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Riassunto completo manuale di Fabio Dei, Cultura popolare in Italia, Appunti di Antropologia Culturale

Riassunto completo del manuale e integrazione delle spiegazioni date durante le lezioni

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 05/06/2023

alessandram.22
alessandram.22 🇮🇹

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Scarica Riassunto completo manuale di Fabio Dei, Cultura popolare in Italia e più Appunti in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! lunedì 17 aprile 2023 Antropologia Culturale CULTURA POPOLARE IN ITALIA: da Gramsci all’Unesco Il tema della cultura popolare ha una dicitura classica, cultura popolare è un oggetto ma anche una definizione. A volte si trasforma l’oggetto di studi, a volte resta lo stesso ma si trasforma la dicitura cioè la categoria attraverso la quale la cosa viene detta. In questo volume Fabio Dei, ragiona e cerca di convincere spiegando che a cavallo degli anni ‘70 e ‘80 c’è stato un cambiamento nella società che per gli scienziati sociali è stata una situazione nuova, in cui la domanda era: quello che sta succedendo esce dalla nostra disciplina, è un oggetto che non ciò riguarda più o la nostra disciplina deve armarsi e ricomprendere l’oggetto nel suo studio? Ciò significa che gli antropologi si pongono la domanda se l’antropologia possa studiare i fenomeni della nostra contemporaneità, se la riposta fosse no, essa non può essere un’antropologia della contemporaneità e quella che si occupava di tradizioni popolari non può avere oggetto di studio se non di casi sporadici in cui questa cultura popolare continua a manifestarsi. Popolare: ha a che fare con le pratiche di un popolo, perché le vediamo come tradizionali. Ci sono delle tradizioni che sono molto diffuse al punto di superare il livello ‘popolare’. Da una parte, ‘popolare’, significa legato ad una tradizione, dall’altro lato significa legato ad una serie di persone. Se le cose riguardano la tradizione si parla ancora di cultura popolare, ma una cosa come il ‘calcio’ è tradizione popolare? Il problema è, dov’è andato a finire questo ‘popolo’? Il problema è decisivo, c’è stato un tempo in cui questi mondi erano delimitati in maniera precisa. C’era un ‘popolare’ che era puro e chiaro, si sviluppava dentro mondi in cui si parlava il dialetto e queste tradizioni corrispondevano alla realtà della vita di un popolo. Questo mondo, però, si è disgregato e in questi paesi è arrivata quella che noi oggi chiamiamo modernità. ( anni ‘60) 1 Ad un certo punto la modernità ha portato una serie di commistioni, non succede che culturalmente arrivi una cosa e il processo culturale cambi radicalmente, ci sono delle compresenze. A quel punto l’antropologia si occupa di questo? O si deve dare degli strumenti per capire cosa sta succedendo? In Italia ci sono state due scuole di pensiero, tra chi dice no agli studi popolari ibridati, cioè contaminati da altre tradizioni, e l’altra scuola di pensiero che cerca gli strumenti per analizzare i fenomeni della contemporaneità che non sono solo locali ma anche più complessi come quelli generali che coinvolgono quella larga parte di popolazione che adesso abbiamo difficoltà a chiamare popolo dal punto di vista concettuale, perché è difficile individuarle in maniera circoscritta. C’è stato un passaggio tra cultura popolare a quello che oggi chiamiamo cultura di massa. Il fatto che si chiama di massa si può analizzare? Certo. In particolare, in Italia, abbiamo un caso specifico e perché abbiamo degli strumenti concettuali che sono stati forgiati in Italia. Abbiamo avuto Antonio Gramsci, che ha rivoluzionato l’idea di popolare di che cosa dovesse essere la cultura popolare, dandone una lettura diversa, con riflessioni nate durante il Fascismo che nel Dopoguerra si sono sviluppate. Gramsci dal carcere riflette sulle condizioni sociali dell’Italia nel periodo del Fascismo e con le categorie di cultura popolare e delle classi sociali rivoluziona il nostro modo di poter concepire il popolare. Avviene uno slittamento che nel secondo Dopoguerra ci porta a poter dire di avere gli strumenti concettuali di analizzare il popolare nel senso di tradizionale e di locale, due aggettivi che si accompagnano ai genomi di cui abbiamo parlato. Altri sono popolari perché s sono innestati sulla cultura della modernità diventando comunque fenomeni di massa, come il calcio, poiché conta l’impatto di diffusione sociale. Non è la tradizione che sostiene il concetto di fenomeno popolare ma la sua stessa diffusione. Tutto ruota attorno alla definizione di tradizione, della differenza tra quello che si intende comunemente e quello che si intende tecnicamente per gli studiosi. La TRADIZIONE: la tradizione da punto di vista culturale, è un nostro modo di percepire il tempo. L’idea che una cosa antica è più vera è legata ad una nostra concezione del tempo, della legittimità identitaria e della profondità del tempo. Abbiamo la concezione che una cosa più è antica e più è legittima. Dentro questa logica, c’è la dedizione della tradizione, che nella nostra idea deve essere qualcosa di legittimo, c’è connessione logica tra tradizionale, legittimo, identità, si parla di tradizione fissa in maniera globale a seconda dei segmenti che stiamo esaminando. 2 - cultura popolare/rurale: credenze, riti magici superstizioni, proverbi, canti popolari e fiabe, forme culturali sopravvivenza di civiltà passate, che iniziano ad interessare gli intellettuali diventando oggetto di studio sotto la denominazione di folklore ↳ ROMANTICISMO IN ITALIA: NICCOLO’ TOMMASEO L’atto di nascita del campo della cultura popolare è rappresentato dalla Gita nel Pistojese, pubblicato sulla rivista “Antologia” nel 1832 dal filologo Niccolò Tommaseo, in cui si narra anche dell’incontro con Beatrice di Pian degli Ontani, ‘poetessa pastora’. Beatrice pratica l’improvvisazione poetica in ottava rima, genere di canto popolare, una forma artistica che sembra sgorgare direttamente dal popolo. L’antichità, la natura, l’istinto, il popolo, sono elementi che per Tommaseo costituiscono un’idea di bellezza autentica da riscoprire contro la modernità. Nei canti fatti eseguire per lui dai contadini nota degli elementi di contaminazione che vengono non dall’oralità ma dalla stampa che inquinano il naturale sentire e parlare dei poeti popolari —> “le cosucce stampate”. Il folclorista deve separare le gemme vere da quelle false. Abbiamo un intreccio tra oralità e scrittura, anche di alta letteratura nella formazione dei poeti popolari. Gli interessano il valore eterno che i contadini incarnano indipendentemente dalla loro volontà e che loro stessi non possono capire; questo popolo astratto rappresenta un soggetto artistico e politico al tempo stesso. L’incipit: colpisce “politicamente” nel passo di Beatrice, “feci venire…”, segnala la differenza dello status sociale tra i montanari e il professore venuto dalla città. 5 Coniato nel 1846 dallo studioso inglese William J. Thoms, con l’obiettivo di sostituire un termine anglosassone alle denominazioni latine fino ad allora usate. Definisce la sua materia come usi e costumi, abitudini, superstizioni e ballate di tempi antichi. Precursori o proto-folkloristi: scrittori che hanno documentato aspetti della vita culturale del popolo in assenza di un vero e proprio campo di studi. In Italia abbiamo avuto Giacomo Leopardi, Ludovico Muratori e Michelangelo Carmeli. Si passa da un atteggiamento accusatorio nei confronti del “popolare” ad un atteggiamento di interesse e studio. Ci sono nuovi ceti dirigenti che nel popolo cercano consenso e ragioni identitarie e dall’altro lato se ne sentono separati. La modernità divide i diversi segmenti sociali e la tradizione diventa qualcosa da documentare e analizzare. ( Bordieau, ‘900: ogni discussione sul popolo o sulla cultura popolare va compresa nel contesto di una lotta tra gli intellettuali). Distinzioni e accezioni diverse del popolo: - popolo autentico: inconsapevole portare di una tradizione antica; - popolo contaminato: contaminato dalla modernità, non ha assimilato la cultura moderna ma ha perso il senso della tradizione in tentativi di imitazione dei codici ‘alti’. L'obiettivo è la ricerca di zone marginali ancora non toccate dal progresso e dalla "rivoluzione antropologica", in cui solo tra i pastori carbonai sperduti sui loro monti si possono ritrovare le origini inconsapevoli dell'ispirazione di un Dante e un Petrarca. Accanto a questa poetica abbiamo quella del salvataggio→ i folcloristi immagino se stessi come gli ultimi in grado di documentare un’antica tradizione che si va disperdendo e che sarà scomparsa nel giro di una generazione. Abbiamo una contrapposizione nel romanticismo italiano tra continuatori idillici di Tommaseo e autori con approccio più realista → Carlo Tenca e il sacerdote calabrese Vincenzo Padula: legano le produzione folkloriche alle condizioni di vita e ai problemi materiali e sociali dei ceti popolari. Negli ultimi decenni del XIX secolo questi studi assumono un impianto postivistico e filologico, si pone l’accento sull’analisi linguistica e i generi popolari entrano a far parte di questi studio nei campi di filologia comprata. 6 IL POSITIVISMO Si sviluppano due scuole di pensiero: - siciliana: con Giuseppe Pitrè, il primo a introdurre all’Università dal 1911 un insegnamento che trae il ‘popolo’ a proprio oggetto → demopsicologia. - fiorentina: con Paolo Mantegazza, dal 1871 aveva fondato una Società italiana di antropologia ed etnologia, interessata all’etnografia e al folklore. Queste due dimensioni sono sviluppate da Lamberto Loria, viaggiatore intellettuale che andò in Asia, Eritrea e Nuova Guinea, si dedicò alla diversità interna delle regioni italiane. Nel 1906 fonda a Firenze il Museo di etnografia italiana, i materiali vanno poi a Roma in una mostra etnografica delle regioni organizzata dal governo per i 50 anni dall’Unità d’Italia nel 1911. Questa mostra è accompagnata dal Congresso internazionale di etnografia, rappresenta il punto di maggiore sviluppo per gli studi folcloristi nella fase positivista. Le differenze regionali appaiono come tratto distintivo della nazione. Atti del Congresso 1911: rappresentazione delle tendenze e delle esperienze nell’ambito delle scienze antropologiche → antropologia, fondata istituzionalmente da Paolo Mantegazza nel 1869, con una cattedra universitaria affiancata dopo dalla Società italiana di antropologia ed etnologia ( Siae). L’antropologia di Mantegazza era ‘fisica’ e programmata come ‘generale’, sottoponendo al metodo naturalistico, al dominio biologico, anche i fatti e comportamenti culturali. Etnologia: termine introdotto nel 1859 da Giovenale Vegezzi Ruscalla, con riferimento tanto ai popoli di ‘cultura’ che a quelli di ‘natura’. Nel ‘900 nacquero degli interessi etnologici per le origini delle istituzioni civili. Seconda metà dell’800 si ha l’attenzione alle tradizioni popolari regionali, canti e fiabe, la cui identità si incentra sulla grande eredità letteraria e artistica medievale e rinascimentale. —> Nigra, D’Ancona, De Gubernatis ↳ 1893, fonda la Società nazionale per le tradizioni popolari italiane; e la Rivista delle tradizioni popolari italiane. 7 all'autonomia conoscitiva, le considerava pratiche di ordinamento e classificazione. I folcloristi continuarono a vivere pratiche positivistiche aderendo in maniera apparente allo storicismo, aderirono anche al regime fascista. Vennero poste al centro del folklore le accezioni più conservative funzionali all’ideologia e alla propaganda politica fascista: nazionalismo, ruralismo, localismo, concezione subalterna della donna. 1 maggio 1925: viene fondata l’Opera nazionale dopolavoro (Ond), che prevede al suo interno una sezione addetta alla promozione delle tradizioni che mettono in rilievo il profilo psicologico e le caratteristiche popolari di una città o un'intera regione. 1929, rifondazione di Lares/I Congresso nazionali delle tradizioni popolari a Firenze voluto da un Comitato Nazionale per le tradizioni popolari legato al Centro di alti studi dell'Istituto nazionale fascista di cultura che erediterà l'anno dopo il primo numero della nuova serie di Lares. 2 Ottobre 1933: circolare firmata da Starace, segretario nazionale del Partito Fascista, viene sostituito il termine ‘folklore’ con “popolaresca”. 1932: vene istituita una libera docenza in Letteratura e tradizioni popolari, Paolo Toschi ottiene il primo incarico nel 1934 e la cattedra nel 1938. Nello stesso anno, risale la prima cattedra di Etnologia. 1936: conquista in Etiopia, numerose mostre etnografiche organizzate in tutta la penisola, rappresentavano l’esaltazione delle virtù del popolo italiano lavoratore, contrario all’avventura colonialista del fascismo. 1938: firmano il Manifesto, Raffaele Corso e Giuseppe Cocchiara, che scrisse un discusso saggio sui musei italiani di tradizioni popolari nel 1939. 1940: IV Congresso a Venezia —> i folkloristi italiani lo dedicano alle mire espansionistiche fasciste, riguardava le tradizioni popolari mediterranee. 19 luglio 1942: Mostra nazionale religiosa d’arte popolare a Venezia —> curata dal Cniap ( comitato nazionale italiano per le arti popolari), con la collaborazione del Museo di etnografia italiana e della Santa Sede. Viene documentata la religiosità del soldato italiano, ex voto della Grande 10 Guerra, della guerra in Spagna, dell’impresa etiopica e del conflitto in corso. C’è anche l ricostruzione di un tempietto eretto dai soldati in Etiopia per celebrare la conquista dell’impero. All’ingresso, la statua di un fante italiano che calpesta la bandiera rossa con la falce e il martello. DOPOGUERRA Paolo Toschi sostiene che il folklore si sia dedicato soltanto a pratiche di raccolta, classificazione e analisi filologiche ed evitando teorizzazioni. Sembra l’esatto contrario, abbiamo avuto dismissione dell’analisi Scientifica dei processi culturali sostituita con la retorica razzista e fascista. Caso di Cesare Caravaglios, L’anima religiosa della guerra (1935), attenzione documentaria per la fenomenologia della guerra vista dal “basso” con un’irrefrenabile zelo nazionalista e bellicista. Il libro inizia con l’evocazione dell’esperienza di guerra con l’incombere della morte —> questo in opposizione all’atteggiamento eroico. L’autore vuole dimostrare il ruolo delle credenze folkloriche nel calmare e tenere sotto controllo la massa terrorizzata dei soldati, in particolare quelle sull’immortalità dell’anima, attenuando nei soldati la pura della morte. Compito pratico dell’antropologia della guerra: creare soldati privi di attaccamento alla vita, servitori ideali che non hanno paura della morte. Nella seconda guerra mondiale atteggiamento diverso, abbiamo Giuseppe Vidossi che nel Lares parla della sua curiosità documentaria per le neotradizioni e i processi di creazione folklorica che accompagnano il processo bellico. I protagonisti stavolta non sono i soldati ma i civili, sfollati dalle città e minacciati dai bombardamenti. Es: Torino —> pratica di apporre immagini sacre davanti ai rifugi antiaerei e alle abitazioni, soffermandosi sulle variazioni dipendenti dall’origine regionale dei gruppi regionali. Raccoglie delle “schede”, cita in ordine sparso storie di visioni che annunciano la fine della guerra, superstizioni legate alle comete. ERNESTO DE MARTINO Caso diverso quello di Ernesto de Martino: prxotagon ista della rifondazione degli studi sociali italiani nel secondo dopoguerra. Allievo di Benedetto Croce, prosegue il progetto di una critica storicista alla tradizione naturalistica dell’etnologia. Il suo primo volume del 1941, discussione sulla critica di autori e indirizzi classici, tutti colpevoli di naturalizzare i fatti culturali sottraneodli alla 11 comprensione dell’intelligenza storica. Negli anni della guerra tenta un approccio storicista al tema classico dell’antropologia, la magia. Esce Il mondo magico (1948), si oppone alle interpretazione che vedono nell’illusorietà l’essenza del pensiero magico, commisurandolo ad una concezione etnocentrica e dogmatica della realtà. La magia crea un suo mondo e una sua realtà, sulla base di un “dramma storico”: la crisi e il riscatto culturale della presenza —> per De Martino, è l’unità del Sé, l’autonomia dell’individuo rispetto al mondo e agli altri e la capacità di agire attivamente. Questo è una formazione storica, c’è stato un tempo della magia in cui la presenza non era garantita e andava difesa e riaffermata dalla comunità e dalla cultura di fronte alle pressioni del “negativo”. Oggi all’incombere del negativo la presenza può entrare in crisi e aver bisogno di essere riscattata attraverso l’azione dei riti e dei simboli. Quello della magia è un mondo arcaico che si può ripresentare in particolari momenti di sofferenza come guerre, carestie… ↳ teoria della crisi e del riscatto culturale della presenza I contributi die folkloristi sono divisi tra studiosi che fanno parte dei ceti dominanti guidati dalla ragione dal progresso, dall’altro lato, un popolo dominato da una logica culturale arcaica e irrazionale. Per De Martino la guerra —> è la distruzione di ogni possibile laboratorio antropologico e della fiducia in quel tipo di ragione e progresso, l’antropologia si presenta alla fine della guerra una categoria storiografica di recente riproposta da Enzo Traverso. La fine della guerra coincide con una cesura epistemologica. 12 delle figure retoriche e delle rime che si rifanno a Dante e a Tasso. Ha l’accettazione che nel mondo dell’oralità del popolo, se c’è un’influenza della cultura alta va bene, ma se c’è un altro tipo di influenza con minoranza editoriale viene bandita perché ritenuta appartenente alla modernità. L’altro aspetto è la concezione astratta del popolo, questo popolo o riconosce dei valori come tradizionali oppure vede contaminazioni da escludere; inoltre, Tommaseo parla di loro ma non con loro, questo discorso è puramente intellettuale ma anche politico e irredentistico, siamo in un’Italia ancora pre unitaria, il ragionamento che si fa su questo popolo può avere anche una valenza politica. Questo esprime lo spirito politico di una nazione. Il popolo ha un suo spirito e una sua natura che nel discorso politico sono utilizzare per affermare lo spirito e la natura di una nazione. Questo primo interesse di fase romantica per un popolo entra nell’ottica di costruzione di uno spirito nazionale. Abbiamo figure come Leopardi e Muratori. Muratori era un grande intellettuale italiano del Settecento, con interessi di tipo folkloristico. Si passa ad una forma di attenzione nei confronti della tradizione popolare. Con la modernità la tradizione diventa qualcosa da documentare e da analizzare, perché sta scomparendo e bisogna fare operazioni di salvataggio per documentare e analizzare, da un lato c’è una negazione estetica e dall’altro il disprezzo, l’arroganza nei confronti delle superstizioni. Da subito c’è stata l’idea che qualsiasi forma di sapere tradizionale sarebbe scomparso nell’arco di una generazione. LA STAGIONE POSITIVISTA: - MANTEGAZZA e PITRE’ MANTEGAZZA: ha creato una scuola di antropologia fisica e fu uno dei primi divulgatori delle teorie di Darwin. Con lui nasce un’intera parte dell’antropologia, la questione importante è il ‘naturalismo’: c’è l’idea che ogni metodo naturalistico, quello scientifico, che cerca di comprendere i meccanismi di causa ed effetto, si può applicare allo studio e alla conoscenza dell’uomo. Fonda la cattedra di antropologia nel 1869 e nel 1871 fonda la società italiana di antropologia ed etnologia. C’è chi seguirà queste orme negli anni successivi, molto famoso, Lombroso. MANTEGAZZA parlava di identità popolari e regionali, questo lo abbiamo già sentito in Tommaseo con le differenze tar fiorentini e pistoiesi. Questa differenza sarà molto scontata per il regime fascista. Il problema di questo momento, per l’antropologia è che a livello di identità nazionale c’è un fenomeno: 15 la nascita di nuovi stati d’azione in molti paesi dell’Europa. In Italia, per le diverse politiche adottate, per legittimare uno spirito nazionale non era lo spirito pollare invocato ma delle tradizioni letterarie e artistiche. Il nuovo stato italiano per l’idea di un’identità nazionale ha preso l’idea di uno spirito sulla tradizione nazionale intellettuale. L’Italia è erede del Rinascimento, momento massimo di rappresentazione del genio italiano. Si faceva riferimento alla storia dell’arte, alla letteratura… STAGIONE FASCISTA: Da un lato abbiamo la tradizione di MANTEGAZZA, la seconda è quella di PITRE’. Viene citato in varie discipline, ha avuto una fama internazionale, era coetaneo di Mantegazza, a segnato l’antropologia e il folklore dell’epoca perché passa un’intera vita ad annotare qualsiasi cosa si svolga in modo contrario. Ha dedicato una grande ricerca ai giochi infantili. Pitrè, andava in giro dappertutto con uno scrittoio mobile. Si portava dietro una carrozza per adottare tutto ciò che vedeva. Una posizione non molto lontana da quella di Tommaseo. Di professione faceva il medico. Tommaseo però aveva una concezione del popolo in un’ottica passata. Pitrè si può chiamare uno dei fondatori della disciplina per la fama e il materiale raccolto. Su questa tematica c’è un dibattito tra Toschi e de Martino. Pitrè pone al centro il popolo, mette tutto a salvataggio ma non ne abbiamo un’interpretazione. Pitrè non disprezzava mai questo popolo, pur non partecipando dei suoi interessi le giustificava e ne comprendeva le superstizioni popolari anche se non le condivide. Pitrè viene accusata dalla Chiesa perché fa delle etnografie su come si svolgono le professioni. Nelle processioni siciliane c’è ancora qualcosa di profano. Le accuse mosse a Pitrè: - orientalissimo interno: considerare l’altro da sé come radicalmente diverso da sé, di un’essenza irriducibile nella comparazione. - Populismo: - Posizionamento sul campo: andava sempre in giro a cercare informazioni. L’espressione di ‘intimità culturale’ è stata coniata nell’ultimo periodo e traduce le condizioni di Pitrè di intimità culturale con il popolo di cui raccoglieva le tradizioni pur sottolinenando le sue posizioni ben lontane. 16 LAMBERTO LORIA: È un personaggio molto originale, è dello stesso periodo degli altri. Non si è mai posto come il grande folklorista di riferimento, prima nasce come etnologo, cioè come antropologia che studia i popoli extraeuropei. Si atteggiava da esploratore in zone totalmente inesplorate. Ha riportato sempre a casa note di viaggio, lettere e fotografie. In questi ultimi anni si stanno pubblicando molti di questi suoi materiali. Nei suoi ritorni in Italia, ad un certo punto, tornando alla questione di dislivelli interni tra colui che conosce e colui che deve essere conosciuto, si ritrova in una zona della Campania, chiedendosi la distanza che c’era tra lui e i nativi della Guinea o anche tra lui e i contadini di quella piccola zona della Campania. Alcune zone del sud venivano chiamate ‘le indie di quaggiù’. LORIA era un folklorista in cui in una sola persona si uniscono queste due esperienze, si trova di fronte ad un’alterità culturale rispetto a lui che assume delle forme diverse. Fonda nel 1906 il museo di etnografia italiana e collabora per la realizzazione del grande congresso di etnografia del 1911. Il 1911 è una data che segna l’anniversario dei 50 anni dall’Unità d’Italia. Dopo la seconda guerra mondiale l’antropologia si assopisce, vengono tagliate una serie di iniziative. Viene riattivato 15 anni dopo solo in una direzione. Dal punto di vista teorico di questi studi il fascismo ne fa grande uso. Fonda anche Lares nel 1911, ancora attiva come rivista, la più longeva rivista di antropologia in Italia. Ci sono due fattori che determinano il progresso dell’ antropologia: - Politica: il fascismo e l’adesione degli antropologi ad esso. Cocchiara fu uno di quelli che aderì e sottoscrisse il manifesto della razza. Il fascismo ha utilizzato queste identità popolari rielaborandole all’estremo. - Intellettuale: Benedetto Croce, segna intellettualmente un’epoca, abbiamo le teorie storicistiche di Benedetto Croce. Fra le tante cose che dice è che le scienze sociali, non potessero essere scienze perché non potevano avere il metodo esplicativo delle scienze naturali. Per lui tutti i saperi umanistici erano accessibili nella storia. Dice che i folkloristi possono raccogliere i dati empirici ma non ci possono essere dietro delle teorie scientifiche che possano stabilire delle leggi. Queste teorie influenzeranno molto la cultura italiana dell’epoca. La filosofia e la storia diventano discipline in assoluto. 17 Il folklore —> si costituisce per caduta di elementi residuali e fossilizzati della cultura alta, non è solo un deposito inerte, è anche in grado di esprimere una serie di innovazioni spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o diverse, dalla morale degli strati dirigenti. È riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, manifesta una differenza irriducibile rispetto al progetto culturale egemonico. Giovanni M. Boninelli: ha proposto un registro di queste occorrenze nel corpus gramsciano, suddividendole in 6 gruppi: 1. La Sardegna e la cultura popolare sarda; 2. La religione popolare, la magia, le credenze e le superstizioni; 3. I proverbi e i modi di dire; 4. Le narrazioni e le storie; 5. I canti popolari e di protesta; 6. Il teatro popolare e dialettale. - L’idea che la cultura popolare esista e si debba pensare in generi e forme quali i modi di dire, le credenze, i canti, il teatro, ne presuppone già un’interpretazione, lontana da quella di Gramsci che sottolineava la fluidità e gli usi in contesti pratici. Queste forme appaiono come forme creative di una cultura viva, peculiare e distintiva. - Gramsci colloca queste riflessioni i diversi contesti discorsivi: autobiografico, pedagogico, estetico e politico. ( Passi delle Lettere relativi ai ricordi d’infanzia e a Ghilarda (paese della madre) ). 20 Ci sono lettere in cui chiede informazioni sulle abitudini alimentari di diversi ceti sociali, oppure abbiamo l'incontro con lo “scurzone”, lettera a Tatiana 1930. Non parla mai di folklore quando si inoltra nei dettagli etnografici della vita popolare o nelle forme espressive radicate nel mondo locale della Sardegna, si riferisce un concetto di cultura antropologico, inteso come radicamento in un mondo locale di significati. Questa è la base di ogni autentica cultura, inclusa quella “alta”. —> ruolo pedagogico, esempio del brano in cui scrive alla sorella Teresina parlando sul ruolo del dialetto nell’educazione dei nipoti. I generi espressivi della cultura popolare possono divenire veicolo di un discorso politico; Gramsci appare interessato le forme di espressione spontanea di istanze sindacali e politiche dei lavoratori attraverso forme di quello che nel dopo guerra sarà chiamato folklore progressivo. Gramsci definisce il popolare in termini di contrapposizione tra piano “ufficiale” e “non ufficiale”. Dai Quaderni, a proposito di un commento della tipologia dei canti popolari proposta da Rubieri, tornando alla definizione di folklore: ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione o della sua cultura, non è il fatto artistico, né l'origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale in ciò è da ricercare la collettività del canto popolare e del popolo stesso. Contrapposizione tra due aspetti della cultura popolare: - fase spontanea/naturale: caratterizzata da vitalità creativa; - fase ufficializzata: rappresentata in modo oleografico. SENSO COMUNE E FOLKLORE: accosta spesso i termini; non sono racchiusi in un sistema di sapere ufficiale. - senso comune: è il folclore della filosofia; Ogni strato sociale ha il suo "senso comune" e il suo "buon senso", che sono in fondo la concezione della vita e dell'uomo più diffusa.folklore e senso comune sono socialmente caratterizzati: ogni strato sociale ha il proprio. Il senso comune è definito come la filosofia di non filosofi, cioè la concezione 21 del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l'individualità morale dell'uomo medio. Si trasforma continuamente è la visione della vita in sé. Allora come possiamo avvicinarci alla cultura popolare? Come la possiamo capire? Serve un intellettuale che si metta in una posizione i comprensione e partecipazione, l’intellettuale organico, colui che non può sapere senza comprendere e non può comprendere senza sentire. Quaderno 11, critica a Henry de Man (Superamento del marxismo): riflessioni sui rapporti tra “sentire, comprendere e sapere”. Per Gramsci l'intellettuale organico non può sapere senza comprendere e non può comprendere senza sentire le "passioni elementari del popolo-nazione". L'altro critico, studia i sentimenti popolari ma non con-sente che essi siano da condurre a una catarsi di civiltà moderna. Abbiamo la polemica contro un folclorismo che isole su oggetto dalla modernità e devi processi culturali. ( collg. Alla stagione romantica e positivista: la cultura del popolo viene valorizzata a patto che il popolo stia al suo posto e non la rovini con volgari processi di modernizzazione). Lo sguardo folclorico è rivolto verso il passato, o verso un presente etnografico che confligge con il presente reale. Esiste uno scarto all'interno della storia della cultura italiana o europea, in connessione con l'appartenenza di classe, si presentano "concezioni" che non corrispondono a quelli ufficiali e sistematizzati dell'istituzione degli apparati intellettuali dello Stato.a questo scarto si contrappone l'operazione di folcloristi, che neutralizzano questa materia attraverso rappresentazioni oleografiche fossilizzanti, che tendono a riportarla all’interno dell'ufficialità egemonica. Quaderno 14: nazionale e folcloristico - folcloristico: cioè al provinciale cioè sia nel senso ‘particolaristico’, sia anacronistico, sia di una classe priva di caratteri universali. Es: linguaggio melodrammatico Esempi cosa è folcloristico e cosa è nazionale: a. Carolina Invernizio e l’ambientazione romantica di Firenze, ispirandosi ai romanzi di appendice francesi a Parigi—> folcloristico b. Rapporto Dumas-Nietzsche sulle origini popolaresche del “superuomo” —> folcloristico; 22 CAPITOLO 4 Ernesto De Martino e il dibattito sul folklore Dal 1951 interviene al dibattito alla presentazione romana di Letteratura e vita nazionale. - Il folklore sarebbe un ostacolo che deve essere rimosso di fronte al compito di costruzione di una nuova cultura (nazionale) che unifichi intellettuali e popolo. Per Gramsci è servitù ideologica, disgregazione culturale, testimonianza della limitazione umanistica della cultura borghese. - Che senso ha una scienza del folklore? Si parla di folklore progressivo —> nel nuovo clima culturale he fa seguito alla Resistenza, con i movimenti dal basso che riavvicinano intellettuali e popolo, il folklore può assumere connotazioni progressiste. Si verifica una creazione dal basso di elementi culturali protesta del popolo contro la sua condizione subalterna o che esprimono culturalmente, le lotte per emanciparsene. Riporta gli esempi dei canti tradizionali politica, ma anche un folclore dell’occupazione o delle terre o delle fabbriche. Successivamente poi abbandona il concetto di folklore progressivo. - Si dedica poi alle forme di magia e religione popolare nel Mezzogiorno, la magia, il lamento funebre e il tarantismo gli appaiono come sistemi culturali intimamente connessi alla condizione esistenziale delle “plebi rustiche del Mezzogiorno”, frutto di intrecci tra ‘alto’ e ‘basso’. Non c’è nulla di progressivo in essi, sono sintomo dell’oppressione dei contadini meridionali. Bisogna studiarli nella prospettiva della piena inclusione di quei ceti sociali nella “nuova coscienza nazionale” che i movimenti progressisti cercano di costruire. Altro personaggio che si inserisce nel dibattito: GIUSEPPE GIARRIZZO —> in una recensione- stroncatura sul testo di Cocchiara, “Storia del folklore in Europa”, lancia un attacco all’intero campo di studi sulle culture popolari e sulla loro autonomia disciplinare; partendo dal classico assunto di Croce: - le culture folkloriche non sono forme autonome di creazione, ma ruderi di uno stadio precedente che scompare con l’imporsi delle forme più elevate; 25 - I singoli tratti folklorici dovrebbero essere studiati all’interno di discipline già esistenti basate su categorie storiche universali: es. il Canto popolare dalla storia della letteratura, le superstizioni dalla storia delle religioni; - Definisce de Martino uno degli illuminati metodologia della nuova scienza folkloristica, evoca la critica sulla sterilizzazione delle categoria e la pericolosa tendenza di de martino ad attribuire autonomia epistemologica alla magia e al pensiero primitivo. Ritiene che la prospettiva di De Martino finisce con coincidere con la prospettiva della sociologia anglosassone per l’esaltazione dell’obiettivo. - Il richiamo al ‘popolo’ come forza sociale attiva basta a conferire unità e autonomia alla sua cultura Mario Alicata: accusa De Martino di conferire autonomia alla magia popolare. Parla della concezione del mondo più critica e razionale che le plebi rustiche del mezzogiorno possiedono ea cui dovrebbero uniformarsi è quella espressa dalla élite politico-intellettuale. Sottolinea l’agglomerato indigesto di Gramsci, da cui ne ricava tre precetti metodologici: 1. Bisogna guardarsi dal postulare l’esistenza di un mondo culturale unitario sotto il nome generico di “mondo culturale” dei contadini o della “società contadina” meridionale; 2. I diversi contesti culturali delle campagne meridionali vanno studiate sempre in rapporto ai legami con cui essa si trovano con i mondi culturali “ufficiali”; 3. In tali contesti occorre distinguere gli aspetti vivi e morti, positivi e negativi, facendo scomparire i negativi e facendo progredire i positivi nel quadro di una lotta politico-culturale che ha il suo centro propulsore nella classe operaia e nella sua dottrina rivoluzionaria, marxismo-leninismo. L’obiettivo di De Martino era di correggere la ragione progressista fino a ricomprendere le istanze esistenziali poste dalla magia e dalla religione popolare. Giarrizzo e Alicata interpretano la scienza del folklore come una forma di populismo. Autonomizzare il folklore vuol dire rifiutare il ruolo direttivo dell’élite, inclusa la coscienza di classe che il popolo per Alicata, possiede intuitivamente ed in modo elementare, che va costudite nelle sue giuste forme dagli intellettuali organici —> ad essi spetta il compito di stabilire il positivo e il negativo del folklore, secondo la concezione epistemologica pedagogica del ruolo di guida del partito. 26 Come risponde De Martino? Difende il popolo ma abbandona il folklore. In un secondo intervento non è d’accordo con le categorie crociane. La risposta ad Alicata si risolve in un attacco al fondatore degli studi positivistici Giuseppe Pitrè. Afferma che per quest’ultimo si tratta sempre di isolare i tratti più o meno arcaici della ideologia popolare e contadina. Risponde a Giarrizzo difendendo in apparenza il folklore che non deve essere idoleggiato in senso pittoresco come hanno fatto ir romantici; il folklore non è una scienza e né una storia, è una particolare istanza documentaria così come l’etnografia è una tecnica di raccolta. Tratta il materiale popolare non come unità autonoma ma nella sua costante interazione storica con le categorie egemoniche e con gli intellettuali che di tale interazione sono stati protagonisti; non possiamo comprendere questi fenomeni se non a partire dalla polemica antipatica e antinaturalista che le culture egemoniche occidentali hanno a lungo sviluppato. L’INTERPRETAZIONE DEMOLOGICA DI GRAMSCI Gramsci valorizza il tema del folklore e invita a considerarlo una cosa seria. Non lo può considerare come un oggetto unitario, “separabile” da altri momenti della cultura e fondativo di una scienza autonoma. De Martino fonda il suo progetto etnografico sulla valorizzazione dei temi della cultura popolare nel quadro di un ampliamento della coscienza storiografica dell’Occidente. Per de Martino gli studi folklorici sono uno sproposito e hanno portato la cultura popolare “fuori dalla storia”. Dopo la morte prematura di De Martino nel 1965 i suoi successori fondano la demologia, su basi gramsciane, con il tentativo di ricostruire un’unità dell’oggetto folklorico e della sua scienza. DEMOLOGIA – marca la discontinuità rispetto al passato. Innovativa MA intende ricucire i rapporti con gli studi folklorici precedenti. Alla fine anni ’60 si comincia patrimonializzare il folklore. Riscuote successo la tesi del folklore come cultura di contestazione ( non si intende l’eventuale presenza esplicita di contenuti progressisti o di protesta nelle creazioni culturali delle classi subalterne) di Lombardi Satriani; la semplice esistenza dei dislivelli culturali mostra e denuncia la divisione in classi della società. Per lui la consapevolezza del dominio di classe fa tutt’uno con la lotta all’etnocentrismo e all’esclusivismo culturale che caratterizza il pensiero antropologico. È la stessa impostazione di classe a fondare l’unità dell’oggetto. 27 di massa in due note pratiche folcloriche: il tarantismo è il pellegrinaggio al santuario di Vallepietra tra Lazio Abruzzo. 1. Tarantismo: festa di San Paolo a Galatina —> una partecipante era vestita secondo la tradizione di bianco, ma i suoi calzoni erano dei White jeans dove si poteva leggere la marca " Rodeo" un moderno prodotto americano che si era introdotto nel rituale magico. 2. Il pellegrinaggio a al Santuario di Vallepietra —> tra i fedeli ci sono i ragazzi che portano il berretto di James Bond 007. Gli autori considerano questi elementi come una forma di "grottesca mescolanza" ai prodotti della società dei consumi che vengono gettati nel mondo magico questo rischia di erodere il patrimonio di differente autenticità rappresentato dai riti magico-religiosi tradizionali. La forma "tradizionale" è già il risultato di un costante processo storico di ibridazione, di "grottesche mescolanze”; l'estraneità radicale di questi oggetti culturali è percepita solo dagli osservatori, rimanda all'idea di due mondi e di culture separate, ma è veramente integrabili ma che nell'ottica di Gramsci possono integrarsi costantemente in un "agglomerato indigesto”. ELITISMO E POPULISMO CULTURALE La scelta di escludere la cultura di massa dal proprio campo di studi ha posto al centro il repertorio della tradizione. Problematica fondativa della demologia: l’articolazione del rapporto egemonico-subalterno, la corrispondenza tra le differenze sociali e quelle culturali. Nei dibattiti degli anni ’50 de Martino rivendicava un certo grado di autonomia culturale del popolo: o la non completa riducibilità del folklore alle categorie egemoniche. Contro i crociani e marxisti, portatori entrambi di una posizione elitista che vede il folklore come un inerte deposito di rifiuti della storia. È evidente che tutto l’impianto gramsciano si allontana da una simile idea di falsa coscienza, legata agli approcci che Gramsci chiama economicisti. La visione del mondo di particolari segmenti popolari è sempre affrontata nei Quaderni come frutto di specifiche dinamiche di egemonia e conflitto, nelle quali si assume la piena coscienza o razionalità del “popolo”. Gramsci critica serrata all’ “economismo”: tendenza ad assolutizzare gli “interessi oggettivi” considerano la politica e la storia come un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L’irriducibilità del punto di vista popolare a una falsa coscienza – misurata in relazione a una oggettività che solo gli intellettuali del partito sarebbero in grado di riconoscere. De Martino si pone su questo terreno: l’analisi della cultura dei ceti subalterni implica per lui l’esame dei rapporti etico- 30 politici e non il semplice smascheramento di un’ideologia che “inganna” il popolo. Atteggiamento antielitista. La demologia mette a fuoco solo la vera cultura del popolo che intende separare da quella inautentica: i criteri di questa separazione sono quelli degli intellettuali. Il che riporta al vecchio paradosso della folkloristica, dal Romanticismo in poi: il popolo va bene, ma solo se corrisponde alle aspettative degli intellettuali, anzi di una componente specifica dei ceti egemonici. Cosicché il folklore può giungere a trasformarsi in un tratto d’élite. La fortuna che la demologia riscuote negli anni ’70 anche al di fuori dell’ambito strettamente accademico è legata alla capacità di riconoscere e apprezzare il vero canto popolare tradizionale. È elemento distintivo di una precisa appartenenza socioculturale. Distinzione dalla volgarità di quei ceti più bassi che sono preda dell’industria culturale e del kitsch. Il rischio è perdere di vista il popolo reale, in difesa di un popolo astratto o immaginato ( la comunità folklorica originaria, l’ unità di fatto che non esiste più). Il rischio è disprezzare le pratiche culturali dei subalterni reali con quella stessa imputazione di volgarità che ha da sempre contraddistinto i rapporti tra mondo urbano e mondo rurale, o tra borghesia e proletariato. DA PASOLINI A BERLUSCONI Questa “nuova cultura interclassista” è legata a sua volta a un “nuovo potere che mi è difficile definire: ma di cui sono certo che è il più violento e totalitario che ci sia mai stato”. Più il popolo ne è investito, più subisce una mostruosa trasformazione che lo allontana dalla bellezza e dalla purezza. Ciò porta Paolini a disprezzare e ad accusare in primo luogo proprio quegli elementi di “progresso” ed “emancipazione” che le classi popolari vanno ricercando ed ottenendo in quegli anni. Posizionamento sociologico di Pasolini: da un lato si pone come critico radicale dello stile borghese, da cui dice di esser fuggito trasgredendo ogni norma e limite; e giungendo così a fare esperienza di quel mondo popolare che si estende sconfinato sotto il livello della cultura borghese. Fa risuonare la stessa polemica gramsciana di scarsa vicinanza alla gente comune. Dall’altro lato è chiaro che questa sua scelta distintiva è a sua volta profondamente “borghese” ed elitista. Pasolini applica in modo estremo i requisiti, rompe il conformismo e infrange le regole per sottrarsi a un mondo culturale al quale si stanno avvicinando masse popolari che ne minacciano l’esclusività. Scritti corsari – opera antipopulista. Teoria molto forte del potere e dei rapporti tra le classi, che si pone in implicito dialogo con Gramsci. Il nuovo potere, “il più violento e totalitario che ci sia mai stato”, ha l’effetto di cancellare la classica relazione o dialettica tra cultura egemonica residuale, che resiste solo in pochi angoli ancora non raggiunti dalla “nuova cultura interclassista”, dalla quale è inesorabilmente contaminato. 31 Pasolini considera profondamente poetico lo sguardo ingenuo e spontaneo dell’autore, che quasi senza volerlo ridicolizza le istituzioni borghesi, la guerra, il vecchio mondo “con la sua violenza feroce e idiota”. Ma come per il romanticismo, la poesia del popolare è inconsapevole. Fugge sdegnosamente da un mondo culturale al quale si stanno pericolosamente approssimando masse che non erano prima neppure in grado di percepirlo. La poetica pasoliniana rappresenta il momento estremo di un elitismo che usa la cultura popolare per tenere lontano il popolo. Paradosso irrisolvibile: la demologia ci è transitata dentro finendo per perdersi. Le élite combattono per gli interessi del popolo ma contro il popolo. Divario tra il popolo ideale e il popolo reale. Le paure e le preoccupazioni di quest’ultimo sarebbero sfruttate e mal indirizzate da abili demagoghi. La progressiva eclissi della demologia e dell’interesse per il popolare, verso la fine del ‘900, ha coinciso con l’avvio di una sistemica trasformazione in senso “populista” della vita politica. Una trasformazione che è stata inizialmente classificata sotto la categoria di “berlusconismo”, dal momento che Silvio Berlusconi ne è stato il più importante esponente e pionieristico fautore. Berlusconismo – come frutto della sconfitta della sinistra nei suoi tentativi di stabilire una egemonia culturale sulle masse; o dell’abbandono di quei tentativi a favore di una destra che avrebbe invece conquistato il campo con estremo successo, puntando sui mass media e sul mondo dello spettacolo, nonché sulla mediazione di quei nuovi intellettuali che ne sono protagonisti, come calciatori, presentatori, giornalisti e veline. La demologia si è trovata priva di strumenti per comprendere quanto stava accadendo. 32 In definitiva, né i sostenitori del paradigma demologico né i suoi critici o detrattori mettono in discussione il fatto che esso rappresenti il più coerente sviluppo delle posizioni di Gramsci e de Martino ma non è esattamente così. Riguardo a Gramsci si può dire che “è del tutto evidente” che nulla nella sua opera legittima l’idea del folklore come repertorio autonomo e separato, da tratte a oggetto di un sapere specifico, o di forme di salvaguardia patrimoniale o museale. De Martino si trova così suo malgrado ad essere citato come padre nobile dell’antropologia e della demologia italiane – lui che si definiva etnologo e storico delle religioni, odiava la Applied anthopology americana, positivista e relativista, e non credeva nell’autonomia del folklore come scienza di repertori subalterni. LO STALLO TEORICO DELLA DEMOLOGIA Cecs mette a frutto il rinnovamento postbellico degli studi trasformando una molteplicità di stimoli teorici e metodologici in un ampio e sistematico impianto disciplinare. Al tempo stesso, la sua difficoltà consiste nel fatto che il dispositivo teorico gramsciano non giustifica affatto una disciplina centrata su un oggetto statico come il repertorio contadino tradizionale: chiederebbe invece di seguire i mutamenti storici nello scarto egemonico/subalterno, fino ad oggi. Mentre Cecs ridefinisce l’oggetto di studio e dà nuova legittimità al repertorio folklorico classico, questo oggetto sta scomparendo di fronte alla modernizzazione. Non scompare certo la cultura subalterna, ma la possibilità di identificarla con quel particolare repertorio. La folkloristica in sé nasce come strutturalmente legata al processo di modernizzazione. Dunque la “scomparsa imminente” del folklore fa parte da sempre dell’ideologia folklorica. Nell’IT degli anni ’70 del ‘900 questo meccanismo strutturale si diffonde con grande forza. Ma ormai è impossibile retrocedere verso ambiti marginali nei quali il contagio modernista non è ancora arrivato in cerca del vero folklore. La società di massa e il mercato culturale hanno cancellato le condizioni che consentivano la costituzione di “bolle culturali” subalterne relativamente autonome. Ma il revival è un fenomeno sostanzialmente egemonico. La continuità, in un approccio gramsciano, non può consistere nel tener fermo lo sguardo su un oggetto in sé. Si tratta piuttosto di capire dove è andato a nascondersi il subalterno nelle nuove condizioni socioculturali. La demologia restando ancorata a una definizione classica dell’oggetto come repertorio di tratti della tradizione rurale. Addentrandosi così in un palese paradosso: una scienza della cultura subalterna he esclude dal suo ambito di interesse i consumi di massa, vale a dire la gran parte della vita culturale dei ceti subalterni di oggi. 35 Nell’immediato dopoguerra, gli intellettuali gramsciani individuano e valorizzano il popolare (o folklorico) in contrapposizione alle forme della cultura alta, ufficiale o, come si dice nel linguaggio di quegli anni, “borghese”. Vent’anni dopo le cose sono cambiate: la preoccupazione principale è distinguere il folklore “vero” dalle forme della cultura di massa e della produzione industriale in serie. La demarcazione cruciale è quella tra il folk e il pop. Questa percezione appare ai più un coerente sviluppo della posizione gramsciana. Infatti la cultura di massa non può esser concettualizzata come “subalterna”: certamente non come “progressiva” o “contestativa”, ma neppure come indice di una oggettiva “resistenza” delle classi popolari all’egemonia borghese. Prodotta dall’industria e distribuita attraverso il mercato, essa esprime appieno proprio quell’egemonia, ne è il veicolo. Dunque la cultura di massa, il consumo, la “borghesizzazione”, sono fenomeni da combattere e non da studiare; deculturazione e non cultura. La demologia nel suo complesso si allinea a questo approccio. Ma in questa apparente “scomparsa dell’oggetto” sta anche la principale ragione della sua crisi. Apparente: poiché naturalmente non è l’oggetto a scomparire, ma le lenti interpretative che non riescono più a seguirlo e a metterlo a fuoco nei suoi mutamenti. La ricerca delle connotazioni subalterne nella circolazione culturale spingerebbe necessariamente verso terreni dai quali ci si vuole invece tenere ben lontani. ANTROPOLOGIA CRITICA E STUDI CULTURALI È evidente una perdita di fiducia nell’autonomia epistemologica della demologia, in termini di statuto teorico e demarcazione di uno specifico oggetto di studio. Si farà strada una nuova categoria unificante che riassorbe oggetti e pratiche della tradizione demologico-folkllorica, patrimonio culturale. Questo allontanamento agisce per quegli studiosi che, pur lontani da Cirese e dalla sua scuola, si erano posizionati nel quadro della normalizzazione demologica. Ciò significa da un lato che i tradizionali “oggetti” dell’attenzione demologica passano in secondo piano. Il modello demagogico oggi con gli studi sulla magia ha il suo momento di maggiore compattezza in un convegno palermitano del 1975. Anche i classici generi della tradizione orale formalizzata, come i canti, la fiabistica e il teatro popolare escono lentamente dal campo demologico: continuano a occupare ambiti di studio specializzato ma si spostano verso il campo delle Performing arts. L’impianto demologico appare soppiantato da due diverse cornici: 1. “patrimonio culturale intangibile”; 2. cornice di etnografia critica, che mira alla produzione di ricerche centrate non su statici repertori tematici ma su “pratiche” politico-culturali, nel senso attribuito a questo termine da 36 Pierre Bourdieu. Qui i temi classici del folklore e del “patrimonio intangibile” sono de- essenzializzati, e riconfigurati come aggregati di pratiche, campi di tensioni politiche. Esempi di questa strategia interpretativa: - Berardino Palumbo: lavoro sulla "guerra dei santi" in un paese siciliano rappresenta l'esempio teoricamente più convinto; i confini tra le consolidate partizioni Subdisciplinari (antropologia religiosa e antropologia politica) perdono senso. Operazione analoga fatta da Giovanni Pizza nel campo dell'antropologia medica, con la decostruzione della nozione di medicina popolare non è un insieme positivamente rilevabile di pratiche e credenze diffuse tra i ceti subalterni, che gli etnografi possono "scoprire" e descrivere nella sua autonomia e compattezza; piuttosto, l'effetto di autonomia alterità è frutto dello sguardo egemonico dello stesso etnografo. Tale approccio, vicino ai più attuali indirizzi dell’antropologia critica internazionale, ha il grande merito di riaffermare la relazione inscindibile tra piano egemonico e subalterno, aprendo, a partire da questa, stimolanti scenari etnografici. Tuttavia, il rilievo dato alle relazioni di potere in chiave antiessenzialista rischia talvolta di lasciare in secondo piano il ruolo della dimensione simbolico-culturale nella costruzione delle soggettività agenti. L’idea che tutta l’antropologia sia antropologia politica riduce le differenze culturali a mere funzioni o spettri del potere; per di più, di un potere pensato in modo totalizzante, impersonale e strutturale, in un’ottica foucaultiana o di bio-politica. Un’ottica assai diversa da quella di Gramsci. L’approccio “critico” sembra accantonare come irrilevante la domanda cruciale attorno alla quale il progetto demologico si era costituito: vale a dire indagare i nessi tra differenze sociali e differenze culturali, i modi in cui esse continuano ad agire nella dimensione quotidiana dell’esistenza, depositandosi negli aspetti più ordinari, banali e di background della realtà sociale. BORDIEU: la circolazione disuguale di beni materiali e simbolici non configura universi culturali chiusi estatici nei quali gli attori sarebbero imprigionati, ma un'area di risorse fluide che gli attori stessi sfruttano i modi creativi e mutevoli nelle loro strategie di posizionamento sociale. Importante è il contributo teorico offerto da Stuart Hall (Cultural Studies). Non esiste nessuna cultura popolare coesa, autentica autonoma che sopravvive fuori dal campo di forza delle relazioni di potere di dominio culturale; non esiste una cultura dominante capace di colonizzare in modo totale i ceti popolari. Problema della definizione di popolare in contrasto con la visione che egli stesso chiama “antropologica” – per cui cultura popolare indicherebbe “tutto ciò che il popolo fa o ha fatto”, “la cultura, le usanze, le abitudini e le tradizioni del popolo, ciò che definisce il suo stile di vita particolare”. Si tratta di una definizione puramente descrittiva: sembra implicare un inventario potenzialmente infinito di tratti culturali. La questione cruciale risiede piuttosto nelle forze e nei 37 gli interlocutori principali delle politiche Unesco non sono gli esperti o gli studiosi, ma principalmente i “portatori” di quel sapere o tradizione, cioè i soggetti o le comunità che ne sono protagoniste. La diffusione della cornice patrimoniale dell’Unesco ha molto influenzato l’antropologia contemporanea. L’antropologia del patrimonio si è affermata come definizione di un campo che era in precedenza identificato in termini di “cultura popolare”. L’ANTROPOLOGIA DEL PATRIMONIO TRA CRITICA E PARTECIPAZIONE Il rapporto tra l’approccio patrimoniale e l’antropologia è stato fin dall’inizio teso e difficile. L’elaborazione della nozione di intangible heritage tra anni ’80 e ’90, poggia sull’uso di categorie antropologiche classiche come cultura, identità, comunità, tradizione. Ma l’antropologia internazionale, in quegli stessi anni, si caratterizza proprio per un ripensamento critico radicale di queste stesse nozioni: per la loro decostruzione, se vogliamo, nel senso che identità culturale, tradizione ecc. appaiono il frutto di processi di plasmazione retorica e politica. Critica al culturalismo ingenuo ed “essenzialista” – del culturalismo si analizza la componente di “violenza epistemologica”. Anche la nozione di patrimonio è investita da questa critica. Il patrimonio appare il risultato di consapevoli strategie di ordine politico-istituzionale. In particolare un influente filone di studi collega i processi di patrimonializzazione con le politiche nazionaliste e con le relative concezioni di identità/alterità, appartenenza/esclusione. Sono gli stati-nazione a gestire, inventariare, autentificare il patrimonio. Del resto, già si è vista la coincidenza fra la moderna scoperta del folklore, alla fine del ‘700, e lo sviluppo del nazionalismo romantico; o la sistematica facilità con cui i totalitarismo del ‘900 hanno usato il folklore come strumento di formazione del consenso di massa. Anche oggi, pur in cornici disegnate da organismi sovranazionali, restano gli stati gli insindacabili soggetti delle politiche patrimoniali. Lo scetticismo verso concezioni essenzialiste della cultura è largamente passato nell’attuale sensibilità antropologia. Il che porta a storcere il naso con una certa frequenza di fronte ai modi in cui l’Unesco tratta le questioni della cultura, dell’identità, della tradizione. Naturalmente, queste stesse dinamiche di trasformazione sono oggetti molto interessanti di osservazione e descrizione etnografica. Così gli antropologi del patrimonio possono intraprendere due strade diverse. Da un lato, possono farsi etnografi della patrimonializzazione, assumendo le categorie patrimoniali come oggetto di studio e non come propria risorsa interpretativa. Dall’altro, possono invece partecipare e interagire con le pratiche e discorsi patrimoniali cercando di raffinarle e di portarle verso una maggiore consapevolezza riflessiva. 40 Ciò che cambia, in questi atteggiamenti, non è tanto il grado di adesione o ostilità verso le pratiche Unesco, quanto il rapporto tra il discorso antropologico e quello patrimoniale delle istituzioni o del senso comune. Il sapere disciplinare esperto è integrato nel discorso pubblico di validazione e valorizzazione di questi beni: sostiene le politiche istituzionali e i relativi impianti normativi e ne è a sua volta legittimato. La postura “critica” invece si pone in modo metadiscorsivo verso i processi di patrimonizzazione: ne fa oggetto di analisi etnografica, senza confondersi con le loro categorie. L’etnografia appare qui come strumento di netta separazione dall’oggetto. Più complessa è la situazione della postura “partecipativa” – per Palumbo il tratto decisivo è la capacità di oggettivare sé stessi, à la Bourdieu, dunque di esser “consapevoli del carattere “politico” della propria partecipazione”, del proprio stesso coinvolgimento nei processi studiati. Qui i due discorsi, quello patrimoniale e quello antropologico, si intrecciano e si modificano a vicenda. L’etnografia in questo caso può rappresentare uno strumento non di separazione ma di “fusione di orizzonti”. Si possono superare certe rigidità dell’approccio “critico”, che presenta a sua volta due tipi di rischio. Da un lato, un arroccamento nel campo accademico e la difficoltà a mettersi in gioco nella sfera pubblica. Dall’altro, una tendenza a liquidare il discorso patrimoniale o culturalista come pura ideologia o mistificazione, a fronte di una più oggettiva visione delle realtà sociali. Dimostrare che le “entità” patrimoniali sono costruite politicamente e retoricamente non autorizza affatto a considerarle illusorie, frutto di una sorta di falsa coscienza al servizio del “Potere” e dello “stato”, e dunque smascherabili da un più solido linguaggio che parli di politica e non di cultura. Proprio l’etnografia può mostrare che sono in gioco meccanismi molto più complessi, istanze eterogenee e spesso contradditorie – mai interamente irriducibili a una questione di apparenze ed essenze, di ideologia e di realtà. L’antropologia del patrimonio si profila dunque come una disciplina fedele alla propria vocazione critica e riflessiva, che non può appiattirsi all’interno del discorso patrimoniale e delle sue più ingenue categorie; ma che, d’altra parte, è consapevole di stare più dentro i dibattiti e le pratiche pubbliche di gestione dei beni culturali. LA SINDROME DI RE MIDA L’Unesco è come Re Mida: dove mette le mani trasforma fenomeni effimere ma vivi in statue d’oro. La cornice patrimoniale studia i modi in cui il classico repertorio folclorico e recuperato, reinventato e valorizzato da varie agenzie sociali come bene culturale, con finalità turistiche, identitarie o di altro tipo. La valorizzazione UNESCO dell’Ich ( Intangible Cultural Heritage) si indirizza istituzionalmente verso una logica estetizzante e selettiva. Le politiche patrimoniali UNESCO si incardinata no su due principi in conflitto con le basi epistemologiche dell’antropologia: 41 1. Individuazione delle eccellenze e dei "tesori", con le relative classifiche di rilevanza; 2. Obiettivo del salvataggio della specie in estinzione. Sì principi contribuiscono a creare un campo culturale "alto" e ben separato da una cultura ordinaria. Ma i "beni" etnografici non sono affatto beni nello stesso senso: la valorizzazione etnografica si riferisce alla cultura ordinaria e quotidiana; la cultura in senso etnografico non riguarda solo pochi prodotti "alti" che si distinguono dalla non-cultura, o dall'ignoranza, dalla superstizione, dalla banalità, bensì si concentra proprio sul banale, sul brutto, sull’ordinario. L’antropologia non può essere "interna" al campo patrimoniale senza rinnegare le proprie basi epistemiche. I fenomeni culturali intangibili si modificano costantemente, "salvarli" vuol dire documentarli. CAPITOLO 6 Un imbroglio di Mauss? Da Marcel Mauss in poi, il tema del dono ha conquistato il centro della riflessione antropologica. Nel momento del definitivo crollo dei sogni socialisti, il dono è potuto apparire come l’ultimo baluardo delle alternative alla logica di profitto del capitalismo, dell’immaginazione utopica, delle speranze. Attorno al tema del dono si è sviluppata un’intera stagione culturale. Questa linea di pensiero è stata ampiamente discussa, suscitando tanto fervidi entusiasmi quanto critiche feroci. Si è obiettato che la dicotomia dono-merce non è così chiara e netta in molti contesti specifici. La caratteristica più geniale e al tempo stesso più controversa del Saggio sul dono è proprio l’invenzione del suo oggetto. Mauss prende una serie di fenomeni etnograficamente diversissimi come il kula, il potlach, lo hau. Ne propone delle letture parziali e selettive e li assimila attorno ad un nucleo comune come che va a costituire la nuova categoria. Il suo è un uso particolare del metodo comparativo: l’accostamento di dati e contesti culturali così diversi gli serve per far emergere nella sua interezza un fenomeno che si manifesta empiricamente solo in forme parziali e incomplete. Emerge un pattern altrimenti non visibile, all’inizio viene definito attraverso la nozione tecnica di “prestazione totale”: ma al contempo viene letto nella cornice della moderna nozione di dono —> si intende uno scambio cerimoniale di oggetti al di fuori del mercato; scambio il cui significato è legato all’esistenza del mercato stesso, nel senso che “donare” o “regalare” si definiscono in contrapposizione a vendere. 42 valori ideali; ma le sue maglie sono sempre troppo larghe, e in esse si inseriscono le pratiche e le interpretazioni dei soggetti reali. È qui che prende corpo la cultura popolare, che si articola attorno a una poetica dell’interstizio, del sottobanco, dell’informale, dei tempi e degli spazi non inquadrati. I Cultural studies hanno espresso questa caratteristica del popular in termini analoghi, sottolineando in modo anche più esplicito l’elemento della “resistenza” – nel senso di una contrapposizione sia pur implicita ai modelli egemonici. La resistenza si attua attraverso tattiche che si insinuano all’interno stesso degli schemi e della “materia” egemonica. Il popolare si manifesta in forme di manifestazione della cultura di massa stessa. Ci poniamo qui su un livello delle pratiche sciali che può essere documentato solo attraverso una etnografia di microcontesti, poiché non si autorappresenta con modalità “ufficiali”. Una etnografia delle pratiche quotidiane del consumo si è progressivamente sostituita alla vecchia sociologia della cultura di massa, basata principalmente sull’analisi contenutistica o semiologica dei prodotti. Godbout – i modi in cui i legami sociali sono prodotti, rafforzati o spezzati da scambi di beni e servizi che non rispondono né all’equivalenza del valore né alle norme del diritto amministrativo, ma alla peculiare dialettica dare-ricevere-ricambiare, nonché libertà-obbligo, che già M.A.U.S.S. ha lavorato, ci si trova di fronte una sistematica griglia osservativa per l’indagine degli spazi in cui la cultura popolare si produce e si nasconde nella società contemporanea. Configura i contorni di una etnografia concentrata sugli scarti tra il disegno istituzionale della società e le pratiche della vita quotidiana, sugli spazi lasciati liberi dai grandi meccanismi dell’economia e della politica e che la cultura popolare va a riempire. Quindi, il dono si dimostra in quest’ottica un potentissimo strumento euristico, un grimaldello che consente di scardinare i nascondigli più riposti di quella che chiamo cultura popolare. Nella parte di questo capitolo esaminerò tre casi di cultura popolare legati al dono. Casi presi in considerazione: dono in ospedale, condivisione di file in internet e donazione del sangue. Nelle loro diversità sembrano convergere nell’evidenziare le pratiche di “dono” come snodi del rapporto tra istituzioni e vita quotidiana; momenti in cui divengono visibili le articolazioni tra le soggettività astratte che si muovono nel mercato e nello stato e quelle concrete che stanno al centro di reti di legami locali, personali e idiosincratici. 45 Tre casi di cultura popolare legati al dono: 1. IL DONO IN OSPEDALE Il popolare si insinua sottilmente all’interno delle stesse istituzioni mediche. Anche in ospedale i doni sono dappertutto. Dai doni sono segnate le visite ai pazienti da parte di amici e parenti; di doni è intessuto il rapporto dei degenti con lo staff; di doni e solidarietà è fatto il rapporto tra pazienti. Doni che i pazienti offrono all’infermiere – pur sembrando un dono d’apertura sarebbe in realtà già un controdono, un modo di ricambiare quel di più che si è ricevuto. D’altra parte le infermiere usano la sintassi del dono per alimentare le reti di relazioni informali con i pazienti, percependo l’importanza di un livello dei legami che non può esser riassorbito dalla pura professionalità. Rispetto al classico modello maussiano del dare-ricevere-ricambiare, siamo qui di fronte a una peculiarità: ogni atto di dono, per quanto sia palesemente legato ai precedenti, pretende di non discenderne come forma di contraccambio. Le infermiere negano con decisione di lasciarsi influenzare dai doni ricevuti nel distribuire le loro attenzioni; né i pazienti intendono le loro offerte in termini di reciprocità. Si è forse più vicini a quel “debito positivo” che Godbout attribuisce alle relazioni familiari, in cui il piacere del dare discende proprio dal fatto che non si sente il dovere di farlo. Il rapporto tra infermiere e pazienti all’interno dell’ospedale è costruito attraverso una serie di piccole pratiche quotidiane che “sporgono” rispetto ai ruoli e ai diritti-doveri istituzionalmente definiti. Queste piccole pratiche informali trasformano in legami umani quelle che sarebbero altrimenti solo relazioni burocratiche e professionali, compito particolarmente importante all’interno di una istituzione come l’ospedale, che da un lato ha caratteristiche spersonalizzanti, dall’altro pone le persone a strettissimo contatto e in relazioni dirette di dipendenza. La vita nell’ospedale non potrebbe fare a meno degli aspetti istituzionali, dei ruoli e della deontologia professionale, così come non potrebbe fare a meno delle pratiche quotidiane e non formalizzate che costruiscono legami fra esseri umani. La differenza è che nell’autorappresentazione della modernità il primo aspetto è visibile e sta in primo piano, il secondo non si palesa esplicitamente se non nei termini di una vasta dimensione morale o umanitaria. Sta all’etnografia mostrarlo. Il delicato equilibrio dei doni nell’ospedale è possibile proprio perché si colloca all’interno di un quadro di norme organizzative e deontologiche. 46 2. LA CONDIVISIONE IN RETE Tattiche “popolari” fondate sui tentativi del pubblico degli appassionati di far fronte all’alto costo del prodotto e dunque all’assai limitata disponibilità di risorse. Fra queste tattiche rientrano le forme di ascolto collettivo e il prestito dei dischi all’interno di gruppi di amici. Programmi peer-to-peer (p2p) Napster – sistemi di comunicazione. È proprio la possibilità di scambiare file musicali in formato mp3 che ha decretato il successo della formula: in sostanza, essa propone qualcosa di molto simile allo scambio privato di dischi o Cd fra amici, che avviene in modo non pubblico e sottratto al controllo istituzionale: solo che le dimensioni di questi rapporti si moltiplicano su scala globale. Il p2p si sottrae al controllo delle norme sul diritto d’autore. Da un lato, il p2p viene visto dalle case discografiche e da un certo numero di autori e musicisti come una forma di pirateria: una infrazione alle norme sul copyright che equivarrebbe moralmente a un furto. Se non si produrrà più musica per la mancanza di incentivi economici, non ci sarà neppure più nulla da scambiare gratuitamente. Questa interpretazione viene però respinta dall’interno del mondo p2p, in particolare da gruppi di utenti che potrei chiamare “forti” e che sostengono una vera e propria filosofia del file sharing. I loro argomenti, da un lato, legittimano la diffusione gratuita della musica come una forma di resistenza allo strapotere delle case discografiche e ai prezzi troppo alti che esse impongono; dall’altro, ed è ciò che più ci interessa, vedono nel p2p l’incarnazione di un principio del dono e della reciprocità, alternativo e “rivoluzionario” rispetto a quello del mercato. Classico terreno maussiano. Si tratta di un sistema di scambio di beni situato al di fuori del mercato e di una equivalenza in termini di valore, dove tutto circola costantemente sulla base di una forma di reciproca fiducia. Un software come eMule è programmato proprio sulla base di una filosofia della reciprocità. Siamo dunque di fronte alla contrapposizione fra due contrastanti e inconciliabili principi di diffusione della cultura di massa – all’epica lotta tra Mercato e Dono? C’è da dubitarne. Anche in questo caso, i due sistemi sono più intrecciati e reciprocamente dipendenti di quanto posso in prima istanza apparire. Il file sharing, almeno nella sua forma attuale, è parassitario rispetto al mercato: funziona cioè soltanto perché esiste una produzione dell’industria culturale guidata da una logica di mercato. Che la gran parte degli utenti siano animati dallo “spirito del dono” sarebbe poi tutto da dimostrare. D’altra parte, dalla mia come da altre ricerche risulta che gli utenti del p2p sono anche importanti consumatori di beni culturali. La pratica del download gratuito non impedisce loro di rivolgersi al mercato per l’acquisto di musica. Le stesse case discografiche se ne rendono conto, e questo spiega la relativa morbidezza delle loro reazioni: non possono mettersi contro i loro migliori clienti. 47 CAPITOLO 7 Il pluralismo medico L’antropologia classica ha usato la nozione di pluralismo medico per indicare la compresenza, all’interno di un contesto sociale e storico-culturale, di diverse tradizioni di saperi e pratiche concernenti il corpo, la salute, la malattia e la guarigione. Kleinman – distingue all’interno dei sistemi medici tre settori (professionale, folk e popolare). Il primo scuole strutturate e organizzazione burocratizzate e riconosciute dalle istituzioni di governo. Del secondo fanno parte o curatori radicati in tradizioni locali e subalterni, prive di riconoscimento istituzionale. Il terzo settore si riferisce a idee, orientamenti e pratiche delle masse “profane”. Il “pluralismo” si manifesta come compresenza sia “verticale” tra primo e secondo settore, sia “orizzontale” all’interno di ciascun settore. La definizione di Kleinman pone l’accento su tre punti importanti. Primo, nei sistemi medici il pluralismo è più la regola che l’eccezione. Secondo, soprattutto dal punto di vista degli utenti o “pazienti”, esso si presenta di solito nella forma di intrecci sincretici più che in quella di transizioni separate e reciprocamente impermeabili. Terzo, anche i saperi e le pratiche professionali più compatte sono recepite in relazione ai codici della cultura o delle culture popolari, ed è solo su questo sfondo che si precisa il loro significato nella vita quotidiana. Assumendo proprio questa prospettiva, l’antropologia classica ha parlato di pluralismo medico soprattutto in relazione a contesti coloniali o postcoloniali, caratterizzati da una diffusione ancora parziale e carente della biomedicina e da un persistente radicamento di pratiche diagnostiche e terapeutiche tradizionali, empiriche o magico-religiose. Anche laddove queste ultime siano state valorizzate e non giudicate mere superstizioni, l’assunto implicito è che lo “sviluppo” avrebbe eliminato col tempo l’anomalia del pluralismo. Nei paesi occidentali, la persistenza di pratiche di guarigione tradizionali è stata analogamente pensata in termini di residuo folklorico. Per l’approccio gramsciano le differenze nelle concezioni del corpo, della salute e della malattia e nelle pratiche della guarigione sono pensate in termini di sfere di subalternità culturale. Ciò ha consentito di valorizzarne la profondità esistenziale e l’efficacia simbolica in modi del tutto nuovi rispetto al passato. LE MEDICINE NON CONVENZIONALI ( MNC) Nuova forma di pluralismo medico che si è affermata nei paesi occidentali negli ultimi decenni del ‘900. Mi riferisco alla diffusione delle Medicine non convenzionali: una vasta ed eterogenea gamma 50 di risorse diagnostiche e terapeutiche, di saperi riguardanti la salute e la malattia, di “stili” di cura del corpo e del benessere che hanno fatto breccia nella cultura popolare proponendosi come segmento importante dei consumi sanitari e salutistici. Ciò che più caratterizza il campo, tuttavia, è proprio la capacità di combinare insieme elementi delle più diverse tradizioni, in una costante proliferazione sincretica. Difficile trovare una essenza comune in questa galassia terapeutica. Vi sono però almeno alcune somiglianze di famiglia che la percorrono, e che ho proposto altrove di riconoscere nei seguenti punti: a) una concezione energetica; b) un approccio olistico alla salute, che prende in considerazione l’inscindibile unità di corpo, mente e spirito; c) un orientamento naturale ed ecologico, che privilegia i processi di autoguarigione; d) uno stile individuante, che intende curare il paziente nella sua unicità più che la malattia, e che rifugge la dimensione statistica della validazione terapeutica; e) la reintroduzione di un lessico morale nella medicina: vale a dire di una visione che gli attribuisce a “colpe” o “peccati” l’insorgere della malattia e vede la guarigione come una forma di purificazione o “salvezza” spirituale. Dagli anni ’70 del XX secolo è la loro capacità di presentarsi come una costellazione in qualche modo unitaria e di prendere la parola nella sfera pubblica, trovando spazi di diffusione fino ad allora impensati. È lo sviluppo della biomedicina moderna che cambia progressivamente la situazione: essa cerca di imporsi come sistema unico in virtù dei suoi successi, della sua base scientifica universalista e dell’esclusivo riconoscimento istituzionale. Nell’ottica della moderna clinica, e delle politiche sanitarie degli stati con cui essa si allea, l’esistenza di alternative non rappresenta solo una forma di indebita concorrenza, ma un rischio per la salute dei cittadini. Continuano a sopravvivere e talvolta a svilupparsi tradizioni mediche diverse, in particolare di tipo umanistico. Nel clima peculiare dell’800 le medicine “alternative” trovano spazio tra segmenti sociali d’élite, puntano soprattutto su una maggiore individualizzazione delle cure. Sono tuttavia progressivamente marginalizzate, a fronte degli sviluppi e dei più spettacolari successi della biomedicina. Nei primi due terzi del ‘900 il loro spazio diventa ulteriormente minoritario. La dinamica si inverte però, come detto, a partire degli anni ’60 e ’70, quando le vecchie tradizioni trovano nuova attenzione e nuovi canali di diffusione, combinandosi con le filosofie e le tecniche corpo-mente di origine orientale e con la nascita di un’ampia gamma di discipline spirituali in stile di New Age. Sarebbe dunque la rivoluzione controculturale, con i suoi toni antiscientisti e con i crescenti sospetti verso una tecnologia antiumanista, pericolosa per gli equilibri del mondo naturale, a far scattare il successo contemporaneo delle Mnc (medicine non tradizionali). SAPERI MEDICI E CULTURA DI MASSA 51 Le Mnc crescono proprio sulla base delle aspettative e della “domanda” di salute che la stessa biomedicina ha contribuito a creare. Infatti, se la filosofia delle Mnc si contrappone esplicitamente a quella biomedica o allopatica, sul piano pratico molti medici e pazienti non trovano difficoltà a combinarle e a farle convivere. Da un lato, le Mnc si contrappongono alla dimensione ufficiale ed egemonica della medicina. Dall’altro, non si tratta certo di saperi o pratiche “basse” e folkloriche. La loro origine è per lo più colta, e sappiamo che si diffondono prevalentemente in strati sociali medi-alti, sotto il profilo sia del capitale economico che di quello culturale. Sono semmai “popolari” in un altro senso – quello del termine inglese popular, contrapposto a folk: sono veicolate dalla cultura di massa, e la loro diffusione segue i percorsi e le logiche delle scelte di consumo. La condizione essenziale del loro “successo” è la condizione massmediale e la democratizzazione della cultura che ha caratterizzato lo sviluppo dei mercati nel tardo capitalismo. Lo scenario epistemico disegnato dalle comunicazioni di massa ha reso possibile quel processo che i sociologi chiamano di de- differenziazione delle sfere sociali: ambiti che nell’alta modernità erano rigidamente separati sia in senso verticale che orizzontale si fondano in modalità nuove. Si registra un generale indebitamento del principio di autorità scientifica, con l’allentamento dei rapporti tra specialismo, divulgazione e movimenti di opinione. La de-differenziazione delle sfere e le dinamiche della cultura di massa agiscono a fondo. Delle Mnc sembra decisiva da un lato la comunicazione mediale, attraverso l’ampia rete di riviste, pubblicazioni e case editrici specializzate, festival e kermesse, e più di recente un’ampia varietà di risorse on line. Dall’altro, le Mnc prosperano per mezzo di reti di relazioni personali, associazioni, gruppi religiosi e culturali, corsi e seminari: un fitto tessuto di relazioni faccia-a-faccia che si collocano sul piano della società civile, ma le cui risorse vengono comunque dalla cultura di massa. Le Mnc si pongono su un livello “terzo” rispetto alla classica dicotomia tra alta e bassa cultura. O ridefiniscono lo spazio alto-basso come un continuum con molti gradi intermedi più che come dicotomia. Le differenze che esse mettono in gioco spingono allora l’antropologia e la demologia ad affrontare in modo aperto la questione della cultura di massa e del suo consumo. IL CORPO, LA CURA E IL CONSUMO: OLTRE LE TEORIE APOCALITTICHE Nella teoria sociale novecentesca vi sono due grandi tendenze nello studio della cultura di massa e del “consumismo”. Secondo la prima, che va almeno dalla Scuola di Francoforte agli studi contemporanei di sociologi come George Ritzer e Zygmunt Bauman, la cultura di massa è uno strumento egemonico così potente da cancellare ogni possibile margine di autonomia simbolica e culturale dei ceti subalterni. Consente forme senza precedenti di imperialismo culturale. Nelle condizioni del tardo capitalismo consumistico, anzi, le tradizionali classi sociali perderebbero le loro specifiche identità. Si 52 Ben noto fenomeno è quello della diffusione delle Mnc tra segmenti di ceto medio caratterizzati da alto capitale culturale: gruppi che sono critici da un lato verso il potere economico e politico da cui si sentono esclusi, e dall’altro verso ceti popolari percepiti come convenzionali, conformisti, di “cattivo gusto”. In una simile cornice si può anche chiarire una delle caratteristiche più importanti del “pluralismo medico” indotto dalle Mnc: vale a dire un certo grado di permeabilità tra i due campi. Sul piano scientifico, non vi è di solito compatibilità fra l’approccio biomedico e quello delle Mnc. I rispettivi sistemi implicano diverse metafisiche, concezioni della realtà incommensurabili. LA PRANOTERAPIA E L’AUTONOMIA DEL FOLKLORE Interessanti sono i sincretismo che talvolta si addensano nel rapporto tra Mnc e saperi-pratiche folkloriche tradizionali. La sistematica infiltrazione tra questi due livelli, e tra essi la medicina ufficiale, mostra che lo studio della “medicina popolare” e quello delle Mnc non sono affatto separati e separabili. Vi si è opposta Elsa Guggino con l’idea cioè che nelle condizioni della società contemporanea la cultura popolare tradizionale sia scomparsa o vada definitivamente scomparendo, sostituita dalla cultura di massa, ovvero dai prodotti dell’industria culturale. A suo parere, solo l’opacità dello sguardo dei ricercatori può condurre a una simile conclusione: un corretto sguardo etnografico mostra invece “istituti ancora in buona salute e aderenti a modi di pensare tutt’altro che retrivi”, che vivono e non semplicemente sopravvivono perché sono legati a determinate condizioni di vita. DA PROUST A PADRE PIO Ogni caso è un modo originale di mediare tra due elementi. Da un lato quella che potremmo chiamare la dimensione di lunga durata dell’esperienza della guarigione; dall’altro un contesto culturale che non mette a disposizione una cornice cognitiva e istituzionale per esprimere questa dimensione. È folklore questo? È cultura popolare? Si lo è, ed è un folklore vitale nel senso inteso da Elsa Guggino. Credo lo si possa definire tale proprio in virtù dei suoi scarti rispetto al livello istituzionale: proprio perché consiste in saperi e in pratiche incerte e non compiute. In ogni caso, sembra non si tratti di maggiore o minore adesione alla tradizione, di maggiore o minore persistenza di tratti arcaici, piuttosto, di stili diversi con cui vinee interpretata la modernità. 55 CAPITOLO 8 La densificazione delle cose: musei etnografici e culture popolari MUSEI E DONO: DI NECESSITÀ VIRTÙ? La crisi economica indica il fallimento di un’economia che pretende di seguire leggi universali di sviluppo separatamente dalla sfera della morale. Per questo occorre reintrodurre tensione morale nell’economia. Se non in tutta l’economia, come nelle visioni un po’ utopistiche del M.A.U.S.S., almeno in alcune aree – quelle volte a obiettivi culturali, relazionali, di cura e assistenza. L’ideologia utilitarista e neoliberista ha ritenuto di conseguire migliori risultati anche in queste sfere portandovi la logica dell’investimento finanziario, della burocratizzazione e della spersonalizzazione. La crisi pone di fronte al palese fallimento di tali pretese, e alla necessità di riavvicinare queste sfere allo “spirito del dono”, nell’accezione che a questo termine ha assegnato Jacques Godbout. Cautele: 1. Il recente dibattito antropologico smantella la contrapposizione dicotomica tra “dono” e merce, suggerita dalle letture antiutilitaristiche di Mauss. Piuttosto, sia nelle pratiche descritte da Mauss nelle società arcaiche, sia nella contemporaneità si intreccia costantemente con l’economia del mercato e del welfare. 2. Di conseguenza, non è scontato classificare certe pratiche sociali in termini di dono. 3. Il dono non è necessariamente “buono”, come il mercato non è necessariamente “cattivo”. Clientelismo, corruzione, personalismi e favoritismi nella pubblica amministrazione. È anche opportuno ricordare che l’ideologia del dono è spesso strumentalmente usata per supportare l’indebolimento del welfare in chiave neoliberista. La prospettiva che propongo è di considerare stato, mercato e dono come dimensioni diversamente intrecciate in un’ampia varietà di pratiche di scambio e circolazione di beni e servizi. Lo scambio mercantile è regolato dal principio astratto dell’equivalenza del valore, e l’assistenza statale da un sistema altrettanto astratto di norme, diritti e doveri, regolamenti. Ma nelle transizioni reali c’è sempre qualcosa di più, che rimanda al principio del dono e che rende concreto e umano – dunque possibile – quel rapporto. Quando il dono emerge in primo piano e di trasformarsi nel proprio contrario. 56 IL MUSEO COME MACCHINA DI CONVERSIONE TRA IL SUBALTERNO E L’EGEMONICO Rete museale in cui l’investimento pubblico e l’autorialità istituzionale si indeboliscono lasciando maggiore spazio alle relazioni di “dono”. Turci: nozione di Museo partecipativo – definito sulla base di una rinuncia a porsi al centro della relazione, attraverso uno spostamento di baricentro “che permetta relazioni di scambio che non partano da un potere d’offerta (...) ma dal riconoscimento del proprio limite e provvisorietà”. Il museo del “dono partecipativo” è il modo del museo di dichiarare il suo bisogno di collettività, la sua incompletezza, la sua esposizione ai rischi di una solitudine avara di relazione. Nelle sue esposizioni vi è piuttosto il costante confronto tra il museo come istituzione e intrapresa scientifica, da un lato, e dall’altro le “pratiche paramuseali”, come le definisce, vale a dire le forme di raccolta, memoria ed estetizzazione della vita quotidiana. Turci e Padiglione sono forse i più coerenti e lungimiranti seguaci di quello che Pietro Clemente ha chiamato il “terzo principio della museografia”, sul quale tornerò tra un istante – cercando intanto di capire un po’ meglio la relazione tra museo e dono. Il museo è certamente una istituzione. Si colloca sul piano della “cultura egemonica”; anzi, nell’ottica gramsciana cui questa espressione rimanda, il museo è un presidio cruciale dei processi egemonici, cioè della relazione culturale tra classi dominanti e subalterne. Tuttavia i musei etnografici, della memoria, della tradizione o della cultura popolare, si alimentano per lo più di un patrimonio povero e di origine subalterna; gli oggetti del lavoro contadino, le suppellettili ordinarie della vita quotidiana, la tradizione orale e i “beni immateriali” che hanno vissuto e vivono a margine della cultura scientifica e letterata. Incentrati su oggetti e pratiche “interstiziali”. Vi è infatti una continuità tra il museo etnografico e una serie di pratiche informali, “dal basso”, che investono ambiti privati, familiari o associativi: comporre un album di vecchie foto... I musei etnografici non si limitano a conservare e mostrare un “patrimonio” già riconosciuto come tale prima che il museo stesso esista: piuttosto, producono patrimonio. Trasformano oggetti privi di valore ripescati in soffitte e magazzini, gesti ordinari, saperi impliciti e fluidi, frammenti di memorie personali non strutturate, in Beni culturali formalizzati, repertoriati, schedati, istituzionalmente riconosciuti. Partecipano dunque di quella tensione che caratterizza l’intera impresa di riconoscimento del patrimonio intangibile che negli ultimi due decenni è stata promossa con grande successo dall’Unesco. I beni intangibili sono individuati all’interno di una cornice antropologica, ma si cristallizzano poi in forme di riconoscimento e legittimazione e in liste di eccellenza, secondo una logica selettiva che con il concetto antropologico di cultura è decisamente incompatibile. 57 LA DENSIFICAZIONE DELLE COSE In quella che potremmo chiamare la “modernità classica” è però lo stato il soggetto principale della densificazione. Lo stato, sia attraverso il suo potere economico che attraverso specifiche norme di legge, sottrae al mercato tutta una serie di beni che vanno a far parte del patrimonio pubblico. Ho parlato di modernità classica per intendere l’epoca d’oro degli stati-nazione, almeno fino alla seconda metà del ‘900. Negli ultimi decenni il quadro si modifica per aspetti importanti. Lo stato, pur mantenendo la sua centralità, si indebolisce a fronte dei poteri economici e politici globali e non gestisce più in regime di monopolio la memoria culturale e le pratiche di patrimonializzazione. Queste ultime si frammentano e si diffondono verso il “basso”, cioè verso strati sociali molto ampi. Il mercato e i mezzi di comunicazione di massa creano una grande potenziale arena di nuovi processi di densificazione. Gli oggetti sono comunemente sottoposti a processi di demercificazione o “singolarizzazione” che li rendono non interamente convertibili in valore astratto, e ne fissano status e significati particolari in relazione a individui, famiglie, gruppi. Kopytoff – all’idea che nelle società tradizionali come nel moderno capitalismo le cose attraversino una “carriera” che le porta più vicino o più lontano dallo status di merce e alla circolazione. Anche Kopytoff, come Weiner, vede nelle società tradizionali modalità più rigide e sacralizzate di singolarizzazione: precise norme sociali stabiliscono. Queste norme, sostenute dai sistemi di classificazione e dalla struttura sociale, definiscono spesso sfere di scambio separate, tra le quali non esiste commensurabilità di valore. Kopytoff è colpito dalla capacità del mercato di aprire sfere di valore autonome attorno ai propri stessi residui: porta come esempi le lattine di birra vuote, di scatole di fiammiferi. Sostiene anche che questa valorizzazione secondaria ha a che fare con il passaggio del tempo. Caso di quella singolarizzazione che sottrae un oggetto alla circolazione, del tutto indipendentemente dal suo valore di scambio. Anche qui è in gioco il passaggio del tempo, ma in relazione a una categoria che Kopytoff non prende in considerazione, quella di memoria. Trovo che la densificazione degli oggetti che pervade la vita quotidiana, familiare e domestica delle moderne società occidentali sia principalmente una forma di produzione di memoria culturale. MUSEO ETNOGRAFICO E SOCIETÀ CIVILE I musei sono produttori di densità o singolarità delle cose. Sono anzi i più classici strumenti attraverso cui lo stato e le istituzioni creano sfere di valore separate e protette per determinati beni, individuati sulla base di sistemi culturali egemonici. I musei etnografici hanno uno statuto particolare: cercano di costruire una medesima densificazione per “beni” che non sono affatto straordinari, ma appartengono in sé all’ambito della cultura subalterna e della banalità quotidiana. Trasformano una “cultura” nel senso antropologico del termine in patrimonio culturale. Lo fanno poggiando sulla 60 cornice di riferimento delle discipline antropologiche e folkloriche, che tuttavia sono più deboli e meno note al grande pubblico rispetto alla storia dell’arte, all’archeologia e ai più comuni campi museali. Ottenere la stessa legittimazione pubblica delle altre discipline è stato a lungo l’obiettivo principale dell’antropologia museale. Si sono avuti così musei nei quali l’impianto scientifico è stato dominante, tanto da soffocare gli oggetti stessi. Il terzo principio della museografia etnografica cerca invece di riportare al centro l’oggetto stesso, con le emozioni, le memorie, le relazioni che evoca; a questo scopo indebolisce i linguaggi disciplinari a favore di quelli specificamente museali. Ma come abbiamo visto questo tipo di museo resta fortemente autoriale, e ancor più dei precedenti ha bisogno di professionalità, tecnologie, investimenti. Da qui gli odierni problemi di sostenibilità. Il venir meno dielle risorse pubbliche a seguito della crisi economica ha dunque avuto l’effetto di evidenziare i limiti profondi del modello. I tentativi di risolvere il problema con una razionalizzazione gestionale non sembrano sufficienti, e anzi accentuano forse le contraddizioni. Da qui la proposta di recuperare il senso dei musei etnografici attraverso un ulteriore passo indietro rispetto al trinceramento istituzionale, alla logica manageriale e alla professionalizzazione, a favore di una maggiore prossimità alla società civile. Trovo che la nozione di “società civile” sia più appropriata di quella di “comunità”. Comunità è una espressione ambigua e astratta: non si sa mai bene a cosa precisamente si riferisce. È più normativa che descrittiva, e pericolosamente incline a rappresentazioni olistiche o unanimistiche del territorio. Società civile rimanda invece non a una indistinta “popolazione”, ma a gruppi e agenzie specifiche, non necessariamente rappresentative del “tutto”. Qui ci troviamo di fronte a un “altruismo” e a uno spirito di solidarietà si produce nelle reti concrete di relazioni faccia-a-faccia di cui le associazioni di “donatori” sono l’espressione organizzata. È nei rapporti concreti della società civile che si diventa “donatori”: e le pratiche di dono alimentano a loro volta quei rapporti. Non è una pratica antistituzionale: ha anzi bisogno di una stretta alleanza con lo stato. Tuttavia per funzionare deve tenersi separata dalla logica delle burocrazie e degli astratti diritti- doveri, oltre che da quella del mercato. Cosa implica questo ripiegamento partecipativo? Significa anche recuperare continuità tra le pratiche di densificazione del museo e quelle diffuse nella realtà sociale che lo circonda. Il museo etnografico ha senso se riesce a rappresentare una interfaccia tra questa memoria culturale più tattica e frammentaria e quella strategica e ufficiale promossa dalle istituzioni. Rappresentare il passato, la tradizione, l’identità locale è qualcosa che la gente fa insieme, producendo e alimentando al tempo stesso relazioni sociali. Il museo conquista una dimensione di “dono” se riesce a porsi al centro di questo processo. 61 Non intendo affatto che il museo debba semplicemente sciogliersi tra le pratiche e i discorsi di senso comune, perdendo la propria peculiarità scientifica e critica. Al contrario. Questa peculiarità tuttavia non può consistere con l’expertise tecnica che legittima l’autenticità degli oggetti esposti: né in uno specialismo allestitivo e comunicativo. Si tratta invece della capacità tutta etnografica di comprendere le dinamiche culturali con le quali ci si confronta: in particolare quelle antiche della quotidianità, verso le quali il museo si pone in una relazione contrappuntistica. A tale scopo occorre una presenza forte della ricerca dentro o a fianco del museo, e dunque un rapporto con i centri e i soggetti propulsori della ricerca. Non solo ricerca sugli oggetti o sul passato che il museo rappresenta, ma anche sulla realtà in movimento che lo circonda e con la quale è in simbiosi. CAPITOLO 9 La famiglia e il mondo delle cose VIDEOTOUR FAMIGLIARE: LO STUDIO DELLA CULTURA MATERIALE DOMESTICA Sfondo teorico della ricerca: a)  I cosiddetti “nuovi studi di cultura materiale”. Negli ultimi decenni l’interesse antropologico per la cultura materiale è fortemente mutato. I classici studi di tecnologia culturale, dominanti sia in FR che in IT fino agli anni’70-80 del ‘900, ponevano l’accento sull’analisi dei processi produttivi e delle “catene operative” tradizionali, dedicandosi prevalentemente alla documentazione del lavoro contadino e artigiano. Per quanto importante, tale approccio lasciava fuori i processi di consumo e, soprattutto, gli oggetti prodotti serialmente dall’industria – vale a dire quelli che in gran parte popolano il mondo-della-vita contemporaneo. Qualcosa di simile vale per le prospettive marxiste, così forti in quegli anni: gli oggetti del consumo di massa incorporano la logica del profitto capitalistico che li produce, e che ne determina il significato sociale. Le nuove correnti che si affermano a partire dagli anni ’80 si concentrano proprio sugli oggetti ordinari e seriali e sui processi del consumo di massa – questa volta analizzati etnograficamente e “dal basso” e non, come in passato, attraverso rarefatte decodificazioni semiologiche. Gli oggetti che popolano le case e stanno al centro della vita familiare non sono dunque soltanto i subdoli droni del capitale e del mercato: rappresentano anche la materia prima tramite cui sono plasmate e identità personali e le relazioni interne ed esterne alla famiglia. b)  L’antropologia economica. Su tali processi di demercificazione e singolarizzazione delle cose si appuntano anche i recenti interessi dell’antropologia economica. A lungo questa disciplina è stata legata a una troppo netta dicotomia tra il dono e la merce. Oggi la tendenza è piuttosto a studiare le forme di intreccio tra le due dimensioni, attraverso etnografie che mostrano la presenza di 62 esserne sopraffatti o agiti. È quel rapporto dialettico tra “l’impossibilità” del buttar via il piacere di collezionare, possedere e ordinare, che testimonia due differenti ma interrelate modalità di rapportarsi ai beni materiali. La pratica etnografica ci ha portato a confrontarci continuamente con le resistenze degli intervistati a disfarsi delle cose, con quell’atto delittuoso o in altri casi liberatorio che si contrappone alla pratica del conservare; non si tratta soltanto di far pulizia e gettar via cianfrusaglie. Sbarazzarsi di un oggetto sembra voler sire sciogliere la relazione che con esso è in atto, un rapporto intenso al punto da chiamare in causa termini come “liberare”, “liberarsi”; prova, in sostanza, delle difficoltà di affrancarsi dall’inalienabilità, da quei legami e ricordi che danno forma e senso alle cose e ai loro inseparabili proprietari. GUSTI ALTI E BASSI La mobilitazioni degli oggetti in strategie di distinzione identitarie e nella costruzione di stili ed estetiche sociali. Bourdieu afferma che queste esperienze inconsce distinguono in modo netto i ceti borghesi e quelli popolari-operai he stanno al centro della sua ricerca sui consumi nella FR del dopoguerra. In particolare, mentre la borghesia si caratterizza per una costate ricerca estetica e formale, i ceti operai mostrano uno spiccato orientamento “pratico”. Bourdieu attribuisce al gusto popolare due diverse tendenze. Da un lato, il disinteresse per gli aspetti estetici “puri”, in particolare per il formalismo e per un’“arte per l’arte” considerata futile e irrazionale. Dall’altro, l’imitazione esteriore dello stile borghese che, non padroneggiato, è interpretato attraverso “sostituti al ribasso”: “spumante al posto dello champagne”. Le due tendenze, in realtà, sembrano in parziale contraddizione l’una con l’altra. Negli arredi domestici la prima produce semplicità e pragmatismo funzionale, la seconda invece una proliferazione di addobbi e oggetti decorativi che a uno sguardo dall’alto appaiono di cattivo gusto. Ma per Bourdieu si tratta di aspetti di un medesimo atteggiamento, che deriva da un sostanziale disinteresse per l’estetica formale e affida alla pura “convenzione” anche gli “abbellimenti” e gli addobbi. Di fronte ad una dicotomia così forte tra gusto “borghese” e “popolare”. I due modelli hanno invece mostrato una forza normativa e una coerenza sintattica molto accentuata. IL “BORGHESE” E IL “POPOLARE” Visto il grande divario tra questi due casi, in termini di capitale economico, culturale e sociale, le differenze sembrano ovvie. Meno ovvio è il fatto che esse si presentino nei termini di una sintassi piuttosto precisa, che si ritrova puntualmente in molte altre delle case visitate. Sembrerebbe dunque confermata la tesi di Bourdieu. Quello che non conviene in Bourdieu è semmai la sua tendenza a caratterizzare lo “stile” popolare totalmente in negativo, come pura “assenza” di estetica e di investimento significativo nella cultura materiale domestica. Del resto, in tutta la sua opera Bourdieu si 65 dimostra ostile al riconoscimento di una qualche autonomia alla “cultura popolare”: quand’anche i soggetti subalterni rivendichino in positivo tale autonomia, essa si rivela illusoria, riflesso rovesciato dell’esclusione e della violenza simbolica cui sono soggetti. Il fatto che possano apparire convenzionali a uno sguardo “borghese” non toglie nulla alla loro “singolarizzazione” in quanto dispositivi mnemonici e indicatori di un rapporto di discendenza. Nelle case “popolari” non meno che in quelle borghesi gli oggetti si densificano a prescindere dal loro valore economico e dalle loro qualità estetiche. E tale densificazione, come quella dei beni inalienabili descritta da Weiner nelle società oceaniane, sembra riguardare soprattutto la loro capacità di fare memoria e al tempo stesso di fare famiglia: di tenere insieme sul piano simbolico e rituale legami di parentela che appaiono sempre più labili e incerti sul piano istituzionale e sempre meno rilevanti nelle routine della vita quotidiana. Lezione: 8/05/23 Tema del ritorno e tema del dono Ci sono sfumature diverse, il tema della parentela non necessariamente viene ripreso quando si parla di classici. Il dono serve a continuare una fortuna, ci sono autori che vi dedicano intere opere. Viene sempre citato il primo antropologo che ha dato i termini chiave, Marcel Mosse, una delle figure importanti dell’antropologia francese, quello sul dono è un saggio del 1925, ancora oggi citato come testo di riferimento su qualsiasi riflessione sul tema del dono. Ci troviamo dentro la del crollo delle grandi ideologie del 1989, dal sogno delle utopie socialiste, si potrebbe dedurre un’affermazione delle logiche capitaliste. La logica del dono sta, nel fatto che esso è qualcosa che si sottrae dalla logica del mercato. La prima idea che sorge è che sia qualcosa che viene ricevuto e ceduto non rispetto ad un valore o contro una somma di denaro o altro. Quando c’è un dono ci si aspetta che ci sia un doppio dono, esso viene contraccambiato. Ci sono delle situazione in cui il ‘dono’ è d’obbligo. Secondo Dei, il dono non è un oggetto della riflessione antropologica, Mosse parla dell’invenzione di dono come oggetto. Fa quello che non fa nessuno, compara le cultura europee con quelle extraeuropee. La comparazione che lui fa è di tipo selettivo. Il ‘kula’: rito di scambio di doni. È una sorta di rituale in cui vengono donati anche oggetti di prima necessità, quindi, scambio rituale basato sul dono, con richiamo affettivo. Tra i nativi americani era così radicato al punto che verrà messo fuorilegge. 66 ‘Lo Hau’: spirito della cosa donata, viene chiamato così in Sud Oceania, è lo spirito che ha l’oggetto che mi viene donato e che io devo riportare a casa. La categoria del dono è residuale, in quanto non è ancora dotato di una sua categoria a sé stante. Qui c’è il momento chiave di un qualsiasi momento antropologico, il residuale è qualcosa che non sappiamo bene dove collocare, un oggetto che in questo caso fa parte di pezzi e pratiche di cultura che non sappiamo come collocare. Mosse, invece, le mette insieme sotto un’unica categoria alla luce di un mosaico che ha la sua logica. Passaggio ulteriore di Gorbù rispetto a Mosse, rinunciando a queste dimensione interpersonali, l’individuo ci ha guadagnato in forme di democratizzazione e di assistenza. Si è perso questo rapporto con le persone interpersonale, ma mediamente l’individuo occidentale gode di alcune cose che fino a secoli fa non aveva. Viene garantita la democrazia, l’assistenza sanitaria, sappiamo che appena si esce dall’Europa ci si accorge di cosa significa ‘stato democratico’ in cui tutti i diritti sono garantiti. Interstizi: l’antropologia coglie spesso delle pratiche che hanno una natura interstiziale, pratiche sociali che spontaneamente occupano buchi. All’interno di essi possiamo individuare, nei casi in cui la cosa è più strutturata come in un’azienda o fabbrica, delle situazioni interstiziali occupati dalle pratiche di cultura popolare ( festeggiamenti non riconosciuti come il giorno del patrono), vediamo la cultura popolare che riemerge in contesti o spazi dove non l’avremmo pensata. Si tratta di ricostruire la pensabilità del popolare all’interno della cultura di massa. Questi approcci dell’antropologia e dei cultural studies, ci fanno vedere la cultura popolare in situazioni in cui deve riaffermarsi all’interno della cultura di massa. Interstizio, è scatto tra la situazione ufficiali e i soggetti reali che effettivamente vivono queste situazioni. Il terzo autore da divulgare in merito a questo, Michael De Secteau, contrappone i termini ‘strategie’ e ‘tattiche’. Queste forme di cultura popolare sono ‘tattiche’ perché si evolvono e si adattano in base al contesto in cui si trovano. Lezione 11/05/23 Capitolo 8 Circolazione degli oggetti e logica di mercato 67
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