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Riassunto completo e dettagliato di Neuropsichiatria Infantile 1 e 2, Appunti di Neuropsichiatria infantile

Ottimo riassunto, accurato, chiaro, ben scritto e lineare per l'esame di "Neuropsichiatria Infantile 1 e 2" basato sugli appunti delle lezioni della Dott.ssa Maria Esposito per la facoltà di "Terapia della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva". Più che sufficiente per il superamento dell'esame con ottimo voto.

Tipologia: Appunti

2018/2019

In vendita dal 23/07/2019

Loulou92
Loulou92 🇮🇹

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Scarica Riassunto completo e dettagliato di Neuropsichiatria Infantile 1 e 2 e più Appunti in PDF di Neuropsichiatria infantile solo su Docsity! NEUROPSICHIATRIA INFANTILE 1-2 Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva (TNPEE) è una figura professionale che appartiene al novero delle professioni sanitarie. Svolge attività di abilitazione, riabilitazione e prevenzione nei confronti delle disabilità dell'età evolutiva (fascia di età 0 - 18 anni). L'area di intervento del TNPEE è rappresentata dalle disabilità dello sviluppo, intese come quelle situazioni in cui – in conseguenza di una malattia, di un disturbo o di una menomazione – il soggetto presenta difficoltà nell'attualizzazione delle abilità necessarie alle attività, alla partecipazione e alla realizzazione della crescita. Il TNPEE svolge interventi di prevenzione, terapia e riabilitazione delle malattie neuropsichiatriche infantili, nelle aree della neuro-psicomotricità, della neuropsicologia e della psicopatologia dello sviluppo. Scopo principale di ogni trattamento sarà quello di condurre il bambino verso un percorso di sviluppo più simile a quello TIPICO (parliamo di sviluppo tipico ma MAI di “normalità”, perché essa non esiste), che non equivale ad uno sviluppo OBBLIGATORIO in quanto ogni bambino ha la sua personale traiettoria di sviluppo. Quando parliamo di tappe di sviluppo e di annesse “scadenze”, bisogna tener presente che ogni scadenza deve essere molto ELASTICA poiché ogni bambino ha il suo TIMING. Il concetto di disabilità esiste fin da quando esiste l’uomo. Ciò che è cambiato nel corso dei secoli è la concezione, l’idea, il modo di interpretare la disabilità nella società. Le prime tracce del rapporto tra le disabilità e la società risalgono all’antica Grecia: gli spartani ritenevano che ogni bambino, alla nascita, andasse “valutato” e – se deforme – buttato via. Lo stesso avveniva ad Atene dove si praticava l’INFANTICIDIO. Nell’antica Grecia si riteneva vi fosse un rapporto stretto e diretto tra bellezza e giustizia, tra salute e bontà. Per cui un bambino che nasceva sano era buono e se nasceva deforme era cattivo; questo giustificava l’infanticidio. All’epoca, anche la MALATTIA MENTALE era considerata deformità (quindi allontanamento e segregazione). Le persone erano considerata NON PERSONE, animali privi di ogni personalità giuridica. Si riscontrano tracce di infanticidio anche nell’antica Roma, ove il bambino veniva considerato un essere inferiore. Nel Medioevo la situazione peggiora: viene introdotto il concetto di MONSTER- NATURAL. Il bambino non era più “solo” un animale da sopprimere, ma un vero e proprio MOSTRO: una creatura non umana, frutto dell’accoppiamento tra una donna e un animale (anche la madre veniva uccisa). Nel tardo Medioevo, fortunatamente, i padri della chiesa introducono l’illegittimità dell’abbandono, l’ingiustizia dell’infanticidio e la dovuta tutela e sopravvivenza del bambino. Contemporaneamente Sant’Ambrogio, pur riconoscendo nella povertà una sorta di “giustificazione” per l’abbandono, considera l’abbandono un reato ed introduce il concetto di ABORTO e CONTRACCEZIONE (modi sicuramente più gusti e validi della soppressione). Nel 529 Giustiniano forma il CORPS IURIS CIVILIS, una sorta di codice civile dove si acconsente al concetto di Personalità Giuridica (da conferire ad ogni bambino che viene, finalmente, considerato un INDIVIDUO con diritti e doveri). Nel Rinascimento inizia lo studio della pedagogia e si inizia a riconoscere l’importanza di quelle che sono le tecniche e le modalità di educazione del bambino e di ritenerlo un individuo capace di una propria modalità di apprendimento e conoscenza. Secondo ROSSEAU, tutti nasciamo buoni. Saranno gli eventi della vita ad indurci a modificare e sviluppare comportamenti diversi. Secondo LOCHE, ognuno di noi nasce “vuoto” (TABULA RASA). In base alle esperienze che si faranno, ci saranno diverse modalità di sviluppo. Inizia a formarsi la figura del pedagogo, che fornirà gli strumenti più idonei per l’educazione infantile. Diviene importante l’attenzione a tutto ciò che riguarda gli strumenti educativi e le varie tecniche per intervenire nel percorso dello sviluppo. Nasce la Pedagogia, il primo atomo di quello che – nel corso dei secoli – diventerà la cura del “DIVERSAMENTE ABILE” e quindi lo sviluppo della Neuropsichiatria Infantile e della Terapia della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva. Intorno all’anno 1000, considerando che un bambino deve crescere in un ambiente consono al suo sviluppo, viene riconosciuto l’abbandono alle cure di chi ha maggiori possibilità per farlo, e quindi nasce la legittimazione dell’abbandono, attraverso l’istituzione delle RUORE DEGLI ESPOSTI O DEGLI INNOCENTI, alle porte degli orfanotrofi. L’ultima ruota degli esposti è stata abolita negli anni 20 n Italia e reintrodotta negli anni 90 a Milano in seguito ad un alto tasso di abbandono che ha portato alla modificazione della legge che afferma la possibilità di abbandonare il bambino in qualsiasi nido d’Italia. Ad oggi l’abbandono viene effettuato negli ospedali (abbandono anonimo). Verso la fine del ‘700/inizio ‘800 inizia a prendere piede l’attenzione per i soggetti disabili. Il soggetto disabile veniva visto come un problema per la società e si iniziò a pensare ad una strategia educativa non tanto per la loro autonomia e indipendenza ma al fine che recasse disagio alla società. Spesso la “soluzione” era la segregazione (manicomi). sottocorticali, cioè aspecifiche, che non consentono il riconoscimento di un deficit specifico. L’immaturità del SNC del lattante porta a difficoltà nell’identificazione precisa di una patologia neurologica. L’osservazione neurologica nelle prime ore di vita serve a individuare le patologie neurologiche e iniziare indagini neurologiche (visto che la neuroradiologia ci consente di avere un’immagine chiara della situazione anatomica cerebrale). Bisogna tener conto del PESO e se il bambino è nato PREMATURO o A TERMINE. Per valutare la maturazione del sistema motorio del bambino si applica una modalità gestaltica (quindi una visione olistica) e un approccio legato all’osservazione della motricità generale (GENERAL MOVEMENTS/GMs). I GMs sono movimenti spontanei che tutti i bambini fanno e che vengono valutati e catalogati secondo un timing considerato fisiologico. Non tutti i movimenti sono GMs. Essi sono movimenti simultanei e globali che includono, appunto, tutte le parti del corpo. Si osserva la motricità generale del bambino e la brevità della durata della sequenza con cui evolvono i GMs tra braccia, gambe, tronco e testa. Sono movimenti caratterizzati da una crescente e decrescente intensità. Iniziano e finiscono in maniera graduale e si presentano molto armonici. Sono osservabili durante il sonno attivo, il pianto, la veglia attiva e – raramente – il sonno quieto. Il sonno del neonato, poiché le strutture cerebrali sono immature, si struttura in maniera diversa rispetto all’adulto (che si struttura soltanto in sonno REM e sonno NON REM). Il sonno del neonato è diviso in sonno quieto e attivo. Il sonno attivo è il precursore di quello che sarà il sonno REM, parte nella quale si sogna e nella quale vi è attività cerebrale simile alla veglia. Si chiama così perché è caratterizzato dalla presenza di movimenti rapidi degli occhi che sono legati alla presenza dell’attività onirica (di cui si ha memoria solo quando ci si sveglia direttamente dal REM); ciò caratterizza un sonno fisiologico. Il sonno profondo, invece, corrisponde al sonno quieto del neonato. Il neonato in sonno quieto è fermo nella culla, può succedere qualunque cosa intorno a lui e non si sveglia. I GMs, a seconda delle fasi e dell’età, cambiano e si distinguono in due grandi componenti: 1. WRITHING: i writhing movements sono presenti già nella vita intrauterina e continuano fino al 2° mese di vita circa. Il writhing è un movimento scattoso che interessa tutto il corpo, ha un’ampiezza piccola e moderata ed è generalmente lento (raramente possono verificarsi dei movimenti più ampi all’altezza delle braccia). Vengono chiamati writhing (“a fil di ferro”) perché sono dei movimenti di tipo ellittico che sembrano mimare le rotaie del fil di ferro. Quando ci troviamo di fronte ad un pattern di writhing di tipo patologico distinguiamo 3 tipi: • POOR REPERTOIRE: corrisponde ad una ridotta estrinsecazione del writhing, cioè poco espresso, da “repertorio povero”. • CHAOTIC: è un repertorio writhing non ben organizzato che non segue lo schema fisiologico e quindi è espressione di disorganizzazione centrale. • CRAMPED-SYNCRONIZED: considerato con prognosi peggiore, è caratterizzato da tipi di writhing con la presenza di movimenti crampi-formi (i neonati si muovono a scatto, si aprono e si chiudono come fossero ostriche). Se osserviamo un pattern patologico del writhing, da un punto di vista neurologico non riusciamo a fare una diagnosi specifica ma possiamo solo dire che un bambino presenta segni neurologici, quindi è a rischio di patologie neurologiche (e deve essere approfondito). 2. FIDGETY: i fidgety movements sono osservabili tra i 2 e i 5-6 mesi. Essi sono movimenti circolari, veloci e che tendono a variare di velocità. Interessano tutte le parti del corpo: capo, tronco e arti, in tutte le direzioni e in sequenza. Anche gli arti tendono ad attivarsi in una sequenza ripetuta, che in genere è “sinistra- destra-destra-sinistra”. Sono presenti in maniera quasi continua nel lattante tranne durante l’attenzione focalizzata, cioè quando i genitori attirano l’attenzione del bambino con un richiamo, un rumore, ecc. Essi sono sempre presenti nella veglia e nel sonno attivo. Tra i pattern patologici di fidgety abbiamo: • ABNORMAL FIDGETY, movimenti in cui vi è un eccesso di rappresentazione o che sono rappresentati in maniera anomala (ciò è spia di un cattivo funzionamento del SNC). • ABSENT FIDGETY, quando vi è l’assenza dei movimenti fidgety (cioè non sono osservabili). I GMs sono una tecnica applicata nei primi 4-5 mesi di vita e sono di recente applicazione (fino a 10 anni fa non vi era la possibilità di classificare i bambini in base ai loro movimenti, quindi si eseguiva un esame neurologico classico del lattante, il quale partiva con l’osservazione della maturità spontanea del soggetto). Oggi, l’indice diretto del grado di maturazione del SNC è l’osservazione dei RIFLESSI ARCAICI. MEMORIA La memoria è la capacità di immagazzinare, conservare e recuperare al momento opportuno le informazioni che abbiamo raccolto. La memoria e i meccanismi mnesici sono alla base della sopravvivenza del singolo e della specie perché, senza memoria, non ci sarebbero rievocazioni di informazioni utili e non potrebbe essere messo in atto alcun meccanismo né di pianificazione né di problem solving. Mancherebbe la cosa più essenziale, che è l’informazione. Tale informazione viene recepita dal cervello, che immagazzina il tutto e riesce a rievocare. La memoria è una delle funzioni che ci consente di affrontare la complessità dell’ambiente, di elaborare gli stimoli in modo corretto e di riuscire ad utilizzare strategie efficaci. L’elemento più importante e più sensibile del meccanismo di memoria è la rievocazione. Esistono bambini che hanno patologie e non riescono ad usare le informazioni in maniera funzionale perché il cervello non riesce a rievocare l‘informazione giusta. La memoria può essere considerata una vera e propria struttura psichica che organizza non soltanto l’aspetto temporale del comportamento ma condiziona il nostro comportamento e l’identità. Quello che noi siamo, indipendentemente dalla generalità anagrafica, è tutto fondato su meccanismi di natura numerica. Siamo frutto della sintesi che il nostro sistema cognitivo ha fatto su tracce mnesiche che hanno a che fare (in maniera più o meno conscia) con quello che abbiamo vissuto. Una delle modalità di apprendimento del bambino molto piccolo sono le REAZIONI CIRCOLARI. Esse vengono messe in atto di fronte ad uno stimolo. “Circolari” perché il bambino comincia a reiterare lo stimolo per avere la reazione. Es.: un bambino di 6-7 mesi scuote un oggetto e sente un rumore, ripete l’azione per avere il piacere di quel rumore. Ma se non ci fosse memoria, quel bambino, avrebbe modo di reiterare? No, perché non ricorda nulla del piacere provato nell’ascoltare quel suono. Se non c’è memoria, non c’è apprendimento. In alcune forme di amnesia si osserva una modifica comportamentale, non solo perché si ha la perdita dell’informazione ma vi è un cambiamento nel modo di essere del soggetto perché ha perso delle informazioni e, di conseguenza, modificherà il risultato di tutte le scelte passate e del suo modo di essere. La memoria non è solo capacità di ricordare (quella è parte della memoria DICHAIARATIVA). Memorizzare, ricordare sequenze, non è la memoria. Se l’informazione è utile ma non utilizzata con frequenza, sarà rievocata con un ritardo di qualche millisecondo in più. Per molte memorie ci sono tante chiavi differenti. Quali e quante siano le chiavi dipende da quali sono le caratteristiche dell’informazione che rievochiamo. Colui che ha spiegato i meccanismi di recupero attraverso la TEORIA DELLA SPECIFICITA’ DELLA CODIFICA è TULVING, secondo il quale più è specifica la codifica più efficace sarà il recupero. Questo, per essere efficace, deve avere compatibilità tra le caratteristiche della traccia mnesica e quelle delle informazioni fornite dal recupero, cioè tra il kiù e l’informazione da recuperare. Nella specificità della codifica rientra il contesto. La codifica non è univoca, ma specifica rispetto ad esso. La specificità e la profondità della codifica è influenzata anche da aspetti di natura emotiva, quindi le sensazioni intese come aspetti emotivi associati alle informazioni. Più la componente emotiva è rilevante, più profonda sarà la codifica, più veloce sarà la rievocazione. Importante è anche la CAPACITA’ DI ORGANIZZAZIONE DELLE TRACCE MNESICHE. Es. se l’armadio è ben ordinato, trovi facilmente ciò che stai cercando. In caso contrario, puoi metterci anche una giornata. La precisione dell’organizzazione dell’informazione entra in maniera diretta a quella che è la velocità e la capacità di rielaborazione. Questo è il modello di Atkinson e Shiffrin del 1965, ancora oggi ritenuto valido ed essenziale. In maniera immediata, ci darà un’immagine chiara dei processi di memorizzazione. L’input di origine sensoriale, attraverso un meccanismo chiamato attenzione, sposta l’informazione presso un processo di codifica. Se non c’è attenzione, automaticamente, non c’è codifica. L’informazione, quindi, non ha mai avuto accesso al sistema di codifica. Nella MBT ci sono meccanismi di reiterazione: la REITERAZIONE DI MANTENIMENTO: è come se facessimo una codifica di pochi millisecondi che poi andrà subito a decadere. Se invece è una REITERAZIONE DI TIPO ELABORATIVO, essa andrà nel meccanismo di codifica in modo più profondo e di conseguenza passerà nella MLT. Un volta arrivata lì, l’informazione può essere recuperata o rievocata nella MBT perché è l’unico spazio mnesico dove noi abbiamo cognizione cosciente. A questo proposito, Baddeley ha proposto di sostituire il concetto di MBT con quello, più articolato da lui proposto, di MEMORIA DI LAVORO. Egli parla della memoria di lavoro come di un sistema gerarchico deputato al mantenimento e all’elaborazione temporanea delle informazioni durante l’esecuzione di vari compiti cognitivi. SVILUPPO SENSO-PERCETTIVO La capacità percettiva si sviluppa già durante la vita intrauterina poiché da parte del feto si iniziano a percepire stimoli. E’ importante tener presente che il cervello del neonato è immaturo e ancora dominato dalle aree sotto-corticali (quindi le competenze più arcaiche e filogeneticamente più antiche rispetto alle competenze corticali superiori, che caratterizzano le tappe finali dell’evoluzione della nostra specie). Infatti, nelle prime epoche di sviluppo, abbiamo una spiccata rappresentazione delle competenze senso-percettive, cosa che non avviene in età più matura. Le diverse competenze percettive assumono un valore diverso a seconda della situazione. Il primo senso a cominciare il percorso di sviluppo è sicuramente la sensibilità cutanea, perché è l’organo più esteso del nostro corpo (la pelle è la più esposta agli stimoli esterni e che riesce, quindi, ad evocare reazioni fisiche più importanti). Successivamente inizia a svilupparsi il sistema vestibolare intorno alla 14° settimana di vita INTRAUTERINA, il gusto e l’olfatto intorno alla 21°, il sistema uditivo intorno alla 24°. L’ultimo ad iniziare il proprio sviluppo è la vista, intorno alla 30° settimana (circa l’8° mese, quindi vicino alla gravidanza). Questi sistemi continuano il loro percorso di sviluppo in seguito al parto, seguendo la maturazione dei sistemi cerebrali e corticali. VISTA E VISIONE Due concetti profondamente diversi tra loro: la vista è la capacità di ricevere degli input, quindi di ricevere lo stimolo. La visione è la capacità cognitiva superiore che ci consente di riconoscere ed elaborare lo stimolo, dare un significato allo stimolo che percepiamo. La vista mi consente di vedere un’immagine, la quale verrà selezionata e rielaborata attraverso l’attivazione di diverse aree cerebrali fino alla sintesi di un’immagine alla quale verrà fornito un significato (in maniera inconsapevole). Ci rendiamo conto dell’esistenza di questi processi quando abbiamo di fronte un soggetto con problema cognitivo che gli impedisce una data modalità di visione e, quindi, pur vedendo al stessa immagine non riesce ad attribuirle lo stesso significato. Lo spettro visibile (cioè l’insieme delle lunghezze d’onda a cui l’occhio umano è sensibile e che sono alla base della percezione dei colori) è una porzione molto piccola di tutto lo spettro della luce. Quando parliamo di immagine, altro non è che luce. Importanti sono sia la presenza oggettiva dello stimolo che la componente del sistema recettivo (occhio e vie visive), ma soprattutto è discriminante la capacità di VISIONE per cui – magari – vedendo la stessa immagine due persone forniscono significati differenti perché tutti abbiamo punti di vista e modalità di interpretare l’input ricevuto differenti. Nel funzionamento dell’essere umano, abbiamo un condizionamento importante dei sistemi cognitivi sui sistemi percettivi. Se è vero che i sistemi percettivi sono indispensabili per acquisire informazioni dall’esterno, è vero anche che abbiamo la capacità di condizionare quelli che sono gli input esterni fornendo dei significati completamente diversi. La funzione visiva è quella che ha a che fare con il funzionamento recettoriale occhio- via visiva e ci consente di avere una sensibilità al contrasto, al senso cromatico, alla velocità e al movimento degli oggetti, il riconoscimento della forma, il senso di profondità, ecc. Tutte caratteristiche che riguardano la posizione dell’oggetto nello spazio e la sua forma fisica. Tutto ciò dipende direttamente dall’integrità del sistema visivo: del sistema oculare, delle vie di trasmissione, della via oculare. Alla regione nasale dell’occhio corrisponde la parte esterna del campo visivo. Alla regione temporale la parte interna. L’occhio è una sfera composta da tre membrane principali: sclera, coroide e retina. All’interno della retina sono presenti foto-recettori deputati alla percezione dello stimolo luminoso. A seconda del tipo del tipo di recettore attivato, si ha l’attivazione di tipi diversi di vie visive (cioè l’attivazione di diversi sistemi che riconoscono le varie componenti dell’immagine). Le principali vie visive sono: via retino-genicolata-laterale, via retino-tettale, via retino- pretettale, tratto ottico accessorio e via retino-ipotalamica. La via retino-genicolata-laterale è costituita da 6 strati cellulari e costituisce il 3° neurone della via visiva. Gli strati 1-4-6 ricevono le fibre dall’occhio omolaterale; gli strati 2-3-5 ricevono le fibre dall’occhio contro laterale. All’interno del corpo genicolato laterale vi è una segregazione molto stretta delle fibre proveniente dai diversi occhi, altrimenti avremmo una vista molto confusa e non riusciremo a distinguere bene la lateralità e la posizione dell’oggetto nello spazio. Riceve afferenza dalla retina, dalla corteccia striata, dai centri oculo-motori, dalla sostanza reticolare mesencefalica e pontina. La corteccia è costituita da 6 strati di cellule e fibre, di cui i più rappresentati sono gli strati II e IV. Il IV è costituito da altri sottostrati. La divisione in strati della corteccia calcarina consente di organizzare l’immagine, di localizzare un oggetto in una certa zona del campo visivo con una certa profondità ed una determinata forma. Esistono due grandi sistemi: • MAGNOCELLULARE: cellule grandi, conduzione veloce dello stimolo, non discrimina i colori, discrimina la forma in movimento. Filogeneticamente è il più importante in quanto è importante capire che qualcosa si sta muovendo rispetto al sapere cosa si sta muovendo. E’ collegato al sistema sottocorticale di allerta. • PARVOCELLULARE: cellule piccole, conduzione più lenta dello stimolo, discrimina i colori e la forma. Altre componenti sono le aree associative, che consentono la sintesi delle informazioni presenti nei due emisferi. La via IPOTALAMICA è importante in quanto essenziale per l’attivazione del ritmo biologico indotto dai cicli luminosi. Per questo, per alcune patologie, vi è l’utilizzo della LIGHT TERAPHY. Tutte le vie percettive, come tutti i sistemi di conoscenza del soggetto, risentono della stimolazione ambientale (cioè dell’effetto dell’elasticità sinaptica, attiva nelle prime epoche di sviluppo e che condiziona lo sviluppo del cervello). preferenza al latte materno. Perché si ritiene importante che il bambino, alla nascita, debba essere immediatamente posto sul ventre della madre? Perché sente i suoni a lui familiari, come il battito cardiaco della mamma, l’odore della pelle che lo rassicura, una sensazione di contenimento rispetto ad una stimolazione tattile e soprattutto serve a favorire l’attaccamento del neonato al seno, in quanto l’odore del latte lo guida verso la fonte (il seno). In questo modo viene indotto il bambino ad avere una forma di attaccamento assolutamente spontaneo, senza condizionamento esterno. PERCEZIONE DEL DOLORE Intorno alla 20° settimana di gestazione sono attivi i recettori cutanei su tutta la superficie del corpo, per cui è tecnicamente possibile percepire il dolore. E’ difficile capire se il bambino prova una percezione dolorosa o, semplicemente, una stimolazione tattile. Il dolore è una risposta che noi diamo a quello stimolo tattile. La soglia del dolore è diversa in ogni individuo. Il dolore è un’interpretazione cognitiva ad uno stimolo tattile che dà una diversa interpretazione a seconda dell’attivazione corticale che ne consegue. Il feto, a 20 settimane, ha il sistema recettoriale attivo ma non le strutture corticali sviluppate tanto da poter interpretare quello stimolo come doloroso. L’ambiente condiziona molto lo sviluppo del bambino che potrebbe avere difficoltà a gestire la frustrazione se l’ambiente è, ad esempio, ansiogeno (meccanismo di COPING). Tappe di Sviluppo del Dolore 0-3 mesi: manca apparentemente la comprensione del dolore. La memoria per gli eventi dolorosi è possibile, ma non dimostrata. Le risposte al dolore sono dominate percettivamente. 3-6 mesi: presenza di rabbia e tristezza nella risposta al dolore. 6-18 mesi: chiara paura delle situazioni dolorose. Espressione del dolore tramite “parole”. Il bambino è capace di localizzare alcuni tipi di dolore. Fino a 6 anni: struttura prelogica del pensiero: pensiero concreto ed egocentrismo. Differenzia i gradi di intensità del dolore. Mette in atto strategie di evitamento delle situazioni dolorose. 7-10 anni: pensiero operativo concreto: distingue tra Sé e l’ambiente. Strategie di coping poco elaborate. Capace di spiegare perché è presente il dolore e il valore dello stesso. 11 anni: pensiero formale. Capacità di pensiero astratto e introspezione. Aumenta l’uso e il repertorio di strategie mentali e cognitive di coping. FUNZIONI ESECUTIVE Le FE possono essere definite come quelle capacità che entrano in gioco in situazioni e compiti in cui l’utilizzo di comportamenti e abilità di routine non è più sufficiente alla loro riuscita. Con questa “etichetta”, Owen si riferisce all’insieme di processi mentali finalizzati all’elaborazione di schemi cognitivo-comportamentali adattivi in risposta a condizioni ambientali nuove e impegnative. Per fare alcuni esempi, sono le funzioni alla base della pianificazione, della creazione di strategie. Più in generale sono quei processi cognitivi alla base del problem solving. Importante è il concetto di azioni coordinate, perché non esiste una FE che trova la sua applicazione in solitudine ma sono funzioni che vengono raggruppate insieme proprio perché tendono ad un’applicazione contemporanea. Non c’è una FE che può esplicare il suo ruolo senza l’attivazione di altri componenti del sistema esecutivo. Le diverse componenti del sistema esecutivo sono classificate in maniera differente. Esistono varie scuole di pensiero e teorie su quali funzioni possono essere o meno incluse nel calderone delle FE, così come si discute ancora molto se le FE rappresentano un unico funzionale o se – al contrario – rappresentano singole funzioni che possono essere isolate l’una dall’altra. Il fulcro centrale, in questo dibattito, è capire il diverso interesse di chi si occupa delle FE in età evolutiva e chi nell’adulto. Tutto questo perché lo studio delle FE nasce da un’osservazione di soggetti post- lesionali, ovvero soggetti adulti che – in seguito ad un evento traumatico - patologico più o meno acuto – hanno riscontrato una perdita selettiva delle FE; da qui deriva la convinzione di chi si occupa dei funzionamenti esecutivi dell’adulto che le FE siano competenze isolabili ed indipendenti perché c’è l’ipotesi che se è possibile (attraverso un danno, in una determinata regione cerebrale) avere la compromissione di una singola FE significa che è possibile isolare tale funzione. Il problema che pone la discussione, però, è capire come si osservano le FE, perché se andiamo ad osservare la funzione deficitaria in un soggetto lesionale è come se andassimo a guardare “ciò che manca” e quindi osserviamo in modo isolato. Questo è possibile perché le FE in un soggetto adulto sono già strutturate, organizzate, e quindi possiamo notare – in un adulto con una lesione in una determinata zona – il deficit nella singola funzione. Studi successivi hanno dimostrato che la compromissione prevalente di una singola funzione non è indipendente da una compromissione minore di un’altra funzione. Quando le FE si vanno a guardare da un punto di vista evolutivo, non andremo ad osservare il deficit ma a guardare le potenzialità esecutive, la crescita delle FE come funzioni emergenti. Nel processo evolutivo non è possibile stabilizzare una funzione se non si organizzano e si stabilizzano tutte le altre, mentre è possibile osservare nell’adulto la perdita di una funzione indipendente da un’altra. Es.: se un bambino ha un deficit selettivo in una delle competenze di memoria, non avrà neanche la capacità di problem solving. Ha un problema nell’acquisizione di base. Ha conservato la capacità di organizzare una strategia, ma non riesce ad attuarla se mancano gli elementi essenziali perché non avrà la possibilità di mettere alla prova le sue competenze. Il nostro sistema cognitivo mette in atto le FE in ogni istante della nostra esistenza. Esso è un sistema che traduce in azioni, in comportamenti e in fatti quelle che sono le competenze cognitive. Es.: un soggetto ha delle competenze a livello teorico ma non il sistema esecutivo e, quindi, non sarà in grado di formulare un discorso. Non saprà modulare il tono della voce e non sarebbe in grado di comunicare in maniera efficace le competenze già acquisite perché, per comunicare, serve rielaborare le proprie conoscenze, formularle, modularle, filtrarle in base alle conoscenze degli altri. Il sistema esecutivo ci permette di prestare attenzione e scrivere appunti mentre ascoltiamo perché funziona bene e seleziona gli stimoli in input sintetizzando in maniera adeguata gli impulsi da mandare in output alla mano, ovvero di dire al nervo, di dire al muscolo, di dire al braccio, di muovere la mano affinché possa tradurre il movimento in grafia, in simboli, che la propria competenza cognitiva riconosce come valido. Ciò avviene nel giro di pochi millisecondi. Esistono delle patologie in ci si verificano delle alessie acquisite, ovvero la perdita della capacità di leggere. E non siamo di fronte ad un cieco o a un soggetto che ha dimenticato le regola della lettura ma di un soggetto che vede un testo scritto ma non riesce a riconoscere quei simboli come associabili al suo linguaggio. Questo avviene perché il sistema esecutivo ha perso la capacità di selezionare, di acquisizione selettiva, di monitoring e di riconoscimento del linguaggio. Ciò non vuol dire che egli ha perso il suo livello culturale, semplicemente – nella pratica – non riesce più a leggere. Questo è l’esempio di come la perdita di una singola funzione compromette l’esecuzione di funzioni più complesse. Tale disfunzionamento esecutivo può manifestarsi in età evolutiva con la comparsa di sintomi che compromettono tutte le funzioni del bambino di interazione sociale, di comunicazione, funzione di capacità cognitiva, di prontezza, di lucidità, e possono indurre deficit a carico del sistema esecutivo del bambino con sintomi come stanchezza, irascibilità, distraibilità, non comprensione del testo scritto e del linguaggio. Tale disfacimento esecutivo del bambino si esprime in sintomi di natura comportamentale perché, essendo molto piccolo, vi è un disfunzionamento globale. Ecco perché, quando si studia questo disfunzionamento, si osserva il comportamento. Fino agli anni 90 le FE venivano considerate solo nell’adulto post-lesionale. Successivamente inizia lo studio del funzionamento esecutivo del bambino, poiché si riteneva che i bambini non avessero un sistema esecutivo e che comparisse intorno ai 12-13 anni. In realtà è stato dimostrato che le funzioni esecutive si sviluppano nel corso della vita e arrivano alla loro massima maturazione intorno ai 12-13 anni. Anderson teorizzò che lo sviluppo esecutivo avveniva attraverso lo sviluppo di 4 fattori che sono: • Controllo attentivo (si osserva già a 9m e matura a 12aa) • Elaborazioni di informazioni (matura già tra 3-5aa, ma soprattutto tra 7-10aa) • Flessibilità Cognitiva (appare a circa 4aa, ma evolve tra 8-11aa) • Definizione di obiettivo (matura soprattutto tra 7-12aa) I primi segnalatori più specifici, Anderson li riconduce intorno ai 9 mesi di vita dove il bambino ha acquisito la posizione seduta, ha liberato le mani ed inizia ad utilizzarle in maniera complessa esplorando l’ambiente perché la sua prospettiva è diversa dal Possono esserci vari livelli di attivazione. La teoria dell'AROUSAL è la teoria secondo la quale la capacità attentiva varia, oscilla tra livelli bassi (sonno) fino ad arrivare a livelli massimi (iperattività). Si ritiene che il livello di attivazione più efficace dal punto di vista attetntivo sia nel mezzo, cioè quando lo stato di veglia è a metà tra il sonno e l’eccessiva attivazione. L’attenzione si divide in “attenzione sostenuta tonica” e “attenzione sostenuta fasica”. La prima è la capacità di concentrare lo sforzo attentivo per un tempo prolungato, la seconda ci consente di avere dei livelli massimi di attenzione per un tempo molto ristretto. L’attenzione viene controllata dal SAS (Sistema Attentivo Supervisore). Non è stato ancora ben definito da un punto di vista neurologico, ma si ritiene che controlla e regola le diverse componenti dell’attenzione. A seconda del tipo di stimolo che si va ad attenzionare, distinguiamo l’attenzione spaziale da quella focalizzata. • SPAZIALE: quando si pone l’attenzione ai nessi spaziali degli oggetti, quando la nostra attenzione è allargata. Si suddivide in: ▲ Distribuita: quando, ad esempio, monitoriamo l’orizzonte e distribuiamo la nostra attenzione ad un ambiente più ampio. ▲ Automatica: è legata ad uno stimolo improvviso che cattura l’attenzione (come un rumore o un esplosione) che ci spinge a localizzare l’origine dello stimolo. ▲ Volontaria: la mettiamo in atto tutte le volte che vogliamo riconoscere i nessi spaziali di un oggetto (es. quando si gioca a calcio, il giocatore pone volontariamente l’attenzione spaziale verso l’oggetto – il pallone – e poi agisce in maniera appropriata). • FOCALIZZATA: riguarda l’attenzione che si pone su uno stimolo più piccolo e, anche questa, può avere un orientamento automatico o volontario in base a se l’attenzione è attirata da uno stimolo improvviso o se ci sia un’intenzionalità nella definizione della localizzazione dello stimolo in uno spazio ridotto. L’attenzione, in realtà, si potrebbe dividere (teoricamente) in tante attenzioni per quante sono le funzioni che siamo in grado di fare o, meglio, per quante vie può prendere lo stimolo in input. Tutte queste classificazioni sono esercizi teorici. All’atto pratico succede che, per ogni stimolo, ci sono diverse vie di input. Per cui, ad esempio, uno stimolo visivo può diventare uno stimolo uditivo e viceversa. Ciò perché siamo dei corpi immessi nello spazio e ciò che ci circonda lo interpretiamo in relazione ai nessi spaziali. Il nostro cervello, in effetti, si costruisce un’immagine in base alle stimolazioni spaziali che riceviamo (come, ad esempio, il riconoscimento del volto umano). Es.: il numero 6 o 9 e il numero 14 o 41. Viene dato un significato diverso a seconda del rapporto spaziale dell’immagine. Il sistema del linguaggio matematico non è nient’altro ch un codice riconosciuto da un gruppo di persone che costituiscono la cultura dell’ambiente nel quale si è immersi. In base al’ambiente si acquisisce l’uno o l’altro codice. Es.: la parola RAPE non è nient’altro che un insieme di lettere che sono dei simboli disposti in un certo modo. Le stesse lettere, spostate, danno origine ad un significato completamente diverso (PERA). Dal punto di vista neuro-anatomico, degli studi hanno dimostrato che l’attivazione attentiva riguarda più aree del cervello contemporaneamente e il modello classico di organizzazione strutturale neuro-anatomico della capacità attentiva è il modello di POSNER. Secondo quest’ultimo, il sistema dell’attenzione viene regolato dal sistema della vigilanza che riguarda le regioni sotto-corticali e che ci consente lo stato di veglia e il controllo sotto-corticale a livello della sostanza nigra che poi interviene a livello corticale per costruire quello che Posner definisce “sistema attentivo anteriore” e “sistema attentivo posteriore” (ossia l’attivazione di zone corticali anteriori e posteriori a seconda dello stimolo). Quindi l’input di tipo visivo seguirebbe la via posteriore mentre la via anteriore sembrerebbe più dedicata a fornire un significato allo stimolo ricevuto. In uno studio di neuro-immaging recente, fatto su giovani adulti, si è dimostrato come in risposta ad un compito che richiede attenzione – a livello corticale – tutte le aree del cervello sono attivate (e quindi sembrerebbe meno specializzata la localizzazione rispetto a quella ipotizzata da Posner). E’ difficile avere un compito esclusivamente attentivo, perché una funzione chiama in causa altre funzioni più complesse. DISABILITA’ INTELLETTIVA Dal DSM-5 in poi non si parla più di “ritardo mentale” ma di “disabilità intellettiva”. Il ritardo mentale è un concetto legato, in qualche modo, alla staticità della condizione e si riteneva che la capacità del soggetto fosse determinabile attraverso il semplice QI (che in realtà è solo un numero). Con il DSM-5 si è introdotto il concetto di “disabilità intellettiva” che ha gli stessi concetti e caratteristiche del ritardo mentale, ma con la differenza di una componente molto più forte di quelle che sono le competenze tardive dello sviluppo. Si riteneva che un soggetto con QI pari a 25 avesse un ritardo mentale profondo e da considerare identico ad un altro soggetto con lo stesso QI. Con il DSM-5 si rafforza l’idea che il soggetto andasse valutato non solo per le pure competenze cognitive, ma anche in considerazione di quelle che sono le competenze adattive (ossia quelle capacità del soggetto di adattarsi all’ambiente circostante e prendersi cura di sé, di avere autonomia professionale e – soprattutto – personale). In genere, il QI non varia tantissimo in un soggetto nel corso degli anni; nell’età evolutiva potrebbe variare (anche se non tantissimo). Per cui, se un soggetto ha un QI che indica un ritardo mentale moderato difficilmente si riuscirà ad andare oltre; ma quel QI può variare ed ottenere dei risultati grazie alla componente adattiva in seguito al trattamento riabilitativo. Se si lavora bene con un bambino, i risultati possono essere eccellenti. Nel QI, invece, le capacità intellettive rimangono stabili nel corso della vita ma possono migliorare le acquisizioni delle competenze comportamentali (es. vestirsi). Il DSM-5, in questo senso, aiuta anche l’abilitatore poiché porta la speranza di poter rendere più autonomo il soggetto, che è l’apice della nostra aspettativa. Vi sono, poi, delle disabilità idiopatiche o genetiche e metaboliche. Disabilità cognitive dovute a cause genetiche può essere la Sindrome di Turner. Tra le cause non genetiche vi sono quelle post-natali e pre-natali che intervengono nel periodo di gestazione (tipo le malattie infettive come la rosolia, toxoplasmosi, assunzioni di droghe o alcool, problemi cronici di salute, come il diabete, che condiziona una malnutrizione secondaria poiché vi è un mal assorbimento di cibo che condiziona lo sviluppo del SN del nascituro. Motivo per cui le donne in gravidanza prendono acido folico e vitamine del gruppo B, poiché vi può essere una carenza di vitamina B12 che porta a una riduzione dell’assorbimento di nutrienti necessari per lo sviluppo corretto del feto e la carenza di questa vitamina può essere causa di malformazione o disabilità cognitiva successiva). Tra i rischi pre-natali vi può essere, al momento del parto, la sofferenza fetale (quindi parliamo di stress respiratorio), infezioni genitali-materne (herpes genitale) dal quale il nascituro rischia di prendere infezione attraverso il canale del parto, infezione che per lui/lei si traduce in sepsi da herpes e questo può portare ad encefalite herpetica e disabilità intellettiva. In genere i rischi post-natali si riferiscono alle prime ore di vita o alle prime due giornate (come encefaliti o meningiti di qualunque natura, trauma cerebrale post- natale, esposizione a veleni e tossine ambientali, carenze ormonali nel caso dell’ipotiroidismo). Un QI tra 70 e 55 era considerato ritardo mentale lieve, tra 54 e 40 moderato, tra 40 e 25 grave e sotto i 25 profondo. Nel DSM-5 non si parla di QI ma di Quoziente Adattivo. Per fare una diagnosi di disabilità intellettiva è necessario che il soggetto abbia un QI di deviazione inferiore a 70. Sotto i 70 vi è un disordine del neuro-sviluppo che si caratterizza con un deficit intellettivo e adattivo (entrambi, appunto, inferiori a 70). La caratteristica della disabilità intellettiva è che il deficit, il disfunzionamneto, deve interessare TUTTI gli ambiti di vita del sogetto: concettuali, sociali, pratici. I criteri diagnostici, secondo il DSM-5, sono: • Il deficit delle funzioni intellettive: capacità di ragionamento, prolem solving, pianficazione, deficit del pensiero astratto, capacità di giudizio e di apprendimento (confermati sia da una valutazione clinica che da test di intelligenza individualizzati e standardizzati (Wechsler)). • Il deficit da funzionamento adattivo: che condiziona il mancato raggiungimento di sviluppo socio-culturale, di autonomia e di responsabilità sociale. Se non vi è un supporto costante, i deficit adattivi limitano molto le attività della vita quotidiana, la comunicazione alla vita sociale, la vita autonoma. Quindi, per esserci una diagnosi, deve esserci un disfunzionamento adattivo. Un soggetto adeguatamente supportato avrà un miglioramento del funzionamento adattivo. Se il soggetto, senza alcun supporto, è capace di adeguarsi in tutti gli ambiti della sua vita vuol dire che non può essere definito come portatore di disabilità intellettiva. Se invece un soggetto funziona da un punto di vista adattivo, ma quel comportamento dipende dai trattamenti che si svolgono su di lui e, se il soggetto pregredisce quando il trattamento viene meno, allora possiamo parlare di disabilità intellettiva. Es.: se un bambino di 6 anni ha una diagnosi di disabilità intellettiva di tipo lieve, avrà difficoltà nell’accesso alle cose più teoriche rispetto a quelle pratiche, difficoltà nella comunicazione verbale e difficoltà nel ragionamento logico e deduttivo. A scuola presenterà delle difficoltà poiché viene richiesta una certa attenzione per i programmi ministeriali. Inizia un trattamento e, a 8 anni, si fa una valutazione della componente adattiva che risulta normale (ma ricordiamo che si tratta di un bambino al quale è stato affiancato un insegnante di sostegno che gli ha permesso di funzionare in modo normale e di raggiungere tutti gli obiettivi posti per la sua età). Si interrompe il trattamento. Dopo 6 mesi Se invece si ha un quadro con un QI al limite, ma ci sono discrepanze tra capacità verbale e performance, allora si accende la spia ad un’altra patologia poiché non vi deve essere discrepanza tra competenza verbale e performance superiore ai 15 punti. Da un punto di vista eziopatogenetico esistono diverse ipotesi, ma quella maggiormente sostenuta è l’alterazione di tipo psico-sociale, ovvero ridotta stimolazione psico-ambientale . L’altra ipotesi riguarda le patologie di tipo psico-affettivo che condizionano l’aspetto cognitivo. Sempre da un punto di vista delle teorie eziopatologiche, una delle ipotesi dimostrata è la presenza di un’alterazione del sonno che indurrebbe la ridotta funzionalità cognitiva. Noi sappiamo che c’è un legame strettissimo tra il funzionamento cognitivo diurno e le modalità di sonno notturno. E’ stato dimostrato su alcuni studenti universitari, sottoposti ad uno studio del sonno notturno, che la prima notte hanno dormito tranquillamente e gli hanno somministrato un test di logica. La seconda notte li hanno fatti dormire interrompendo il loro sonno con un rumore ad intervalli di 50-60 minuti. Il cervello passa, quindi, da un sonno più profondo ad uno più leggero. Il mattino dopo gli si chiedeva se avessero dormito bene e la risposta era affermativa. Si rifaceva fare il test e la risposta era un caduta dell’efficacia del test. Il giorno dopo, non solo hanno avuto una caduta di performance nel test, ma anche nelle capacità di apprendimento. Quindi, se si dorme bene, si apprende bene. Viceversa, se si dorme male, si apprende male. Con l’esperimento hanno indotto una lievissima inflessione del funzionamento cognitivo con la frammentazione del sonno. Dopo questo esperimento hanno deciso di studiare il sonno nei soggetti con funzionamento limite. In esame si sono presi dei bambini con funzionamento limite idiopatico escludendo qualsiasi patologi psichiatrica, lo stesso contesto socio-culurale, la stessa scolarità. Studiando il sonno di questi bambini, hanno notato un sonno frammentato che però non è associato a sintomi notturni ma da una minore ciclicità di sonni REM. E’ un sonno per niente armonico, disorganizzato dal punto di vista macro strutturale (cioè dal punto di vista dell’organizzazione del sonno). Quindi il funzionamento limite di questi bambini è dovuto al fatto che dormono come gli studenti universitari esaminati e quindi quella lieve inflessione del funzionamento cognitivo indotta è per i bambini con funzionamento limite normale. Si ha una riduzione del funzionamento cognitivo che sarà stabile perché collegato ad una modalità di sonno che accompagna il bambino per tutta la vita. Questi esami sono stati fatti a scopo di ricerca, dato che clinicamente non c’è alcun sintomo e si evince, dopo questo esperimento, che il sonno disturbato potrebbe essere la causa del funzionamento limite. Gli studiosi hanno cercato di intervenire con terapie farmacologiche per stabilizzare i ritmi del sonno, anche se ad oggi pochissime persone hanno fatto il trattamento. INTELLIGENZA Un bambino molto piccolo apprende da un punto di vista motorio. Quando le attenzioni si spostano, invece, verso competenze più teoriche e concetti più astratti si introduce il concetto di intelligenza, intesa come quella funzione di natura astratta, di difficile definizione ma che include in sé tutte le competenze tipiche e necessarie per lo sviluppo cognitivo, affettivo, emotivo, per la capacità di interazione sociale e anche per lo sviluppo motorio (poiché intelligenza è anche capacità di direzionare un certo tipo di sequenze motorie e include al suo interno tutto ciò che ha a che fare con il nostro sviluppo). Nel corso degli anni ci sono state molte definizioni sull’intelligenza anche se non vi è una definizione universale. Le definizioni più riconosciute tra le tante fanno riferimento alla capacità del soggetto di comprendere l’ambiente, di adattarsi; altra definizione, al contrario, pone l’accento sulla capacità tipica del concetto di mente e sulla capacità di elaborazione di concetti già acquisiti. La prima definizione, quella più verosimile, viene riconosciuta in ambiente psicologico e si intende tutte quelle competenze, quelle capacità che ci consentono di acquisire le conoscenze ma soprattutto di poterle poi utilizzare per affrontare situazioni nuove, adeguando le strategie. Ciò vuol dire che non è più intelligente un bambino che impara a memoria tutto quello che gli dice la maestra come non è più intelligente un bambino che acquisisce tante nozioni ma poi non è in grado di utilizzarle nel contesto quotidiano e nelle situazioni problematiche in maniera adeguata. Es.: un bambino conosce a memoria la rubrica telefonica ma non saprebbe come telefonare ad uno di quei numeri. Ha le nozioni ma non la capacità di utilizzarle al momento opportuno. L’intelligenza è quindi la capacità di conoscere, per poi modificare, lo stato mentale per poter utilizzare un’informazione nella vita quotidiana e per i problemi che si pongono. Per risoluzione di un problema si intende l’ideazione e l’applicazione di una strategia di risoluzione. Es.: una persona sta attraversando un corridoio che consce molto bene, ma quel giorno ci sono degli ostacoli e deve cambiare direzione. Il soggetto riesce a farlo perché ha una capacità cognitiva e, messo di fronte ad un problema, lo individua e attraverso le proprie competenze cognitive vi è l’elaborazione di più strategie risolutive. Il cervello informa un’altra parte del cervello di dire al nervo, di dire al muscolo, di contrarsi in un determinato modo per cambiare direzione. Questo meccanismo, che coinvolge tutte le parti del nostro corpo, avviene nel giro di pochi millisecondi. Sembra automatico, ma non lo è. Ovviamente, più complesso è il problema e più complesse saranno le risoluzioni. Le strategie risolutive sono tante in base alla difficoltà del problema e al livello di competenze della persona (ognuno di noi ha acquisito delle competenze che hanno strutturato, modificato e costruito quella che è la singola intelligenza del soggetto). Vi sono delle predisposizioni ad avere un comportamento piuttosto che un altro, ognuno di noi ha un proprio stile cognitivo o intellettivo che ha a che fare con il temperamento (che è qualcosa di innato). L’intelligenza di un soggetto è paragonabile alle impronte digitali. Anche due gemelli omozigoti presenteranno due intelligenze diverse pur mantenendo le stesse predisposizioni verso certe conoscenze, ma ognuno costruisce la propria intelligenza in base agli stimoli e alle esperienze che recepisce. L’acquisizione di una conoscenza non è legata solo a ricevere uno stimolo ma alla diversa interpretazione e significato che viene dato ad essa. L’intelligenza è una competenza viva, attiva, che si modifica, cresce e cambia in quanto perde delle cose e ne acquisisce altre. Es.: uno stesso film, visto ad età diverse, darà un significato diverso. L’intelligenza e tutte le competenze che la costituiscono sono in continua evoluzione. In età evolutiva, l’intelligenza cambia in maniera complicata e il bambino accresce le proprie competenze in maniera così esponenziale che diventa cruciale riconoscere eventuali deficit nell’intelligenza (perché nell’età evolutiva ci sono gli strumenti per poter intervenire e ridurre al minimo il deficit). Se il deficit non viene individuato, nella crescita si avrà difficoltà ad intervenire. Nell’età evolutiva, fisiologicamente, le competenze sono accelerate. Invece è difficile far recuperare le competenze in età avanzata. Nel corso dei secoli diversi studiosi hanno cercato di avvicinarsi al concetto di intelligenza che comprende la capacità di risolvere problemi, la capacità verbale, intesa non solo come parlare in modo chiaro e corretto ma anche la capacità di esprimersi verbalmente, comprendere verbalmente, e riuscire ad avere un ragionamento verbale. Quindi si parla di capacità di pensare pensieri astratti, tradurre idee in un linguaggio comprensibile. Maggiore è il vocabolario che si ha, maggiore è la capacità di esprimersi. In base all’età si è in possesso di un vocabolario ed un lessico diverso, così come accade quando si provano dei sentimenti contrastanti, delle emozioni che non si riescono a spiegare in quanto mai provate prima e, non conoscendo il termine adeguato, non si riesce ad esprimerle. Infatti il bambino piccolo non sa dare un significato alle forte emozioni, perché non le ha mai provate e utilizza non un linguaggio verbale ma un comportamento. Le stimolazioni ambientali sono importanti per arricchire il bambino e fargli acquisire con velocità le conoscenze necessarie per esprimere le proprie idee. Altra componente dell’intelligenza è la capacità pratica che ci consente di comprendere gli aspetti essenziali e peculiari delle situazioni, indicare il modo per raggiungere gli scopi e fronteggiare compiti nuovi. L’intelligenza pratica ci consente di fare le cose, agire sulle cose e affrontare situazioni nuove e pratiche. Egli introduce questo concetto perché il Governo Francese gli chiese di trovare un modo per individuare e distinguere un soggetto con normale sviluppo cognitivo tra i soggetti con deficit cognitivi. Allora Binet utilizza questo concetto definendo che i bambini la cui età mentale è maggiore o corrisponde all’età cronologica sono bambini con sviluppo tipico. I bambini con età mentale inferiore a quella cronologica sono considerati con un deficit cognitivo. E’ importante questo concetto in quanto Binet è stato il primo a definire un aspetto quantitativo dell’intelligenza piuttosto che qualitativo. Tuttavia il concetto restava riduttivo, perché ci si domandava di quanto il limite dovesse essere inferiore per poter parlare di patologia e quindi, grazie a Stern, allievo di Binet, viene introdotto il concetto di QI (ovvero di un punteggio su scala ordinale in grado di indicare la posizione di un soggetto rispetto alla media di un campione, considerato rappresentativo della popolazione di riferimento). Il quoziente di Stern ci consente di individuare l’eventuale discrepanza per ogni singolo soggetto ma non ci consente di sapere se quel rapporto è normale per la sua età, per “normale” si intende che quella data caratteristica è presente nella maggior parte delle persone, e quindi il QI di Stern non ci consente di dire se la discrepanza in un determinato soggetto è normale poiché non è comparata con altri soggetti della stessa età e della stessa scolarità. Il passo successivo avvenne nel 900 con Wechsler che introduce il concetto di “QI di deviazione”, che veniva calcolato in termini di deviazione standard dalla media: poiché i quozienti basati sull'età erano applicabili solo ai bambini, essi furono sostituiti da una proiezione del punteggio misurato sulla curva gaussiana con un valor medio di 100 (il QI medio) e una deviazione standard di 15 (o occasionalmente 16 o 24). Per cui il range di normalità è considerato 85<QI<115. Al di sopra di 115 ci si trova di fronte ad intelligenza eccezionale, al di sotto di 85 significa che ci sono problemi cognitivi (non ritardo mentale). Le scale ideate da Wechsler sono le scale utilizzate, ancora oggi, per la misurazione del QI. • WAIS (Wechsler Adult Intelligent Scale) per l’età Adulta, • WISC (Wechsler Intelligence Scale for Children) per i soggetti compresi dai 6 ai 16 anni di età; • WPPSI (Wechsler Preschool and Prymary scale of intelligence) per i bambini tra i 4 e i 6 anni. La WAIS e la WISC sono simili, ciò che cambia sono le domande che nella WAIS sono più complesse. Quella che ha un’impostazione un po’ diversa è la WPPSI perché, essendo rivolta a bambini in età prescolare non esplora in maniera approfondita le competenze verbali, poiché un bambino a quell’età non ha ancora accesso a nozioni astratte e teoriche. Ci sono diverse versioni di questi test, soprattutto della WISC con la quale si è arrivati alla 5°, la 4° è quella maggiormente utilizzata perché prima la WISC teneva conto delle competenze totali, verbali e di performance che ci consentiva di avere un profilo non molto dettagliato come quello della 4° e della 5° versione (poiché vi è la considerazione di indici più specifici, quali la capacità verbale, risolutiva, di fluenza). E’ importante stabilire il QI di un soggetto, ma nei soggetti con disabilità intellettiva non è identificabile questo numero e bisogna provare ad interpretarlo e dargli un significato affinché si possa descrivere in modo più adeguato il soggetto in questione, quindi è importante che oltre ad avere il numero finale si abbia la capacità di esaminare degli indici differenti che forniscono una descrizione più dettagliata della modalità del singolo soggetto e trovare gli strumenti più adeguati per intervenire. Lo stile cognitivo in un soggetto che ha una disabilità intellettiva funziona in maniera differente rispetto ad un soggetto normale, quindi il compito del terapista è di individuare le disabilità intellettive e capire quali sono i punti sui quali spingere e dove non si può pretendere più di tanto. Tutto ciò per portare le potenzialità del soggetto al massimo. Non si può pensare di ottenere il massimo dei risultati applicando uno schema ripetuto a persone diverse, perché ognuno ha uno stile unico e irripetibile e diverso dall’altro, anche se hanno lo stesso QI. Un terapista efficace è colui che sa trovare strategie individuali per poter intervenire sull’intelligenza dei soggetti. Egli è responsabile del cambiamento delle traiettorie evolutive del bambino, che altro non sono le vie che il bambino percorre per diventare adulto, il terapista ha gli strumenti per condizionare ciò che il bambino sarà da grande. Un soggetto che ha un profilo cognitivo normale, ha un profilo armonico nel senso che non vi sono discrepanze tra le varie capacità intellettive. Se così non fosse, si tratterebbe di avere solo delle difficoltà. LO SVILUPPO SOCIALE E’ importante capire il concetto di sviluppo sociale del bambino perché la patologia riguardo competenze di socializzazione rappresenta una delle patologie principali del nostro percorso professionale . E’ importante capire il soggetto tipico per poi capire le patologie a carico delle diverse funzioni. Fino agli anni 60 si riteneva che la capacità di socializzazione del bambino fosse legata alla quantità di nozioni (intese come, in linea generale, le regole d’interazione sociale) rispetto alle interazioni sociali che il bambino acquisiva nel corso del tempo da parte dell’ambiente. In realtà la capacità di socializzazione non è ascrivibile soltanto alla quota di nozioni che il bambino acquisisce, perché essa è legata strettamente a quelle che sono le competenze e le abilità proprie del bambino e che hanno a che fare con la natura intrinseca del bambino stesso (e, quindi, non soltanto con qualcosa di acquisito). Nello specifico, quando si parla di competenze sociali – affinché sia possibile una socialità – il primo passo necessario è che sia presente la consapevolezza di sé, la comprensione di sé e dell’altro. Il bambino, per accedere alle competenze sociali, deve distinguere sé dall’altro e – per un bambino molto piccolo – è una competenza che viene acquisita nel tempo (più o meno, intorno o dopo il 1° anno di vita). E’ importante, quindi, che il bambino comprenda la necessità di interazione con un altro diverso da sé. Finché il bambino sarà convinto che tutto l’universo è se stesso,non avrà necessità di interazione. Pertanto, gli elementi essenziali per la socializzazione sono la comprensione di sé e dell’altro e – soprattutto – la comprensione della differenza tra sé e l’altro. Partendo dalla definizione del sé, il sé è definito come attività ipotetica; è qualcosa che riusciamo ad identificare soltanto in linea teorica ed è qualcosa che ciascuno di noi sviluppa sulla cognizione di se stesso. Se ci viene chiesto chi siamo, ciascuno di noi darà una risposta diversa riguardo al proprio essere, al proprio sé a seconda di quella che è la descrizione profonda che ciascuno forma sul proprio sé. Su quel sé, strutturiamo negli anni le nostre competenze di interazione sociale. Il sé è, quindi, la prima via di interazione. Se non c’è un sé riconosciuto ed identificato, non c’è un attore possa interagire, che possa strutturare una socializzazione vera e propria. La cosa importante è che il concetto di sé, l’idea di sé, non è qualcosa di stabile ma qualcosa che varia nel corso del tempo, cambia progressivamente con gli anni, con le esperienze e con quelle che sono le modalità d’essere. Altrettanto variabili, pertanto plasmabili, sono le modalità di socializzazione di ciascun soggetto. La funzione è quella di dare una definizione di sé , un’identità a ciascuno di noi che è unico e irripetibile. Questa unicità e irripetibilità è legata al concetto del proprio sé, che non ha a che fare solo con l’unicità del nostro DNA ma del nostro DNA associato alle nostre esperienze. Se due persone con diverso DNA vivono la stessa identica esperienza, si parlerà di due esperienze completamente diverse. Uno stesso evento genera sempre esperienze diverse. L’esperienza modifica il sé ma dipende direttamente da esso perché, a seconda della qualità del singolo sé, cambierà il valore dell’esperienza. Altra dimensione osservata nel rapporto con le norme morali è la guida per la condotta, che serve ad indirizzare verso comportamenti socialmente desiderabili e a sanzionare quelli non desiderabili in modo che la società approvi (ed è questo il motivo per il quale cerchiamo sempre l’approvazione dell’altro). CAPACITA’ NARRATIVA Si intende la capacità del soggetto di esprimere un pensiero complesso, la capacità del bambino di raccontare qualcosa. La comprensione di una narrazione è la capacità di staccarsi dalla situazione presente (la narrazione riguarda sempre qualcosa che non è presente). Quindi l’interazione dell’alternanza dei turni, la capacità di valutare ciò che si vuol dire. Secondo Bruner, uno dei primi teorizzatori sull’importanza della narrazione, essa è una modalità di organizzazione dello stato mentale diversa rispetto alle altre. Riguarda la realtà psichica e si basa su una logica intrinseca alle azioni umane (desideri, emozioni, affetti e credenze) e alle interazioni tra individui (regole e motivazioni sociali). Consente di organizzare l’esperienza e di rappresentare gli eventi trasformandoli in oggetto di analisi e riflessione. Es.: uno studente universitario viene bocciato ad un esame. Quando racconterà l’evento, ne manifesterà una rappresentazione mentale soggettiva. Il suo collega, che era presente alla prova, affermerà una rappresentazione completamente diversa. Questo succede perché lo studente bocciato non è in grado di narrare in quanto ha modificato la sua rappresentazione mentale. A seconda di come viene modificato l’evento, la rappresentazione mentale dello studente bocciato condiziona la sua capacità di analisi sull’evento, la capacità di elaborarlo e di riconoscere (per esempio) l’errore e di modificare quell’errore per l’appello successivo. Vi sono diversi livelli della capacità narrativa: • La comparsa dello script, intorno ai 3 anni. Lo script è uno schema verbale, cioè una sequenza verbale, che il bambino acquisisce e utilizza in maniera rigida al momento opportuno ed è la prima modalità di narrazione che egli acquisisce. Nei racconti dei bambini compaiono molto presto. Dai 3 anni aumentano gli elementi della situazione descritta, che per tutta l’età prescolare riguarda esperienze a cui il bambino ha partecipato direttamente. Lo script non è innato ma si acquisisce in relazione agli stimoli percepiti dal proprio ambiente. Es.: “quando il sole va a dormire” è una frase più complessa rispetto a “si sta facendo sera”. Tutti i bambini parlano per schemi, oppure balbettano, oppure hanno dei tic (chi più, chi meno). La differenza tra patologico e fisiologico è la durata, l’intensità e la persistenza oltre un certo limite. • La capacità di narrare le esperienze personali. Resoconti o cronache di episodi specifici e singolari di cui si è avuta esperienza personale e diretta in un determinato momento. Durante le conversazioni tra adulti e bambini, compaiono molto presto, già nel secondo anno di vita. Così il bambino può a 2 anni e mezzo produrre i primi racconti di storie personali, rievocando esperienze passate, sebbene non sanno costruire una struttura coerente. • La capacità di narrare storie fantastiche. Narrazioni di eventi che si riferiscono a luoghi, personaggi, tempi che non hanno relazione con la situazione attuale. Nella cultura orale trasmettono conoscenze, valori e insegnamenti morali. La loro struttura si organizza come una successione di episodi collegati da nessi temporali e causali. Tale struttura è vincolante e comprende 5 elementi: inizio formale, evento iniziale, tentativi, raggiungimento scopo, conclusioni. Sequenza di sviluppo della capacità narrativa individuata da Magee e Sutton-Smith: • Il dialogo con un libro illustrato e successivo inversione di ruolo • Ascolto di storie e raccolti • II racconto a partire da figure • Narrazioni resoconti personali • Le prime narrazioni congiunte • Racconto di storie autonomo Fattori di influenza: • Età • Linguaggio • Genere narrativo • Fattori culturali • Quantità di esposizione • Strategie di elicitazione (incoraggiamenti ed espansioni) Strategie efficaci dell’adulto: • rispecchiamento • espansioni • richieste di indovinare il seguito (cosa succede e perché) • domande su motivazioni-azioni dei personaggi • incoraggiamenti
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