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RIASSUNTO COMPLETO DI "HANS KELSEN" - Tommaso Gazzolo, Schemi e mappe concettuali di Filosofia Politica

Riassunto completo e approfondito del libro di Gazzolo dedicato ad Hans Kelsen

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

In vendita dal 02/07/2022

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4.3

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39 documenti

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Scarica RIASSUNTO COMPLETO DI "HANS KELSEN" - Tommaso Gazzolo e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! HANS KELSEN - Tommaso Gazzolo Quello di Hans Kelsen è stato il tentativo più compiuto, nella storia del pensiero giuridico del Novecento, di chiarire cosa sia il diritto. La sua filosofia, la “dottrina pura del diritto”, si pone il compito di conoscere il diritto in quanto diritto, nel suo essere diritto e nient’altro: si criticheranno quindi i modi di pensarlo come giustizia, forza, politica, morale, pratica sociale ecc. L’assunto fondamentale di Kelsen è che il diritto sia la “categoria trascendentale” del dover-essere e in quanto tale separato e contrapposto al mondo dell’essere, a ciò che accade nella realtà. 1. NORMA Si chiamano norme le leggi propriamente giuridiche. NORMA  relazione atemporale di imputazione tra un antecedente e un conseguente. Cosa fa di una legge una legge giuridica? Vediamo ad esempio che ci sono molte differenze con le leggi naturali che, secondo Kelsen, non sono comandi, prescrizioni, non dicono che cosa si deve fare, cosa deve accadere nel mondo, ma spiegano ciò che effettivamente accade ed è necessario che accada. Se un corpo metallico viene scaldato, esso non può non dilatarsi, è impossibile che ciò non accada, perciò si dice che esso deve dilatarsi. All’accadere di un certo fatto una certa conseguenza deve necessariamente verificarsi. Si tratta di una necessità intesa come nesso causale tra un antecedente e una conseguenza. Una legge come norma giuridica invece, non esprime qualcosa che avviene necessariamente sul piano dei fatti, bensì qualcosa che viene prescritto, comandato, qualcosa che deve essere fatto = una norma pretende qualcosa. E non è assolutamente detto che ciò che viene prescritto si verificherà. Dunque mentre la necessità naturale è l’opposto della libertà, il dovere normativo obbliga a qualcosa proprio perché presuppone che esso possa non accadere. Per Kelsen affermare il dover-essere della norma giuridica significa riferirsi a due cose: a) All’essenza della norma, ossia ciò che la rende tale. È ciò in cui la norma consiste. Ciò che rende tale una norma è il suo presentarsi come quella relazione tra l’illecito e la sanzione, tra un antecedente (un furto) e una conseguenza (la sanzione). Tale relazione è una relazione di dover-essere. Non è come la relazione di causalità, propria delle leggi naturali: Kelsen la chiama relazione di imputazione, ossia quella attraverso cui una sanzione viene ascritta all’illecito nella modalità del dover essere. La sanzione è imputata all’illecito, non è l’effetto dell’illecito, perché essa non segue, ma deve seguire ad esso. Dunque è altrettanto necessaria di quella causale, ma in un senso molto diverso: l’imputazione dice il dover essere della sanzione rispetto all’illecito. Noi facciamo esperienza della norma solo in quanto in essa facciamo esperienza della relazione di imputazione, in base alla quale l’illecito non consiste in altro che nel suo dover essere sanzionato e la sanzione nel suo dover essere applicata all’illecito. Questo riguarda anche il ruolo della scienza giuridica. Per Kelsen solo la scienza giuridica rende pensabile il diritto, rende possibile conoscerlo come dover- essere - nel caso della norma la rende conoscibile e pensabile in quanto relazione di imputazione. Kelsen insiste per questo sul carattere atemporale del diritto: nel tempo non si incontra altro che l’essere. Ancora una volta la logica di Kelsen rispecchia l’esperienza kantiana: secondo Kant, non perché qualcosa viene dopo un’altra, allora la prima è causa della seconda > quando Kelsen dice che la pena non segue il delitto, sostiene esattamente che il delitto non causa la pena, dunque l’uno non avviene prima dell’altro. b) All’esistenza della norma, ossia al modo in cui una norma può dirsi esistente in un ordinamento giuridico storicamente dato. Il dover-essere in questo caso si riferisce al dover essere osservata della norma, poiché una norma esiste solo in quanto è valida (e valida vuol dire che è vincolante - implica obbligatorietà). Dunque la norma esiste sia perché appartiene ad un ordinamento sia perché deve-essere osservata. Così dicendo, Kelsen distingue innanzitutto tra la validità delle norme e la loro efficacia (o effettività). Ciò implica che si fa solo esperienza dei fatti, del fatto che qualcosa accade, e quindi mai delle norme in quanto tali. Cioè, si può fare esperienza del fatto che certe persone riconoscono di essere obbligate a fermarsi al semaforo quando è rosso perché riconoscono l’esistenza di una certa norma. Ma, in termini kelseniani, questo non è altro che “sociologia”, cioè una semplice descrizione di fatti e del perché si adottano certi comportamenti. Posto che il diritto è sempre e solo diritto positivo (non esiste alcun diritto che quello posto da determinate autorità in una determinata situazione geo-storica) e una norma è sempre una concreta norma giuridica positiva, questo non vuol dire che noi facciamo esperienza delle norme solo in quanto esistono (non è solo la loro esistenza a renderle norme); piuttosto è il loro carattere di dovere che le rende tali, è il loro dover essere osservate. Cosa significa osservare una norma? Qui Kelsen distingue tra osservanza e applicazione. “Se si ruba un bene altrui, si deve essere puniti” > rispetto a questa norma, osservarla significa di fatto non rubare. La norma indica che non rubare è il comportamento osservando il quale si evita la sanzione. L’applicazione della norma invece si ha proprio quando questa non viene osservata. Tale norma quindi è osservata quando non si ruba e applicata quando si commette un furto. Questo apre al problema del fondamento. Se è vero che la norma pone l’obbligo di non rubare, d’altra parte non è in grado di rendere obbligatoria la propria osservanza (non pone l’obbligo di applicare la sanzione: esiste il dover essere del comportamento da adottare, ma non il dovere di osservare la norma). Tuttavia, perché una norma esista non occorre solo che essa mi prescriva di fare o meno una cosa, ma anche che io sia obbligato a rispettarla. Serve una seconda norma - che in questo caso obbliga il giudice ad applicare la sanzione in caso di mancata osservanza. Ma, se una norma è valida - deve- essere osservata - solo in forza di un’altra norma, non si apre un regresso all’infinito? 2. FONDAMENTO A rigore, di una norma isolatamente considerata, non si può affermare la validità, dunque neppure l’esistenza. Le norme infatti, esistono solo in quanto sono articolate all’interno di un sistema di norme, che chiamiamo ordinamento giuridico. ORDINAMENTO GIURIDICO  unità di una pluralità di norme giuridiche sistemate gerarchicamente - per cui la validità dell’una riposa sulla validità di un’altra ad essa superiore. L’esistenza di una norma implica che qualcuno, ad esempio il legislatore o un’assemblea costituente - l’abbia prodotta, posta (diritto positivo); per sapere se questa è valida però, cioè se deve-essere osservata, c’è bisogno di un’altra norma, superiore, che imponga l’obbligo di osservarla (e come questa tutte le altre poste da un organo). Per comprendere dove inizia il diritto - e risolvere quindi il problema del regresso all’infinito - bisogna innanzitutto avere chiaro che tale fondamento non può trovarsi in un fatto: una legge non potrà mai esistere ed essere valida solo perché qualcuno l’ha posta. In questo quadro infatti Kelsen ritiene sensata l’obiezione anarchica che vede “pura forza laddove i giuristi parlano di diritto”, secondo la quale il diritto non esisterebbe perché le norme non sono altro che comandi che di fatto vengono imposti e osservati. Bisogna separare il fatto dal diritto: senza questa distinzione non c’è diritto possibile per Kelsen, ma solo forza. Alla luce di tali premesse, Kelsen introduce il concetto di “NORMA FONDAMENTALE” (GRUNDNORM). La norma fondamentale costituisce l’unità nella pluralità delle norme che costituiscono l’ordinamento e ha la particolarità di non essere posta, esistente cioè nella realtà, ma presupposta, come condizione di esistenza e validità delle altre norme. È un fondamento ipotetico. Non è trascendente (non esiste al di là dell’ordinamento), ma è trascendentale, è una condizione di possibilità. Ma se la Grundnorm è appunto una norma e non un fatto, dal momento cioè che in quanto condizione non esiste, allora è giusto dire che il diritto si fonda sul nulla? 3. NICHILISMO Categoria trascendentale significa che il dover-essere osservate delle norme non è un fatto di cui possiamo fare esperienza, un “attributo” delle norme che possiamo riscontrare mediante la loro osservazione e applicazione. Il Sollen per Kelsen è la condizione di possibilità dell’esperienza e in quanto tale la precede, nella misura in cui la rende possibile. È ciò che determina il diritto come diritto, la norma come norma (in senso neokantiano). La Grundnorm non esiste, non è un fatto, non ha alcun essere: esiste solo la sua esigenza, il suo dover-essere presupposta. La Grundnorm è un nulla e lo deve essere per poter assolvere il proprio compito (perché se esistesse non potrebbe mai fondare il diritto perché sarebbe un essere, un fatto). Certamente il pensiero kelseniano è un pensiero del nichilismo, del diritto come nulla. Ma in un senso particolare: Kelsen assume fino in fondo il nulla che è il diritto, la constatazione che non c’è nessuna norma all’origine del diritto. E il fatto che non ci sia nulla, indica che non ci può essere neppure il potere all’origine: nessun fatto, nessuna volontà, nessuna forza fondano il diritto. LINEAMENTI DI DOTTRINA PURA DEL DIRITTO - HANS KELSEN 1. DIRITTO E NATURA - cosa significa dottrina pura  “La dottrina pura del diritto è una teoria del diritto positivo” > e solo del diritto positivo, cioè posto come fatto sociale, che ha carattere di prodotto. “Essa, come teoria, vuole conoscere esclusivamente e unicamente il suo oggetto” > se prima di Kant si pensava ci fosse un rapporto diretto tra conoscenza e mondo, la rivoluzione kantiana rovescia l’indagine conoscitiva sulla condizione di possibilità della conoscenza. È una rivoluzione decisiva dal punto di vista della storia della filosofia: non si riflette più sul mondo, ma sul modo in cui si conosce il mondo, quindi la filosofia diventa riflessione sull’opera di mediazione, sulle categorie, sui modi in cui l’essere umano conosce. Da qui in poi le discipline saranno sempre più distinte e specializzate e ognuna indagherà sulle condizioni della conoscenza del proprio oggetto. Anche il diritto: per Kelsen il diritto come teoria deve conoscere esclusivamente il suo oggetto, cercando di rispondere alla domanda che cosa e come è il diritto, non però alla domanda come deve essere. “Se viene indicata come dottrina pura del diritto, ciò accade perché vorrebbe assicurare una conoscenza rivolta soltanto al diritto e perché vorrebbe eliminare da tale conoscenza tutto ciò che non appartiene al suo oggetto esattamente determinato come diritto. Essa vuole liberare cioè la scienza del diritto da tutti gli elementi che le sono estranei.” > questo è il progetto kelseniano, il suo principio metodologico. Come lo fa? Il perno della purificazione, attraverso cui l’empiria viene sottratta dalla scienza del diritto, è riconoscere il diritto come oggetto descritto da un’attività conoscitiva, l’insistenza di Kelsen sull’attività conoscitiva su un oggetto che di per sé non ha significato. - distinzione tra fatto naturale (atto) e significato  la dottrina pura vuole delimitare chiaramente l’oggetto della sua conoscenza nelle sue due direzioni. Infatti se si analizza un qualsiasi fatto considerato come diritto si possono distinguere due elementi: l’atto sensibile che procede nello spazio e nel tempo e il significato, specifico e aderente a quell’atto o accadimento. Ad esempio, se in una sala si riuniscono degli uomini che tengono discorsi è un accadimento esteriore; il suo senso è che si sta votando una legge. Questo genera una grande premessa, cioè che natura e società siano due cose molto diverse, proprio perché l’uomo ha la capacità di dare significato, di elaborare un senso, e questo non dipende dalle leggi della natura (un albero è sempre un albero, è insensibile al sapere che lo concerne, eppure può essere oggetto di tanti significati, e diversi). Stando a questo, il diritto non esiste in natura, questa è un’intuizione profonda. Se con l’istituzionalismo ad esempio, il diritto in fondo è l’accumulo di consuetudini, modelli di organizzazione, emergere di standard, di autorità interne, per Kelsen questo è impensabile perché il diritto è un oggetto di conoscenza che sta nel mondo del pensiero, non in quello dei fatti. - distinzione tra significato soggettivo e oggettivo  il significato soggettivo è quello che chiunque può attribuire ad un determinato fatto, mentre quello oggettivo è il significato che viene attribuito dal sistema giuridico (quando si parla di diritto abbiamo il compito di descrivere certi atti attraverso significati giuridici). Esempio del reato di stalking - la norma come schema qualificativo  per questo, ciò che trasforma un fatto in un atto giuridico è il significato che gli viene attribuito tramite una norma, il cui contenuto gli si riferisce. La norma è quindi uno schema qualificativo. È prodotta da un atto giuridico che a sua volta riceve di nuovo significato. Tutte le leggi sono una grande opera descrittiva dei comportamenti. Con l’introduzione della fattispecie (stalking ad esempio) abbiamo uno schema che qualifica quel comportamento: quando si unisce la fattispecie alla sanzione, quello è schema qualificativo che consente allo stalking di avere rilevanza giuridica (che quindi per Kelsen viene attribuita dalla sanzione). Fatto naturale/accadimento  descrizione/atto significatorio  fattispecie attribuzione di una sanzione - la norma come atto e struttura qualificativa  il sistema di significati che qualifica gli atti e li rende giuridici non dipende in alcun modo da quello che esiste e accade nel mondo, ma fa riferimento solo alla scienza giuridica. Infatti il diritto esiste perché esiste la scienza giuridica, non viceversa. Questa ha il compito di perimetrare ciò che ha rilevanza giuridica, cioè ciò che conosce come proprio oggetto. Qualsiasi cosa accada, ciò che è rilevante lo determina solo la norma in quanto schema qualificativo: se non è nella norma non è rilevante. Non confondere il diritto con quello che succede nel mondo vuol dire guardare al diritto come ad una tecnica ( = neutra). Il diritto è una cosa specifica i cui confini sono determinati dalla scienza giuridica che sviluppa un sapere intorno all’oggetto e lo rende conoscibile. In che modo il diritto perimetra il suo oggetto? Con l’attribuzione di una sanzione tramite una norma. - validità e sfera di validità della norma  la norma non sta nello spazio e nel tempo perché non è un fatto naturale; tuttavia la validità di una norma è spaziale e temporale in quanto queste norme hanno per contenuto dei fatti spaziali e temporali. Poi la norma può valere per un determinato spazio e un determinato tempo oppure ovunque e sempre (validità limitata o illimitata). Ci sono poi una validità reale (o materiale) e una personale. - conoscenza di norme giuridiche e sociologia del diritto  la sociologia del diritto è quella scienza che si occupa di indagare sulle cause e sugli effetti degli accadimenti naturali che, qualificati dalle norme giuridiche, si presentano come atti giuridici. Non riguarda le norme giuridiche come specifiche strutture qualificative, ma solo certi fatti in relazione causa-effetto con altri. Ad esempio, per quale causa un legislatore abbia emanato queste e non altre norme e quali effetti abbiano avuto le sue disposizioni. 2. DIRITTO E MORALE Bisogna liberare il diritto dal legame con la morale. Un conto è l’esigenza che il diritto sia morale, cioè che sia un buon diritto, un altro è la concezione per cui il diritto come tale faccia parte integrante della morale e dunque sia sempre, in qualche grado, morale. Se il criterio di validità del diritto fosse la giustizia, risultante dalla ragione, dalla natura o dalla divina volontà, il ruolo del legislatore statale sarebbe insensato. La dottrina pura del diritto vuole presentare il diritto per come è, senza legittimarlo come giusto o squalificarlo come ingiusto: essa si occupa del diritto reale e possibile e non del diritto giusto. Essa si rifiuta di valutare il diritto positivo. In tal senso, si pone in contrasto con la scienza giuridica tradizionale che invece ha un carattere ideologico. La dottrina pura del diritto ha la tendenza a scoprire il proprio oggetto. L’ideologia invece, nasconde la realtà perché la esalta per conservarla e difenderla o la deforma per distruggerla e sostituirla. Ogni ideologia ha radici nel volere, negli interessi, non nel conoscere. 3. IL CONCETTO DEL DIRITTO E LA DOTTRINA DELLA PROPOSIZIONE GIURIDICA - il dover essere come categoria del diritto  la norma morale e la norma giuridica hanno in comune il fatto che entrambe si esprimono nella forma del “dover essere”. Tuttavia la dottrina pura del diritto si pone come scopo proprio quello di separare il concetto della norma giuridica da quello della norma morale assicurando l’autonomia del diritto anche di fronte alla legge morale. A questo scopo, la norma giuridica deve venire intesa non come imperativo al pari della norma morale, ma come giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata. L’espressione di questo rapporto è l’imputazione, così come la necessità è l’espressione della legge di causalità. - il diritto come norma coattiva  la teoria del diritto positivo ottocentesca ritiene che la norma giuridica sia una norma coattiva, e che in questo stia la sua specificità rispetto alle altre norme. Ciò che rende un comportamento illecito è solo ed esclusivamente il fatto che quel comportamento viene posto all’interno della proposizione giuridica come condizione di una conseguenza specifica, che gli si applica tramite un atto coattivo (cioè un atto di imputazione col quale si attribuisce una sanzione ad una fattispecie). - il concetto di illecito  “Illecito è quel determinato comportamento dell’uomo che nella proposizione giuridica viene posto come la condizione, per cui si rivolge contro di esso l’atto coattivo posto nella proposizione stessa come conseguenza”. Secondo la dottrina pura del diritto, l’intenzione o la volontà del legislatore non determinano il concetto di illecito: l’unica cosa che è rilevante è che quel fatto sia condizione per l’atto di coazione. Che un legislatore consideri certe fattispecie anti sociali è un fatto, e se si prende tale fatto come ciò che consente al diritto di essere tale si ricade nell’impuro (questa è l’obiezione kelseniana). In quest’ottica l’illecito non è negazione del diritto (come in Schmitt), ma diventa condizione di pensabilità dell’oggetto giuridico. Il diritto non può essere infranto dall’illecito, anzi è solo per mezzo suo che il diritto raggiunge la propria funzione essenziale, che consiste nella doverosità dell’atto coattivo come conseguenza dell’illecito giuridico. - il diritto come tecnica sociale  se il diritto è quindi un atto coattivo esterno, esso verrà concepito come una specifica tecnica sociale che mira a raggiungere lo stato sociale desiderato collegando al comportamento contrario un atto coattivo come conseguenza (privazione di un bene, della libertà, della vita). Si parte dal presupposto che gli uomini considereranno questo atto coattivo come un male e, nel cercare di evitarlo, attueranno il comportamento desiderato. In ciò risiede l’efficacia dell’ordinamento giuridico. Tuttavia, la dottrina pura del diritto non considera la scopo che viene perseguito e raggiunto per mezzo dell’ordinamento giuridico, ma solo l’ordinamento giuridico stesso nell’autonomia normativa della sua struttura. - norma primaria  nella norma primaria viene proibito un comportamento, dunque all’interno della proposizione giuridica vi sarà espresso l’atto coattivo che fa da conseguenza alla condotta illecita (che è invece la condizione della sanzione). Sono norme che riguardano tutti e invitano a pensare il comportamento che condiziona l’atto coattivo come antisociale. - norma secondaria  nella norma secondaria invece si ordina il comportamento da attuare per evitare l’atto coattivo. Sono norme che riguardano cittadini e funzionari, perché attribuiscono competenze, cioè indicano cosa bisogna fare se si vuole ottenere una certa cosa. - la negazione del dover essere del diritto  il significato normativo del diritto viene talvolta negato: si considerano solo gli atti giuridici nella loro realtà di fatto e non nella specifica struttura qualificativa di dover essere, che finisce per apparire una semplice ideologia. Se si toglie al diritto positivo il suo “dover essere” e lo si riduce all’espressione del rapporto fra la condizione e la conseguenza, non hanno più senso tutte le asserzioni con cui si manifesta quotidianamente la vita giuridica e si rende evidente il carattere ideologico del diritto. È fondamentale per Kelsen non perdere ciò rende il diritto tale, cioè il rapporto di trascendentalità proprio del principio di imputazione. Bisogna studiare il meccanismo significatorio con il quale il diritto diventa diritto, e non già lasciarlo completamente al mondo dei fatti, che non danno significato a sé stessi. Se si guarda il diritto in base alla sua efficacia, cioè in base agli scopi che il legislatore auspica di raggiungere con il diritto, lo si rende ideologia. Non bisogna confondere il funzionamento della macchina del diritto con i fini che noi vogliamo perseguire tramite il suo utilizzo (non serve la riforma dei giuristi, come voleva Schmitt: il giurista non deve seguire alcun orientamento, la magistratura non è un contropotere politico). Un modo per fare ciò è difendere il rapporto di trascendentalità dello schema qualificativo. 4. IL DUALISMO DELLA DOTTRINA DEL DIRITTO E IL SUO SUPERAMENTO La dottrina generale del diritto è caratterizzata da una serie di dualismi interni, la cui funzione è quella di legittimare l’ordinamento giuridico positivo e mettere alcuni limiti all’elaborazione del suo contenuto. Spiccano: 1) Il dualismo tra diritto soggettivo e diritto oggettivo (cioè privato/pubblico)  vi è una differenza tra diritto oggettivo (norma, complesso di norme, ordinamento) e diritto soggettivo (interesse o volontà delle singole personalità) e il secondo precede, logicamente e temporalmente, il primo: l’idea è quella per cui dapprima si formano i diritti soggettivi (primo fra tutti la proprietà) e successivamente il diritto oggettivo come ordinamento statale che li protegge, riconosce e garantisce. Dunque il soggetto appare indipendente dall’ordinamento giuridico, perché lo precede e in un certo senso lo fonda. CRITICA DI KELSEN :  contraddizione dal punto di vista logico >>> si dichiara che il senso del diritto oggettivo come norma sia il vincolo, la coazione, mentre quello della personalità giuridica (cioè del diritto soggettivo) sia la libertà, l’autonomia - vincolo e libertà non possono convivere contemporaneamente.  contraddizione dal punto di vista “contenutistico ” >>> è fittizia la definizione stessa di personalità giuridica, in quanto nel diritto l’autonomia esiste solo in un senso molto limitato: “nessuno può attribuire dei diritti a sé stesso perché i diritti dell’uno esistono soltanto in sotto il presupposto del dovere dell’altro e un tale rapporto giuridico, può soltanto realizzarsi con una concorde manifestazione di volontà fra due individui. E anche questo solo in quanto il contratto è stato stabilito dal diritto oggettivo come fatto che produce il diritto, così che la determinazione giuridica proviene in ultimo termine da questo diritto oggettivo, non già dai soggetti giuridici che vi sono sottoposti…”.  funzione ideologica >>> questa dualismo ha, secondo Kelsen, una funzione ideologica. Si tratta di sostenere l’idea per cui esista un diritto soggettivo diverso e indipendente da quello oggettivo, una categoria trascendente di fronte alla quale il potere dell’ordinamento giuridico oggettivo debba frenarsi. A che fine? Al fine di proteggere la proprietà privata da una soppressione da parte dell’ordinamento, perché l’ordinamento che la riconosce, è mutevole e variabile (e ancor più se è prodotto di un procedimento democratico). Al contrario, “se questo tentativo fallisse, perché il nuovo ordinamento istituito rimane inefficace, e non gli corrisponde l’effettivo comportamento dei destinatari delle norme, allora l’atto che si è compiuto non dev’essere considerato come promulgazione di una costituzione, ma come reato di alto tradimento; non come posizione del diritto, ma come violazione del diritto e del vecchio ordinamento”. “Il contenuto della norma riposa sopra quegli elementi di fatto che hanno prodotto l’ordinamento a cui corrisponde fino a un certo grado, il comportamento effettivo di quegli uomini ai quali si riferisce l’ordinamento stesso.” Fino ad un certo grado perché non si vuole creare una corrispondenza completa, altrimenti l’ordinamento non avrebbe più senso (non ha senso comandare qualcosa che accade già naturalmente); allo stesso tempo anche una discrepanza completa renderebbe inutile l’ordinamento. “… un ordinamento normativo deve perdere la sua validità di fronte alla realtà che cessa di corrispondergli fino a un certo grado.” Questo paragrafo rende evidente il punto debole del sistema kelseniano. Il diritto non è qualcosa che si trova in natura, ma è un atto di conoscenza, una perimetrazione epistemico-cognitiva di un oggetto, che senza non ha condizione di pensabilità (la ottiene solo tramite l’atto conoscitivo). Se un ordinamento cessa di esistere, non esisterà nemmeno più quell’attività epistemico conoscitiva intorno ad esso e ci sarà un’altra norma fondamentale. Ma allora, perché si creino le condizioni di pensabilità del diritto, l’ordinamento giuridico deve rivelarsi efficace? Sembra che ricompaia nel sistema kelseniano l’empiria perché ciò che in fondo rende pensabile la catena validativa del diritto è una prassi - e a questo punto si accorciano le distanze con Schmitt. Kelsen insiste sul fatto che sia sbagliato pensare che il diritto trovi scaturigine in una prassi perché in tal modo tutto rimane esposto innanzitutto all’orientamento ideologico dei giuristi (depositari della scienza iuris, che perimetra l’oggetto diritto), ma comunque rimane nell’ambito della natura, in quanto prassi. Kelsen si sforza di tenere sempre separate le condizioni di pensabilità (cioè l’attività della scienza pura del diritto che circoscrive il suo oggetto con un atto di pensiero, e che quindi non dipende mai dai fatti) dalle condizioni di esistenza (cioè fattuali). Critici di Kelsen indicano che le due cose invece si fondono, necessariamente. Il problema quindi è: quand’è che noi possiamo dire che un ordinamento è valido? Quand’è che pragmaticamente il sistema si blocca? Quando un atto per un certo punto è solo un atto criminale e poi si trasforma in diritto perché si istaura un altro atto conoscitivo che parte da un’altra norma fondamentale. In questo caso infatti, nessuna norma dell’ordinamento viene più rispettata e tale ordinamento diventa inutile (viene sostituito). E qui sta il problema, perché allora c’è un rapporto tra norma e normalità. Se si tiene la norma fondamentale come un puro atto di pensiero, Kelsen funziona. Così come funziona la sua catena di validità tra norme perché non dipende dall’esistenza dell’oggetto. Invece la pensabilità sì. VALIDITA’ ED EFFICACIA DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO (DIRITTO E FORZA) La validità non va identificata con l’efficacia: c’è un rapporto di dipendenza nella misura in cui il fenomeno che il diritto consente di descrivere cosi e cosi deve esistere perché possa essere descritto, ma non è che la validità di quella descrizione dipende dall’esistenza del fenomeno. Quindi non deve essere scambiato con un rapporto di identificazione tra la validità dell’ordinamento e la sua efficacia (cioè il fatto che il comportamento degli uomini corrisponde all’ordinamento fino a un certo grado). Il tentativo di identificazione è sempre destinato a fallire perché se si sostiene che la validità del diritto sia una qualche realtà naturale, non si comprende poi il senso particolare con cui il diritto si rivolge alla realtà che è in contrasto o in corrispondenza con esso proprio in quanto cosa separata. Come la validità non può astrarre dalla realtà, così non può neanche identificarvisi. Più spesso di dibatte invece del rapporto fra diritto e forza rispetto al quale si può dire solo che il diritto non può esistere senza forza ma allo stesso tempo non corrisponde ad essa. “Il diritto è un determinato ordinamento (o organizzazione) della forza”. VALIDITA’ ED EFFICACIA DELLA SINGOLA NORMA GIURIDICA Il rapporto di dipendenza tra validità ed efficacia che esiste per l’ordinamento giuridico, non esiste per la singola norma, la cui validità è data dal fatto che si trovi inserita nella concatenazione produttiva di un ordinamento valido la cui norma fondamentale è valida. La validità dell’ordinamento inoltre non è leso dal fatto che una singola norma manchi di efficacia. Il fatto che non vi sia dipendenza nel caso della singola norma sottolinea la necessità di distinguere tra validità ed efficacia. L’unico caso in cui una norma dipende dalla sua efficacia è quello in cui l’ordinamento giuridico eriga il principio dell’effettività a principio giuridico positivo (ad esempio quando accanto alla legge, l’altra fonte del diritto è la consuetudine: una legge viene abrogata per la sua constante disapplicazione; altrimenti la non applicazione implicherà un fatto illecito). LA COSTRUZIONE A GRADI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO a) La costituzione: “per il carattere dinamico del diritto una norma vale perché e in quanto è stata prodotta in una forma determinata da un’altra norma, quest’ultima rappresenta il fondamento di validità della prima”  l’ordinamento giuridico non è un sistema di norme situate l’una affianco all’altra allo stesso livello, ma è un ordinamento a gradi, la cui unità è data dalla concatenazione che ha per base la norma fondamentale, il fondamento supremo di validità, che è ipotetico. Il più alto grado del diritto positivo è rappresentato dalla costituzione la cui funzione essenziale consiste nel regolare gli organi e il procedimento generale della legislazione. Può anche determinare il contenuto delle leggi future o prescrivendolo (promettendo di emanare una determinata legge) o escludendolo (impedendo a leggi future di avere un determinato contenuto). La costituzione prevede per la sua modifica o abrogazione, un procedimento più difficile di quello che si applica nel caso delle singole norme. b) La legislazione: alla costituzione segue la legislazione, cioè le norme generali prodotte nel corso del procedimento legislativo, la cui funzione non è solo quella di determinare organi e procedimento, ma anche e anzitutto il contenuto delle norme individuali che quotidianamente vengono emanate dai tribunali e dalle autorità amministrative. Ogni legge è espressione sia del diritto formale che del diritto materiale (ad esempio, accanto alle leggi amministrative, vi sono quelle sul processo amministrativo; accanto alla legge penale c’è l’ordinamento processuale penale). Differenza tra legge e regolamento o decreto > le prime sono emanate dal parlamento eletto dal popolo; il regolamento è una norma generale che esegue una legge e non è emanato dal parlamento ma da determinati organi amministrativi o dal governo; il decreto legislativo supplisce alla legge ed è anch’esso emanazione del governo o di organi amministrativi. Entrambe queste vie sono incluse nel concetto di “fonte del diritto” che indica:  Due diversi metodi  Il fondamento ultimo di validità dell’ordinamento (la norma fondamentale)  In un senso più ampio, ogni norma giuridica, compresa quella individuale (una sentenza è la fonte di obbligo/autorizzazione) c) La giurisdizione Il diritto è un insieme di categorie (schemi di attribuzione di significato) atte a descrivere il reale per derivarne delle conseguenze effettuali dal punto di vista dell’applicazione della forza. Il lavoro della giurisdizione è tale da dover determinare se quanto accade nel reale è sussumibile sotto la forma della norma che lo descrive astrattamente. Kelsen fa questo discorso perché ha sempre bisogno di distinguere la realtà dal carattere ideale che ha la produzione di una norma. Ad esempio: ci sono molti casi di applicazione della categoria di concorso esterno ad associazione mafiosa (= collaborazione con la mafia) a reati che precedono l’anno in cui questa categoria è stata creata. La corte di giustizia europea ha detto che non si può fare. Bisogna vedere se esiste nel concreto quella fattispecie che la norma descrive in astratto: è decisivo il modo in cui descriviamo una certa realtà affinché sia sussumibile da una norma. Per questo la funzione giurisdizionale secondo Kelsen è costitutiva della produzione di diritto: solo per mezzo della sentenza viene ad esistere il rapporto tra un fatto concreto esistente e una conseguenza giuridica concreta. Perciò la sentenza è una norma giuridica individuale, la norma generale e astratta che si fa concreta, individuale. La norma, che ha una capacità descrittiva sempre indipendente dal reale, cioè la sua validità non dipende da ciò che si verifica o non si verifica, ha bisogno per la sua attuazione dell’attività individuale di un giudice che, attraverso la sentenza, definisce che un determinato comportamento è sussumibile sotto la seguente fattispecie e quindi viene applicata la seguente sanzione. Quella del giudice è una norma perché obbliga le forze dell’ordine ad applicare una certa sentenza (cioè eseguire una certa sanzione) in quanto se non lo facessero, questo comportamento sfocerebbe in un illecito. La sentenza è norma (quindi diritto) perché è riconducibile a “se f allora s” > se fosse determinata le colpevolezza di x (quindi il suo comportamento può essere effettivamente sussunto sotto una norma y) allora il giudice deve applicare la sentenza. d) Giurisdizione e amministrazione Come la giurisdizione anche l’amministrazione è individualizzazione e concretizzazione di leggi, precisamente leggi amministrative. Infatti dal punto di vista teorico lo scopo dello stato viene perseguito dal meccanismo amministrativo nello stesso modo di quello dei tribunali e cioè obbligando giuridicamente i sudditi al comportamento sociale desiderato. e) Negozio giuridico e atto esecutivo Fra la legge e la sentenza, nel diritto civile, si inserisce il negozio giuridico che esercita una funzione individualizzatrice rispetto ad un fatto. Le parti, cioè, delegate dalla legge possono stabilire un comportamento reciproco e soltanto la sua infrazione costituisce il fatto sanzionabile oggetto della sentenza. f) La relatività del contrasto fra produzione e applicazione del diritto Costruendo a gradi l’ordinamento, si può meglio comprendere il contrasto fra produzione/creazione del diritto da una parte e applicazione/esecuzione dall’altra. La maggior parte degli atti giuridici infatti sono nello stesso tempo atti di produzione e atti di esecuzione del diritto perché con ognuno viene eseguita una norma di grado più elevato e viene prodotta una norma di grado più basso. Ad esempio la legislazione è l’esecuzione della costituzione e la produzione di nuove leggi, oppure la sentenza è esecuzione della legislazione e produzione di una norma individuale. g) La posizione del diritto internazionale nella costruzione a gradi Il diritto internazionale è un ordinamento giuridico che sovrasta quello dei singoli stati e li riunisce in una comunità giuridica universale. Con ciò viene garantita l’unità di tutto il diritto. h) Il conflitto fra norme di gradi diversi Sembra che l’unità dell’ordinamento costruito a gradi vacilla quando una norma di grado inferiore non è conforme alla norma di grado superiore che al determina, sia per la sua produzione che per il suo contenuto. È il problema della norma contraria alla norma: esistono cioè leggi incostituzionali, decreti contrari alla legge, sentenze o atti amministrativi contrari a leggi o decreti. Ma tale fenomeno non esprime una contraddizione interna al sistema, altrimenti l’unità sarebbe perduta. Il fatto si giustifica così: una costituzione ammette la validità delle leggi incostituzionali perché essa non solo prescrive in che forma e con che contenuto debbano essere prodotte le leggi, ma prescrive anche che, se una legge viene prodotta diversamente, non deve ritenersi nulla, ma deve valere fintanto che non sia annullata in una istanza destinata a questo scopo, come un tribunale costituzionale o un procedimento regolato dalla costituzione. Per questo, più che di norma “contraria” bisognerebbe parlare di “difetto” o “difettosità” della norma. Se tale procedimento non viene eseguito o non è proprio previsto, allora la norma inferiore acquista forza di legge di fronte alla norma superiore: pertanto la prima rimane valida, sebbene il suo contenuto sia contrari alla norma superiore, in base al principio di validità stabilito dalla stessa norma di grado superiore. Dunque la “norma contraria alla norma” o è annullabile (quindi è valida fino al suo annullamento) o è nulla, quindi non è mai norma. Una terza via non è mai possibile, dunque l’unità non è mai compromessa. 6. L’INTERPRETAZIONE L’interpretazione è un procedimento spirituale (cioè cognitivo epistemico) che accompagna il processo di produzione del diritto nello sviluppo da grado superiore a grado inferiore (dal superiore regolato). Risponde a questa domanda: come si fa ad estrarre la norma individuale - di una sentenza o di un atto amministrativo - dalla corrispondente norma generale della legge? La norma superiore regola la norma inferiore (determina procedimento e contenuto) secondo un rapporto di regolazione o vincolo. Questa determinazione però non è completa, la norma non può vincolare in tutti i sensi l’atto per mezzo del quale viene eseguita. Rimane sempre un margine più o meno ampio di potere discrezionale in quanto molte decisioni dipendono da circostanze esterne che il legislativo non ha previsto e in alcuni casi non può proprio immaginare. Da ciò deriva che ogni atto giuridico inferiore è determinato dalla norma superiore solo in parte e nell’altra parte rimane indeterminato. Tale indeterminatezza può essere o intenzionale (è nell’intenzione dell’organo che pone la norma più elevata) o non intenzionale. Il secondo caso è giustificato dal fatto che ogni norma non ha un significato letterale chiaro, ma si presta a molteplici possibili significati, tra i quali chi deve eseguirla si trova a scegliere. Dal punto di vista del diritto positivo, non c’è un criterio in base al quale una delle possibilità è migliore dell’altra. Nella teoria tradizionale dell’interpretazione una qualsiasi conoscenza del diritto vigente basta ad ottenere quella determinazione che alla norma superiore manca > illuminismo giuridico: il diritto è una macchina sillogistica, quindi il sovrano fa le leggi e il giudice le applica in modo sistematico, senza dover interpretare nulla.
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