a caratteri mobili, usato a Venezia, ma il moderno metodo di incisione su lastre di rame. Ciò conferiva alle stampe un’eccezionale qualità, evidente nella musica strumentale dove le note appartenenti a suddivisioni metriche potevano essere unite da barre orizzontali, facilitandone la lettura esecutiva. Tale superiorità tecnica fu messa in evidenza da Vivaldi nella prefazione dell’ Estro Armonico, indirizzata ai musicisti. La scelta di Vivaldi di abbandonare i suoi editori veneziani Sala e Bortoli per rivolgersi a Roger si dimostrò vincente perché, grazie all’efficiente organizzazione commerciale del nuovo editore, poté contare su una distribuzione in grado di raggiungere i mercati internazionali del centro Europa. L’ammirazione di Johann Sebastian Bach L’interesse nei confronti delle composizioni di Vivaldi non era un fenomeno solo italiano. Le sue innovazioni furono assorbite lentamente dai compositori della sua generazione, mentre un elevato interesse si riscontrava dai viaggiatori provenienti dall’estero. Inglesi e tedeschi venivano affascinati dal suo nuovo stile concertistico e furono loro ad assicurare alla musica di Vivaldi la prima diffusione europea. Un’intera generazione di compositori e strumentisti, soprattutto tedeschi, lasciò testimonianze dell’interesse per Vivaldi e per i concerti dell’Estro Armonico. Peter Ahnsehn parla di una “febbre vivaldiana” che contagiò intorno al 1712 musicisti, teorici, nobili dilettanti ecc. Tra essi anche il flautista e compositore Quantz. Documentata nella produzione musicale è l’ammirazione di Bach per la musica di Vivaldi. Bach aveva una grande stima per i suoi concerti per violino e ne aveva realizzato delle trascrizioni per organo e cembalo. Alla morte di Bach le sue trascrizioni dei concerti vivaldiani passarono nelle mani dei suoi figli e da lì arrivano nelle biblioteche berlinesi. Si pensa che le trascrizioni di Bach furono realizzate per motivi di studio. Il manoscritto "dodici concerti di Vivaldi elaborati di Johan Sebastian Bach" furono elaborati a Lipsia, e provenivano da scritti originali di Vivaldi, per lo più. 17 concerti per clavicembalo, 4 per organo, e uno per quattro cembali e orchestra, erano le sonate di Bach attribuibili all'opera di Vivaldi. Shering ha dato un contributo fondamentale allo studio e all'attribuzione di opere bachiane di Vivaldi, riducendole: 5 concerti tratti dall'estro armonico, 2 tratti da la stravaganza, e due dall'op.7. Si deve poi aggiungere il concerto per violini in Si minore. Sono 10 i concerti vivaldiani trascritti da Bach. Gli scopi di questi lavori furono forse gli studi, ma molti studiosi tedeschi non credono che Bach, 25enne, ebbe da imparare da Vivaldi. Von Wasieleski, critico di Vivaldi, sostiene che le trasposizioni bachiane siano in realtà, non un omaggio, ma una miglioria, nei confronti di composizioni di un musicista privo di un vero amore per l'arte. Gli studi più recenti hanno considerato queste modifiche degli adattamenti della musica vivaldiana per i tedeschi. Gli allievi tedeschi di Vivaldi: Stolzel, Treu e Pisendel La fama di Vivaldi violinista, compositore e maestro eccellente si sparse velocemente in Europa anche ad opera dei molti visitatori, nobili o commercianti, professionisti o dilettanti, che affascinati dalla città di Venezia e dalla sua musica ne diffondevano l’interesse attraverso le loro lettere o con i racconti, una volta rientrati in patria. Nel 1714 il nome di Vivaldi fu preso in considerazione come possibile maestro di cappella per la corte di Monaco di Baviera. Vivaldi non era molto interessato a lasciare la sua città. In quegli anni diversi musicisti tedeschi in visita a Venezia avevano incontrato Vivaldi con l’intenzione di studiare con lui. Spesso si trattava di musicisti di alto livello che, una volta terminati i propri studi, intendevano perfezionarsi 16 sullo strumento o nella composizione apprendendo la prassi esecutiva del concerto solistico e le tecniche compositive direttamente dalle mani del compositore più importante del tempo. Tra questi studenti figurava Stolzel, uno dei più famosi teorici e compositori tedeschi della prima metà del secolo. Dal 1712 al 1714, dopo essere stato maestro di cappella a Breslavia, Stolzel soggiornò a Venezia e visitò gli Ospedali conoscendo Gasparini, Pollarolo e Vivaldi. Riguardo a Treu, la sua permanenza a Venezia e lo studio con il Prete Rosso sono documentati più precisamente. Cantante, violinista e compositore, nel 1716 Treu fu mandato a studiare in Italia con Vivaldi e Biffi dal suo signore, il duca Eberhard Ludwig di Wurtemberg, come ricompensa per la composizione ed esecuzione di una cantata scritta in occasione del suo compleanno. Treu (in Italia Daniele Teofilo Fedele), ottenne un buon successo in campo strumentale ed era invitato molto spesso nelle case di molti nobili di Venezia. Tornato in patria divenne Kapellmeister dell’opera italiana a Breislavia e svolse la sua attività presso molte famiglie nobili a Vienna e Boemia. Il più fruttuoso contatto di Vivaldi con i musicisti tedeschi è stato con Pisendel. I contatti tra il musicista tedesco e il compositore veneziano non si limitarono all’aspetto didattico ma toccarono anche ambiti professionali, al punto che Vivaldi gli dedicò delle composizioni. Il legame tra i due fu determinante per l’espansione della musica di Vivaldi in terra tedesca. Tra le opere commissionate e manoscritti originali avuti in regalo, Pisendel deve essere tornato alla corte di Dresda con almeno 87 concerti, 10 sinfonie, 17 sonate, 3 mottetti e 10 cantate. Durante i suoi soggiorni veneziani Pisendel raccolse una grande quantità di manoscritti musicali contenenti anche la musica di altri importanti compositori di Venezia: oltre alle partiture vivaldiane, Pisendel ottenne 3 sonate di Albinoni e Benedetto Marcello. Quando ritornò alla corte di Dresda aveva una grande quantità di nuova musica da presentare e ciò contribuì allo sviluppo del culto tedesco per la musica italiana e di Vivaldi. L’interesse per Vivaldi toccò anche il repertorio sacro. Pisendel non si limitava a copiare le partiture di Vivaldi ma ne faceva una revisione perché voleva adattare la scrittura agli organici e alle prassi esecutive dell’orchestra di Dresda, nella quale, a differenza di quella veneziana, figurava una presenza notevole di strumenti a fiato. Le altre pubblicazioni a stampa presso Roger, dall’Op. IV all’Op. VII (1714-1720) Il successo dell’Estro Armonico aprì la strada alla pubblicazione di altre raccolte di musica strumentale. Nel 1714 apparve, sempre presso Roger, l’op. IV, intitolata La Stravaganza. Sebbene non sia una raccolta di concerti a 4, l’opera viene considerata una continuazione dell’op. III in basa ad una frase inserita da Vivaldi nella prefazione di quest’ultima, nella quale prometteva l’imminente uscita di “un’altra Muta di Concerti a 4”. In realtà le due pubblicazioni sono differenziate in quanto l’op. IV, rispetto alla varietà di strumentazione dell’ Estro Armonico, preferisce il concerto per violino solista, il genere vivaldiano per eccellenza, arricchito da interventi solistici di altri strumenti. La raccolta, comprendente 12 concerti per violino solista, fu dedicata dal compositore ad un suo allievo, il nobile patrizio veneto Vettor Dolfin. In mancanza di una dichiarazione dell’editore sul frontespizio dell’opera, si deduce che i costi della pubblicazione furono sostenuti dallo stesso compositore e la dedica potrebbe essere come un ringraziamento al nobile per un sostegno economico ricevuto. Dal punto di vista della diffusione dell’opera ci sono delle particolarità rispetto alla precedente. Sia l’esistenza di manoscritti, sia la presenza di copie redatte da Pisendel durante il soggiorno veneziano, suggeriscono che Vivaldi possa aver utilizzato i concerti dell’ Op. IV per proprio conto anche dopo aver inviato la copia per la stampa a Roger, approfittando dei ritardi della nuova pubblicazione. La richiesta di musica strumentale determinata dal successo dell’op. III e dall’op. IV potrebbe essere una delle motivazioni che indussero Roger alla pubblicazione delle tre successive raccolte tra il 1716 e il 1720: le sei sonate per violino dell’op. V e le due raccolte di concerti per cinque strumenti op. VI e op. VII. L’op. V dovrebbe essere intesa come una parte seconda dell’op. II, infatti le sei sonate in essa contenute sono numerate dalla 13esima alla 18esima. Ma in contro l’op. V, rispetto 17 all’op. II, contiene solo sei sonate, rispetto alle 12 dell’op. II, ed esse appartengono a generi diversi in quanto le ultime due non sono sonate solistiche bensì sonate a 3; poi sia dal punto di vista formale sia da quello stilistico l’op. V sembra essere stata progettata per un pubblico di dilettanti e amatori. Diversamente dal frontespizio dell’op. V, in quello dei concerti dell’op. VI e VII ricompare sia il titolo di maestro di violino, sia quello di maestro dei concerti presso l’Ospedale della Pietà. Per la pubblicazione di queste due raccolte e la disomogeneità stilistica rispetto alle opere precedenti e a quelle successive e la presenza di alcuni errori di stampa fanno pensare ad un’operazione condotta al di fuori del controllo di Vivaldi. I dodici concerti dell’op. VII sono divisi in 2 libri; in apertura di ciascun libro c’è un concerto per oboe, archi e basso continuo, mentre gli altri cinque sono per violino, archi e basso continuo. Secondo Fertonani i concerti dell’Op. VII potrebbero essere stati assemblati da Roger utilizzando singoli manoscritti ricevuti da Vivaldi, mentre la presenza in questa pubblicazione di lavori di dubbia paternità rafforzerebbe l’ipotesi che i manoscritti possano essere stati forniti da terzi. Secondo Rash quasi la metà dei concerti dell’op.VII mostra dei problemi di autenticità. L’opinione è che Roger, volendo pubblicare una raccolta di 12 concerti e non 6 come nell’op. VI, possa aver aggiunto ai lavori di provenienza vivaldiana, altri circolanti sul mercato internazionale senza preoccuparsi della loro autenticità. Il rapporto tra Vivaldi e i Roger fu poco profondo e continuo. Il contatto diretto potrebbe essersi limitato agli anni 1710-1715 e solo due raccolte, L’Estro Armonico e La Stravaganza, dovrebbero essere state pubblicate da Roger sotto la guida del supervisore. Le altre pubblicazioni, op. V e Vi potrebbero essere state realizzate senza l’autorizzazione del compositore. Lo stile Il fuoco e la furia dello stile italiano Dalle lettere di Charles de Brosses sappiamo che Vivaldi si vantava di poter comporre un concerto più rapidamente di quanto impiegherebbe un copista a trascriverlo. Le numerose composizioni da lui scritte sembrano esprimere, come dicono i titoli, doti di estro e di invenzione. Aveva il dono di un’eccezionale vitalità musicale. In ognuno dei suoi movimenti veloci sentiamo l’impronta di un’industriosità che avrebbe prodotto più di 500 composizioni strumentali. Rudolf Eller, in un articolo dedicato ai rapporti tra lo stile compositivo bachiano e quello vivaldiano, individua le caratteristiche innovative di Vivaldi: “la grande conquista creativa di Vivaldi nel primo decennio del XVIII secolo consiste nell’aver elaborato una grande struttura compositiva strumentale e una forma ciclica. Questa nuova forma nacque nell’ambito del concerto; si fondava sulla possibilità di un nuovo modo d’ascolto, nel quale l’evolversi della forma musicale e lo sviluppo armonico potessero essere percepiti in modo consapevole, ma in particolare si basava sul temperamento appassionato di Vivaldi. Nelle composizioni strumentali di Vivaldi, Eleanor Selfridge-Field individua dei tratti che possono essere considerati costanti e indicativi del suo stile, come il riferimento alla musica di Albinoni (il musicista più importante che Vivaldi conobbe a Venezia, offriva un modello di semplicità e linearità a cui mira il repertorio strumentale di Vivaldi, anche se lui non è così soprattutto nella forma e nell’armonia), e sulla commissione tra vecchio e nuovo: da un lato ci sono le divisioni, gli echi, le frasi tripartite e i valori annessi al virtuosismo e ai contrasti timbrici, dall’altro c’è la chiarezza del fraseggio, il senso dello sviluppo armonico e tratti particolari come l’inizio a 3 note. Lo studio dello stile musicale di Vivaldi è stato arricchito e approfondito da alcuni lavori interessanti di Kolneder, Arnold e Wolff. La costruzione della forma nei concerti vivaldiani (da 529 a 547) Argomento 13 20 momento tra i quali il castrato Nicola Grimaldi e il contralto Diana Vico. Il ruolo svolto dai due cantanti nella diffusione della musica vocale di Vivaldi sembra essere stato efficace. Vennero così ascoltate e apprezzate alcune arie dell’Ottone: Io sembro appunto oppure Sole degl’occhi miei cantata da Diana Vico. Il tardivo impregno di Vivaldi nel teatro, all’età di 35 anni ha suscitato molti interrogativi. Se Vivaldi avesse scritto qualcosa per il teatro prima del 1713 possiamo essere certi che non fu rappresentato a Venezia ma nelle città limitrofe perché le opere date a Venezia a partire dal 1637 furono catalogate. Fino ai primi anni del nuovo secolo gli interessi principali di Vivaldi erano stati la formazione religiosa, il violino e l’apprendistato compositivo. Nel 1703 quando abbandonò la carriera ecclesiastica per dedicarsi a quella di musicista, la quantità degli impegni a cui doveva far fronte (i concerti, l’insegnamento alla Pietà e le pubblicazioni a stampa), difficilmente gli avrebbero consentito di dedicarsi ad altro. All’epoca, per ottenere il massimo delle soddisfazioni dalla carriera compositiva, per accrescere la fama ottenuta in campo strumentale e per garantirsi una sicurezza economica occorreva impegnarsi anche nel teatro. Solo il teatro poteva consacrare la carriera di un compositore. L’esordio di Vivaldi in età matura potrebbe essere motivato da ragioni personali. La scelta di Vicenza potrebbe essere motivata dalla volontà di evitare un iniziale confronto diretto con i più esperti compositori veneziani (Pollarolo, Albinoni, Gasparini, Lotti), sperimentando prima le proprie capacità su un terreno più neutrale. Le rappresentazioni nelle piccole città nel nord italia servivano come banco di prova prima di tentare la fortuna a Venezia. Vivaldi operista e impresario a Venezia Gli impresari veneziani, dopo il successo ottenuto da Vivaldi in provincia, cercarono di assicurarsi le sue opere. Fu Modotto, che allora gestiva il Teatro Sant’Angelo, ad assicurarsi il debutto veneziano di Vivaldi. Le informazioni concernenti l’inizio dell’attività impresariale, alla quale Vivaldi si dedicherà dal 1713 in poi, provengono da 3 fonti diverse. La prima si trova nel diario del patrizio di Francoforte Friedrich von Uffenbach. In un’annotazione riguardante una rappresentazione del 4 febbraio 1715 al Teatro Sant’Angelo, si specifica che l’impresario era Vivaldi. La seconda testimonianza è costituita dalle dediche che Vivaldi redasse in veste di impresario a favore del conte di Kolovrat, Karl Novohradsky, sul libretto del Lucio Papirio di Antonio Salvi. La terza fonte è un documento del 18 marzo 1715, nel quale i due Vivaldi, padre e figlio, chiedono in qualità di impresari del Sant’Angelo il pagamento dell’affitto del palco n.27 alla famiglia Contarini. Nella richiesta, pari a 20 ducati, si specifica che i due avevano un regolare contratto privato con i proprietari del teatro e che i Contarini erano debitori della rata relativa al Carnevale precedente. Dopo la conclusione del mandato come impresario, Vivaldi collaborò frequentemente con il Sant’Angelo al punto che in questo teatro ebbero la loro prima rappresentazione almeno una ventina di sue opere, dall’Orlando finto pazzo al Feraspe del 1739. Il Sant’Angelo era, secondo l’architetto svedese Tessin, che visitò Venezia nel 1688, più piccolo degli altri teatri veneziani. Viste le dimensioni e considerato che non si potevano allestire spettacoli con scenografie imponenti, il teatro non consentiva ai suoi impresari delle produzioni molto ricche per cui era difficile scritturare i cantanti più prestigiosi e i poeti alla moda. Probabilmente per questi motivi il Santurini nei sette anni in cui ne fu impresario, dal 1677 al 1683, impostò un’attenta politica economica arrivando a ridurre il biglietto d’ingresso. Ma ciò non bastò a salvare il teatro da una grave crisi finanziaria aggravata dalla difficoltà di riscuotere i pagamenti degli affitti dei palchi dai nobili veneziani, che erano più propensi a spendere i loro denari per i lussuosi arredamenti del palco che a pagare il dovuto all’impresario. Il debutto come operista di Vivaldi al Sant’Angelo, nella duplice veste di impresario e compositore, fu affidato a due rappresentazioni entrambe su testi del poeta ferrarese Braccioli ed entrambe centrate sulle vicende di Orlando. Il 7 novembre 1713 andò in scena l’Orlando furioso. Sul libretto è indicato come autore della musica Ristori ma Vivaldi intervenne sulla partitura. Quest’opera ebbe un’accoglienza trionfale con 40 rappresentazioni nel 1713 e con diverse riprese nei teatri europei. Nel 1714 21 Vivaldi presentava la sua nuova opera, composta solo da lui: l’Orlando finto pazzo, basato sull’Orlando innamorato di Boiardo. Vivaldi si rivolse ad un librettista esperto nell’impostare un testo dotato di efficacia scenica. Braccioli preparò un libretto con una trama molto complessa, intessuta di intrighi e malintesi amorosi e con personaggi che si presentano anche sotto travestimento, secondo un’abitudine apprezzata dal pubblico dell’epoca per gli intrecci e le allusioni sessuali che si determinavano. L’Orlando finto pazzo ebbe tre versioni, e a giudicare dalla ripresa dell’opera nell’autunno del 1716 a Venezia, dovette piacere ai suoi concittadini, e questo successo dovrebbe aver contribuito all’affermazione di Vivaldi come compositore per il teatro. Sempre nella stagione del 1714 Vivaldi preparò un nuovo adattamento dell’Orlando Furioso su testo di Braccioli utilizzando anche questa volta parte della musica di Ristori. La nuova opera, alla quale Vivaldi contribuì in modo sostanziale, andò in scena il 1 dicembre del 1714 e fu diretta da Vivaldi. All’interno della stagione, Vivaldi presentò anche il suo primo pasticcio, il Nerone fatto Cesare. Alle rappresentazioni veneziane del Nerone fatto Cesare era presente Uffenbach a cui l’opera non piacque soprattutto per l’incoerente miscuglio di costumi che furono impiegati, in stile francese, spagnolo, persiano. Il 1716, lasciato l’incarico di impresario al Sant’Angelo, Vivaldi si dedicò interamente alla composizione di diversa musica strumentale, sacra e profana, di un oratorio e di 3 opere. L’Arsilda regina di Ponto, su libretto di Domenico Lalli, fu rappresentata al Teatro Sant’Angelo il 28 ottobre 1716, dopo aver ricevuto il facio fede da parte della censura veneta. L’opera avrebbe dovuto essere rappresentata nel periodo dell’Ascensione del 1715, ma ci furono dei problemi con la censura che inizialmente rifiutò il libretto di Lalli. La terza opera composta da Vivaldi per la stagione 1716-1717 è L’incoronazione di Dario su libretto di Adriano Morselli. La produzione di musica sacra alla Pietà, i mottetti e l’oratorio Juditha Trimphans (1716) Negli stessi anni in cui Vivaldi manifestava degli interessi per la musica vocale profana e per il teatro produceva musica sacra che trasformava la sua immagine, troppo legata al campo strumentale e profano. Ci sono varie ipotesi: si pensa che una parte della produzione vivaldiana per funzioni religiose sia stata redatta nei suoi primi anni di attività, quelli all’interno dell’Ospedale della pietà, come sostituto di Gasparini. Oppure che fu chiesto a Vivaldi di occuparsi della musica sacra in ragione delle sue conoscenze dell’ambiente ecclesiastico, sperimentate anche nella sua prima attività come violinista insieme al padre. La partecipazione alle feste della Purificazione della Vergine Maria è una delle poche attività documentate dei due Vivaldi in ambito sacro. Questo successo ottenuto a Brescia nel 1711 determinò l’invito per l’anno seguente, con la commissione di una composizione sacra. Vivaldi preparò uno Stabat Mater, eseguito il 18 marzo 1712. Le esperienze bresciane del 1711 e del 1712 sono importanti per gli sviluppi della carriera compositiva di Vivaldi. Vivaldi stava mettendo a punto le proprie competenze anche nei generi della musica sacra, in previsione di un’occasione che avrebbe potuto realizzarsi nella sua città e che infatti si realizzò l’anno seguente con l’assenza di Gasparini da Venezia. Questo fu un’occasione per il suo debutto nel genere sacro. Qui possiamo incontrare ancora una volta la presenza di una guida più esperta perfettamente a conoscenza dei meccanismi del mondo musicale veneziano. Potrebbe essere il padre di Antonio, manager a conoscenza delle qualità del figlio e in grado di organizzare i passi da fare per costruirgli la carriera. Nella delibera del 1715 sono indicate alcune delle composizioni realizzate da Vivaldi; ad oggi sono conosciuti solo 12 mottetti di Vivaldi e appartengono tutti ad una stessa tipologia: sono scritti per una voce sola (soprano o contralto), archi e basso continuo, hanno un testo in latino non tratto dalle sacre scritture e presentano una forma centrata sull’uso dell’aria col da capo. Tra 600 e 700 il mottetto a voce sola, diverso da quello polifonico legato alla tradizione contrappuntistica italiana, trovava la sua fortuna negli Ospedali veneziani perché, mutuando dal teatro profano gli aspetti della vocalità virtuosistica e l’espressività del recitativo, poteva diventare sia motivo di esibizione per le cantanti sia occasione di richiamo per il pubblico; costituiva 22 perciò, secondo i viaggiatori stranieri, quasi un appuntamento mondano simile a quello a teatro. Da un punto di vista formale il mottetto a voce sola di Vivaldi adotta le soluzioni tipiche della sua epoca e presenta analogie con il concerto. L’aria col da capo che costituisce il primo movimento è un Allegro. Dopo un breve recitativo, il secondo movimento è costituito da un’aria contrastante con la prima tonalmente e metricamente, con un andamento lento. Il terzo movimento, su testo dell’Alleluja, è sempre un tempo veloce , più adatto per rappresentare il carattere brillante e festoso. . Talbot sostiene che il culmine dell’attività di Vivaldi come compositore di musica sacra si ha col Juditha triumphans, del 1716. Per Talbot é il migliore tra gli oratori in latino sia per la qualità dei recitativi sia per la varietà dell’orchestrazione. Il lavoro, chiamato oratorio militare sacro, era stato scritto per le ragazze della Pietà, e sebbene traesse spunto da testi sacri non era stato pensato per la rappresentazione liturgica. Il librettista era Giacomo Cassetti, e la trama era tratta dalla Bibbia. La storia è quella della vedova di Bethulia che riesce a salvare la sua città dal nemico, chiaro riferimento alla guerra ripresa tra turchi e Serenissima. Juditha uccide nel sonno un generale nemico, dopo averlo sedotto. La scelta del personaggio femminile si può fare risalire al fatto che anche Venezia fosse impersonata nella femmina. Viaggi in Italia e ritorno a Venezia Fino a 40 anni Vivaldi svolse la gran parte del lavoro a Venezia e in provincia. La fama di compositore che egli acquisì in questa prima parte della sua vita lo portò, nei 20anni successivi, a viaggi più impegnativi in molte città italiane e in diversi paesi europei; Vivaldi, dal 1920 in poi, non più legato all’impegno didattico alla Pietà, svolse l’attività di compositore, impresario e violinista. Il periodo mantovano (1718-1720) Il primo impegno duraturo e prestigioso fuori Venezia Vivaldi lo ebbe a Mantova, alla corte ducale del principe Filippo, presso il quale il compositore rimase più o meno senza interruzioni dal gennaio 1718 al 1720. La prima testimonianza del rapporto di lavoro con la corte mantovana risale al 12 gennaio 1718 e consiste in un’indicazione contenuta nel facio fede del libretto dell’Armida al campo d’Egitto. Tale documento fu rilasciato in occasione della rappresentazione dell’opera al San Moisè di Venezia e della ripresa al Teatro Arciducale di Mantova il 24 aprile dello stesso anno. Da alcuni frontespizi di opere rappresentate a Mantova, rileviamo che la posizione di Vivaldi era quella di “maestro di cappella da camera”. Doveva occuparsi di tutto quanto facente parte della musica profana, dell’opera teatrale e della preparazione di composizioni celebrative per le feste della corte e dei nobili mantovani. Vanno ricordate le cantate O mie porpore più belle per contralto, archi e continuo e Qual in pioggia dorata i dolci rai per contralto, due corni da caccia, archi e continuo composta in onore del principe Filippo. L’occupazione principale di Vivaldi a Mantova era la musica per il teatro. Le opere mantovane di Vivaldi sono 7 e mostrano che egli mantenne i rapporti con la corte anche dopo il suo ritorno a Venezia: Armida al campo d’Egitto (primavera 1718), Teuzzone e Tito Manlio (Carnevale 1719), Candace (Carnevale 1720), L’Artabano (Carnevale 1725), Semiramide e Farnace (Carnevale 1732). Presso l’unico teatro attivo in città durante il triennio vivaldiano, il Teatro Arciducale detto anche “il Comico”, il compositore svolse anche le mansioni di impresario per 2 anni: con Pietro Ramponi nella stagione del 1718 e da solo in quella successiva. Oltre a disporre di una maggiore libertà nella scelta dei cantanti e in tutte le questioni organizzative della stagione, Vivaldi come impresario ricavava anche gli utili della gestione, mentre come maestro di cappella avrebbe ricevuto solo il suo stipendio. Le fonti che attestano la produzione mantovana sono costituite dai libretti a stampa e da notizie tratte dai periodici pubblicati nella città ducale. Tali documenti si riferiscono alle principali mansioni teatrali svolte da Vivaldi: i mandati e i conti relativi alla riscossione dell’affitto dei palchi e la gestione delle relative chiavi, i contratti dei cantanti e dei musicisti e il bilancio complessivo della 25 culmine di un passaggio virtuosistico. Le note fuoriescono dalla bocca del Bernacchi e che scavalcano il campanile di San Marco si riferiscono ad un’aria del Mitridate re di Ponto di Giovanni Cappelli, eseguita al Teatro di San Giovanni Grisostomo nel Carnevale del 1723. Le frecciate del nobile compositore al mondo canoro non risparmiano alcuni aspetti della tecnica vocale “virtuosa di prolungar nelle Ariette le ultime sillabe di ogni parola: Dolceee, quellaaaa ecc.”. Di particolare interesse il capitolo dedicato agli impresari, la cui competenza era difficilmente individuabile: “non dovrà l’impresario moderno saperne di teatro, di musica, poesia ecc. Dovrà badare che qualsiasi libretto, per quanto tragico sia, finisca con il lieto fine e sia rispettoso delle gerarchie delle prime donne, indipendentemente dalle esigenze della trama. Naturalmente il compositore sarà l’ultimo ad essere interpellato”. Un capitolo viene dedicato ai protettori delle virtuose (fastidiosissimi, gelosissimi) e alle madri delle cantanti sempre presenti alle prove, cercando di dare con la mano il tempo all’orchestra, pur non sapendo nulla di musica, sempre disposte ad elogiare la virtù e la carriera della figlia. Il costante riferimento agli ambienti bolognesi sotto forma di citazioni in dialetto. Sembra che la pubblicazione del Teatro alla moda non aveva come obiettivo principale Vivaldi. Ciò che era in gioco era l’opera seria: la contrapposizione poneva gli uni contro gli altri, i poeti e i letterati rappresentati da Zeno e Metastasio (con le loro esigenze di coerenza drammatica) contro i compositori, i cantanti e gli impresari riuniti sulla base delle ragioni musicali e dell’interesse economico. Il libricino di Marcello, con il suo tono leggero e ironico, si inserisce in questo dibattito non direttamente (non parteggia per una posizione), ma operando una critica sulla qualità della messa in scena. Il libricino di Marcello, ebbe un’ampia diffusione e stimolò la curiosità anche dello stesso mondo operistico che sfotteva. Uno degli effetti fu quello di oscurare momentaneamente l’immagine di Vivaldi. Vivaldi non presentò opere tra il 721 e il 725: a giudizio di Talbot, una scelta dettata dalla prudenza circa gli effetti del volumetto di Benedetto Marcello. Compose prima per un Teatro di Milano, il Teatro Regio Ducale, poi si spostò a Roma. Viaggio a Roma (1723-1724) In considerazione della difficile situazione veneziana Vivaldi cercò di ottenere delle nuove commissioni. Una delle città che lasciavano intravedere delle buone occasioni era Roma dove nel 1720 aveva presentato insieme a due suoi colleghi, Gaetano Boni e Giovanni Giorgi, una nuova versione del libretto del Tito Manlio di Matteo Noris, già utilizzato nel 1719 a Mantova. L’opera, per la quale Vivaldi scrisse solo il 3 atto, andò in scena l’8 gennaio per la stagione del Carnevale del 1720. Vivaldi preparò al meglio il suo ritorno nella città papale. I soggiorni toccarono 3 stagioni del Carnevale: “sono stato 3 carnevali a far opera a Roma”. Due di queste stagioni sono individuabili in base alle datazioni dei libretti di 3 opere teatrali, il Carnevale del 1723 e del 1724, la terza stagione è dubbia. Tra il gennaio del 1723 e il Carnevale del 1724 Vivaldi si stabilì a Roma riuscendo ad inserirsi nell’ambiente teatrale romano e suscitando consensi anche in quello ecclesiastico. La prima delle tre opere scritte per le stagioni romane andò in scena nel gennaio del 1723 con il titolo Ercole su’l Termodonte. Il libretto era stato preparato da don Bussani. Vivaldi mise mano al libretto di Bussani rimaneggiandolo. Nello stesso mese di gennaio, secondo un facio fede datato 7 gennaio 1723 Vivaldi dovrebbe aver ripreso la Candace per il Sant’Angelo. Ciò non implicherebbe un ritorno del compositore a Venezia, perché per una ripresa non era necessaria la sua presenza. Ma la ripresa della Candace e la lettera scritta da Vivaldi a Venezia il 20 marzo nella quale ringrazia la principessa Spinola Borghese per la sua protezione, rende probabile il ritorno temporaneo di Vivaldi a Venezia, che peraltro spiegherebbe anche il nuovo incarico part-time alla Pietà nei primi mesi di luglio. La permanenza del compositore nella sua città non dovrebbe essere stata molto lunga perché per il Carnevale del 1724 egli si trovava ancora una volta a Roma, per mettere in scena al Teatro Capranica due sue nuove opere. Come prima opera fu rappresentato il pasticcio La virtù trionfante dell’amore e dell’odio overo il Tigrane, scritto a 6 mani su libretto di Silvani. La seconda opera fu il Giustino, interamente composto da Vivaldi su libretto di 26 Pariati e del nobile veneziano Berengani. La compagnia dei cantanti comprendeva solo uomini, in ossequio alla proibizione vigente a Roma di usare delle donne per le rappresentazioni teatrali. Nella seconda metà del 1724 si trovava a Roma anche Johann Quantz che, nella sua autobiografia, riferì che durante la sua permanenza a Roma venne subito colto da una grande voglia di sentire musica e ciò gli fu reso possibile dalla grande quantità di chiese e conventi. La cosa più nuova che gli giunse all’orecchio fu il “gusto lombardo”. Lo aveva recentemente portato a Roma Vivaldi con una delle sue opere. A Roma, oltre all’attività teatrale, Vivaldi fu impegnato anche nella preparazione di musica sacra e strumentale per il cardinale Pietro Ottoboni, protettore del Teatro Capranica. Una parte della sua biblioteca musicale comprendeva almeno 95 composizioni manoscritte di autori italiani del primo 700. I manoscritti dei concerti di Vivaldi posseduti dagli Ottoboni sono stati studiati da diversi musicologi per la loro notevole importanza storica e stilistica. Molti dei concerti a Manchester hanno dei titoli allusivi. Questo fatto fa pensare che Ottoboni avesse una predilezione per questo tipo di composizioni. Si può ritenere che Vivaldi in questo periodo della sua vita preferisse utilizzare questi titoli per “confezionare” e meglio commercializzare i propri lavori. Lo studio di Everett sui manoscritti vivaldiani conservati a Manchester permette di giungere ad un’ulteriore ipotesi. Sembra evidente che il corpus di queste composizioni rappresenta solo una parte del repertorio usato presso la corte del cardinale Ottoboni, in particolare quella dedicata ai concerti; il resto del repertorio di musica vivaldiana dovrebbe quindi essere cercato non solo tra i concerti, ma anche tra altri generi. La produzione vivaldiana di musica strumentale e sacra per il cardinale Ottoboni è stata studiata da Talbot in relazione alla committenza: sono state indagate le occasioni legate alla liturgia di San Lorenzo Martire e alla festa patronale della chiesa di San Lorenzo in Damaso. Uno dei primi risultati di questa indagine ha individuato tre concerti intitolati alla solennità di San Lorenzo. Il ritorno a Venezia nel 1725 Dopo quattro stagioni di assenza dai palchi veneziani (dal Carnevale del 1721 l’unica opera rappresentata a Venezia dovrebbe essere stata la ripresa della Candace testimoniata dal facio fede del 1723), Vivaldi nel 1725 tornò nella sua città dando il via alla prima di tre stagioni alla guida del Sant’Angelo nella veste di “direttore delle opere in musica”. Nell’autunno del 1725 L’inganno trionfante in amore segna l’inizio del nuovo rapporto tra Vivaldi e il Sant’Angelo che durerà fino al 1728. La partitura dell’opera non è mai stata trovata e nemmeno la data della prima rappresentazione dell’opera non è conosciuta. La seconda opera di Vivaldi della stagione 1725-1726 fu la Cunegonda. Di quest’opera, andata in scena il 29 gennaio 1726, sopravvivono solo alcune arie ed una cronaca dell’epoca. Anche della terza opera della stagione, La fede tradita e vendicata, su un libretto molto popolare di Francesco Silvani, non è mai stata trovata la partitura, ma solo alcune arie. Alle rappresentazioni del 1726 al Teatro Sant’Angelo assistè probabilmente anche Quantz che tra febbraio e maggio si trovava nella città lagunare. Nei suoi scritti non accenna a nessun incontro personale con Vivaldi, ma esprime delle valutazioni in controtendenza rispetto al plauso generale con il quale venivano accolte le sue rappresentazioni: “Vivaldi ha messo in musica le opere del Teatro S.Angelo ed egli stesso dirigeva l’orchestra, gli attori erano mediocri…”. Il controllo di Vivaldi sull’attività artistica del Teatro Sant’Angelo ebbe un incremento nelle due stagioni successive. Sia nella stagione 1726- 1727 che in quella 1727-1728, il compositore riuscì a chiamare gli interpreti che desiderava presentando al suo pubblico la giovanissima cantante Anna Girò, che aveva debuttato nel 1724 al San Moisè nella Laodice di Albinoni. Di entrambe le opere vivaldiane rappresentate in queste due ultime stagioni al Sant’Angelo, la Dorilla in Tempe e il Farnace, non sono pervenute le partiture; di esse sono stati rintracciati solo i libretti e alcune fonti musicali più tarde, risalenti a messe in scena degli anni 30. La Dorilla fu eseguita in prima assoluta al Sant’Angelo il 9 novembre 1726. Il libretto si basa non su un soggetto storico, ma su un argomento mitico; la natura e l’ambientazione della vicenda favoriscono l’uso di una scenografia 27 estrosamente fantastica. Dopo la prima del 1726, l’opera ebbe almeno 3 riprese: a Venezia nell’autunno del 1728 al Teatro di Santa Margherita, a Praga nella stagione primaverile del 1732e di nuovo al Sant’Angelo di Venezia durante il Carnevale del 1734. Il Farnace, ancora su libretto di Luchini, fu messo in scena il 10 febbraio del 1727. Di quest’opera di Vivaldi si conoscono versioni diverse. Farnace fu uno dei titoli operistici più fortunati del 700 e, con librettisti, compositori e trame diverse spaziò in tutta Europa. Del Farnace sono conosciute due partiture e oltre 50 libretti. I libretti più importanti sono quelli delle due edizioni veneziane del Sant’Angelo (nelle stagioni del Carnevale e dell’autunno del 1727). Tutti i libretti, ad eccezione di quello fiorentino, dichiarano che “la musica è di Vivaldi”. La ripresa della collaborazione con la Pietà Nei dieci anni che comprendono l’incarico a Mantova e le tre stagioni consecutive al Sant’Angelo (dal 1718 al 1728), Vivaldi aveva scritto più di due opere all’anno riscuotendo un buon successo. Accanto alla produzione teatrale bisogna segnalare, fin dal 1723, un rinnovato interesse per l’attività didattica e concertistica presso la Pietà. La fornitura regolare dei concerti continuò fino al 1729 e nei registri di cassa della Pietà troviamo documentata la consegna di 8 concerti verso la fine del 1723 e di 72 composizioni tra l’agosto del 1725 e lo stesso mese del 1729. Nello stesso giorno in cui i governatori dell’Ospedale certificavano la richiesta a Vivaldi di preparare 2 concerti al mese era stata presa la decisione di far costruire due “choretti” laterali al coro grande della chiesa della Pietà, avendo rilevato quando angusto e stretto si trovasse il coro. La decisione di ampliare lo spazio dedicato alle musiciste è sicuramente collegata ad un incremento delle attività strumentali risalente al 1715 e testimoniato da diversi fatti: la commissione di nuove musiche a Vivaldi e al maestro di canto don Pietro Scarpati, le nomine di nuovi insegnanti di strumento e il dono di un cembalo da parte di Lorenzo Biffi e l’acquisto di un violino per Anna Maria, la più celebre e rinomata tra le allieve di Vivaldi. Ulteriore segno dell’incremento delle attività strumentali si ritracciano in una serie di deliberazioni volte a consentire l’accesso a principi nobili che volevano ascoltare o avere delle lezioni dalle musiciste della Pietà. Un aspetto interessante della produzione di Vivaldi alla Pietà è la varietà degli organici interessati, che prevedono un complesso di archi e fiati, flauto dritto e traverso, l’oboe, il fagotto, il clarinetto, i corni e le trombe. L’incontro con Anna Girò Nella Dorilla rappresentata al Teatro Sant’Angelo nel 1726, Vivaldi affidò il ruolo di Eudamia, l’amante non corrisposta del pastore di Tempe Elmiro, alla giovanissima mezzosoprano Anna Girò, la quale rivestì un ruolo molto importante nella produzione operistica (e forse nella vita) di Vivaldi. La Dorilla e il Farnace del 1727 segnano l’inizio di una collaborazione tra Vivaldi e Anna Girò che durerà per tutta la vita del compositore e che, per l’assiduità e la qualità della frequentazione, ha fatto nascere il sospetto che il loro rapporto non si limitasse all’aspetto musicale. Dopo il suo debutto, nel 1724 al Teatro di San Moisè nell’opera Laodice di Albinoni, la Girò prese parte ad altre tre opere in questo teatro tra il 1725 e il 1726. Nella stagione successiva venne chiamata al Sant’Angelo dove comparve tra le interpreti della Dorilla vivaldiana. Da quel momento divenne l’interprete preferita di Vivaldi, seguendolo insieme alla sorella Paolina Trevisana (che aveva compiti di governante) nei suoi spostamenti in Italia e all’estero. Nel 1735 partecipò come protagonista alla Griselda e continuò ad essere chiamata come interprete vivaldiana fino al 1747. Le sue competenze erano apprezzate e riconosciute. L’abate Conti, nella sua corrispondenza con Madame da Caylus del 23 febbraio 1727, ricordava le qualità mostrate dalla Girò nel Farnace: “la musica è di Vivaldi, la sua allieva Anna Girò la fa diventare un miracolo, nonostante la sua voce non sia delle più belle”. Si ritiene che l’incontro tra Vivaldi e la Girò abbia avuto luogo a Mantova, quando il compositore tra il 1718 e il 1720 prestava servizio presso il principe Filippo. Altri ritengono che si siano incontrati alla Pietà 30 Toscana, il quale sposò nel 1736 l’arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo diventando nel 1745 imperatore con il nome di Francesco I. Da questo incontro sarebbe scaturita la nomina a maestro di cappella del duca, che Vivaldi potè esibire sui libretti della ripresa del Farnace a Pavia nel 1731, dell’Adelaide e della Griselda, rappresentate a Verona e Venezia nel 1735. A Vienna Vivaldi incontrò il duca Friedrich, principe di Mirow. Interessato alla cultura e all’arte musicale, il duca aveva intrapreso lo studio del flauto traverso e durante la sua visita a Venezia, svolta dal dicembre del 1728 al gennaio successivo, riuscì anche a prendere qualche lezione da Vivaldi. Ci sono almeno due lavori per flauto scritti per il nobile tedesco. Uno dei due lavori è stato individuato nel Trio per due traversi eri e basso continuo che il duca suonava con un suo paggio, anch’esso flautista. Nella prima delle lettere, Vivaldi conferma al duca l’avvenuta realizzazione della partitura richiesta. Il testo presenta un chiaro riferimento ad un incontro tra il duca e il compositore avvenuto tra la fine del 1729 e l’inizio del 1730. Probabilmente l’incontro ebbe luogo a Vienna non oltre il febbraio di quell’anno e si svolse velocemente perché Vivaldi ne rimpianse la brevità. Dopo aver cambiato casa a Venezia, Vivaldi partì per Praga: i praghesi stavano interessandosi alla musica italiana, e specialmente a Vivaldi. La compagnia italiana di Denzio era attiva a Praga, e lo stesso Denzio aveva cantato, nella parte di Artabano, La Costanza trionfante degli amori e degli odi, rappresentata già al San Moisè nel 1716, e quella di Ormonte ne Il Vinto trionfante del vincitore, un pasticcio di diversi autori andato in scena l’anno dopo al Sant’Angelo. Uno dei sostenitori più accesi del teatro veneziano era il conte praghese Von Sporck che aveva concesso già dal 1701 aveva concesso per l’allestimento degli spettacoli alcune sue proprietà, adattando a teatri una parte del suo palazzo a Praga ed alcuni saloni delle sue residenze estive. Denzio intraprese una brillante carriera come impresario mettendo in scena circa 60 opere di autori provenienti da Venezia, tra i quali Albinoni, Boniventi, Gasparini, Lotti, Orlandini, Porta e Vivaldi. Tra i lavori che preferiva far rappresentare figuravano diverse opere e arie vivaldiane, per cui nella sua attività impresariale a Praga chiamò spesso cantanti italiani anche approfittando della mediazione di Vivaldi. Tra il 1730 e il 1732 la compagnia di Denzio mise in scena al teatro del conte Sporck di Praga cinque opere di Vivaldi. La prima fu una ripresa del Farnace, presentata nella primavera del 1730 secondo un adattamento dello stesso Denzio. L’opera, con Denzio protagonista, ebbe una grande approvazione. Purtroppo Vivaldi non era presente, impegnato a Venezia per il trasferimento della famiglia. Lo fu però in occasione della sua nuova opera, rappresentata nell’autunno del 1730, l’Argippo su un libretto di Domenico Lalli. Molte delle notizie che ci sono giunte sulle rappresentazioni di Vivaldi a Praga le dobbiamo alla passione per il teatro del conte Wrtby. Questo nobiluomo praghese era un liutista dilettante, manteneva un’orchestra privata ed era un abituale frequentatore dell’opera. Possedeva una notevole raccolta di libretti. Era un appassionato di Vivaldi e non si lasciò sfuggire l’occasione di chiedergli di comporre una musica. Tra i lavori che gli commissionò vanno ricordati il “concerto per liuto, due violini e basso continuo” e “due sonate per liuto, violino e basso continuo”. La realizzazione di musiche per il conte von Wrtby non rappresentò l’unica occasione di lavoro per Vivaldi durante la permanenza a Praga. Subito dopo la rappresentazione dell’ Argippo Vivaldi iniziò a lavorare alla partitura della Alvida regina de’ Goti, il cui libretto era tratto da L’amor generoso di Zeno. La prima dell’opera ebbe luogo nella primavera del 1731 al Teatro Sporck di Praga. La presenza del compositore alla messa in scena non è certa. Nella primavera del 1731 il soggiorno di Vivaldi in terra boema stava volgendo al termine. In Italia lo attendeva una ripresa del Farnace al Teatro Omodeo di Pavia ai primi di maggio e la composizione di una nuova opera per il Teatro Arciducale di Mantova, entrambe con la partecipazione di Anna Girò. Per la stagione seguente erano in programma 2 rappresentazioni a Praga, una nuova opera per un’occasione importante a Verona e un nuovo incarico come impresario al Teatro Arciducale di Mantova. Il ritorno in Italia, la Fida Ninfa e l’incontro con Holdsworth 31 Nella biografia di Vivaldi la ripresa del Farnace del maggio 1731 segna un evento di una certa rilevanza sia perché conclude il periodo dei viaggi in terra germanica sia perché Vivaldi nella dedica inserita nel relativo libretto si fregia di due nuovi titoli che si aggiungono a quello acquisito con il suo servizio a Mantova presso il langravio Filippo. Nel libretto di questa ripresa Vivaldi è indicato come “maestro di cappella di S.A.R. il serenissimo duca di Lorena”. I nuovi titoli di Vivaldi, acquisiti probabilmente a seguito dei contatti avuti a Vienna, si riferiscono ad un lavoro di committenza e fornitura di musiche come “compositore non residente”, ovvero che escludevano un soggiorno del compositore presso le corti citate. Il libretto della rappresentazione del Farnace realizzata a Pavia corrisponde alla partitura depositata a Torino e segnala la presenza della Girò, del tenore Barbieri, di sua moglie Livia Bassi e di due nuovi cantanti che negli anni seguenti furono spesso scritturati dal compositore: la veneziana Rosa Cardina (detta “la Dolfinetta”) e il tenore Pietro Mauro (detto “il Vivaldi”) che prese parte alla ripresa del Farnace a Treviso nel 1737. Il nuovo lavoro commissionato dal Teatro Arciducale di Mantova, la Semiramide con Anna Girò nel ruolo della protagonista, era pronto per la fine dell’anno 1731 e fu rappresentato come prima opera della stagione dopo il 26 dicembre. La produzione operistica del 1732 si apre con la prima della Fida Ninfa su libretto del veronese Scipione Maffei. L’opera, in scena il 6 gennaio 1732, era stata inizialmente commissionata dallo stesso Maffei, in veste di impresario, al bolognese Orlandini, ma gli Inquisitori di Stato si opposero al “divertimento non necessario” adducendo preoccupazioni economiche e motivazioni politiche. Tra le molte cause invocate dagli Inquisitori, la principale era che l’opera avrebbe richiamato in città ufficiali e soldati tedeschi, i quali avrebbero così potuto constatare di persona le carenze delle milizie veneziane dislocate a Verona. In realtà, il rinvio dello spettacolo, al di là delle motivazioni addotte, era solo l’ultima di una serie di difficoltà collezionate nei 17 anni occorsi per progettare, costruire e rifinire il nuovo teatro; un teatro per il quale Maffei, all’epoca governatore dell’Accademia Filarmonica, era intervenuto non solo in termini economici ma anche con tutto il prestigio e il potere che poteva esercitare. Del teatro dell’Accademia veronese si conoscono i disegni e i progetti della pianta e dell’alzato e un’immagine dell’interno rappresentata in un disegno. Cinque ordini di palchi sovrapposti e il palco ornato è la visione che si sarebbe presentata ad uno spettatore collocato sulla parte sinistra del teatro in un palco di seconda fila. Il disegno, attribuito al Bibiena riproduce il teatro come era nel 1729 e non può riferirsi ad una prova della Fida Ninfa vivaldiana. Sebbene la Fida Ninfa prevedesse un numero di scenografie limitato, ne furono approntate quattro, forse per venire incontro ai gusti del pubblico: due scene lunghe (la prima vicino al pubblico, una boscareccia montuosa e l’ultima nel fondo, un’orrida montagna, che si spalancava mostrando le tre caverne della Reggia d’Eolo) e due scene mediane (il porto di mare necessario nel secondo atto e una deliziosa fiorita che apriva il terzo atto). Le vicende del primo atto, un gioco d’innamoramenti e di equivoci in un ambiente pastorale, si sviluppavano in una scena boscosa chiusa in fondo con l’immagine di un monte. Per passare al secondo atto, nel quale i contrasti amorosi si svolgevano in un “porto di mare”, si calava un fondale di mare per coprire il monte e si sostituivano le scene laterali introducendo delle immagini legate al porto. Per completare la scenografia, davanti al fondale dovevano scorrere su un largo canale dei carri che rappresentavano delle navi. Il terzo atto si apriva con una “deliziosa fiorita”, mentre gli intrighi e i malintesi amorosi si scioglievano e le coppie ritrovavano la loro armonia. Successivamente era prevista una tempesta improvvisa con l’arrivo del Deus ex machina (Giunone) che doveva proteggere la fuga degli amanti. Quando Vivaldi subentrò all’Orlandini nella realizzazione della Fida Ninfa, trovò tutto pronto: scene del Bibiena, compagnia di cantanti e un testo da mettere in musica già edito da Giulio Cesare Becelli. Si trattava di un testo pronto da musicare. Vivaldi non modificò nulla del testo di Maffei, arrivando anche a trarne dei suggerimenti interessanti per la propria musica. La seconda opera della stagione del teatro mantovano fu un’altra ripresa del Farnace, che Vivaldi aveva appena rimesso in scena a Pavia. Il libretto, dedicato ancora al principe Filippo e datato 26 gennaio 1732, presenta una compagnia di cantanti diversa rispetto a quella riunita a Pavia, ad eccezione della Girò. In primavera fu messa in scena la Dorilla in Tempe con l’aggiunta 32 degli intermedi composti da Antonio Costantini e interpretati da Cecilia Monti e Bartolomeo Cajo, che avevano preso parte entrambi alla rappresentazione della Doriclea. La presenza di Vivaldi a queste rappresentazioni non è sicura, anzi viene ritenuta improbabile perché esse coincidevano con gli impegni di Verona e Mantova. Nei primi mesi del 1733 Vivaldi era a Venezia: doveva preparare un laudate dominum per il trasferimento di una reliquia nella basilica di San Marco. La ripresa del controllo del Sant’Angelo (1733-1734) Nell’autunno del 1733 Vivaldi, dopo 5 anni di lontananza, riprendeva il controllo del Teatro Sant’Angelo di Venezia. La sua posizione era influente per ottenere la commissione di due nuove opere: il Montezuma e l’Olimpiade. La prima opera di Vivaldi per il Sant’Angelo fu il Montezuma su un libretto del veneziano Giusti. L’opera fu rappresentata il 14 novembre 1733. Vivaldi volle Anna Girò, nel ruolo di Mitrena moglie di Montezuma, e due giovani soprani, Marianino Nicolini conosciuto l’anno prima a Mantova e Francesco Bilanzoni proveniente da Napoli. La seconda opera della stagione fu la ripresa della Dorilla in Tempe (con il nuovo titolo La Dorilla), la quale era stata rappresentata per la prima volta nello stesso teatro Sant’Angelo alcuni anni prima, nel 1726. La data della messa in scena la ricaviamo da un avviso datato 6 febbraio 1733, che si riferiva a quattro giorni prima, il 2 febbraio 1734. Sebbene nessun elemento esplicito indichi che la partitura di quest’opera sia un pasticcio, i diversi tipi e formati di carta, le tracce di manomissioni, aggiunte, la distribuzione irregolare dei fascicoli, la varietà di grafie e inchiostri e l’analisi di alcune arie che ci chiariscono la loro provenienza da opere di Leo, Hasse e Giacomelli, consentono di individuarlo come un lavoro di collazione eseguito da Vivaldi. La trasformazione della Dorilladel 1726, all’epoca un lavoro completamente vivaldiano, in pasticcio fu dettata da una sorta di convenienza impresariale determinata dalla considerazione che l’aggiunta di arie conosciute e apprezzate dal pubblico avrebbe favorito e accresciuto il successo dell’opera. Vivaldi sperimenta nella Dorilla un procedimento atipico: la riattualizzazione dell’opera ha come punto di partenza la stesura redatta alcuni anni prima dallo stesso compositore, e su questa viene aggiunto materiale nuovo, proveniente da opere di altri autori. Un esempio è l’inserimento dell’aria Mi lusinga il dolce affetto, tratta dal Catone in Utica di Hasse, nella prima scena del primo atto della partitura del 1734. L’aria di Hasse era molto conosciuta e amata dal pubblico per essere stata cantata da Farinelli nell’opera eseguita per intero al Regio di Torinoil 26 dicembre 1731. La gran parte dei cantanti chiamati per il Montezuma, furono utilizzati anche per l’Olimpiade, la prima delle due opere di Vivaldi su libretto di Metastasio. L’opera andò in scena il 17 febbraio del 1734 e viene indicata come terza della stagione. Negli anni tra il 1730 e il 1740 il teatro musicale italiano era dominato dalla figura di Pietro Metastasio, che dall’inizio di questo decennio si era trasferito a Vienna come poeta della corte di Carlo VI succedendo ad Apostolo Zeno. I suoi otto drammi per musica, preparati per la corte viennese quando si trovava ancora in Italia, ebbero una grande diffusione ed egli diventò il librettista di opere serie più richiesto. Vivaldi, che nella sua lunga carriera di operista incontrò i migliori poeti solo in età avanzata, non dimostrò mai troppo interesse verso la produzione del grande letterato, intervenendo spesso direttamente sui testi, abbreviando i recitativi e sostituendo le arie, generalmente quelle dove il personaggio si rivolge all’interlocutore in prima persona. Nella veste di impresario, curò la preparazione di forse quattro pasticci basati su testi di Metastasio ed utilizzò complessivamente una quindicina di testi di arie all’interno di opere sue o realizzate in collaborazione con altri compositori. L’Olimpiade fu scritta da Metastasio nel 1733 su commissione dell’imperatore Carlo VI in occasione dei festeggiamenti per il compleanno della consorte Elisabetta Cristina. L’opera fu subito messa in musica da Antonio Caldara. La versione vivaldiana del dramma metastasiano è la prima ripresa dopo la rappresentazione viennese e questo dimostra l’attenzione di Vivaldi verso ciò che succedeva in Europa e in particolare presso la corte dell’imperatore Carlo VI incontrato a Trieste cinque anni prima. Anche in questo caso Vivaldi intuì di trovarsi di fronte ad 35 condizioni: definire musica a programma opere come Le quattro stagioni di Vivaldi sarebbe errato obiettivamente e storicamente: obiettivamente perché il concetto non può essere separato da finalità e contenuti della musica ottocentesca (Berlioz, Liszt) e storicamente perché in certi campi della musica descrittiva è presente un nesso con la tradizione. Tutte le forme più antiche di musica descrittiva sono contrassegnate dal fatto che gli elementi illustrativi e programmatici non vi sono strutturalmente determinanti, ma acquistano un valore solo se riferiti a un contesto di saldi rapporti formali tecnico- musicali. Kunze sottolinea che la differenza tra il concetto settecentesco di musica descrittiva e quello ottocentesco di musica a programma riguarda essenzialmente la concezione strutturale. Nella musica descrittiva settecentesca sono gli aspetti musicali (temi, ripetizioni, progressioni, sviluppi ecc.) che creano una solida forma di riferimento, che permette, l’inserimento di parti programmatiche non strutturali. Diversamente la musica a programma di Listz e dei suoi contemporanei voleva essere un avvicinamento della musica alla poesia. Dal punto di vista formale un programma dotato di una propria coerenza interna poteva quindi legittimare “dall’esterno” una forma che, a causa del progresso dell’arte musicale, non poteva più far riferimento a quella del classicismo viennese di Haydn, Mozart e Beethoven. La divisione che propone Kunze tra musica descrittiva e musica a programma (divisione basata sia su motivazioni storico- terminologiche sia strutturali), viene confermata dallo studioso americano Brown che osserva che la musica descrittiva, anche se appartiene a compositori vissuti prima del XIX secolo, si caratterizza per il modo statico con il quale dipinge eventi, oggetti, scene e stati d’animo. Al contrario la musica a programma di Listz presenta spesso una descrizione dinamica di storie, immagini, personaggi e stati d’animo in quanto tutti i personaggi della vicenda (i temi musicali) subiscono, attraverso la tecnica della trasformazione tematica, quelle modifiche ed evoluzioni che determinano sia la forma complessiva dell’opera sia il corrispettivo musicale del programma letterario. La forma dell’opera rimane ancorata ad una precisa logica musicale – la presentazione e l’evoluzione dei temi principali – e può fare anche a meno dello stesso programma letterario. Un riferimento estetico più appropriato per le musiche “programmatiche” del 700 si rintraccia nel concetto d’imitazione della natura. Alberto Basso individua nella musica descrittiva, ovvero quella impegnata a tradurre in immagini sonore sensazioni, fenomeni naturali, caratteri, uno degli effetti più immediati dell’estetica dell’imitazione della natura. La predilezione per il descrittivismo coinvolge soprattutto i compositori francesi e tedeschi, mentre gli italiani continuano a preferire le forme pure, quelle non collegate ad alcun tipo di evocazione suggestiva. Il pur limitato interesse degli italiani per questo genere si esplicita ad altissimo livello in alcune composizioni vivaldiane del 1715-1730, anni determinanti per l’affermazione europea del Prete Rosso. Nella biografia vivaldiana, questo periodo è caratterizzato dal momentaneo allontanamento dell’attività didattica presso l’Ospedale della Pietà, da un intensificarsi della sua produzione manoscritta (soprattutto del genere concertistico dove poteva contare su molti committenti) e dal suo nascente impegno nel teatro musicale. La produzione “descrittiva” di Vivaldi, sebbene limitata (solo 28), è considerata un modello indiscusso del genere. La gran parte appartiene al genere dei concerti solistici e tra questi Le quattro stagioni, inserite nella raccolta Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione sono i pezzi che hanno raccolto i maggiori successi. L’interesse si concentra sul rapporto tra la musica e il testo aggiunto, cioè i quattro Sonetti Dimostrativi inseriti nella parte staccata del violino principale e richiamati dalle lettere di riferimento collocate dal compositore in corrispondenza di specifici passaggi. Riportiamo il testo relativo al primo Concerto La primavera con alcune indicazioni riguardanti le rime, le lettere di riferimento e il movimento. La struttura del sonetto (un componimento poetico organizzato in 14 versi con un gioco di rime nelle prime due quartine e un altro gioco per le due terzine) viene adattata alla forma del concerto solistico vivaldiano distribuendo il testo in momenti specifici della partitura. Nel caso della Primavera le due quartine sono usate nel primo movimento, la prima terzina nel tempo lento e la seconda terzina nell’ultimo movimento. Il ritornello è una melodia di danza ben ritmata costituita da due frasi immediatamente ripetute che in virtù del loro concludersi rispettivamente in 36 dominante e in tonica funzionano da antecedente e conseguente. Gli episodi: il primo (col la didascalia “il canto degli uccelli”) è realizzato da tre violini, due dei quali in imitazione; il secondo (“scorrono i fonti”) è un tutti con semicrome a distanza di terza e legate a due che richiamano un disegno ondeggiante spesso associato al mormorio di ruscelli o al soffio del vento; il terzo episodio (“tuoni”) è un tutti che inizia con biscrome ribattute nel registro basso e rapide scalette ascendenti; nel quarto (“canto degli uccelli”) l’imitazione di un trillo tra violino principale e violini I-II viene preceduta da crome puntate ascendenti cromaticamente dalla dominante alla tonica locale; diversamente il quinto episodio (senza didascalie) ripropone le semicrome legate a due a due eseguite solo dal violino principale. (descrizione dettagliata sul libro). Definizione di MUSICA A PROGRAMMA (da Wiki): composizione musicale che consiste nel descrivere o nel narrare una storia con mezzi puramente musicali. La musica a programma si sviluppò agli inizi dell’800, in epoca romantica. Un tipo usato di musica a programma fu il poema sinfonico, ovvero musica e programma per orchestra. Tra i maggiori compositori di poemi sinfonici, si ricorda Franz Listz che ne compose 13 (tra i quali Les Preludes). Definizione di MUSICA DESCRITTIVA (da Wiki): per musica descrittiva si intende l’utilizzo di forme musicali con il fine di narrare o rappresentare musicalmente eventi di varia natura ad es. una passeggiata in un bosco oppure letterari, religiosi, filosofici (idea del poema sinfonico romantico). La forma descrittiva ha avuto interpreti illustri (Debussy o Schonberg). Differenza tra musica descrittiva e musica a programma (da Wiki): la musica descrittiva attraverso particolari suoni descrive un oggetto o una persona (es. studio n.10 in Do minore di Chopin, che descrive in modo rabbioso la conquista di Varsavia). Invece quella a programma è quella che segue una storia in particolare e che segue una trama. (es. le quattro stagioni di Vivaldi). Argomento 15 Vita veneziana e fama europea: il carteggio ferrarese e l’ultimo viaggio a Vienna Dal 1737 in poi Vivaldi iniziò ad incontrare numerose difficoltà nella sua attività di impresario. Il fallimento dei suoi progetti per allestire la stagione operistica a Ferrara che ebbe inizio nel 1736 e culminò nella disastrosa rappresentazione del Siroe ferrarese del 1738, preannunciò una caduta di interesse verso la sua produzione teatrale non solo a Ferrara ma anche a Venezia. All’ingratitudine dei veneziani occorre aggiungere la gravissima situazione politica ed economica in cui si trovava la Repubblica della Serenissima, dove il decadimento civico e morale era accompagnato da un diffuso malcontento che toccava le stesse istituzioni. Negli anni 30 a Venezia tutto era mutato, si celebra il vizio e non c’è più passione per le cose nobili, per la scienza e per l’arte. È probabile che Vivaldi riponesse negli ambienti colti tedeschi, in particolari quelli viennesi, delle notevoli speranze, fondate sugli incontri avuti in occasione dei suoi precedenti viaggi, ma anche sul successo che egli continuava ad avere presso gli aristocratici tedeschi che affollavano i concerti della Pietà. Questi elementi potrebbero aver influito sulla decisione di intraprendere quello che sarebbe diventato il suo ultimo viaggio a Vienna, ancora una volta alla ricerca di nuove occasioni musicali e di nuove commissioni. La ripresa dell’attività all’Ospedale della Pietà I governatori dell’ospedale veneziano tentarono forse fin dal 1733 di riprendere i contatti con Vivaldi. Se il tentativo fu fatto fallì perché il compositore avrebbe dovuto impegnarsi a non interrompere l’attività didattica e concertistica presso l’istituto, limitando gli impegni che potevano portarlo fuori Venezia. L’accertamento dell’attività di Vivaldi presso l’Ospedale della Pietà negli anni successivi al 1729 è reso difficile dal fatto che negli archivi veneziani risultano mancanti sia il Notatorio sia dei riferimenti specifici alle mansioni e agli incarichi di Vivaldi per tutto il 1734. Secondo alcuni recenti studi una delle composizioni 37 sacre conservata presso la biblioteca di Dresda (il Dixit Dominus per cinque voci soliste, coro, due oboi, tromba, archi e continuo), potrebbe essere stata realizzata in questo periodo, all’inizio del 1732. Tra la metà degli anni 50 e i primi anni 60 del 700 la cappella della corte sassone di Dresda decise di incrementare il proprio repertorio di musica sacra; non disponendo di un proprio referente diretto in Italia, richiese una notevole quantità di partiture ad un famoso copista veneziano, don Iseppo Baldan, presso la cui bottega sembra lavorassero i due nipoti di Vivaldi. Il manoscritto ha rivelato le caratteristiche melodiche, armoniche, ritmiche e testuali di Vivaldi (Federico Maria Sardelli ha individuato una stretta relazione tra la musica del sesto movimento (Dominus a destri tuis) e la prima parte dell’aria Alma oppressa da sorte crudele (dal primo atto della Fida Ninfa), mentre altri studiosi hanno rivelato somiglianze con i movimenti di altre composizioni sacre di Vivaldi. Notizie più precise sull’attività di Vivaldi presso l’Ospedale della Pietà giungono intorno alla metà del 1735. Il 3 agosto 1735 Labia e Morosini, i governatori incaricati di sopraintendere alle questioni della chiesa e del coro della Pietà, propongono la riassunzione di Vivaldi come maestro dei concerti. Dopo 2 giorni la congregazione della Pietà approva la nomina del compositore a maggioranza come maestro dei concerti e come insegnante, sottolineando l’esigenza di un rapporto didattico più continuativo. Il contratto e il compenso di 100 ducati furono confermati nei due anni successivi e fino al 28 marzo 1738, con le solite mansioni legate all’insegnamento e alla direzione delle prove e dei concerti e alla richiesta di comporre musica per ogni genere di strumenti. Nonostante la disponibilità dimostrata in diverse occasioni da Vivaldi, alcuni amministratori continuarono ad avere delle riserve sottovalutando le competenze musicali e il successo europeo di Vivaldi. Nella votazione annuale del 1738 Vivaldi non ottenne la maggioranza necessaria e non venne confermato nell’incarico. I periodi di assenza dalla Pietà erano dovuti agli impegni del compositore e alle ristrettezze economiche in cui si muovevano i bilanci dell’istituto, per cui la possibilità di affidare l’insegnamento alle allieve interne diventate maestre veniva preferita a quella di ingaggiare un docente esterno. La produzione operistica e l’epistolario ferrarese L’individuazione del 1937 come anno di crisi, proposta da Kolneder, si basa sulle difficoltà che Vivaldi ebbe a Ferrara come impresario, le quali portarono alla disastrosa rappresentazione del Siroe al Teatro Bonacossi il 26 dicembre 1738. Un avvenimento che influì sulla sua reputazione. L’intera vicenda ferrarese è testimoniata dalla corrispondenza tra il compositore e il marchese Guido Bentivoglio d’Aragona dal 1736 al 1739. Tale corrispondenza comprende 32 tra lettere autografe inviate dal marchese a Vivaldi. Il 20 ottobre del 1736 Vivaldi ricevette l’invito a mettere in scena due opere dell’abate Bollani, parente di Bentivoglio e impresario incaricato dalla famiglia del marchese di allestire la stagione del Carnevale presso il teatro dei conti Bonacossi di Ferrara. La conoscenza tra Vivaldi e Bentivoglio (marchese che poteva vantare una partecipazione alle vicende del teatro musicale di Ferrara) potrebbe essere dovuta al fatto che il padre di quest’ultimo risiedeva abitualmente a Venezia. Ma Cavicchi sostiene che la motivazione più plausibile dell’improvviso interessamento della nobiltà ferrarese per la musica di Vivaldi potrebbe essere stata la presenza del compositore alle celebrazioni organizzate all’inizio del 1736 per il matrimonio di François III Etienne di Lorena con Maria Teresa d’Asburgo-Austria. In queste celebrazioni, che si svolsero nella residenza dell’ambasciatore imperiale a Ferrara, fu eseguita una serenata cantata da 4 solisti accompagnata da un’orchestra di 60 esecutori. Secondo il libretto dello spettacolo e una relazione che descrive l’avvenimento, la musica fu composta da diversi autori non nominati. Ma buona parte della musica potrebbe essere stata composta da Vivaldi poiché nel 1735 si professava maestro di cappella di Lorena, e ne avrebbe diretto l’esecuzione. Però nella lettera di risposta di Vivaldi a Bentivoglio nulla di questo è testimoniabile ma c’è la testimonianza di un loro precedente incontro. In questa lettera sono indicati gli aspetti essenziali della collaborazione del compositore (la cifra per le 2 opere). L’interesse del marchese per 40 compositore-impresario così famoso dovrebbe cedere il passo ad un impresario inferiore? All’affermazione dei propri diritti si aggiungono nella lettera successiva, datata 30 novembre 1737, i problemi economici. Le proposte di Picchi erano ridicole ed era difficile arrivare ad un accordo. Tali condizioni non erano sufficienti a garantire un onorario onesto per tutti e quindi il compositore non poteva accettare. Forse non ci fu un accordo tra i due e probabilmente per quell’anno a Ferrara non si tenne la stagione operistica. Ferrara chiudeva le porte a Vivaldi, ma Venezia era ancora interessata alle sue proposte, in particolare come didatta e compositore. Molto probabilmente la serenata Il Mopso fu composta da Vivaldi nel Carnevale del 1738 in occasione del soggiorno veneziano di Ferdinand di Baviera, fratello del principe elettore Albrecht. Il principe elogiò la rappresentazione ed onorò Vivaldi con dei regali. Vivaldi aveva anche preso il controllo del Sant’Angelo; dopo 4 anni di assenza affidò il suo rientro ad una nuova opera e due pasticci. L’Oracolo in Messenia, su libretto di Zeno, fu rappresentata il 30 dicembre 1937 avendo ottenuto il facio fede tre giorni prima. Una cronaca del tempo ci conferma il successo del lavoro. Il secondo impegno di Vivaldi per la stagione fu la Rosmira su un libretto di Stampiglia e con musiche di Vivaldi, Hasse, Handel, Pergolesi e Mazzoni. L’opera, andata in scena il 27 gennaio 1738, fu dedicata da Vivaldi a Friedrich, margravio di Brandeburgo. La partitura dell’opera è molto disordinata. Il terzo lavoro preparato da Vivaldi per la stagione del Sant’Angelo fu la ripresa dell’Armida al campo d’Egitto che aveva avuto la sua prima rappresentazione vent’anni prima al Teatro Giustiniano di San Moisè; anche nel caso di questo pasticcio la data della messa in scena, il 12 febbraio 1738, si ricava da un avviso pubblicato alcuni giorni dopo. Rispetto alla prima del San Moisè Vivaldi apportò diverse varianti, modificando alcune arie e spostando qualche scena. Nel giugno del 1738, mentre Vivaldi stava preparando la ripresa del Siroe da mandare al Teatro Fenice di Ancona, gli giunse la notizia che il cardinale Ruffo si ritirava dal suo incarico di arcivescovo di Ferrara. È possibile che Vivaldi o Bentivoglio videro in questo evento un segno di fortuna. La conferma dei loro progetti si trova in 2 lettere, entrambe preparate dal marchese il 5 novembre 1738. Nella prima, inviata all’ambasciatore spagnolo, si suggeriva di indirizzare la raccomandazione per un cantante suo protetto direttamente a Vivaldi perché è lui il promotore dell’opera che si reciterà il prossimo Carnevale. Nella seconda, indirizzata a Vivaldi, Bentivoglio avverte il compositore della segnalazione dell’ambasciatore e lo prega di avere delle premure. Il giovane cantante raccomandato dall’ambasciatore venne ascoltato e segnalato all’impresario Mauro, scenografo vicino a Vivaldi. Le due opere previste per la stagione 1738-1739 di Ferrara sarebbero state il Siroe re di Persia, appena allestito ad Ancona, e il Farnace che dopo le due rappresentazioni veneziane degli anni 20 era stato portato 2 volte a Firenze, Praga, Pavia, Mantova e Treviso. Ma le cose non andarono come previsto: alla prima rappresentazione del Siroe accadde qualcosa di grave che decretò il fallimento dell’opera e l’annullamento della seconda opera. In una lettera di Vivaldi al marchese Bentivoglio ci sono i particolari dell’insuccesso; il Siroe fu messo in scena intorno al 26 dicembre del 1738 al Teatro dei conti Bonacossi, come prima opera della stagione del Carnevale. La sera della prima del Siroe al cembalo c’era Pietro Beretta, un violinista e compositore. Era stato nominato maestro di cappella del Duomo di Ferrara. Le sue musiche sacre e teatrali non erano di alta qualità. La sua disastrosa prestazione potrebbe essere dovuta ad un incidente e le conseguenze ricaddero sulle spalle di Vivaldi. La lettera è considerata importante perché chiarisce il numero di opere scritte dal compositore (94) e il suo stato d’animo di fronte all’insuccesso della rappresentazione della sua opera. Stato d’animo che influì sulle decisioni che prese negli anni successivi, come su quella di partire a Vienna. Vivaldi temeva per la sua carriera operistica e per le conseguenze che avrebbe potuto avere sulla sua attività compositiva. Bentivoglio risultò impotente di fronte allo scandalo che si determinò: nella lettera del 7 gennaio 1739 Bentivoglio dichiarò la propria impossibilità a svolgere qualsiasi forma di influenza su ciò che stava accadendo, in quanto il controllo era nelle mani del supplente a Ruffo. Non risulta, inoltre, che Beretta abbiamo subito conseguenze sull’incidente del Siroe in quanto mantenne l’incarico avuto al Duomo di Ferrara fino alla morte. La mancata rappresentazione del Farnace provocò uno scambio di accuse tra Vivaldi e Antonio Mauro, scenografo di 41 diverse rappresentazioni di Vivaldi, impresario delle opere di Vivaldi a Ferrara. Con l’annullamento della seconda opera ci fu un grande conflitto. Gli artisti erano stati scelti da Vivaldi, ma i loro contratti erano stati firmati da Mauro e pensò di inviare a Vivaldi una scrittura extragiudiziale del 4 marzo 1739 che lo sollevava da ogni responsabilità. La replica di Vivaldi ci fu alcuni giorni dopo. Fama europea e attività veneziana Se Ferrara gli voltava le spalle, Vivaldi poteva contare sui suoi successi in campo europeo e sul legame con Venezia, la città che aveva visto i suoi debutti. Il 7 gennaio del 1738 Vivaldi ottenne un riconoscimento partecipando con la propria musica al concerto organizzato per il centenario del Teatro Municipale di Amsterdam. In un primo momento si pensò che Vivaldi fosse stato fisicamente presente al concerto per dirigere l’esecuzione, ma non fu così. La vicenda testimonia la rilevante fama europea del compositore veneziano; fama ribadita anche dal periodico francese “Mercure de France”. Due cronache del 1738 mostrano che in questi anni il suo successo come compositore superava quella di violinista. Lo stesso successo è riscontrabile in terra tedesca, sia per gli ambiti strumentali sia per il teatro d’opera. L’interesse che Vivaldi aveva sviluppato tra i compositori che visitavano Venezia o che entravano in contatto con le sue partiture, gli permise di figurare tra i più importanti trattati dell’epoca. Anche per quanto riguarda il settore operistico l’interesse verso la produzione vivaldiana nei teatri si era mantenuto costante durante gli anni delle vicissitudini ferraresi. Nel 1737 la ripresa viennese della Fida Ninfa dava inizio ad un periodo di nuove commissioni. Nella stagione del carnevale del 1738 a Klagenfurt in Carinzia, venne ripreso il pasticcio Rosmira che era stato presentato solo pochi mesi prima al Sant’Angelo. A luglio fu ripresa la Candace a Vienna. Tra il 1738 e il 1739 si intensificano i rapporti con gli organizzatori del Teatro di Graz, nella Stiria. Durante la stagione del carnevale del 1739 venne eseguita un’opera dal titolo Adelaide. La dedica è firmata dall’impresario delle “opere italiane” Pietro Mingotti, il fratello di Angelo Mingotti che aveva messo in scena Orlando Furioso a Brno (Moravia) nel 1735 con musiche di Vivaldi e di altri. Il rapporto con la compagnia dei fratelli Mingotti e con il teatro di Graz venne confermato nel 1739 e negli anni successivi. Nell’autunno del 1739 fu presentata a Graz la Rosmira con Anna Girò come protagonista, un pasticcio confezionato da Vivaldi. Nel carnevale del 1740 fu messo in scena, sempre nel teatro di Graz, Il Catone in Utica, ancora con la Girò. Le rappresentazioni di Graz e il nuovo rapporto con i fratelli Mingotti, per i quali Anna Girò dovrebbe aver interpretato 5 opere tra la primavera del 1739 e il carnevale 1740, erano un fatto nuovo dopo le delusioni precedenti. L’unico evento che avrebbe potuto trattenere Vivaldi a Venezia nel 1739 era la prima del Feraspe, al Sant’Angelo il 7 novembre 1739, l’ultima opera di Vivaldi. Anche gli impegni di lavoro con la Pietà non sarebbero stati un ostacolo ad un possibile allontanamento del compositore da Venezia. Gli incarichi didattici si erano infatti interrotti fin dal marzo 1738 ed erano stati mantenuti da Vivaldi solo gli incarichi relativi alla fornitura di concerti e musica sacra. L’attenzione verso Vivaldi sembrò diminuire quando si trattò di nominare il nuovo maestro di coro. L’incarico conferito a Gennaro D’Alessandro detto “napoletano” dimostrava che la Congregazione manteneva alcune riserve su Vivaldi. Era forse una conseguenza al fatto che Vivaldi continuava ad essere impegnato fuori città, forse a Graz con la Girò. L’ipotesi più plausibile è che alla diffidenza di qualche membro della Congregazione si aggiunge la tendenza da parte di Vivaldi a privilegiare commissioni esterne, in particolare quelle provenienti dalle città d’Austria e della Boemia. Che questo fatto possa essere stato determinante nella nomina di un altro musicista come maestro del coro lo dimostra un evento importante che si verificò nel 1740, in relazione alla visita del principe ereditario di Sassonia Friedrich Leopold. Il principe concludeva a Venezia una visita che aveva toccato diverse città italiane. Arrivato vero la fine del 1739, nel marzo dell’anno successivo partecipò ad una serie di festeggiamenti in suo onore. Le celebrazioni, secondo Giazotto, costituivano una sorta di rara forma di competizione tra i 3 ospedali che si contendevano il primato 42 musicale cittadino. Ad aprire le celebrazioni fu la Pietà che il 21 marzo 1740 presentò 3 concerti per solisti, archi e continuo di Vivaldi e una cantata del nuovo maestro di coro Gennaro D’Alessandro dal titolo Il coro delle muse, introdotta da una sinfonia per archi preparata da Vivaldi. Erano le partiture di Vivaldi ad essere il fiore all’occhiello dell’omaggio al principe. Come era accaduto nel carnevale del 1738 in occasione della visita di Ferdinand Maria, quando Vivaldi sostituì Giovanni Porta assente da Venezia per impegni a Monaco, la disponibilità di Vivaldi alla Pietà si dimostrò ampia, fondamentale per le celebrazioni di ospiti illustri. L’immagine dell’Ospedale non era affidata al maestro di coro, che era stato scelto per le sue capacità organizzative, ma a Vivaldi come compositore di fame e successo di livello europeo. Le difficoltà degli ultimi anni L’attività di insegnante alla Pietà, basata sul suo grande talento strumentale, e quella di compositore di musica sacra e strumentale per le occasioni celebrative della città, assicurarono a Vivaldi un successo di pubblico costante lungo tutta la sua carriera; al contrario i suoi rapporti con i nobili non furono facili. La tensione si determinò con alcuni ambienti della nobiltà ferrarese e che condusse alla disastrosa rappresentazione del Siroe. A fronte dell’ammirazione e del successo che egli aveva a teatro e con i suoi concerti le sue origini plebee ispiravano diffidenza ai membri della classe aristocratica, tanto più che il suo tenore di vita e l’entusiasmo imprenditoriale con cui perseguiva i propri affari lo esponevano al rimprovero di aspirare ad un innalzamento sociale. Questo aspetto della sua vita e le difficoltà ad essere accettato in determinati ambienti sono resi evidenti dal fatto che in campo teatrale Vivaldi-compositore doveva dipendere da Vivaldi-impresario: la gran parte dei drammi per musica che arrivarono sulle scene veneziane tra il 1714 e il 1739 furono rappresentati in teatri dove Vivaldi svolgeva anche l’incarico di impresario o dove aveva il controllo delle scelte artistiche della stagione. La carriera impresariale di Vivaldi e la relazione con l’attività compositiva è stata studiata da Strohm. La sua indagine presenta una visione cronologica degli allestimenti realizzati da Vivaldi insieme allo svolgimento delle funzioni impresariali condotte nel teatro in cui veniva chiamato. Individua 4 tipologie di intervento organizzativo. La più comune, realizzata al Sant’Angelo o al Teatro Arciducale di Mantova, era quella in cui Vivaldi svolgeva la funzione di impresario: tale funzione comprendeva la scelta dei libretti, dei cantanti e compositori cui sarebbero state commissionate le opere della stagione. La seconda tipologia era simile alla prima ma era limitata perché collegata ad una “stagione ridotta” comprendente una sola opera (il Catone in Utica del 1737 a Verona). Nella terza tipologia l’intervento organizzativo si riduceva e l’incarico affidato al compositore si limitava ad una scrittura per la preparazione dell’opera su libretto concordata con l’impresario: ciò si verificò a Firenze dove l’impresario era il duca Luca degli Albizzi. La quarta era la più lontana dagli interessi di Vivaldi perché non comprendeva né un ruolo organizzativo né di direzione dell’esecuzione: in questo modo furono realizzate alcune opere rappresentate a Praga dalla compagnia di Denzio, oltre alle 3 opere ferraresi del 1737 e 1739. La presenza di Vivaldi come impresario e compositore era la norma a Venezia e Mantova, mentre si ebbe una parziale separazione dei ruoli a Praga, dove Denzio organizzò le rappresentazioni Vivaldiane tra il 1730 e il 1735, a Firenze dove l’impresario era il duca degli Albizzi (con il quale il compositore ebbe tensioni) e nella disastrosa impresa di Ferrara. L’ultimo viaggio a Vienna Uno degli aspetti più sorprendenti dell’ultimo periodo della vita di Vivaldi è la mancanza di notizie che circonda la sua partenza da Venezia e la sua permanenza a Vienna e le circostanze della sua morte. L’ipotesi che Vivaldi sperasse in un appoggio dalla corte viennese è stata avanzata da Ryom fin dai primi anni 70. Vanno interpretati sia l’avvicinamento a Carlo VI, avvenuto con il primo incontro del 1728 e con il viaggio a Vienna alla fine del 1729, sia il rapporto con il successore Francesco I, all’epoca François III d’Etienne duca
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