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Riassunto Completo del Libro Viaggio nella grammatica di Maria G. Lo Duca, Sintesi del corso di Lingua Italiana

Riassunto completo del libro Viaggio nella grammatica di Maria G. Lo Duca. In questo documento ho integrato il saggio di Maria Lo Duca del libro Per una Didattica della parola verso la fine del primo capitolo; inoltre, nel terzo capitolo ho integrato il secondo capitolo del libro Grammatica Valenziale e Tipi di Testo di Francesco Sabatini in modo da avere un quadro completo di tutti gli argomenti. Ho studiato questo documento per l'esame di Didattica dell'Italiano al corso di SFP con il prof. Vincenzo Pinello

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 01/07/2024

Sophidda
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Scarica Riassunto Completo del Libro Viaggio nella grammatica di Maria G. Lo Duca e più Sintesi del corso in PDF di Lingua Italiana solo su Docsity! 1 VIAGGIO NELLA GRAMMATICA - MARIA G. LO DUCA CAPITOLO 1: Sull’opportunità di fare grammatica nella scuola primaria 1.1 Linguistica acquisizionale ed errori “creativi” dei bambini La LINGUISTICA ACQUISIZIONALE è quel campo di studi che si occupa dell’acquisizione della lingua materna da parte dei bambini. Secondo questa disciplina, l’acquisizione del linguaggio avviene non solo per imitazione del modello adulto ma anche grazie a un lungo processo di osservazione, selezione ed elaborazione dei dati linguistici che il bambino compie autonomamente. L’imitazione riguarda i suoni e le parole, soprattutto quando vengono usati in funzione di “etichette” (la mamma, mostrando un gatto, dice al bambino la parola “gatto” e lui la ripeterà). L’imitazione non avviene allo stesso modo per l’acquisizione della grammatica, ovvero per tutte quelle regole che governano la morfologia (le forme) e la sintassi (la struttura) della lingua, in assenza delle quali non sarebbe possibile costruire delle sequenze comprensibili e neppure capire le sequenze costruite da altri. Nell’acquisizione del linguaggio intervengono due ruoli fondamentali: l’esposizione del bambino alla lingua, ovvero gli input che riceve dall’ambiente familiare e sociale; e il bagaglio genetico, ovvero la capacità innata del bambino di trarre dagli input le informazioni necessarie per costruire il sistema della lingua. Dunque, potremmo identificare il processo di acquisizione della lingua come un processo creativo, che mette in gioco le abilità intellettuali del bambino, ovvero le sue capacità di osservare la realtà linguistica che lo circonda. Per capire qual è il percorso mentale fatto dal bambino, si possono analizzare gli ERRORI DI PRODUZIONE. Molti bambini piccoli riescono a produrre senza problemi le forme irregolari di alcuni verbi (aperto, diviso, vado, vengo ecc.) perché le hanno sentite e le hanno memorizzate. Ad un certo punto però, intorno ai tre anni (fase in cui un bambino normodotato riesce ad utilizzare la lingua), iniziano sbagliare producendo forme inesistenti nell’italiano (aprito, dividito, ando, vieno ecc.). Questo viene visto dei genitori come un processo di regressione del linguaggio del bambino ma in realtà non è così; anzi, un bambino che dice “io ando” ha già maturato una buona competenza linguistica. I bambini inconsapevolmente stanno ricostruendo il sistema dei verbi italiani: iniziano a capire che tali elementi (i verbi) identificano gli eventi e che la loro forma cambia al variare del protagonista dell’evento. Infatti, siccome stanno parlando di sé, utilizzano correttamente il soggetto “io” e inoltre, utilizzano la desinenza -o in quanto sanno che in tutti i verbi italiani, la desinenza della prima persona del presente indicativo è la o. Dunque, l’errore sta nella prima parte della formazione (and-) in cui il bambino cerca di trovare delle somiglianze con gli altri verbi che appartengono allo stesso gruppo e che conosce (andare, mangiare, giocare, cantare): sa che da mangiare si forma io mangio, da giocare si forma io gioco, da cantare si forma io canto, dunque, da andare si forma io ando. In definitiva, dall’errore possiamo interpretare e capire qual è il lavoro mentale del bambino e a quale livello di maturazione linguistica è arrivato. 1.2 I bambini “conoscono” la grammatica I bambini, al loro ingresso alla scuola primaria, “sanno” già moltissime cose (non facili) sulla grammatica della loro lingua materna. In ogni caso, la COMPETENZA GRAMMATICALE si costruisce gradualmente e secondo dei ritmi che cambiano da bambino a bambino (a causa di fattori sociali e familiari diversificati) ma la sua acquisizione è determinata da fattori mentali ed eventi maturazionali comuni a tutti i bambini. La competenza grammaticale dei bambini è una conoscenza inconsapevole, irriflessa e non verbalizzabile, cioè che i bambini non riescono ad esprimere a parole qual è il processo mentale che li ha portati a quella determinata costruzione della lingua. Per dimostrare che i bambini “sanno” già qualcosa della grammatica possiamo prendere in considerazione IL CASO DI SERENA, una bambina di quattro anni che si trovava un giorno a casa della nonna a disegnare. Ascoltando il dialogo tra le due sue nonne, sentì “questa bambina è GELOSA”; interpretò correttamente che “questa” si riferisse a sé stessa e ribatté dicendo “non sono una bambina FATTA DI GHIACCIO”. Per interpretare la reazione di Serena, supponiamo che la bambina non conoscesse il significato della parola “gelosa” e che deve aver accostato questa parola sconosciuta ad altre parole conosciute che hanno la stessa struttura (pauroso, coraggioso, capriccioso), ovvero parole segmentabili in due parti: la prima, chiamata parola di base (paura, capriccio, coraggio), e la seconda, uguale per tutte, chiamata suffisso (-oso). Serena sa che le parole che terminano con questo suffisso indicano una qualità, un modo di essere; sa che questo suffisso aggiunge alla parola di base un significato che si potrebbe tradurre con “pieno di”: un bambino pauroso è un bambino “pieno di paura”; un bambino coraggioso o capriccioso è un bambino che “fa molti capricci” o che è “pieno di coraggio”; una bambina gelosa è una bambina “piena di ghiaccio” (scompone la parola in due: “gelo” è la parola di base e -oso è il suffisso). In questo caso Serena sa qualcosa sulla morfologia dell’italiano, cioè sa distinguere i nomi dalle altre categorie lessicali e sa che le parole in -oso sono generalmente degli aggettivi. Due studiosi, Bialystok e Karmiloff Smith, hanno individuato TRE FASI DEL PROCESSO CICLICO attraverso il quale la mente umana elabora le informazioni: 1. IMITAZIONE: il bambino apprende le forme linguistiche per imitazione; dunque, la conoscenza non è analizzata; 2 2. RICOSTRUZIONE: in questo caso la conoscenza è analizzata ma implicita e inconsapevole in quanto il bambino arriva a cogliere il significato di una parola tramite la scomposizione della parola nei suoi elementi costitutivi e la ricomposizione degli stessi sulla base di alcune regole già conosciute (come il caso di Serena); 3. MATURAZIONE: il bambino ha sviluppato una maturazione cognitiva e linguistica che consente di arrivare ad un la forma consapevole della conoscenza. È in questa fase che la scuola deve intervenire per fare grammatica e guidare i bambini nella presa di coscienza sulle strutture formali della lingua. La scuola deve aiutare il bambino a prendere coscienza di ciò che sa già fare, passando da un “saper fare” ad un sapere concettuale: lo si fa ripercorrendo i percorsi mentali già fatti dal bambino, andando da ciò che è più facile a ciò che è più difficile e fissando con la terminologia tecnica le regole della lingua già scoperte. Dunque, il compito dell’insegnante sarà quello di condurre gradualmente il bambino a passare da una “grammatica implicita”, posseduta da ogni persona fin dalla nascita e che gli ha permesso di formulare frasi di senso compiuto senza nemmeno conoscere concetti quali il verbo o il soggetto, ad una “grammatica esplicita”, dato che tutti i bambini hanno una naturale propensione a riflettere sulla lingua. 1.3 Quando iniziare a fare grammatica? I bambini della prima classe primaria non partono da zero ma hanno già compiuto un lunghissimo percorso. Ricordiamo il CASO DI FRANCESCO (quattro anni e mezzo): ascoltando la storia di Noè, che accolse nella sua arca il gatto e la gatta, il cane e la cagna, il gallo e la gallina, il leone e la leonessa, e poi la volpe, la lepre e la tigre; a questo punto Francesco si chiese come mai di questi ultimi tre animali salirono sull’arca solo le "signore”. Così chiese alla nonna se anche il coccodrillo, il rinoceronte e il moscerino potessero salire sull’arca e alla risposta affermativa della nonna possiamo aver chiaro il dubbio di Francesco: non capiva perché alcuni animali avessero nomi solo di genere femminile e altri di genere solo maschile. Per ora Francesco è troppo piccolo per spiegargli il motivo ma questo ci fa capire che anche a scuola i bambini non smetteranno di fare domande sulla lingua. Gradualmente il bambino inizia a scoprire il principio fondamentale su cui si basano le scritture alfabetiche: - La corrispondenza suono-grafema, a cui corrispondono dei problemi legati alla mancata corrispondenza (come il grafema c in cane o cena) o le somiglianze sonore (ad esempio, m/n, r/l, s/z); - Scoprirà il fatto che a oggetti grandi corrispondono parole brevi e viceversa (treno, gru, formichina, pennarello); - Scoprirà che nel passaggio dall’oralità alla scrittura, il flusso continuo del parlato va segmentato sia a livello di singole unità (le parole separate da spazi bianchi), sia a livello di costituenti sintattici (separati da segni di punteggiatura); - Scoprirà che nella lingua scritta c’è una diversa distribuzione di maiuscole e minuscole in base a regole non facilmente individuabili. Questo ci fa capire che discutere su quando iniziare a fare grammatica alla scuola primaria è quasi inutile perché se l’acquisizione del linguaggio da parte dei bambini è scaturito da un lungo processo di analisi e se l’incontro con la lingua scritta fornisce una nuova opportunità nel confrontarsi con i problemi linguistici, la scuola non deve far altro che riconoscere, agganciare e valorizzare i processi mentali dei bambini e sfruttarli come momento di crescita collettiva e condivisa. 1.4 quattro buoni motivi per fare grammatica nella scuola primaria 1. Il primo motivo è di carattere STORICO-ISTITUZIONALE in quanto lo prevedono gli ordinamenti scolastici nazionali e di conseguenza anche libri di testo hanno sempre una sezione dedicata alla riflessione sulla lingua. Infatti, chi decidesse di non fare grammatica nel primo ciclo di istruzione (fino alla scuola media) andrebbe contro i programmi scolastici statali. Facendo un passo indietro nel tempo, i primi Programmi scolastici prevedevano di far acquisire una discreta padronanza della lingua italiana ai moltissimi alunni dialettofoni attraverso l’impartizione sistematica delle regole grammaticali, magari chiedendo loro di imparare i paradigmi della lingua a memoria. E, dato che l’anno scolastico finiva in seconda elementare, questa somministrazione di nozioni grammaticali in un tempo brevissimo portava all’idea che la grammatica fosse una “materia tormentatrice e addirittura assassina”. 2. Il secondo motivo ha che fare con lo SVILUPPO DELLE ABILITÀ. Molti pensano che abituare i bambini a riflettere sulla lingua li aiuti a migliorare le loro prestazioni linguistiche, la comprensione di testi e la produzione scritta. Tuttavia, come sottolineato dalle 10 tesi del GISCEL, “pensare che la riflessione sulla lingua e sulle sue regole grammaticali possa portare ad un effettivo rispetto della stessa, è come pensare che chi conosce meglio l’anatomia delle gambe corre più svelto”. Dunque, non bisogna schierarsi in modo netto in un senso o nell’altro, ovvero pensare che la riflessione grammaticale migliora le prestazioni linguistiche oppure addirittura che non serve, ma bisogna capire quali sono le circostanze, le età e in quali ambiti la riflessione sulla lingua possa effettivamente migliorare le capacità di uso della stessa. 5 (Per semplificare il compito) Hanno lo stesso numero di lettere? Qual è la parola più lunga? Che cosa c’è in più nella parola più lunga? Queste domande mirano a far notare l’esistenza delle parole derivate e la funzione di quei piccoli elementi che chiamiamo suffissi (-aio). Domande che sollecitano INFERENZE E GENERALIZZAZIONI: sono uno sviluppo delle domande precedenti. - Ad esempio, dopo aver riflettuto sull’uso della maiuscola nella distinzione tra nomi comuni e nomi propri, si potrebbero collegare altre domande e riflessioni: quante città ci sono? E quante Milano? O Palermo? In questo modo facciamo a scoprire ai bambini l’unicità dei nomi propri e di conseguenza la mancanza del plurale, a differenza dei nomi comuni che hanno anche il plurale (il fiume/i fiumi vs. Il Po/i Po/i Pi). - Dopo aver parlato dell’esistenza delle parole derivate, si potrebbero presentare altre coppie di parole (Fiore - Fioraio / Benzina - Benzinaio / Giornale - Giornalaio/ Tabacchi - Tabaccaio) ma riflettere, in questo caso, sul significato del suffisso (-aio) e arrivare alle regole per cui il significato delle parole derivate è dato dalla somma del significato della base più il significato del suffisso e che queste quattro parole che terminano in -aio, fanno riferimento a delle persone che vendono fiori/benzina/giornali/Tabacchi. - Se vogliamo far scoprire ai bambini la regola dell’accordo tra soggetto e predicato, si potrebbero presentare due serie di frasi e chiedere cosa c’è che non va nella seconda serie: la mamma sta cucinando/la mamma stanno cucinando; io non voglio cantare/io non volete cantare; Marco dormiva/Marco dormivano; i ragazzi sono arrivati/i ragazzi è arrivato. Alcuni pensano che le sequenze agrammaticali non dovrebbero mai essere usate in classe perché una volta utilizzate dal docente, potrebbero acquisire agli occhi degli allievi una loro legittimità. Ma l’esperienza in questo campo smentisce quest’idea e afferma che il cervello impara solo quando c’è un divario tra le sue attese e ciò che invece riceve. Domande di ESPANSIONE DEL CAMPO DI INDAGINE: sono domande che riprendono dei concetti già introdotti, ai quali però vengono applicati dei nuovi dati, al fine di scoprire altre possibilità e articolazioni della lingua. - Ad esempio, riprendendo il fatto che il suffisso -aio nelle domande descritte precedentemente forma nomi di agente, possiamo introdurre una seconda serie di parole con lo stesso suffisso che formano nomi di luogo (pollo/pollaio, bagagli/bagagliaio, ghiaccio/ghiacciaio, grano/granaio) e possono essere definite come “luogo in cui c’è/ci sono polli, bagagli…”. Inoltre, possiamo introdurre anche altre parole, come vivaio, mortaio, solaio e chiedere: anche queste parole sono derivate dall’aggiunta del suffisso -aio? Quali sarebbero le parole di base? In questo caso bisogna fornire agli studenti gli strumenti necessari (dizionario) affinché possano rispondere adeguatamente. Nella ricerca sperimentale svolta da Lo Duca, analizzando la parola “mortaio”, alcuni bambini hanno risposto correttamente definendolo come “l’oggetto per pestare il pepe o il sale” perché ne hanno avuto esperienza, mente altri bambini lo hanno definito come “il luogo in cui ci stanno i morti, ovvero il cimitero” perché hanno applicato le recenti scoperte per cui le parole che terminano in -aio formano nomi di luogo (come pollaio, bagagliaio). Domande di MANIPOLAZIONE: mirano a far riflettere i bambini su cosa succederebbe se si cambiassero degli elementi in una parola o in una frase, al fine di capire l’ambito di applicazione di una certa regola. Sono domande del tipo “che cosa accade se…?”. - Per far scoprire ai bambini il valore distintivo dei fonemi, oltre ad educare una corretta articolazione dei suoni, si potrebbe chiedere: conosci la parola “treno”? Che cosa significa? Che cosa succede se cambio la prima lettera e scrivo “freno”? E se cambio la quarta lettera e scrivo “tremo”? - Con i bambini più grandi, si potrebbe presentare la sequenza “lo specchio” o “lo zucchero” in contrapposizione delle sequenze in cui viene sostituito il secondo elemento con un verbo, come ad esempio “lo vedo”, “lo ascolto” ecc. e chiedere: questo “lo” è lo stesso nelle due sequenze? Svolge la stessa funzione? (“lo specchio” è articolo + nome; “lo vedo” è pronome oggetto diretto + verbo). Domande di RICHIAMO: mirano a richiamare le conoscenze già possedute in quella che gli psicologi dell’apprendimento chiamano “memoria a lungo termine”. Sono tipiche della didattica tradizionale e hanno uno scopo valutativo ma la loro funzione diventa importante se vengono utilizzate per arricchire e ristrutturare le conoscenze già in memoria. - Ad esempio, si potrebbe partire da sequenze già conosciute (fiore/fioraio, pollo/pollaio, piano/pianista, camion/camionista) e chiedere i bambini a quale categoria lessicale appartengono le parole di base e le parole derivate. Se si parte dall’idea che da nomi (di base) si formano altri nomi (derivati) con l’aggiunta di un suffisso, si potrebbe cadere in una generalizzazione errata in quanto esistono altre parole, come pauroso/rumoroso (aggettivi da nomi) cantante/insegnante (nomi da verbi) o velocemente/lentamente (avverbi da aggettivi) oppure bellezza/saggezza (nomi da aggettivi), formate da suffissi che hanno la capacità di cambiare (o non cambiare) la 6 categoria lessicale della parola di base. Dunque, non tutti suffissi servono solo a formare nomi da nomi, ma possono anche creare aggettivi, avverbi ecc. Questo mostra la versatilità e la complessità della lingua. Domande con PIÙ RISPOSTE: si presentano agli studenti delle frasi strutturate in maniera diversa (al congiuntivo o all’indicativo) al fine di condurre gli studenti a identificare il modo verbale e successivamente ad individuare un criterio di scelta condiviso fra le due opzioni. - Per identificare il modo verbale: “Mi pare che abbiano rimandato la gara” (congiuntivo) e “Mi pare che hanno rimandato la gara” (indicativo) oppure “Alcuni credono che il cambiamento climatico sia ormai irreversibile” (congiuntivo) e “Alcuni credono che il cambiamento climatico è ormai irreversibile” (indicativo). Si chiede agli studenti: cosa cambia tra la prima e la seconda versione di queste frasi? Si possono usare entrambe le opzioni? Quando parlate quale usate normalmente? E quando scrivete? - Successivamente, per stabilire il criterio di scelta tra le due opzioni si chiede: ammesso che entrambe le versioni siano possibili, quali sono i criteri da tenere presenti nella scelta di un’opzione o dell’altra? Adesso, si può avviare una riflessione in termini di sociolinguistica, cioè che il criterio di scelta cambia in base ai parametri di variazione linguistica: Diastratia (età - istruzione del parlante); Diatopia (area di provenienza); Diamesia (mezzo di comunicazione); Diafasia (contesto - situazioni). 1.6 che cosa significa fare grammatica nella classe multilingue? Il nostro Paese è un luogo di incontro e di scambio tra lingue e culture diverse; oltre all’italiano, ci sono i dialetti (ancora praticati nella vita familiare e non solo), l’inglese e tutte le lingue parlate dagli immigrati (molto lontane dalle categorie lessicali a cui siamo abituati). In classe, l’italiano, l’inglese e il latino vengono studiate e sono oggetto di valutazione, mentre tutte le altre lingue sono spesso ignorate. La presenza di alunni stranieri con diversi livelli di competenza in italiano viene vissuta dagli insegnanti come un ostacolo per il normale svolgimento del lavoro; a volte è veramente così ma bisognerebbe trasformare queste situazioni obiettivamente difficili in opportunità positive per tutti, lavorando proprio sull’insegnamento della grammatica. L’idea che sta alla base è che l’interazione con i compagni di classe è fondamentale per una migliore acquisizione della lingua in quanto il lavoro di gruppo motiva i bambini meno competenti a partecipare e allo stesso modo, il contributo dei più competenti fornisce modelli di riflessione a “portata di bambino”. Inoltre, i bambini di origine straniera, grazie al bilinguismo, hanno un vantaggio in più nell’apprendimento della lingua rispetto ai compagni italofoni esclusivi perché devono organizzare due diversi sistemi linguistici, sviluppando così maggiori competenze metalinguistiche. Questo permette loro di compensare eventuali lacune espressive. I bambini stranieri quando tentano di parlare o di scrivere in italiano spesso sbagliano perché mettono a confronto la loro lingua con l’italiano cercando delle congruenze; allo stesso tempo, permettono agli insegnanti di intravedere i loro percorsi mentali e il livello di competenza. Dunque, insegnare la grammatica nelle classi multilingue è possibile e auspicabile, adottando una metodologia basata sulla domanda e sulla scoperta, la quale coinvolge attivamente gli studenti, valorizza gli errori come opportunità di apprendimento e li guida nella scoperta autonoma delle regole grammaticali. Questo approccio rende l’ora di grammatica più piacevole e stimolante. CAPITOLO 2: Quale sillabo grammaticale nella scuola primaria? Il SILLABO è quella parte di attività curricolare che si riferisce specificatamente ai contenuti di insegnamento che sono messi in sequenza con progressione ragionevole e in un arco temporale definito. Scegliere i contenuti significa scegliere cosa fare e cosa non fare, mentre la messa in sequenza è la decisione su quando presentare un certo tema, in quale ciclo, in quale anno e con quali priorità. Il curricolo, invece, è un concetto più ampio che contiene il sillabo e tutte le fasi dell’intervento, della definizione degli obiettivi e la valutazione. Il SILLABO GRAMMATICALE è una lista di contenuti grammaticali che si ritiene di dover affrontare in classe nel corso dei cinque anni della scuola primaria. 2.1 Programmazione didattica e Indicazioni Nazionali All’interno della disciplina di italiano, le Indicazioni Nazionali del 2012 individuano gli “Elementi di grammatica esplicita e di riflessione sugli usi della lingua”, validi per tutto il primo ciclo (fino alla terza media) e che riguardano: - Le strutture sintattiche delle frasi semplici e complesse (per la loro descrizione, l’insegnante poi sceglierà il modello grammaticale di riferimento più adeguato ed efficace); - Le parti del discorso (o categorie lessicali); - Gli elementi di coesione, che servono a mettere in rapporto le diverse parti della frase del testo (connettivi, pronomi, segni di interpunzione); - Il lessico e la sua organizzazione; - Le varietà dell’italiano più diffuse. 7 Il passo successivo è la messa in sequenza (sequenziazione) di questi contenuti, il loro frazionamento e la loro ripetizione negli otto anni previsti. Nelle Indicazioni Nazionali troviamo: - TRAGUARDI PER LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE AL TERMINE DELLA SCUOLA PRIMARIA, in cui si elencano tutte le COMPETENZE che l’allievo deve sviluppare nel corso dei primi cinque anni di scolarità: scambi comunicativi; ascolto e (con) comprensione; comprensione globale e analitica dei testi scritti (selezione delle informazioni e sintesi); produzione di testi scritti chiari e coerenti; capisce e usa i vocaboli fondamentali e di alto uso; appropriatezza comunicativa (usi linguistici nelle situazioni comunicative); conoscenze fondamentali relative all’organizzazione logico-sintattica della frase semplice. - OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO, divisi in due parti (obiettivi da raggiungere entro la terza classe della scuola primaria e obiettivi da raggiungere entro la quinta classe) e ad ognuna delle due sezioni si dedica una particolare attenzione a Ascolto e parlato, Lettura, Scrittura, Acquisizione ed espansione del lessico ricettivo e produttivo, Elementi di grammatica esplicita e riflessione sugli usi della lingua. Per i primi tre anni, gli obiettivi di apprendimento riguardano: (le parole evidenziate sono le parole chiave) 1. Confrontare testi per coglierne alcune caratteristiche specifiche (ad esempio maggiore o minore efficacia comunicativa, differenza tra testo orale e testo scritto…); 2. Riconoscere se una frase è o no completa, costituita cioè dagli elementi essenziali (soggetto, verbo, complementi necessari); 3. Prestare attenzione alla grafia delle parole nei testi e applicare le conoscenze ortografiche nella propria produzione scritta; Per il quarto e il quinto anno: 1. Riconoscere la variabilità della lingua nel tempo e nello spazio geografico, sociale e comunicativo, relativamente a testi o in situazioni di esperienza diretta; 2. Conoscere i principali meccanismi di formazione delle parole (parole semplici, derivate, composte); 3. Comprendere le relazioni di significato tra le parole (somiglianze, differenze, appartenenza a un campo semantico); 4. Riconoscere la struttura del nucleo della frase semplice (la cosiddetta frase minima): predicato, soggetto, altri elementi richiesti dal verbo; 5. Riconoscere in una frase o in un testo le parti del discorso e le congiunzioni di uso più frequente (e, ma, infatti, perché, quando); 6. Conoscere le fondamentali convenzioni ortografiche e servirsi di questa conoscenza per rivedere la propria produzione scritta e correggere eventuali errori. In conclusione, le Indicazioni Nazionali danno dei suggerimenti ai docenti sulle scelte didattiche da adottare senza troppi vincoli, ponendosi come un “testo aperto”. Dunque, i docenti possono programmare la materia grammaticale secondo le loro convinzioni e possibilità, tenendo conto però del contesto socioeconomico della scuola e della presenza di alunni bisognosi di cure particolari. 2.2 Errori di programmazione e non solo Secondo le Indicazioni, i due capisaldi della riflessione grammaticale sono: l’analisi grammaticale (riconoscimento e denominazione delle categorie lessicali) e l’analisi logica (riconoscimento determinazione degli elementi della frase semplice e complessa). Nonostante le numerose versioni dei documenti ministeriali, negli anni assistiamo a semplici piccole variazioni per quanto riguarda la morfosintassi; di conseguenza, la classe organizza la riflessione sulla lingua seguendo uno schema generalmente fisso: - Nella scuola primaria, ci si dedica alla morfologia e alle parti del discorso e solo parzialmente sulla sintassi della frase semplice; - Nella scuola secondaria di primo grado, ci si concentra sull’analisi della frase semplice, anticipando (l’ultimo anno) la sintassi del periodo (frase complessa); - Nel primo biennio della scuola secondaria di secondaria di secondo grado, si riprende la sintassi della frase complessa facendo riferimenti anche ad alcuni fenomeni della grammatica del testo (anafore, connettivi); - Nel triennio, si fa grammatica sul latino, sul greco classico o sulle lingue moderne (inglese, francese, spagnolo). Secondo Lo Duca, quello che non funziona è che si pensa che sia opportuno cominciare a fare grammatica dagli elementi più piccoli della lingua, ovvero le parole (morfologia) per poi passare all’analisi delle frasi semplici, successivamente alle frasi complesse, per finire con alcuni elementi di grammatica del testo: ciò significa procedere dal più piccolo al più grande, nella convinzione che il più piccolo sia più facile. Molte esperienze ci dicono invece che bisogna partire 10 (parte iniziale della parola, chiamata invariabile) e desinenza (parte finale della parola chiamata parte variabile del discorso); nomi alterati (zainetto, bacetto) e derivati (fiore/fioraio); numerabili (che si possono numerare: gatto, bambino) e non numerabili (pazienza, latte); la formazione del femminile dei nomi di persone e di animali ecc. Anno dopo anno, vengono introdotte altre categorie lessicali (verbo, frase, segni di punteggiatura) utilizzando uno strumento che i bambini impareranno presto a usare, ovvero il dizionario. Ogni tema viene presentato partendo dagli aspetti più semplici e immediati, sulla base della competenza già sviluppata dei bambini attraverso un percorso graduale che si protrae per tutti gli otto anni del primo ciclo di istruzione Il sillabo grammaticale per il primo ciclo sviluppato dai docenti di Bolzano adotta il modello valenziale proposto da Sabatini, che si basa su una metodologia ciclica e a spirale in cui i temi affrontati vengono ripresi ogni anno con l’aggiunta di nuovi dettagli e approfondimenti. Gli insegnanti non forniscono definizioni ma solo esempi, per permettere al bambino di riconoscere e denominare gli oggetti grammaticali in modo naturale attraverso l’esperienza ripetuta. Tutte le attività sono state testate in diverse classi per più anni, dimostrando l'accessibilità del modello. - Prima Classe: i bambini iniziano a giocare con le frasi, individuando e ritagliando parole da sequenze compatte (ilcanecorresulprato) per poi ricomporre le frasi originali. - Seconda Classe: attività su frasi e non frasi (sequenze grammaticali e agrammaticali), con un focus sul ruolo fondamentale del verbo. - Terza Classe: la frase viene vista come una rappresentazione di un evento, con i bambini che "mettono in scena" gli eventi e discutono sugli attori indispensabili, introducendo termini come "argomento" e "frase nucleare". - Quarta Classe: si approfondiscono gli argomenti del verbo (soggetto, oggetto diretto, oggetto indiretto) e si introducono circostanti ed espansioni. - Quinta Classe: si ricompone il quadro generale e si lavora sulla rappresentazione grafica della frase semplice attraverso schemi radiali. 4. Morgese propone una scansione delle categorie lessicali e l'analisi della frase secondo il modello valenziale, attraverso giochi e attività. L'obiettivo non è andare contro le scelte ministeriali ma dimostrare che è possibile spalmare quei contenuti proposti nelle cinque classi della primaria, attraverso un metodo attivo che renda piacevole la riflessione sulla lingua. 5. Spadotto non segue un approccio curricolare rigido in quanto affronta solo alcuni temi delle Indicazioni Nazionali e introduce riflessioni su aspetti non previsti, rispondendo alle domande dei bambini e guidandoli nella ricerca autonoma delle risposte. Spadotto non sostiene l'utilità di un sillabo predefinito, adattando invece l'insegnamento alle esigenze della classe. L’autrice del libro condivide con Colombo l’idea di proporre un SILLABO CICLICO per l’insegnamento della grammatica, che mira a costruire un sapere grammaticale solido, condiviso e facilmente applicabile attraverso la differenziazione, per cui ogni nuovo elemento aggiunto offre nuovi dettagli o concetti che si costruiscono su quelli già conosciuti; la sistematizzazione, in cui la costruzione e l’ampliamento progressivo di una mappa concettuale aiutano ad organizzare e strutturare le conoscenze grammaticali; il ri-uso, per cui riprendere periodicamente i concetti già affrontati consente di evitare l’oblio e di consolidare le conoscenze acquisite. CAPITOLO 3: Alla scoperta della sintassi (accorpato con il 2° capitolo di Grammatica valenziale e tipi di testo) Molti insegnanti associano la SINTASSI a quella parte della grammatica che analizza la struttura della frase, focalizzandosi sull’analisi logica (analisi della frase semplice) e sull’analisi del periodo (analisi della frase complessa). 3.1 La frase, tra lingua comune e grammatica Comunemente, il termine “frase” si riferisce ad un’espressione linguistica o ad una sequenza di parole con un significato riconoscibile. Tuttavia, in un contesto comunicativo reale (che sia scritto o orale), le espressioni linguistiche pronunciate spesso non coincidono con la struttura della frase-tipo, poiché si fa affidamento all’interpretazione dell’interlocutore (tratti diatopici o diafasici). In grammatica, ciò che chiamiamo comunemente “frase” viene in realtà definito “enunciato”, mentre la frase assume un significato più tecnico e ristretto. Entrambi i termini fanno riferimento ad una sequenza di parole che ha un significato riconoscibile, ma hanno delle differenze: - ENUNCIATO: è un frammento di lingua reale, scritto (compreso tra due segni di interpunzione forte) o parlato (compreso tra due pause importanti), che si colloca in una specifica situazione comunicativa. Fa riferimento al contesto interlocutorio, ai partecipanti dell’atto di comunicazione (emittente e ricevente) e alle loro conoscenze pregresse. Infatti, un enunciato ha senso compiuto anche se non contiene tutti gli elementi verbali perché dipende dal 11 contesto in cui è stato prodotto: attenti al cane; forse lo compro; a casa di Piero (che potrebbe rispondere alla domanda “Dove ci troviamo stasera?”). Dunque, solo se inserito in una certa situazione diventa comprensibile; al contrario, non ha significato. - FRASE (in grammatica): è un modello astratto, una rappresentazione ideale dell’enunciato, che ha senso compiuto solo attraverso gli elementi verbali che la compongono. La frase segue regole precise di combinazione tra suoni, parole, pause e tonalità (che non sono immediatamente percepibili ma fondamentali per la struttura del linguaggio verbale umano). Una frase può anche essere un enunciato se inserita in una situazione comunicativa reale, acquisendo significato concreto grazie al contesto e alle circostanze in cui viene pronunciata o scritta. Ad esempio, la frase "È tardi" è una struttura grammaticale completa ma quando viene detta in una situazione particolare, come durante una conversazione tra amici che devono prendere un treno, diventa un enunciato: indica che è ora di muoversi per non perdere il treno. 3.2 Modelli teorici e insegnamento della grammatica L’obiettivo dei linguisti e dei grammatici è quello di sviluppare dei modelli per comprendere il funzionamento di una lingua. Questi modelli non sono riproduzioni esatte della lingua ma ricostruzioni teoriche che ne facilitano la comprensione. Esistono diversi modelli come quello strutturale, nazionale, generativo, valenziale e lessico-funzionale. A scuola prevale il “modello tradizionale”, noto perché è stato sperimentato da molti insegnanti e non è una proposta di un singolo linguista ma è un insieme di pratiche scolastiche derivate dalla tradizione greco-romana e successivamente arricchite nel corso dei secoli. Tuttavia, la scelta per un insegnante dovrebbe essere quello di adottare un approccio eclettico, ovvero aperto al confronto con tutti i modelli e tutte le scuole, adattandosi alle esigenze specifiche dei propri studenti. 3.3 Parole che vanno d’accordo Per introdurre la sintassi ai bambini, possiamo partire dalla definizione che Presciano dà alla frase: “combinazioni coerenti di parole”, ovvero “parole che vanno d’accordo”; fa riferimento al fatto che le parole di una lingua devono accordarsi tra di loro secondo delle regole precise. Si può iniziare a fare una riflessione esplicita su questo tema attraverso degli esercizi di scrittura. Ad esempio, per introdurre la regola dell’accordo tra l’articolo e il nome possiamo presentare diverse attività: - Proporre ai bambini di scrivere il nome di persone o oggetti accanto alle immagini che le rappresentano, facendo notare che spesso i nomi sono preceduti da “paroline” (che prima o poi impareranno a chiamare “articoli”); - Fornire delle liste di sequenze articolo-nome, chiedendo ai bambini di distinguere tra quelle corrette e scorrette; - Presentare una lista di nomi (maschili e femminili, singolari e plurali) e chiedere di aggiungere l’articolo corretto, discutendo con le scelte fatte. In questo modo, oltre a introdurre il nome e l’articolo, si parlerà anche di “genere” e “numero” spiegando che il nome “comanda”, sceglie l’articolo: come si dice linguistica, è il capo o la testa. Stessa cosa vale quando i bambini incontreranno altri elementi che accompagnano i nomi, come aggettivi e articoli indeterminativi, e anche in questo caso, il nome si comporterà sempre da “testa” del gruppo, influenzando la forma di questi elementi. Gli articoli precedono sempre il nome; invece, i vari gruppi di aggettivi non si comportano allo stesso modo: - Gli aggettivi dimostrativi, indefiniti, numerali e interrogativi devono precedere i nomi (quel libro, alcuni libri). Presentare ai bambini liste di esempi grammaticali (quel libro) e agrammaticali (libro quel) affinché siano i bambini a scoprirlo autonomamente. Con gli aggettivi ordinarli numerali ci sono dei casi particolari: si dice la seconda strada ma anche Elisabetta II. - Gli aggettivi possessivi e qualificativi possono precedere o seguire il nome (la mia bambola/la bambola mia oppure la vecchia casa/la casa vecchia). I diversi posizionamenti degli aggettivi qualificativi possono cambiare il significato del sintagma, con funzione descrittiva (la giovane figlia di Francesca, cioè descrive un modo di essere “giovane”) o restrittiva (la figlia giovane di Francesca, cioè restringe il significato del sintagma consentendo di individuare a quale persone ci si riferisce: alla figlia giovane di Francesca e non alla “figlia vecchia”, il che comporta che Francesca abbia almeno un’altra figlia). - Gli aggettivi di colore generalmente seguono il nome, non lo possono precedere (una gonna azzurra; non “una azzurra gonna”). Infine, quando si parlerà della frase, sarà importante richiamare l’attenzione sulle regole di accordo tra soggetto e predicato, presentando sequenze grammaticali (il gatto dormiva) e sequenze agrammaticali (il gatto dormivano) per aiutare i bambini a riconoscere e comprendere le corrette combinazioni. 12 3.4 Il sintagma, questo sconosciuto Un SINTAGMA è un costituente linguistico che si colloca tra la parola e la frase, composto da due o più parole collegate tra di loro (o anche da una sola parola). Ad esempio, un sintagma che ha come testa un nome è detto “sintagma nominale”. La tradizionale “analisi logica” scomponeva la frase semplice nei suoi costituenti costituiti da sintagmi (soggetto, predicato e complementi). Ad esempio, nella frase “il mio gatto / si è arrampicato / su un albero altissimo”, possiamo identificare tre sintagmi: 1. Sintagma nominale: “il mio gatto”, con il nome “gatto” come testa che condiziona l’accordo tra oggettivo (mio) e articolo (il); 2. Sintagma verbale: “si è arrampicato”, il cui verbo è arrampicarsi; 3. Sintagma preposizionale: “su un albero altissimo”, introdotto da una preposizione (su) e con “albero” come testa che condiziona l’accordo con l’articolo (un) l’aggettivo (altissimo). Si può verificare la correttezza dei sintagmi spostando i tre costituenti, attraverso il criterio che Graffi chiama del “movimento” (possono essere spostati insieme da un punto ad un altro senza perdere significato) oppure dell’“ininseribilità” (il sintagma della frase di partenza non può essere interrotto dall’introduzione del secondo sintagma: il mio si è arrampicato gatto / su un albero altissimo). Per insegnare i bambini la segmentazione delle frasi, possiamo utilizzare attività pratiche come: - Tagliare frasi su strisce di carta per ragionare su quale delle segmentazioni funziona meglio. - Presentare due frasi già segmentate in maniera diversa per discuterne l’accettabilità e il significato. Ad esempio: La casa di montagna / è stata venduta / a una famiglia cinese La casa / di montagna / è stata venduta / a una famiglia / cinese Entrambe le segmentazioni sono valide ma mostrano come i sintagmi possono contenere altri sintagmi, chiamati modificatori, che aggiungono informazioni. Il sintagma “di montagna” specifica qualcosa relativa alla casa; il sintagma “a una famiglia cinese” è un aggettivo che specifica la nazionalità della famiglia. Un’altra attività potrebbe essere quella delle “frasi buffe” (Morgese), in cui i sintagmi sono stravolti, evidenziando l’importanza del corretto ordine dei costituenti. Ad esempio: “Si vendono letti a castello per bambini di legno”. Oppure l’attività delle “frasi ambigue” e chiedere ai bambini di segmentarle correttamente, mostrando come la diversa struttura dei sintagmi può cambiare il significato della frase. Ad esempio: Il vigile / ha inseguito / il ladro in bicicletta Il vigile / ha inseguito / il ladro / in bicicletta Entrambe sono grammaticalmente corrette ma indicano situazioni diverse: nella prima il ladro si muove in bicicletta; nella seconda, è il vigile in bicicletta. 3.5 La frase? È un “piccolo dramma” Secondo il modello tradizionale, una frase è composta da un soggetto, “ciò di cui si parla” e un predicato, “ciò che si dice del soggetto”. Tuttavia, analizzando frasi ridotte all’essenziale, cioè formate solo da soggetto e predicato, come “Maria dorme” o “Maria russava” e “Maria sta prendendo” o “Maria abitava”, notiamo che non tutte sono complete; quelle incomplete le chiamiamo sequenze agrammaticali. Dunque, ci rendiamo conto che la definizione di frase secondo il modello tradizionale non è esatta. Il MODELLO VALENZIALE, proposto da Lucien Tesnière negli anni ‘50, offre una rappresentazione della struttura della frase diversa rispetto al modello tradizionale, più semplice e adatta anche i bambini ma capace di spiegare molti casi complessi. Questo modello prende il nome da una proprietà del perno verbale, chiamata valenza. Si analizza la frase a partire dall’individuazione del verbo, considerato il “motore” della frase, che da categoria lessicale (come il nome, articolo, aggettivo), che diventa predicato (categoria sintattica come il soggetto, l’oggetto diretto) in relazione con gli altri elementi della frase. Il predicato permette di attivare una “scena” o una sorta di “piccolo dramma” (così definito da Tesniére), che necessita di un certo numero di partecipanti o attori, chiamati valenze o argomenti, per completare il significato della frase. Ad esempio, il verbo “baciare” richiede due argomenti obbligatori: qualcuno che bacia (soggetto) e qualcuno che viene baciato (oggetto diretto). Negli enunciati, questi argomenti possono essere sottintesi a condizione che siano recuperabili dal contesto (“la mamma mi prese e mi baciò”: soggetto “la mamma”, oggetto diretto “mi”) o dalla morfologia del verbo (“l’ho baciato!”: soggetto “io”, oggetto diretto “lo”). Dunque, il modello valenziale 15 - La frase minima stesso viene definita come una sequenza di soggetto e predicato, senza considerare i complementi obbligatori del verbo. Questo porta definire frasi incomplete e agrammaticali come “il bambino rincorre” e “la maestra consegnato” come frasi minime, quando in realtà non lo sono. - La parola “complemento” è stata sostituita con “espansione”, ma questa sostituzione è inappropriata nel contesto del modello valenziale. Non tutti i complementi della tradizione sono espansioni e non tutte le espansioni corrispondono ai vecchi complementi. Ad esempio, l’oggetto diretto è un argomento necessario e il complemento indiretto è un argomento del verbo, necessario a rappresentare compiutamente l’evento; non sono espansioni. Dunque, complemento ed espansione non sono sinonimi. 3.10 Ricerche e sperimentazioni 1. I docenti di Bolzano propongono delle attività basate sul modello valenziale di Sabatini (vedi par. 2.5); 2. Gabrielli propone un approccio ludico al modello valenziale attraverso il gioco “semaforo della frase” in cui i bambini devono colorare il semaforo con il verde se la frase è ben formata, con il rosso se manca di qualche argomento e con l’arancione nel caso di incertezza. Inoltre, propone di disegnare i verbi con delle facce dotate di tante manine per ogni valenza. 3. Caputo utilizza la metafora teatrale per introdurre i bambini al modello valenziale. Nota che i bambini tendono ad aggiungere partecipanti improbabili agli eventi ma riescono comunque a rispettare i limiti grammaticali. 4. Morgese propone il “gioco del mimo”, in cui i bambini rappresentano con il gesto l’evento evocato dal verbo in modo da riconoscere gli argomenti. 5. Lovison documenta un percorso che parte dalla scoperta dei legami di significato tra gli elementi della frase, i sintagmi nella frase semplice e le preposizioni nella frase complessa per arrivare a rappresentare graficamente i legami sintattici. Viene criticato dalla Lo Duca perché, nonostante sia efficace, il metodo può risultare troppo rigido e complesso. I risultati delle prove INVALSI mostrano che già in seconda elementare 63,2% dei bambini sa distinguere frasi corrette da non frasi, con percentuali che aumentano negli anni successivi. Questo indica che il modello valenziale è intuitivo e accessibile anche a chi non è mai sentito parlare. 3.11 Alla ricerca del soggetto Come dice Graffi, le due definizioni più diffuse di soggetto, “colui che fa l’azione” o “ciò di cui si parla”, sono entrambe errate. Possiamo smentirle analizzando ad esempio, la frase“ Maria ha l’influenza”, in cui il soggetto non svolge l’azione o “A Marco piace molto la matematica”, in cui si parla di Marco ma il soggetto è “la matematica”. Il soggetto viene presentato in seconda elementare e approfondito in terza con il soggetto sottinteso attraverso delle definizioni sbagliate, che portano ad una comprensione limitata. Un approccio più efficace potrebbe essere quello di partire dal verbo per identificare il soggetto, in quanto indipendentemente dalla sua presenza (esplicito o sottinteso) e dalla sua posizione (prima o dopo il verbo), il soggetto decide e condiziona la forma del verbo con cui si accorda. Con i più piccoli, si potrebbero presentare brevi frasi con il soggetto in prima posizione, espresso da un nome proprio (“Nerone abbaia”, “Giovanni corre”) e non introdurre definizioni. Man mano, presentare casi più complessi: introdurre sintagmi nominali definiti (“la mamma”) e indefiniti (“una bambina”) che possono essere accompagnati da modificatori di vario tipo (“la mamma di Marco”). Successivamente, affrontare il soggetto pronominale in varie posizioni (“lui è mio fratello”, “chi ha parlato? Sei stato tu!”) e il soggetto sottinteso (“vieni al cinema?”), includendo frasi senza soggetto (“piove” o “sta nevicando”) per riflettere sulla diversa valenza dei verbi. VERBI 3.5.2 Verbi predicativi e copulativi - I verbi predicativi sono verbi con un contenuto semantico pieno che, insieme ai loro argomenti, definiscono una scena. Sono tutti i verbi che nell’analisi logica tradizionale, vengono chiamati “predicato verbale”. Indicano cosa fa, come sta, in che condizione o luogo si trova il soggetto. Ad esempio, “Il mio gatto mangia la carne”. - I verbi copulativi sono così definiti perché svolgono la funzione di copula del verbo essere, cioè esprimono una qualità del soggetto grazie ad un nome o un aggettivo (indicano cosa è o come è il soggetto). Nella tradizione vengono chiamati “predicato nominale” e il verbo essere è il membro principale (fanno parte di questa sottoclasse anche stare, sembrare, diventare, farsi ecc). Ad esempio, “Marta è brava”, “Viola è pasticciera”. Nel modello valenziale, i verbi copulativi sono generalmente monovalenti, cioè con un solo argomento, il soggetto. La parte nominale che segue il verbo è obbligatoria ma non è considerata un argomento; ad esempio, frasi come “Maria è” o “Maria sembra” sono sequenze agrammaticali perché mancano del complemento nominale (nome o aggettivo), 16 chiamato “predicativo del soggetto”. La parte nominale aggiunge un’informazione nuova al predicato attraverso un nome o un aggettivo (brava, stanca), mentre il verbo si limita a collegare il soggetto alla sua qualità (funzione copula). 3.5.8 Verbi con più strutture Tra i verbi predicativi esistono delle sottoclassi particolari di verbi che possono essere sia monovalenti che bivalenti, per tale motivo causano difficoltà nella loro classificazione per il modello valenziale. - Verbi con doppia struttura argomentale: alcuni verbi, come mangiare e cantare, possono essere bivalenti (Maria mangia il panino) o monovalenti (Maria mangia). Lo stesso vale (anche se in maniera diversa) per i verbi psicologici e di sensazione, come angosciare e saziare, che possono anche avere uno o due argomenti. - Verbi con punti di vista diversi: alcuni verbi, come tagliare e scrivere, possono rappresentare un’azione da due prospettive: quella dell’agente che volontariamente fa un’azione e in questo caso il verbo è bivalente (Maria taglia il pane) e quella dello strumento, che non è in grado di svolgere la funzione cui è deputato e in questo caso il verbo è monovalente (il coltello non taglia). - Verbi con scenari tipici: verbi come apparecchiare e parcheggiare possono omettere il complemento oggetto perché lo scenario è già chiaro: “Maria sta apparecchiando” (la tavola) o “La gallina sta covando” (le uova); per questo possono essere monovalenti. Però, nell’uso figurato non si può non utilizzare il complemento oggetto perché altrimenti la frase risulterebbe incompleta o poco chiara; ad esempio, non possiamo dire “Maria sta covando” ma dobbiamo per forza specificare l’oggetto, “Maria sta covando un’influenza”. - Verbi reciproci: sono verbi pronominali (e non) che esprimono una relazione reciproca tra due o più soggetti, per cui l’azione di uno ricade sull’altro o lo coinvolge e viceversa. Sono verbi come innamorarsi, fidanzarsi, sposarsi, allearsi. Possono essere monovalenti con soggetto plurale, cioè si assume il punto di vista di entrambi i partecipanti (Gianni e Maria si innamorano) o bivalenti con soggetto singolare, cioè si assume il punto di vista di uno dei due partecipanti (Gianni si innamora di Maria). 3.5.3 Riflettori sul verbo essere Il verbo essere può assumere diverse funzioni: - Come verbo copulativo: funge da copula, cioè collega il soggetto a una parte nominale obbligatoria che esprime una qualità; ad esempio, “Maria è professoressa”. - Come verbo predicativo: significa “esistere”, “avere vita”; ad esempio, “E luce fu” o “Penso, dunque sono”. In questi casi è un verbo monovalente. - Come verbo ausiliare: insieme al verbo avere forma i tempi composti; ad esempio, “Ero venuto”. - A differenza di avere, forma il passivo dei verbi transitivi; ad esempio “Sei amato”. Le forme passive in italiano corrispondono alle forme sintetiche in latino (composte da una sola parola): sono amato, sei amato, è amato corrispondono in latino ad amor, amaris, amatur. - Come verbo locativo: significa “trovarsi” o “abitare”, indicando la posizione del soggetto; ad esempio, “Maria è a casa” o “Maria è stata in Germania”. 3.5.4 Verbi transitivi e intransitivi - Verbi transitivi: sono quei verbi che nella forma attiva richiedono un complemento oggetto diretto. Possono essere trasformati nella forma passiva, cioè il soggetto diventa complemento d’agente e l’oggetto diretto diventa soggetto; in altre parole, il soggetto subisce l’azione espressa dal verbo (“Maria prepara la cena” diventa “La cena è preparata da Maria”). Possono essere bivalenti (“Maria mangia la mela”), trivalenti (“Maria dà la penna al compagno”) o tetravalenti (“Maria traduce la versione dal latino all’italiano”). Però, alcuni verbi transitivi non hanno la forma passiva, come “avere” (“Maria ha una gattina” / “Una gattina è avuta da Maria”) e possono omettere l’oggetto diretto, un basso grado di transitività (“Maria legge”). - Verbi intransitivi: non hanno bisogno dell’oggetto diretto e non possono avere la forma passiva. Ad esempio “Marco è uscito” o “Il postino arriva”; non si può dire “Il postino arriva le lettere” e neppure “Le lettere sono arrivate dal postino”. Possono essere monovalenti (“Maria dorme”), bivalenti (“Maria è andata all’estero”) o tetravalenti (“Maria si è trasferita da Genova a Palermo”). 3.5.5 Verbi pronominali I verbi pronominali sono verbi predicativi che si formano con i pronomi atoni, cioè tutti verbi che finiscono in -arsi, - ersi, -irei (“chiamarsi”, “pentirsi”) e formano il tempo composto con l’ausiliare essere (“mi chiamo”, “mi sono pentito”). 17 Nella scuola primaria, questi verbi vengono spesso suddivisi in sottocategorie, come riflessivi (lavarsi, vestirsi) e reciproci (ad esempio, “Maria e la mamma si abbracciano”). In realtà, sarebbe opportuno presentarli come verbi pronominali e analizzare quanti argomenti hanno e il ruolo del pronome atono che li accompagna. Inoltre, “pronominale” è una dicitura più soddisfacente di “riflessivo” perché si riferisce alla caratteristica formale del verbo (essere accompagnato da un pronome atono), evitando complicazioni semantiche legate alla riflessività dell’azione (l’azione che si riflette sul soggetto la compie). 3.5.6 Verbi che accompagnano altri verbi Alcuni verbi possono svolgere la funzione vicaria (sostitutiva o di supporto) rispetto a un verbo principale al quale si collegano (al participio o all’infinito), formando un unico nesso verbale. In altre parole, questi verbi non determinano da soli la struttura della frase ma lavorano in combinazione con un altro verbo principale per completare il significato dell’azione. Secondo il modello valenziale, questi verbi non influenzano la struttura della frase, che è determinata solo dal verbo principale. Possono avere diverse funzioni: 1. Funzione morfologica (gli ausiliari): essere e avere sono i principali verbi ausiliari usati per formare i tempi composti (es. ho mangiato); venire e andare possono occasionalmente formare la forma passiva di altri verbi. 2. Funzione modale (verbi servili, oggi chiamati modali): dovere, potere e volere sono i principali verbi modali; indicano necessità, possibilità o volontà e sono sempre seguiti dall’infinito del verbo principale, formando un complesso verbale unico (ad esempio, “posso andare”). 3. Funzione aspettuale (verbi fraseologici): Sono seguiti dall’infinito (introdotto dalla preposizione o dal gerundio) e danno informazioni temporali sullo stato o la fase di un’azione, come l’imminenza (sto per partire), l’inizio (comincio a studiare), lo svolgimento (sto studiando) e la conclusione di un evento (ho finito di studiare); anche essi formano un nesso verbale unico. 4. Funzione causativa: verbi come fare e lasciare indicano che il soggetto causa l’azione del verbo principale espresso all’infinito. Ad esempio, “Il maestro fa parlare gli studenti” (il maestro permette che gli studenti parlino) e “Il maestro lascia copiare gli studenti” (il maestro permette che gli studenti copino). 3.5.7 Verbi multilessicali I verbi multilessicali sono costituiti da più parole ma vanno interpretati come un’unica unità. Si suddividono in: - Verbi supporto: sono verbi come avere, fare e dare che, usati insieme ad un nome d’azione, hanno la funzione di appoggio. Ad esempio, “avere la speranza” (sperare), “fare un viaggio” (viaggiare), “dare un consiglio” (consigliare). Questi verbi esprimono principalmente il tempo, il modo e la persona (funzione morfologica), mentre il nome che li segue esprime il significato dell’azione. - Verbi polirematici: sono composti da un verbo seguito da espressioni nominali o avverbiali, come “andare in porto” (avere successo), “dare i numeri” (comportarsi in modo strano) e “piantare in asso“ (abbandonare qualcuno all’improvviso). Il loro significato è spesso idiomatico, cioè che non può essere facilmente dedotto dai significati delle singole parole ma può essere compreso solo conoscendo l’espressione nel suo insieme; dunque, sono verbi che vanno considerati come un unico nesso verbale. CAPITOLO 5: OLTRE LA FRASE Tradizionalmente, la grammatica è stata considerata in termini di frasi singole, analizzando sequenze brevi, da un punto fermo all’altro. Tuttavia, negli anni 80 è nata la linguistica testuale, che va oltre la frase, cioè si concentra sui meccanismi linguistici che vanno oltre il punto fermo. 5.1 Testi e tempi verbali Ogni testo seleziona una serie di tempi verbali che ne costituiscono la struttura. L’analisi testuale dei tempi verbali permette di comprendere non solo la forma ma anche la loro funzione, ovvero il motivo per cui un parlante sceglie un tempo rispetto a un altro. Questo approccio permette di superare il modo tradizionale di presentare i tempi e i modi verbali seguendo un ordine fisso (indicativo, congiuntivo, condizionale ecc.), risultando poco efficace in quanto non lascia traccia duratura negli studenti. 5.1.1 Tempi verbali nei testi descrittivi e regolativi Nei TESTI DESCRITTIVI, il presente indicativo è il tempo verbale più comune, utilizzato per descrivere una persona, un animale, un paesaggio, un quadro ecc. Viene utilizzato il presente poiché descriviamo come se osservassimo in tempo reale la situazione descritta. Un esercizio per i bambini potrebbe essere quello di sottolineare i verbi presenti in 20 riflessione sulla distinzione tra pronomi personali deittici e anaforici è sicuramente accessibile ai bambini della scuola primaria. Per introdurre i pronomi i bambini, è opportuno limitarsi ai pronomi personali, iniziando dai pronomi tonici (io, tu, egli/lui, noi, voi, essi/loro) che spesso i bambini incontrano tramite il paradigma verbale. Infatti, la forma del verbo in italiano permette facilmente di risalire alla persona e quindi al pronome corrispondente. I pronomi personali in italiano si dividono in una serie libera o tonica (esso, essa, ella) e una serie clitica o atona (mi, me, ti, te, lo, la, gli, li, le). Attraverso delle frasi selezionate si può riflettere sulla diversa funzione e posizione di questi pronomi, discutendo inoltre quando è possibile ometterli nella frase. È importante sottolineare la funzione anaforica dei pronomi di terza persona nei testi ed esercitarsi costantemente nella loro individuazione, aiuta migliorare la comprensione dei testi in tutte le discipline. Solo con il tempo i bambini noteranno che anche altri pronomi come questo, quello, ciò, che, ne, ci, possono svolgere la stessa funzione di rinvio anaforico. 5.4 Seconda divagazione: le congiunzioni e e ma Le Indicazioni Nazionali (2012) suggeriscono di condurre i bambini, entro la fine della classe quinta, al “riconoscimento delle congiunzioni di uso più frequente (e, ma, infatti, perché, quando)”. La e e ma sono spesso utilizzate nei testi, rendendo più facile introdurle ai bambini. Partendo dalla E, chiediamo ai bambini di riconoscerla nei testi e dopo averla identificata chiediamo loro a cosa serve. Quando i bambini risponderanno correttamente dicendo che serve ad aggiungere o congiungere le parole, potremmo introdurre il termine tecnico “congiunzione”. Inoltre, per facilitare la comprensione, possiamo fornire degli esempi: “Maria e Gianni sono miei amici”, “Mia sorella è bella e brava” e “Ho mangiato tutti i biscotti e la torta alle fragole”. In questo modo, i bambini vedono come la e congiunge elementi della stessa natura sintattica (nomi o aggettivi, sintagmi nominali o preposizionali e naturalmente anche frasi). Inoltre, in classe terza, scopriranno che gli elementi posti in relazione dalla e possono anche scambiarsi di posto senza modificare il significato della frase. La congiunzione MA, invece, è più impegnativa poiché la sua funzione prevalente è tra frasi. Quando collega elementi più piccoli, anch’essi della stessa natura sintattica, svolge una funzione correttiva: “Non mi ha accompagnato il papà ma la mamma”. Al contrario della e, gli elementi collegati dal ma non sono intercambiabili perché si capovolge completamente il senso della frase e inoltre, pone in relazione solo due elementi (non si può dire “non mi ha accompagnato la mamma ma il papà ma il nonno”). Il ma introduce una seconda frase che va contro le aspettative suscitate dalla prima: “Ho studiato moltissimo ma non ho superato l’esame”. Nei testi per i bambini, il ma connette pezzi di testo, che i bambini probabilmente ancora non comprendono e dunque non sono ancora pronti per una riflessione esplicita. 5.5 La punteggiatura Le Indicazioni Nazionali, nella sezione di Grammatica e Riflessione sulla lingua, non menzionano esplicitamente la punteggiatura ma viene citata nel paragrafo sulla Scrittura, in cui si invita a far produrre ai bambini “brevi testi che rispettino le convenzioni ortografiche e di interpunzione” (obiettivi III classe primaria) o “testi che rispettino le funzioni sintattiche dei principali segni interpuntivi” (obiettivi V classe primaria). Per aiutare i bambini a riconoscere e ad utilizzare correttamente i segni di punteggiatura, è importante promuovere una riflessione esplicita e guidarli nella loro utilizzazione già nei primi incontri con la lingua scritta, per rendere maggiormente comprensibili i messaggi. L’idea diffusa tra i docenti è che l’uso corretto della punteggiatura possa essere acquisito naturalmente attraverso la pratica di scrittura, senza un’attenzione mirata. Tuttavia, questo approccio porta spesso a testi prodotti dagli studenti con una punteggiatura casuale o errata (c’è chi va a capo ad ogni frase o chi scrive un testo come una lunga sequenza ininterrotta); inoltre, anche i libri di testo dedicano poco spazio alla punteggiatura, trattandola come una questione di ortografia piuttosto che come un segnalatore di snodi sintattici e testuali. Un’altra convinzione è che la punteggiatura sia una questione di stile e scelte personali e che la scuola debba intervenire solo per correggere gli errori più frequenti. Tuttavia, come osserva Serianni, esistono norme di punteggiatura e la loro rigidità dipende dalla tipologia del testo: una punteggiatura senza norme può essere ammessa solo nelle scritture private, mentre nei testi formali è necessario un uso corretto della punteggiatura. Si potrebbe consultare l’ENCIT (Enciclopedia dell’italiano), risorsa in cui vengono presentate le norme sulla punteggiatura, al fine di intervenire per migliorare le competenze degli studenti, già a partire dalla scuola primaria. L’autrice del libro propone un percorso per le cinque classi della scuola primaria sviluppato a partire da alcune domande chiave, che potrebbero essere rivolte direttamente ai bambini. 5.5.1 Che cos’è la punteggiatura? Quali sono i singoli segni di punteggiatura? Molti bambini confondono i segni di punteggiatura con altri segni grafici come gli accenti o gli apostrofi. Il primo passo è quindi quello di aiutare i bambini a riconoscere e distinguere i segni di interpunzione dai grafemi e dagli altri segni grafici. Un metodo efficace è “la seconda lettura”: dopo una prima lettura che individua i grafemi, le parole, le frasi e 21 ricostruisce il senso del testo, si passa ad una seconda lettura per individuare i segni di punteggiatura, sottolinearli, evidenziarli e a chiamarli per nome. I bambini incontreranno per prima: il punto, la virgola, il punto esclamativo, il punto interrogativo, i due punti, i trattini o le virgolette per il discorso diretto e l’accapo. Dopo questa prima fase, i bambini impareranno a scandire il ritmo, a segnalare le pause e a scegliere l’interazione corretta per ogni frase grazie alla lettura ad alta voce. Questa esigenza si ripresenterà anche durante la scrittura, quando dovranno usare segni di punteggiatura adeguati nei loro testi. È da qui che si può avviare ad una riflessione più approfondita sulla punteggiatura. 5.5.2 A che cosa servono i segni di punteggiatura? La punteggiatura assolve a tre funzioni principali: 1. Prosodico-intonozionale: indica il ritmo del discorso, segnando le pause e le intonazioni necessarie. Infatti, nella lettura ad alta voce, i segni di interpunzione guidano quando fermarsi e fare le pausa corrette. Per introdurre una riflessione esplicita su questo aspetto con i bambini, potremmo leggere uno dei passaggi più famosi de Le Avventure di Pinocchio di Collodi, una volta rispettando le pause e i cambi di intonazione suggeriti dalla punteggiatura e una volta leggendolo tutto d’un fiato, per far capire ai bambini la differenza tra una lettura espressiva e una lettura neutra. 2. Logico-sintattica: permette di individuare le unità sintattiche del testo, cioè permette di capire che un testo si suddivide in capoversi e periodi e che ogni segno ha una propria funzione. Ad esempio, i puntini di sospensione segnalano frasi interrotte, le lineette indicano il discorso diretto, il punto indica la fine di una frase, i due punti introducono un elenco o una spiegazione ecc. 3. Stilistica o testuale: consiste nella violazione consapevole delle norme di punteggiatura per fini espressivi. Scrittori esperti possono utilizzare i segni di punteggiatura in modo non convenzionale per attirare l’attenzione su elementi specifici del testo; ad esempio, “Il mondo finì in una discarica. Abusiva.”. 5.5.3 Dal mondo della ricerca. Un curricolo sulla punteggiatura nella scuola primaria La punteggiatura nella scuola primaria deve essere insegnata gradualmente e progressivamente a partire dalla seconda classe di scuola primaria proseguendo anche oltre il quinto anno. Inizialmente, dovranno essere selezionati i segni più semplici e presentati a tempo debito, allo scopo di far prendere coscienza ai bambini solo di quei segni utili per le loro prime produzioni scritte, sui quali bisognerà ritornare per rinforzare e aggiungere nuove funzioni. Le ricerche di Fornara (2012) e di Demartini e Fornara (2013) hanno delineato un curricolo basato sui segni di punteggiatura utilizzati da parte di bambini e sulle loro concezioni. Le prime riflessioni sulla punteggiatura riguardano: il punto fermo, il punto interrogativo (per porre domande), il punto esclamativo (per esprimere stupore, sdegno), la virgola seriale (per gli elenchi), i due punti (per introdurre il discorso diretto), le virgolette o le lineette (per introdurre il discorso diretto). Successivamente, quando i bambini avranno sviluppato maggiori abilità linguistiche e cognitive, si possono introdurre segni più complessi: la virgola (per separare frasi), i due punti (per introdurre una spiegazione ho una conseguenza), il punto e virgola (per separare le frasi collegate tra di loro), l’accapo (per segnalare blocchi informativi o snodi del testo). Il curricolo sulla punteggiatura deve essere integrato con il curricolo sui tipi testuali. Ad esempio, l’esposizione ai testi regolativi come le ricette, non solo stimola la curiosità dei bambini ma facilita l’analisi della sua punteggiatura. Al contrario, i testi narrativi e i testi espositivi, usati anche con i più piccoli, presentano una maggiore varietà e imprevedibilità nei segni di punteggiatura. In ogni caso, è fondamentale costruire solide basi alla scuola primaria per poter progredire efficacemente.
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