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Riassunto completo di "Manuale di numismatica medievale" di Castrizio, Sintesi del corso di Numismatica

L'autore traccia l'evoluzione della monetazione nel Mediterraneo durante il corso dell'età medievale.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 27/01/2024

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vincenzo-bille 🇮🇹

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Scarica Riassunto completo di "Manuale di numismatica medievale" di Castrizio e più Sintesi del corso in PDF di Numismatica solo su Docsity! NUMISMATICA MEDIEVALE Capitolo 1. IL FOLLIS DI ODOACRE E THEODORICO La crisi generale del III secolo aveva cambiato in modo sostanziale la composizione della moneta circolante. Il denarius d’argento, da sempre colonna portante del sistema economico, aveva cominciato a perdere valore fino a diventare una moneta di rame imbiancata e provocare la perdita di fiducia nel pretium statale; la conseguenza fu il passaggio dal conteggio alla pesatura della moneta. Dopo la stabilizzazione di Diocleziano, l’uso di pesare rimase alle sole monete in rame ma per raggiungere un dato peso era vantaggioso possedere monete di taglio minore (nel corso del V secolo il nummus passò da 1,5 a 0,5 g). A dimostrazione di ciò, oltre ad un esponenziale aumento del numero delle monete, spesso gli esemplari più pesanti si trovano tosati o spezzati al fine di ottenere determinati pesi. Le riforme di Costantino che ancorarono il mercato all’oro con lo scopo di stabilizzare i mercati accelerarono la scomparsa dell’argento, in quanto lo Stato stesso iniziò a pagare e a riscuotere solo oro. In questo sistema bimetallico oro-rame mentre il solidus aureus svolgeva i compiti istituzionali, ed era quindi fiduciato, la moneta divisionale in rame, i nummi, venivano usati per i vilia commerci e restava il problema della pesatura. La soluzione, attribuita da molti all’imperatore Anastasio, fu trovata, secondo i nuovi dati materiali, dal barbaro Odoacre. Nel settembre del 476, dopo aver marciato su Ravenna, Odoacre e il suo esercito costrinsero l’imperatore Romolo ad abdicare. Dopo la vittoria, Odoacre preferì non proseguire sulla strada dei suoi predecessori, che avevano regnato su ciò che restava della Pars Occidentis servendosi di imperatori totalmente asserviti, ma restituì le insegne imperiali occidentali all’imperatore a Costantinopoli, facendo chiedere dal Senato di Roma solo la sua nomina a patricius. In un mondo, quale quello tardoantico, in cui le fluttuazioni e l’oscillazione dei prezzi del bronzo sul mercato dovevano essere rilevanti, l’unico modo per proteggere l’economicità delle emissioni doveva consistere nel fissare sia il numero di monete in bronzo da coniare sia il preventivo in oro per l’acquisto del metallo necessario. Compiute queste operazioni, occorreva poi fissare il peso delle monete, che si sarebbe semplicemente adeguato rispetto alla quantità di metallo disponibile: in caso di un prezzo basso del bronzo, gli esemplari sarebbero stati più pesanti; in caso di prezzi elevati, i nominali sarebbero stati di peso inferiore rimanendo finalmente sganciato dalla legge di Gresham. Era la nuova riforma del follis, in cui il valore nominale della moneta veniva specificato sul rovescio (inizialmente in numeri romani, successivamente, quando la riforma si espanderà anche in Oriente, in numeri greci). Un follis equivaleva a 40 nummi, in un primo momento fu coniato a 1/36 di libbra, cioè 8 scrupula, e poi raddoppiato a 16. Con Anastasio la riforma si espanse a tutto l’impero e tutte le monete portavano quindi sul rovescio il loro valore nominale e in esergo indicazioni riguardanti la zecca di coniazione. La riforma, che mirava a 1 proteggere il potere d’acquisto delle monete, fu un successo e la prova è data dal fatto che in alcune aree fu creato un sistema con valori diversi. Ad Alessandria, probabilmente dopo Giustiniano, al posto del follis da 40 nummi il sistema si basò su di un nominale da 33 nummi (ΛΓ) e vari sottomultipli (IB per 12 nummi, S per 6 nummi e Γ per i 3 nummi). Anche Tessalonica fu un’area con un sistema differente, basata su un sistema con moneta da 16 nummi (IS). Le monete di Odoacre, dal punto di vista iconografico, tengono della situazione politica: fino alla morte di Giulio Nepote nel 480, le monete coniate nelle zecche italiane sotto il controllo di Odoacre riportarono sempre l’indicazione di questo imperatore. Dopo il suo decesso, invece, le coniazioni in oro e in argento fecero sempre menzione di Zenone, fino alla sua morte, avvenuta nel 491. Da quella data, e fino all’arrivo di Theoderico e alla capitolazione di Odoacre nel 493, si conosce solo una emissione, probabilmente una mezza siliqua, in cui al diritto viene ricordato il nome di Anastasio, mentre il rovescio è occupato dal monogramma del rex. Su alcune serie di nummi, invece, Odoacre si permise di porre il suo busto al recto, con tanto di leggenda ODO, mentre sul verso è presente il suo monogramma. L’Imperatore Anastasio aveva incaricato il goto Theoderico di “liberare” l’Italia da Odoacre. Il governo di Theoderico sull’Italia fu più che trentennale (493-526) e improntato a un efficace pragmatismo: lasciare le cariche dell’amministrazione civile ai Romani, ma riservare ai Goti i più alti comandi militari. Per quanto attiene alla confisca del terzo delle terre coltivabili, da assegnare ai guerrieri goti, Theoderico affidò agli stessi derubati l’onere di istituire una commissione che doveva stabilire quali fossero i proprietari che venivano spogliati delle terre o su quali romani dovesse gravare l’imposizione di tributi in natura (il fiscus barbaricum). Dal punto di vista numismatico, occorre notare come le zecche di Roma, Ravenna e Milano sembra che abbiano intensificato la loro produzione monetale. I tipi, comunque, rimasero quelli “Romani” e continuarono a portare sul diritto l’immagine e il nome di Anastasio: sui solidi, dopo una prima fase in cui era specificato il monogramma della zecca emittente e la leggenda COMOB nell’esergo del rovescio nelle serie successive venne aggiunto il monogramma di Theoderico stesso. Sulle monete di zecca italica continuò così ad apparire da un lato il busto di scorcio dell’Imperatore d’Oriente, con la titolatura corretta, e dall’altro la Vittoria/Angelo con croce gemmata, simile a quella presente sui solidi coniati nelle zecche imperiali. Dal punto di vista iconografico riveste una particolare importanza un unicum rappresentato da un multiplo in oro del peso di 15,32 grammi; si tratta di un vero e proprio manifesto politico, che alcuni studiosi datano al 493, quando Theoderico si recò a Roma dopo la presa di Ravenna, quasi a ratificare il suo potere presso il Senato: sul recto si riconosce il busto frontale di Theoderico, a capo scoperto e con acconciatura “romana”, vestito di corazza e paludamentum; nella mano sinistra tiene un globo con Vittoriosa con stephane e ramo di palma, mentre la mano destra è mostrata con il palmo rivolto verso lo spettatore, nel gesto della magna dextra o dextra elata. Sul verso è raffigurata una Vittoria con corona e ramo di palma incedente a destra, 2 Ritornando al rame, è ancora dibattuta la scelta effettuata nel sistema di calcolo vandalo: la moneta di base era da XLII nummi, e i suoi divisionali da XXI, XII, e IIII (quattro), mentre la monetazione in argento fu tariffata in denarii. Il motivo di tale scelta fu probabilmente la volontà di trattenere l’argento all’interno del regno coniando monete di peso e spessore differenti da quelle imperiali e con segni di valore differenti. Le monete in rame tariffate D hanno lo stesso peso di quelle tariffate IIII nummi, perciò un denario è uguale a quattro nummi. Questo rapporto riprende quello antico del sesterzio inteso come un quarto del denario e nel follis inteso come doppio denarius, quindi otto nummi. Se i nominali IIII e XII sono multipli diretti del denario lo stesso non si può dire dei pezzi più grossi della serie, cioè XXI e XLII. Provando a leggere il materiale numismatico ci si è accorti che il nummo vandalico non equivaleva perfettamente al nummo italico (circa il 5% del peso in meno) e quindi i due punti in più nelle monete vandaliche da 42 nummi servivano a pareggiare il conto con quelle italiche da 40. Su queste monete ritroviamo sul recto la personificazione della città come Tyche, ripresa anche in una moneta argentea di re Hilderico con leggenda FELIX KART, mentre sul retro abbiamo una corona con all’interno la tariffa. La seconda serie conosciuta riporta sul diritto una figura in abiti militari con in esergo KARTAGHO, mentre sul retro abbiamo una testa di cavallo (riferimento al mito di fondazione punico) e sotto di esso l’indicazione del valore nominale. 5 Capitolo 3. GIUSTINIANO E GLI ERACLIDI Dal punto di vista numismatico si afferma che negli anni della guerra greco-gotica (535-553) la coniazione di monete subì un arresto in Italia a causa della riconquista bizantina. Il grosso delle monete in oro era quindi importato da Costantinopoli, in quanto era troppo rischioso avviare l’attività in un territorio logorato dalla guerra. Nel 538 e nel 540 Roma e Ravenna, ormai saldamente in mano all’esercito romeo, riprendono la loro attività, ma non conieranno mai quei solidi di peso ridotto da 22 o 20 keratia. Alcuni dei solidi rinvenuti, contraddistinti dalla leggenda ROM(A), recano al diritto il ritratto di Giustiniano con globo crucifero, e sul verso un angelo con lunga croce. Per quanto riguarda il rame, questo era probabilmente importato dalla zecca di Salona nell’Illirico, una delle sedi del tesoro imperiale, anche se si ipotizza che una zecca fosse stata aperta a Catania già da Giustiniano con la Pragmatica Santio che riorganizzava i territori italiani alla fine del conflitto. La Sicilia veniva staccata dall’Esarcato e guidata da un dux militare a Siracusa e un praetor civile a Catania. In questa zecca troviamo quindi due peculiarità: il fatto di non trovarsi nella capitale di provincia ma nella sede del potere civile, e di battere solo i piccoli divisionali in rame. Un qualcosa di simile avveniva anche alla zecca di Alessandria di Egitto, ed entrambe le città sono centri di raccolta granaria: possiamo presumere che la moneta spiccia servisse per pagare i braccianti che offrivano prestazioni giornaliere. Se non abbiamo la certezza dell’attività di questa zecca sotto Giustiniano, sappiamo che fu sicuramente utilizzata da Giustino II e regolarizzata da Maurizio Tiberio (582-602) al seguito della indipendenza ritrovata da Roma al seguito delle invasioni longobarde. Tornando indietro, negli anni di governo romeo (553-568), l’attività delle zecche imperiali riprese regolarmente per tutti e tre i metalli, anche l’argento, con la coniazione di frazioni di siliqua con al rovescio il cristogramma e che recavano, alla pari delle monete vandale, il segno di valore sul rovescio. Fino ad epoca all’inizio del VII secolo la principale moneta di argento era la doppia siliqua introdotta da Costantino. La prima riforma si registra sotto l’imperatore Eraclio (610-641) con la creazione dell’hexagrammon d’argento da sei scrupula, battuta a nome sua e del figlio Eraclio Costantino. La nuova moneta fu una emissione legata a celebrazioni in cui il cerimoniale prevedeva l’esborso di donativi, quindi appare stilisticamente ben curata. Sul diritto troviamo l’imperatore stante e frontale con abiti militari e corona, con lancia rivolta verso il basso, con accanto il figlio più basso con clamide e globo crucifero. Sul recto troviamo invece una raffigurazione della vera croce su tre gradini affiancata da rami di palma. Eraclio si trovò poi a fronteggiare l’assedio degli Avari e l’offensiva prima persiana e poi araba; per rifornire di monete il mercato occidentale dovette aprire una zecca a Siracusa per coniare folles, mentre a Catania 6 lasciò l’onere di battere i piccoli divisionali. Tuttavia, le nuove coniazioni non avvenivano ex novo ma si procedette a imprimere delle modifiche su monete di epoche precedenti con piccole modifiche: la testa frontale dell’imperatore fu impressa solo sulla testa dei precedenti imperatori di profilo, e l’indicazione della zecca (SCL) a coprire quella precedente. Sotto il governo del figlio Costante II (641-668) nel 663 la capitale fu spostata a Siracusa fino alla sua morte e la zecca fu regolarizzata per la coniazione di monete in oro. Questa moneta trovò moltissimo apprezzamento e abbiamo diverse monete dei califfi che imitano le sue tipologie. Nel 697 Cartagine cade in mano araba e il personale fu spostato a Cagliari dove fu aperta una nuova zecca. L’ultimo appartenente alla dinastia, Giustiniano II (685-695 e 705-711) apporta una modifica nella tipologia delle monete auree. La sua immagine viene spostata sul verso, mentre sul recto compare la figura di Cristo barbato e con nimbo crociato. Nella sua seconda reggenza il Cristo barbato viene sostituito dal Cristo Oulos, di tradizione più antica, con barba corta e capelli a boccoli. Sul verso il tipo viene modificato: insieme a lui compare il figlio mentre tengono insieme l’asta della croce; notiamo però alcune cose. Il figlio tiene la mano più in alto rispetto al padre, suggerendo che sia lui il sovrano regnante; questo perché a Giustiniano era stato mozzato il naso durante la prima deposizione e divenne quindi indegno del trono. Per legittimare il suo potere fu necessario associare il potere il figlio Tiberio. 7 Capitolo 5. L’ULTIMA MONETAZIONE DELL’IMPERO La qualità di fin nei solidi di Costantinopoli si mantenne stabile (tranne piccole variazioni che sono percepibili solo oggi e non erano distinte dai fruitori antichi) fino al regno di Michele VII (1071), quando il nomisma cominciò a divenire una moneta di elettro. Le cause secondo molti sono da ricercare nell’attività bellica di Basilio II seguita da un prolungato periodo di pace che aumentò le spese statali e la circolazione di liquidi causando inflazione dei prezzi. Le successive sconfitte subite dai Turchi e dai Normanni fecero esplodere le tensioni accumulate che si riversarono nella moneta d’oro. Distinguiamo tre fasi. La prima va da Costantino VII a Michele IV, in cui il fino scende lentamente dal 90 al 70%. In questa fase Niceforo Foca introduce una novità, verranno coniate due monete d’oro, il nomisma tetateron, leggermente più leggero rispetto ai precedenti solidi, e il nomisma histamenon, più pesante e caratterizzato da una forma convessa. Il motivo va probabilmente ricercato nella volontà di facilitare il pagamento da parte dello stato, che chiamava nomisma una moneta che era effettivamente più leggera ma che veniva erogata nelle stesse quantità. La seconda fase ha avvio nel 1071, anno in cui l’impero viene sconfitto contemporaneamente dai Turchi a Manzikert e dai Normanni, e finisce nel 1092. In questo periodo l’histamenon scene dal 60 al 35 e poi perfino al 10% nelle prime emissioni di Alessio I Comneno. Ovviamente una tale svalutazione ha effetti anche sulle altre monete: l’argento scende al 40% di purezza e il follis in rame passa da 18 a 6 grammi. Fu proprio Alessio I (1081-1118) a effettuare una riforma che potesse risollevare la situazione. Innanzitutto, introdusse una nuova moneta aurea che potesse ottenere la fiducia del mercato e per questo fu chiamata hypepurion (super purificata). A questa, per facilitare i pagamenti, furono affiancate una moneta in elettro, trachy aspron, una moneta in mistura di rame e argento, trachy staminon, dal valore di 1/48 di iperpero, e una moneta in bronzo equivalente ad un terzo del follis, il tetarteron. La riforma dell’oro ebbe successo ma la crisi ormai avviata, e l’effetto della legge di Gresham, ebbero ripercussioni sulle altre monete: l’aspron divenne una moneta d’argento, lo staminon una moneta di rame, in modo tale che il loro valore venne dimezzato. 10 Con la Quarta crociata del 1204 e la divisione dell’impero in vari regni aumentò anche il numero di zecche. A Costantinopoli, ormai capitale del regno latino d’Oriente, veniva battuta solo moneta in rame. L’erede legittimo dell’impero fu il regno di Nicea, dove la riforma di Alessio I era portata avanti. L’iperpero si mantenne, almeno nei primi tempi, un buon titolo aureo ma le altre monete si erano completamente svalutate. Nel 1264 l’imperatore Michele VIII Paleologo torna a Costantinopoli ma il rapporto delle forze economiche mediterranee è cambiato: non sono più gli altri a guardare all’impero ma al contrario. dal 1295 viene coniata una moneta in argento, il basilikon, che imitava il grosso veneziano, e un pezzo in mistura dal peso dimezzato a imitazione dei tornesi angioini coniati in Acaia. Nel 1353 l’Impero Romeo, messo alle strette su tutti i fronti, cessò definitivamente la coniazione della moneta aurea ma mantenne l’iperpero come moneta di conto. Un’ultima riforma fu voluta dall’imperatore Giovanni V (1341-1376 e 1379-1391): introdusse tre monete d’argento e due di rame, il tornese e il follaro, che indicavano nuovamente la soggezione al mercato dell’Europa occidentale. 11 Capitolo 6. LA MONETA DEI LONGOBARDI I Longobardi guidati da re Alboino entrarono in Italia nel 568 segando l’inizio del medioevo della penisola, caratterizzato da frantumazione politica, economica, militare e culturale. Dal punto di vista numismatico l’arrivo dei longobardi segnò la fine dell’economia monetale e una recessione al baratto. i re longobardi, per quasi tutto il tempo dell’occupazione, si limiteranno a coniare tremissi aurei, moneta che ovviamente non era destinata ai commerci quotidiani ma alla tesaurizzazione. La maggior parte di queste coniazioni avvenivano imitando le monete romee (in modo da poterle immettere, anche se raramente, nelle reti commerciali) e battute a nome di imperatori defunti, come Anastasio o Giustiniano. Si deve considerare la situazione politica dei nuovi occupanti: sebbene nominalmente fossero guidati da un re, il potere era spartito fra almeno 35 duchi, ognuno insediato in una città differente e con la forza di battere moneta (che teoricamente era prerogativa del sovrano). L’autorità regale inizierà a rafforzarsi circa mezzo secolo dopo, coincidendo con le prime politiche di conciliazione con la martoriata popolazione locale. I sovrani iniziarono anche a fregiarsi del titolo di Flavio (pensando fosse un titolo regale e non un gentilizio) in modo da rendere chiaro il loro rispetto per la tradizione e la cultura indigena. Le monete d’oro, come anticipato quasi esclusivamente tremissi, erano coniate da una singola zecca controllata dal re, verosimilmente Pavia, e quando la situazione cominciò a stabilizzarsi, sebbene si facesse riferimento alla moneta bizantina si inserirono alcune caratteristiche peculiari: l’assottigliamento e il dilatamento del tondello e la presenza evidenziata di un cerchio lineare, spesso da sembrare un anello, che circondava i tipi. Altra tendenza stilistica delle maestranze barbare fu quella della stilizzazione delle figure, tendente alla realizzazione di forme geometriche, che alla lunga rese difficile il riconoscimento dei tipi. Anche le lettere delle leggende persero la loro funzione originaria e divennero dei giochi simmetrici intorno al tipo centrale. Nell’editto di re Rotari si legge il divieto di apportare immagini sulle monete d’oro e poco dopo, come già successo in area merovingia, venne introdotta la figura del monetiere; il più antico che conosciamo è un tale Marinus operante sotto re Pertarito (672-688). Nonostante l’introduzione di questa nuova figura di fatto i tipi continuarono ad essere ispirati a quelli imperiali ma la moneta inizierà a perdere 12 La moneta di Pipino evidentemente non rispettava i tempi che correvano e fu immediatamente modificata dal figlio Carlo Magno (768-814), il quale, nella Admonitio generalis del 789, sostituì la millenaria libbra romana con una nuova libbra franca da 410 g, ma mantenendo inizialmente i rapporti fra i nominali (1 libbra= 22 soldi = 264 denari), che quindi aumentarono di peso. Ovviamente il cambiamento non fu repentino e distinguiamo diverse fasi; fino al 771 la moneta di Carlo restava uguale a quella del padre, dal 771 al 793 vi fu l’aumento di peso dei denari a 1,3 g. Queste monete si caratterizzano per una maggiore regolarità delle incisioni e recano nel diritto il nome del re su due righe, mentre sul rovescio comincia a comparire la X, simbolo antico del denarius, che poi verrà ruotata per divenire una croce (da cui nasce il testa o croce). L’ultimo atto della riforma fu l’editto di Francoforte del 794, in cui si vietava a tutti i sudditi di usare altre monete se non questi novi denari. La valuta a cui si fa riferimento sono monete legate alla nuova libbra franca, equivalenti a 32 grani di Parigi, cioè 1,7 g. Questo comportò che dalla libbra si potessero ricavare solo 240 monete ma si mantenne il rapporto con i solidi (che tanto erano una moneta teorica). Quindi Carlo creò il nuovo sistema monetale che sarebbe durato per secoli: una libbra da 410 g corrisponde a 20 soldi che corrispondono a 240 denari da 1,7 g. Queste monete presentavano adesso la croce al centro del campo sul diritto e a volte anche sul rovescio, mentre sul diritto troviamo la leggenda circolare con il nome del re, al rovescio l’indicazione della zecca. Non è chiaro se questo denario fosse stato testato inizialmente solo in alcune aree dell’impero franco. A far pensare questo è un capitolare emesso a Monza nel 781 in cui si vietava la circolazione di vecchie coniazioni e si decideva l’introduzione dei nuovi denari, senza però specificare quali. Comunque, Carlo nei primi anni dopo l’invasione dell’Italia mantenne il titolo di rex Longobardorum e le stesse zecche che avevano coniato tremissi d’oro a nome di Desiderio mantennero i coni cambiando solo il nome del sovrano. L’opportunità per il cambiamento fu data dalla ribellione dei duchi longobardi, poi rimossi e sostituiti da nuovi feudatari franchi, i quali allinearono l’Italia del nord alla monetazione d’argento. I domini longobardi del sud, sebbene formalmente sottomessi al nuovo imperatore, mantennero per ragioni economiche la coniazione di solidi, che nel tempo peggiorarono nella purezza fino a scomparire. Negli ultimi anni di regno Carlo portò modifiche ai tipi che fino a quel momento erano stati solamente epigrafici. Fu adottata la nuova tipologia del ritratto imperiale che guardava non ai ritratti tardo-antichi, comunemente associati all’impero orientale e con diadema costantiniano, ma a quelli delle prime dinastie imperiali con la corona d’alloro. Questa mossa si andava ad inserire nella politica di legittimazione del potere imperiale di un barbaro che per screditare il collega di Costantinopoli lo bollava come ‘greco’. Un tipo particolare di moneta, che ebbe molta diffusione, recava al rovescio la raffigurazione di una chiesa somigliante ad un tempio classico, con leggenda mista a caratteri greci e romani XPICTIANA RELIGIO. Ludovico il Pio (814-840) lasciò invariate la tipologia e la metrologia del sistema paterno, anche se va segnalata l’emissione di alcuni solidi aurei di peso romeo (4,5g) con ritratto imperiale al diritto e croce greca 15 entro corona di alloro al rovescio, considerata come celebrativa. L’incremento della produzione monetaria non si riflette nel Nord Italia dove l’argento inviato alle zecche non era sufficiente per coprire i volumi degli scambi e non si permetteva di uscire dalla fase deflattiva. Per poter uscire da questa situazione l’unica soluzione per le zecche locali fu quella di giocare con la legge di Gresham: coniare monete con una minore percentuale di fino ma con stesso peso, idea venuta ai mastri coniatori di Venezia. La città lagunare si trovava in una posizione geografica ottima e possedeva una poderosa flotta, che le garantivano una indipendenza di fatto da entrambi gli imperi. Testimonianza di questa particolare situazione è la coniazione di un denario battuto a nome di Ludovico, e poi di Lotario, mentre formalmente ancora faceva parte dei domini romei, e successivamente di una moneta recante il simbolo del tempio greco (associato ai carolingi) ma con una leggenda molto vaga: DS CVNSERVA ROMANO IMP. Il processo di svalutazione delle monete subì un unico arresto sotto l’impero dei primi Ottoni, ma nell’XI secolo le monete italiane avevano già perso il 90% del loro intrinseco. Molte monete coniate da zecche del nord Italia crearono una loro regione di circolazione: la moneta veneziana si diffuse per tutto il tri-veneto, la Lombardia orientale e parte dell’Adriatico; in Italia centrale la fecero da padroni i luccenses di Lucca; in area padana grande diffusione ebbe la moneta milanese; i papienses di Pavia trovarono molta fortuna anche nei regni longobardi del sud. Una storia a parte ebbe la zecca di Roma che, in quanto zecca dell’impero romeo, era autorizzata a battere solidi e frazioni in oro, ma le ripetute pressioni militari portarono ad una riduzione drastica del fino. Con il cambiamento delle alleanze e l’incoronazione di Pipino a re di Franchi, anche la politica monetale subì cambiamenti, con la coniazioni di denari d’argento. Papa Adriano I creò molto scandalo per il tipo iconografico utilizzato: sul diritto pose l’immagine di Pietro abbigliato a vescovo di Roma, ma la leggenda attorno citava DN ADRIANVS PAP, ponendosi alla stregua di un sovrano; sul rovescio era presente la raffigurazione della vera croce e leggenda VICTORIADNN, oltre che la dicitura, totalmente fuori contesto, di CONOB. Il suo linguaggio era troppo esplicito e i suoi successori al diritto conservarono l’immagine di Pietro con corretta leggenda, limitandosi ad inserire il proprio nome tramite monogramma. La moneta romana non uscì mai dai confini dello stato pontificio e dovette resistere all’incursione dei papienses. 16 Capitolo 8. LA SVALUTAZIONE DEI COMUNI All’inizio del nuovo millennio molte delle città italiane del centro-nord uscivano dai loro secoli bui e stavano ripopolandosi. Tale processo di rinascita portò all’infittirsi degli scambi ed un aumento quantitativo di moneta circolante. Con la crescita economica crebbe anche la richiesta di beni di lusso e materie prime; in termini economici, la maggiore produzione di monete richiedeva una maggiore quantità di argento e l’aumento della moneta circolante portò ad una inflazione generale, anche dei metalli. Non essendo reperibile altro metallo, le zecche italiane non trovarono altro sistema se non la strada della svalutazione. Questo processo era già avviato da un po', ma ricevette una forte spinta nel 1024, e nel corso di XI e XII secolo il fino delle monete italiane calerà fino del 90%. Le motivazioni di questa politica non vanno ricercate solamente nella mancanza di argento ma nel sistema monetale stesso: il sistema messo a punto da Carlo Magno prevedeva la coniazione di un solo nominale di un solo metallo non adatto ai piccoli commerci, e che nella maggior parte dei casi veniva tesaurizzato. Quindi il denarius era una moneta molto utile per gli imperatori per la riscossione di tasse e pagamenti degli eserciti, ma cozzava con i bisogni delle città italiane, che presero quindi a sfruttare la legge di Gresham. Dopo il Mille solo poche zecche erano sopravvissute in Italia: nel nord le zecche imperiali di Milano, Pavia e Verona, nel centro Lucca, mentre nei domini longobardi battevano ad imitazione dell’argento arabo, mentre in Sicilia, nella zecca di Messina, venivano coniati roba’i. tutte queste zecche che presero a battere moneta non autorizzata, prima fra tutte Venezia, per aggirare lo ius monetae coniavano monete a nome di imperatori morti o a nome di un Enrico o di un Ottone non specificato. Tutte queste monete puntavano principalmente a lucrare sul cambio con le altre, e quindi partì una gara a chi svalutava di più. Le speculazioni potevano rivelarsi molto favorevoli per le casse cittadine: monete con percentuale di fino minori permettevano di risparmiare materiale da investire diversamente e, il cambio con monete migliori faceva entrare nelle casse altro materiale; questi guadagni permettevano quindi di fare 17 moneta non fu apprezzata a causa aniconismo arabo e quindi compaiono sul diritto versetti del Corano o la professione di fede, mentre in ogni leggenda circolare veniva posto il nome del califfo, della zecca tramite l’indicazione della provincia e l’anno esatto. La nuova riforma ebbe grande successo anche per la possibilità di rapportarsi agli altri sistemi, in particolare quello imperiale, e si diffuse in tutto l’impero arabo con una eccezione. Non si sa il perché ma la Sicilia ha un sistema monetale differente dal resto dell’impero arabo. Ricordiamo che la conquista araba di Sicilia inizia nel 827 con lo sbarco a Mazara del Vallo e si conclude ufficialmente nel 965 con la conquista di Rometta, anche se già da circa 80 anni l’isola era ormai sotto saldo controllo. La conseguenza più vistosa del passaggio di potere fu lo spostamento della capitale da Siracusa a Palermo. La zecca di Palermo non emetteva dinar aurei ma frazioni di 1/4 detti ruba’i (letteralmente ‘quarto’) e delle monete d’argento pari ad un sedicesimo di dirhem, la kharruba. In ambito locale i ruba’i divennero la moneta più diffusa e furono la moneta portante degli scambi con Amalfi, Salerno e Bari, dove venivano battuti tareni; il nome deriva dal termine arabo tarì (con cui verranno identificate successivamente le monete normanne), che significa ‘fresco’, cioè fresco di battitura e quindi moneta buona che non necessità di pesatura in quanto non usurata dal tempo. Sembra però esserci un crollo dell’economia monetale in quanto non sono stati rinvenuti fals battuti dalla zecca palermitana. A questo proposito è da chiarire il ruolo svolto da alcuni gettoni di vetro, probabilmente utilizzati inizialmente come pesi monetali ma che furono poi accettati come moneta divisionale. Alla metà del X secolo il califfo Al-Mu’izz diede una nuova tipologia al dinar e ai ruba’i caratterizzata da due leggende circolari concetriche articolata intorno ad un piccolo globo o puntino centrale; da lui queste monete presero il nome di muezzini. La divisione della fertile campagna siciliana in piccoli appezzamenti di terreno pare avesse favorito lo sviluppo dell’agricoltura e abbia reso possibile l’introduzione di piante esotiche come gelsi, datteri, agrumi e canna da zucchero; in ogni caso la maggiore risorsa dell’isola rimaneva il grano. Le città del basso Tirreno non si fecero fermare dall’imposizione religiosa dei loro vescovi o dalle pressioni esercitate da Costantinopoli e intrapresero la via del commercio con i nuovi conquistatori (come testimoniato dalla coniazione dei taremi). Oltre Amalfi, il più grande partner commerciale degli arabi in Italia fu la repubblica di Venezia, la quale, grazie alla sua posizione geografica e alla sua situazione economica, godeva di una indipendenza ben strutturata dall’imperatore romeo. Il divieto islamico di raffigurazioni umane era una regola comune ma non fu applicata da tutte le zecche. Il caso più particolare è quello degli Artuqidi di Mardin, che avevano imposto il loro dominio nella regione del Diyarbakr (Turchia orientale) nel XII secolo e si dichiararono vassalli del califfo, che concesse loro il diritto di battere moneta fino al 1408. Le loro emissioni consistevano principalmente di dirhem con modulo allargato caratterizzati da una gamma tipologica vastissima e che prendeva ispirazione da monete di luoghi e tempi 20 diversissimi: dal califfo che taglia la testa ad un comandante cristiano, statue ellenistiche, imperatori di Roma e di Costantinopoli, Cristo benedicente e varie. Tuttavia, il caso più particolare è la copia di una moneta siracusana di fine V secolo a.C. con al diritto la raffigurazione della ninfa Aretusa. Le monete degli Artuqidi non sono rarissime nei porti dello Stretto e della Sicilia in generale, e rappresentano una preziosa testimonianza dell’importanza dei porti siciliani durante il Medioevo e il loro ruolo di mediatori per i commerci con il Vicino Oriente. Due dirham di al-Hakam I, emiro di Al-Andalus, nel Museo di Agrigento sono elemento che testimonia un evento storico. Come si evince dalle leggende circolari, le monete sono state battute a Cordova nell’anno dell’Egira 199, cioè l’815. Sotto il governo di Al-Hakam in Spagna vi fu nell’anno 202 una guerra di secessione con alcuni cittadini di Cordova che era partita da delle proteste a causa dell’aumento della decima; l’emiro placò la rivolta ed espulse dalla città circa 15.000 esuli che si divisero in vari gruppi. Un primo gruppo si diresse in Egitto, dove erano riusciti a conquistare parte della città; tramite un pagamento furono convinti a lasciare il paese e occuparono nel 826 l’isola di Creta. Altri esuli spagnoli si unirono all’esercito arabo mandato in Sicilia dal califfo di Qairawan sotto richiesta del turmarca romeo di Messina, Euphemios, ribelle al governo imperiale. Com’è facilmente intuibile il califfo non voleva aiutare Euphemios ma sfruttò l’occasione per lanciare l’assalto all’isola nel 827. Dopo una prima fase del conflitto, secondo le fonti, il generale Zuhayr ibn Giawt nel 830 pose sotto assedio Agrigento, e fu qui che arrivò il contingente degli spagnoli guidati da Farghalùs. Il suo contingente fu poi messo alla difesa di Mineo ma la morte del comandante a seguito di una pestilenza portò il gruppo a lasciare l’isola e raggiungere gli altri esuli a Creta. In conclusione, queste monete non solo confermano la veridicità di questa vicenda, ma sono anche preziosi testimoni della circolazione monetale nell’isola nei primissimi anni di occupazione. 21 Capitolo 10. LA MONETA DEI NORMANNI Il sud romeo, arabo, longobardo e trilingue, era sempre rimasto legato al commercio mediterraneo basato sulla moneta d’oro. Ma sulle vie del traffico marittimo la prepotenza del sistema settentrionale, soprattutto tramite Venezia e Genova, si era manifestata, e questi non solo volevano avere il monopolio dei porti, ma possederli; da queste motivazioni, nel 1204, partirà la IV crociata. Alla metà del secolo XI l’unica città del meridione in grado di contrastare le prime due repubbliche marinare era Amalfi, ma il suo sviluppo fu bloccato dall’ingresso in gioco di una nuovo elemento: le bande dei mercenari normanni d’Angiò, una stirpe vichinga da tempo insediatasi in Francia. Ben presto iniziarono ad offrire servizi da mercenari, tramite i quali ottenevano in cambio terre e castelli. Arrivarono nel sud Italia combattendo al soldo di Giorgio Maniace e poterono vedere sia la situazione di instabilità di queste terre, sia entrare in contatto con tutti i sistemi di combattimento delle forze in gioco. Dopo aver esercitato enormi pressioni sul pontefice, a cui fecero dichiarare di essere il legittimo sovrano del sud, si fecero dichiarare suoi vassalli e guidati dai fratelli Roberto detto il Guiscardo e Ruggero I (conte di Sicilia dal 1071 al 1101) si lanciarono all’assalto della Calabria, e successivamente di Puglia e Sicilia, in una guerra trentennale. I normanni si trovarono a regnare su di un territorio in cui la circolazione monetale variava enormemente da area ad area. In Sicilia circolavano i ruba’i da ¼ di dinar e le kharrube da 1/16; nella Calabria meridionale e la Puglia romea si avevano nomisma aurei e folles in rame; nella Calabria settentrionale e in Campania era forte la circolazione dei tareni amalfitani e salernitani, mentre nella Puglia settentrionale ed in Abruzzo circolavano papienses e rothomagenses (coniati a Rouen). Inizialmente, incapaci di controllare la situazione, lasciarono tutto uguale. La prima moneta attribuita con certezza è un roba’i del 1072, battuto a Palermo subito dopo la conquista della città. La moneta è una perfetta imitazione, tant’è che viene rispettato anche il titolo aureo del 69%, dato il crollo conseguente al conflitto, ma la leggenda, in caratteri cufici, ricorda del 22 Tale sistema fu mantenuto nella prima parte del regno di Federico II, fino al raggiungimento della sua maggiore età, mentre successivamente si avranno una serie enorme di riforme del fisco e della moneta, con l’introduzione dell’augustale e della continua svalutazione del denario e del tarì. Federico mantenne la corte a Palermo per varie ragioni; nel meridione ancora circolava l’oro ed aveva una ricchezza agricola che lo rendeva il maggior produttore di grano d’Europa, il che permetteva di controllare i prezzi del grano. Nel 1230 il monopolio regio fu esteso al sale, ai minerali, alla pesca, agli alberi e ai beni archeologici, e i commerci vennero controllati attraverso la concentrazione degli scambi in pochi luoghi. Possiamo definire Federico affamato di monete, in quanto per pagare i suoi conflitti con l’Italia del nord, suo principale obiettivo, e quindi il mantenimento dell’autorità imperiale e di un esercito permanente ed efficiente, oltre che ad una serie impressionante di interventi pubblici (come la costruzione di castelli rurali per controllare i baroni), introdusse una serie innumerevole di tasse. Nel frattempo, mentre riceveva moneta con una certa quantità di fino, introduceva nella circolazione moneta sempre più svalutata; molti economisti moderni attribuiscono alla sua politica economica feroce la povertà del Meridione, in quanto lasciò le casse statali vuote. Tornando a parlare di monete, circolava durante il suo regno oro emesso da diverse autorità e diversa lega, a partire dai tarì, sia normanni sia svevi, a iperperi romei dinar arabi di lega migliore. In argento, oltre ai denari enriciani, circolavano in Puglia ancora dei ducali, e sempre nella zona settentrionale del regno monete provenienti dal nord della penisola o dall’Europa. Per il bronzo la situazione era ancora peggiore, con la circolazione di monete di diverse epoche, anche tardoantica. Per porre fine a questa situazione di confusione fece delle riforme graduali fra 1221 e 1231, con la creazione di un sistema in oro e argento con nominali fra loro interscambiabili; le nuove monete furono scambiate a tariffa fissa, senza l’uso della bilancia. Per fare ciò allargò il suo monopolio all’estrazione dei metalli, in modo da controllare il rapporto fra di essi. Iniziò chiudendo la zecca di tareni di Amalfi e obbligando tutti i cittadini a usare i denari coniati a Messina e dalla nuova zecca di Brindisi (denari che nel tempo si svalutarono da 1/16 a 1/25 di tarì). Nel 1231 con la Costituzione di Melfi vi è l’introduzione di una nuova moneta aurea, l’ augustale, che valeva 7,5 tarì ma ne pesava 6. Sul diritto aveva il busto di Federico con paludamentum e leggenda CES AUG IMP ROM, mentre sul rovescio l’aquila imperiale con scritta +FRIDERICVS. Tali monete erano state concepite per sostituire gli iperperi romei, ormai di difficile reperimento, ma non funzionarono per due motivi (anche se furono molto copiate): la morte di Federico e il fatto che fosse ad una lega inferiore di 20 carati e mezzo, il cosiddetto oro di pagliola, proveniente dai mercati africani, di cui Federico era principale interlocutore. 25 Capitolo 12. LA MONETA GROSSA Il denario di tipo franco andò incontro, sin dalla sua introduzione, a secoli di progressiva svalutazione, ma a partire dal XIII secolo vi fu un’inversione di tendenza nelle scelte delle zecche. L’idea era quella che una moneta d’argento di buona lega e peso potesse divenire nuovo modello di riferimento per i grandi commerci, dato che le monete arabe e romee in oro erano ormai rare e di difficile reperimento. La moneta battuta in Europa non poteva però ancora essere in oro, data la difficoltà di reperire tale materiale e quindi si optò per l’argento. I primi a intuire questo furono i Normanni di Sicilia con l’introduzione del ducato apuliense, che però non ebbe successo per vari motivi: era troppo in anticipo e rilasciata in un momento in cui la monetazione aurea era ancora presente, inoltre il suo fino al 50% non rendeva fiduciosi i mercati, ed infine non si inseriva nel sistema europeo di soldi, lire e denari. Un altro tentativo era stato fatto dagli imperatori germanici che introdussero dei multipli dei denari ma sempre in mistura, e quindi perirono per effetto della legge di Gresham. La situazione internazionale mutò a partire dal XIII secolo ad opera dei mercanti italiani, che cambiarono i metodi di gestione delle loro attività. Da viaggiatori a caccia di affari si trasformarono i uomini d’affari sedentari con dipendenti sparsi sulle principali piazze economiche; qui questi stipulavano affari, prestavano denaro e speculavano sul gioco dei cambi, essendo garantiti dal patrimonio del loro datore di lavoro. Le 26 merci vennero affidate a compagnie specializzate nel trasporto e l’introduzione delle assicurazioni rese più fiduciosi anche gli investitori. I mercanti genovesi, pisani e veneziani, che avevano il controllo dei commerci orientali, esportavano l’argento europeo di buona lega in oriente e importavano oro a minor prezzo rispetto all’occidente, guadagnando sul cambio. Sicuramente la principale beneficiaria di questa situazione fu Venezia, che grazie agli accordi stretti con gli imperatori romei prima, e le conquiste della quarta crociata poi, ottennero la totale egemonia dei mercati dell’Egeo e del Mar Nero. La posizione di preminenza in quest’area spiega l’invenzione del ducato d’argento noto come matapan, la cui prima emissione avvenne probabilmente sotto il doge Enrico Dandolo, destinata a divenire la nuova moneta forte del Mediterraneo orientale. La sua tipologia riprendeva un tipo coniato dall’imperatore Alessio III in cui al diritto vi era l’imperatore con Costantino reggenti una bandiera, e sul retro un Cristo in trono; i veneziani si limitarono a sostituire i personaggi del diritto con il doge e San Marco. Forse contemporaneamente, se non qualche anno prima, Genova aveva prodotto una moneta dalle identiche caratteristiche, il genovino. Verona, in diretta competizione con Venezia, intorno agli anni ’30 del secolo, coniò una moneta di peso minore di circa 0,40 g e fino minore di pochi millesimi. Nella Lombardia la zecca di riferimento fu quella milanese, dove nella prima metà del secolo prese avvio la produzione di ambrogini coniati a nome di Enrico VI, che si estesero anche nell’area di Parma e Bologna. Nel 1254 diverse città lombarda si radunarono a Cremona e si misero d’accordo per coniare una moneta di stesso peso e titolo, dal valore di quattro denari imperiali e di titolo inferiore di circa un decimo rispetto al matapan, dando nuovamente avvio al gioco delle svalutazioni. In Toscana vi era un’analoga situazione con il centro di riferimento in Pisa, che aveva soppiantato Lucca nel ruolo di principale zecca ottenendo da Federico I il permesso di battere moneta nel 1155. Il perfetto allineamento delle emissioni delle altre città toscane, fra cui Firenze, Lucca e Siena, e poi Pisa, ha fatto ipotizzare che anche qui si raggiunse un accordo. La possibilità di avere un campo più esteso permise il miglioramento dei tipi; a Firenze venne utilizzato il giglio e la figura di San Giovanni Battista. In generale era molto usata la figura del santo patrono. Segnaliamo che a Pisa, la moneta contemporanea a Federico II vedeva l’utilizzo di una grande aquila. La zecca di Roma era stata chiusa nel X secolo e lo stato pontificio era stato invaso dai papienses, sostituiti a partire dal XII secolo dai provisini, una moneta grossa coniata nelle terre di Champagne. I primi romanini furono coniati a imitazione di questa moneta, con il diritto occupato da una croce e leggenda SENATVSPOPVLVSQUEROMANVS e retro con il pettine usato per cardare la lana (segno distintivo dei provisini) e leggenda ROMA CAPVT MVNDI. A fine XIII secolo fu coniata una nuova moneta con le immagini di Pietro e Paolo più pesante, ma non ebbe successo. 27 Capitolo 14. ANGIOINI E ARAGONESI Dopo la morte di Federico II i papi si intromessero all’interno delle politiche del regno delle due Sicilie e nel 1266 posero sul trono Carlo d’Angiò, il quale sconfisse l’esercito di Manfredi a Benevento e divenne leader del partito guelfo in Italia. Dal punto di vista monetale continuò sostanzialmente il precedente sistema svevo con la sola introduzione del Reale, una moneta d’oro che riprendeva peso e titolo aureo degli augustali in modo da sostituirli. Più importanti sono le novità del tipo: si abbandona la volontà di richiamare gli imperatori romani e il re si fa raffigurare come un re francese, con corona di gigli, tunica e mantello, mentre il rovescio era occupato dallo scudo con stemma di Francia. Contrariamente alle sue intenzioni, Carlo dovette continuare a battere multipli dei tarì, di cui conosciamo due serie: una prima in cui è raffiugrato un cavaliere con armatura e spada sguainata, e una seconda con leggenda SERVVS XRI, probabilmente legata con la campagna tunisina per salvare il fratello imprigionato. La situazione monetaria del regno cambiò nel 1278, in primo luogo con la chiusura della zecca di Messina e Brindisi e l’apertura della zecca di Napoli (questi fatti saranno poi alcuni di quelli alla base del colpo di stato siciliano). Innanzitutto, si capì che i tarì, con vari multipli e sottomultipli erano monete datate: non avendo 30 una buona percentuale di fino non erano fiduciato dal mercato. Si seguì allora l’esempio dei fiorini e dei ducati, monete che non venivano pesate, ma contate. Venne così introdotta una nuova moneta aurea da 24 carati, sebbene tariffata con lo stesso valore dell’augustale, il Carlino, che per il tipo presente sul rovescio venne chiamato anche saluto. Al diritto troviamo uno scudo con due stemmi, i gigli di Angiò e la vera croce (in quanto re di Gerusalemme), con ai lati ina rosetta tra due stelle ed un crescente lunare, mentre sul rovescio troviamo una immagine dell’Annunciazione, con l’angelo Gabriele con la mano in posizione dell’orante, e fra le due figure un vaso con tre gigli. Parallelamente alla moneta d’oro fu introdotta una moneta d’argento che traeva spunto dalle monete grosse, ed in particolare dal Grosso Tornese di produzione francese. Il nuovo saluto d’argento aveva gli stessi tipi di quello aureo, una percentuale di fino di quasi il 93% e il suo valore fu definito come metà del Tarì, perciò valeva un quindicesimo del corrispettivo aureo. Sotto Carlo II e Roberto d’Angiò il saluto d’argento venne sostituito dal robertino o gigliato, più pesante poiché si richiedeva di aumentare la quantità di argento per mantenere il rapporto stabile con le monete d’oro. Il nuovo sistema francese introdotto da Carlo I, durò fino all’arrivo di Garibaldi e i vari sovrani si limitarono a cambiare il nome delle monete senza toccarne la sostanza. Dopo la rivolta dei Vespri siciliani il re Pietro D’Aragona vide garantiti i propri diritti sulla successione al trono dell’isola, in quanto marito di Costanza figlia di Manfredi. Pietro fece battere delle monete d’oro e d’argento i Reali, identici per peso e lega al Saluto angioino. Alla sua morte sul trono succedette il figlio Giacomo che riprese il conflitto e nel 1295, con la pace di Junquera, accettò di lasciare la Sicilia in cambio di Sardegna e Corsica; i siciliani rifiutarono tale accordo e misero sul trono suo fratello Federico II, che firmò la pace di Caltabellotta. Alcuni mercenari al suo servizio si spostarono in Grecia dove furono assunti dall’Imperatore Andronico Paleologo, ma nel 1311, con un colpo id mano, si impadronirono dei Ducati di Atene e Neopatria, sotto controllo angioino, e li posero sotto il controllo aragonese. Durante il regno aragonese-spagnolo, Messina fu l’unica zecca operante nell’isola fino alla rivolta del 1674, momento dal quale fu spostata a Palermo. Dal punto di vista monetali i vari sovrani non introdussero novità nel breve periodo; abbiamo introduzioni di nuove monete con Ferdinando il Cattolico (1479-1516), il doppio Trionfo e il Trionfo d’oro, mentre in argento il doppio tarì, l’aquila e il mezzo tarì, e in bronzo i Piccioli. Mentre Carlo V introdusse gli Scudi e i mezzi scudi d’oro. 31
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