Scarica Riassunto completo del libro "Dialogare" e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Dialogare Broccoli
IL LOGOS DEL MONDO GRECO
Il saggista George Steiner ha affermato che la storia del linguaggio, la vita del linguaggio, sono al
contempo la storia e la vita dello spirito umano, in quanto ogni tentativo di costruire il pensiero è
costretto a fare i conti con la codificazione di uno strumento linguistico. Anche Hegel ribadisce tale
assunto affermando che “noi udiamo noi stessi essere”. Il dialogo è quindi dimensione significativa
dell'esistenza umana del rapporto tra gli individui. L'individuo è infatti individuo poiché possiede
la parola, la quale a sua volta presuppone un rapporto con l'alterità.
Il dia-logos, possiede però una natura ambivalente, determinata infatti dal preverbo —dia, che esprime
un luogo “di mezzo” un “fra”, una separazione e dalla radice del verbo “legein’(mettere assieme). Esso
è quindi affermazione di sé come separato dall'altro, ma è anche apertura all'altro, e sulla base di
quest'ultimo aspetto possiamo riconoscere la dimensione etica ed esistenziale del dialogo di cui si
riconosce la potenzialità di umanizzazione.
La riflessione sull'uso della parola può prendere avvio dalle affermazioni di Italo Calvino che negli anni
‘80 del secolo scorso nella sua delle terze lezioni americane affermava che a suo avviso un'epidemia
pestilenziale avesse colpito l'umanità nella facoltà dell'uso della parola che era diventata così generica,
anonima e astratta, ossia diluita di significato. Da questa sua affermazione si può trarre una prima
conclusione: ogni dialogare è comunicare ma non ogni comunicare è dialogare: questo perché si
comunica per essere ascoltati e riconosciuti, per essere identificati come differenti dall'altro, ma tale
comunicazione può essere legata a molteplici fattori e fini; si può comunicare a fini informativi, quindi
trasmettere dati, ma in questo senso la comunicazione non è profonda, oppure la comunicazione può
essere intesa come apertura all'altro come relazione con l'altro, il che presuppone un riconoscimento
etico ontologico da ambo le parti.
È questo il secondo caso che corrisponde all'esperienza autentica del dialogare, che si manifesta come
una partecipazione autentica degli individui al mondo. Questa comunicazione si rivolge ad un
interlocutore con lo scopo di provocare modificazioni del suo spazio cognitivo ed è sostenuta a sua
volta da competenze comunicative, ossia i modi in cui parlare, i turni per prendere la parola, le
procedure per chiederla, alle figure con cui argomentarle, l'etichetta con cui rivolgersi agli altri
interlocutori. Altro prerequisito fondamentale per una comunicazione efficace è il mutuo
riconoscimento degli individui come appartenenti all’humanitas generale, accomunata dalla possibilità
di utilizzo del dialogo. Il dialogo è quindi possibile solo in caso di autentico riconoscimento ontologico
e valoriale tra esseri umani, basato su presupposti di uguaglianza e simmetria etica.
Lo stesso linguista Emile Benveniste sottolinea con enfasi la matrice originaria del dialogo a suo avviso
inscindibile dalla natura umana: è solamente infatti mediante il linguaggio che l'uomo si riconosce come
il soggetto distinto da un altro soggetto: la coscienza di sé è possibile unicamente per contrasto; io mi
riconosco come soggetto solamente se mi trovo di fronte ad un “tu” da me differente, che si trova in
relazione complementare con me.
Il dialogo viene a delinearsi a partire dal mondo greco arcaico, dove esso però è lontano dall’essere
una relazione con l’alterità, è bensi un rapporto verticale di parola-comando pronunciata dal dio e
mediata dall’oracolo, (concezione che ha preso avvio tra 8 e 7 sec a.c.). Il dialogo come apertura all’altro
viene a delinearsi a partire dalla filosofia di Socrate, ma conosce un lungo percorso di affermazione
come parola dialogica tra eguali.
Il logos greco appare sin dalle origini come lontano dalla idea di razionalità. La duplicità strutturale
della parola può essere esplicata a partire dal saggio di Friedrich Nietzsche sulla “Nascita della tragedia
greca”. L’idea di base è che la stessa natura umana sia caratterizzata da una duplicità di base, da uno
spirito apollineo e dionisiaco. Apollo, il dio profetico, presiederebbe al sublime e la pacatezza delle
forme, all’armonia e alla misura, mentre Dioniso dio dell’ebbrezza, è simbolo del continuo trasgredire
alle regole e l'ordine delle cose. Ma la stessa duplicità (come sottolinea Giorgio Colli) risiederebbe
anche all’interno della stessa divinità di Apollo, la cui analisi etimologica rivela la matrice del nome in
“apollumi”, ossia distruggere, fare perire e ciò spiega perché nell’ Iliade Apollo è il dio che scaglia la
freccia portatrice di malattia e morte. Inoltre la doppiezza del dio si concretizza con la parola oracolare
che si manifesta attraverso la pratica dell’invasamento della sacerdotessa Pizia. Dunque il contrasto tra
le divinità risiederebbe anche all’interno di una stessa divinità, a dimostrazione del fatto che il marcatore
originario del Logos è proprio la sua doppiezza di significato.
Ad ogni modo questa parola oracolare si può identificare in un processo verticale di mediazione tra dio
e i fedeli per mezzo della Pizia. Tuttavia questo tipo di comunicazione è sempre faticosa poiché un altro
aspetto caratteristico della parola oracolare è l’enigmaticità, come dimostra l'enigma della Sfinge.
Secondo il frammento di Pindaro (5 sec a.c.), il dio Apollo avrebbe inviato a Tebe la Sfinge, essere di
sembianze ferine, per presidiare le porte della città e lasciar passare solo chi avrebbe risolto l'enigma
sulle tre età dell’uomo. È proprio questo episodio che mette in luce un elemento caratterizzante del
mondo greco: la contrapposizione tra sapienza umana e la sapienza divina, dove la prima è
impotente di fronte alla volontà del dio. La parola oracolare dunque, enigmatica e che necessita di essere
decifrata, dimostra una certa ostilità e volontà di sfida del dio nei confronti dell’uomo, è una parola a
senso unico che non riconosce l’altro.
Il dio in questo senso gareggia con gli uomini, mettendoli alla prova e chiedendo al contempo
obbedienza, facendo palese il carattere agonistico, mistico, religioso del Logos greco.
È da questo carattere enigmatico e potremmo dire metaforico che si origina la poesia presocratica (come
sottolinea Steiner), tra 6 e 5 sec a. c., che si nutre di pensiero astratto e disinteressato. Il logos greco si
manifesta dunque oltre che come religioso, metaforico anche come poetico. E proprio nella dimensione
poetica si coglie la valenza paideutica ed educativa della parola: la poesia rievoca gesta di eroi valorosi
che fungono da modello dell’agire umano ed educano l'uditore alla virtù. Il legame con la religione si
esplica attraverso l’ispirazione del componimento da parte della divinità, (mediata dalle Muse, figlie
della memoria) che conferisce alla parola il carattere di verità. Il poeta dunque, sottrae la parola all’
oblio della dimenticanza, permette all’’aletheia” di rimanere viva nel pensiero comune e che per questo
deve essere sostenuta dalla “peithò”, dalla capacità di persuasione e dalle abilità del poeta, poiché
altrimenti la parola sarebbe vana.
DAL LOGOS AL DIA-LOGOS
Attorno al 6 sec a.c. alcuni avvenimenti storici hanno permesso il passaggio dal logos al dialogos, in
altre parole hanno permesso un'apertura di senso alla parola come relazione con l'altro, superando la
verticalità del Logos che fin ora si è descritto. Il dialogo nasce con la democrazia e probabilmente fra il
gruppo di uguali rappresentato dai soldati opliti (fanteria greca legata non dal sangue ma da rapporti di
contratto) che dopo la battaglia si spartiscono il bottino e sedendo in circolo prendono la parola a turno.
Pian piano questa dimensione di dialogo entra a fare parte della democrazia cittadina, permettendo al
logos il passaggio da parola religiosa a parola dialogo tra uomo-uomo. La parola diviene dunque
espressione di una soggettività in rapporto con l'alterità che assume come suo spazio specifico quello
dell’agorà, ed è per questo che con la nascita delle prime città il dialogos si trasforma in dialogare.
La parola assume dunque non più un carattere di verticalità, ma una connotazione circolare, e si afferma
come patrimonio di tutti. Il dialogare però in questo secolo è ancora in fase embrionale se si pensa che
il Demos fosse ancora privo di diritti individuali: difatti ad Atene nel 5 sec solo il 5% della popolazione
aveva diritto di voto. Tuttavia nonostante l'idea di uguaglianza fra i parlanti sia ancora in fase iniziale,
dal passaggio fra parola mistica e dialogare, si afferma una nuova connotazione del parlare, cioè quello
dialettico. Essa si definisce in età arcaica come arte della discussione fra due o più parlanti, le cui
origini vanno ricercate nell’ idea dialettica sorta in oriente molto tempo prima, legata allo sviluppo di
nella misura in cui si riconoscono a vicenda. La dualità che offrire ritrova in Hegel non è una dualità
che si ritrova nelle diverse parti della soggettività (apollineo e dionisiaco) né un'opposizione tra diverse
soggettività (opposizione/confutazione socratica) ma è in questo caso l'elemento che crea la
soggettività, perché premessa per l'autoconsapevolezza della coscienza. Non ci sarebbe quindi
autocoscienza, se non si riconoscesse l'autocoscienza che si ha di fronte, che in questo momento storico
non è ancora un riconoscimento valoriale e axiologico.
In anni più recenti è stato Paul Ricoeur ad offrire una trattazione del riconoscimento in matrice
axiologica. Per lui il termine, inteso in forma sostantivata può essere accostato al termine di
riconoscenza e in senso lato ai concetti di dono e grazia. Mentre in forma passiva esso rappresenterebbe
l'azione di farsi riconoscere, un’azione passiva che porta alla rinuncia a comprendere,
all’allontanamento da una volontà razionale di comprendere il mondo.
Inoltre Ricoeur insiste sul fatto che pur restando interminabile la lotta per il riconoscimento, il carattere
di conflittualità può essere ridotta dalla vicendevole e reciproca esperienza dello scambio del dono. A
partire da ciò si può costruire un'etica basata sul rispetto reciproco tra sé e altro, tra soggettività e
alterità, rinviando ad una realtà eticamente connotata e collocata all’interno di un ideale condiviso di
Humanitas.
Honnet dal canto suo definisce il riconoscimento come la necessità di un rispetto reciproco tra i membri
con pari dignità di una stessa comunità o come la necessità di riconoscere la specificità dell’altro.
Honnet traccia tre modalità storico semantiche del concetto di riconoscimento ascrivibili ad altrettante
aree geografiche del continente europeo. La prima è quella francofona, per cui il riconoscimento è di
matrice cognitiva, giacche coincide con il bisogno dei soggetti di essere riconosciuti nella loro società
di appartenenza, dunque il riconoscimento si fa omologazione in tal senso. Il pensiero inglese vede il
riconoscimento come approvazione etica del proprio agire secondo il giudizio pubblico della propria
comunità; il modello tedesco invece convalida la reciproca libertà degli esseri umani, è un atto di
autolimitazione morale, che convalida la reciproca autonomina razionale.
Ciò non toglie che questo riconoscimento reciproco possa conservare un possibile lato o elemento
polemogeno. Difatti il dialogare è sempre connotato da un -dia che ne rende ambiguo il concreto
esperire degli esseri umani. Paul Grice ha osservato come il dialogo poggi sulla convinzione ante
predicativa che gli interlocutori siano reciprocamente sinceri. Ma la possibile ambiguità del parlante
che potrebbe essere non sincero, è garanzia della possibilità di scelta libera di chi parla. tuttavia non è
solo il carattere più o meno sincero dell'interazione a qualificare il dialogare in senso etico: il contesto
sociale e di interazioni discorsive poggia sulla delicata dinamica ruolo-maschera-faccia che il contesto
costringe ad assumere nonostante la volontà di essere sinceri. Si potrebbe dire dunque che tutt'oggi la
comunicazione contempla il tema della maschera indossata dal parlante, tanto che Erwin Goffman ha
definito i modelli di interazione tra gli individui come una sorta di drammaturgia della comunicazione,
poiché a suo avviso sarebbe la faccia di chi parla di essere presa in considerazione in un ambiente
discorsivo non il suo vero io interiore. Ha ricordato Volli che l'etimologia generalmente accettata di
“persona” Lega questa parola al greco “prosòpon” cioè ciò che sta davanti agli occhi, cioè alla faccia,
una sorta di secondo volto costruito per una certa occasione discorsiva in particolare il teatro. Ciò non
toglie che questo riconoscimento reciproco possa conservare un possibile lato o elemento
polemogeno. Paul grice ha osservato come il dialogo poggi sulla convinzione ante predicativa che i
dialoganti siano sinceri reciprocamente. Tuttavia |
Conclusioni
Nelle considerazioni precedenti si è messo a fuoco il legame tra dialogo e relazione. Ma è solamente
con Martin Buber che tale legame acquisisce una valenza etica ontologica, poi che si salda all'idea di
mutuo riconoscimento reciproco. Buber infatti concepisce l'esperienza dialogica come la via d'uscita
dalla autoreferenzialità dell'io e dal solipsismo razionalistico che impedisce il legame tra esseri umani.
Egli muove dalla posizione di due coppie di vocaboli io-tu ed io-esso. Sono parole base che secondo
lui non vanno considerate come singole, tanto che l'io non può essere pronunciato senza riferimento
all'altro elemento dell'asse dialettico: senza il tu infatti l'io è un concetto vuoto. Non è il singolo soggetto
a osservare e ordinare il mondo ma è l'io tu a dare origine alla totalità dell'esperienza punto non è tuttavia
questa una relazione che fa scomparire le diversità, essa è comunque contrapposizione che lascia
cogliere l'unità nella molteplicità. Proprio perché la relazione tra esseri umani e fondativa ed originaria,
la relazione con il tu è immediata. Buber sembra fondare un nuovo modo dell'essere, l'essere non dell'io
o del tu ma del “tra”: perché il dire “tu” è realizzare concretamente il proprio statuto di relazione e l'io,
con la sua esistenza, è quindi manifestazione di relazione. Si può dire quindi che la vera scoperta di
Buber sia il “noi”. Senza il “tu” non si accede all'io e questa rivelazione è la scoperta di un “noi”
originario e originale.
La posizione del filosofo tedesco Jurgen Habermas si colloca su un versante più etico politico. Nel
saggio del 1985 intitolato il “Discorso filosofico della modernità”, Habermas riflette sull'ipotesi di
contrastare il logocentrismo del pensiero occidentale (espressione di una ragione strumentale che si
pone come obiettivo l'efficacia dei mezzi ma trascura la razionalità dei fini) e coniugarla al
rafforzamento dell'organizzazione della società in senso democratico emancipatorio attraverso gli
strumenti dell'agire comunicativo e dell'etica del discorso. Nell'ipotesi di Habermas il quadro storico
non solo autorizza ma costringe all'impegno. La razionalizzazione capitalistica ha prodotto il trionfo
della ragione strumentale che sta causando l'asservimento dei rapporti interumani alla logica del
dominio economico, e la trasformazione degli individui in strumenti di potere economico. Ci sarebbe
bisogno di una nuova aufklarung in grado di coniugare il rinnovamento cognitivo a quello morale
pratico. Ecco quindi la necessità di una teoria dell'agire comunicativo che si proponga come il tentativo
di innestare sul linguaggio (inteso come struttura universale del mondo) un apparato di regole
pragmatiche che favoriscono la comunicazione e la convivenza pacifica tra gli esseri umani. La
convinzione che esso regge questa ipotesi è che esista un codice etico della comunicazione, che impone
il rispetto di norme formali e sostanziali negli scambi verbali. L'agire comunicativo in altri termini,
sarebbe in grado di generare accordi razionalmente condivisi che possono costruire la base su cui
impostare la nuova vita sociale. Ne consegue che la velocizzazione dell'uomo e la vera democrazia
consistono nel definire e riconoscerle le regole di un discorso che promuova il consenso razionalmente
fondato. Il dialogare proposto da Habermas, si configura come costante esercizio di responsabilità: solo
da una relazione comunicativa di tipo collaborativo posso scaturire norme universalmente condivise e
utili per orientare la convivenza degli uomini.