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Riassunto completo libro "Neuropsichiatria infantile" di R. Militerni, Sintesi del corso di Neuropsichiatria infantile

Riassunto completo del libro "Neuropsichiatria infantile" di R. Militerni. All'interno del documento troverete il riassunto di tutti i capitoli componenti il manuale di testo per lo studio ai fini dell'esame.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 10/03/2019

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Scarica Riassunto completo libro "Neuropsichiatria infantile" di R. Militerni e più Sintesi del corso in PDF di Neuropsichiatria infantile solo su Docsity! CAPITOLO 1 IL PROCESSO DIAGNOSTICO ASPETTI GENERALI Se da un lato è necessario definire le caratteristiche del disturbo al fine di inquadrarlo dal punto di vista nosografico, è nello stesso tempo indispensabile definire il profilo di sviluppo del bambino, attraverso la conoscenza dei suoi comportamenti, delle sue modalità reattive, del suo livello prestazionali generale, delle sue capacità adattive e del contesto ambientale in cui è cresciuto e in cui attualmente vive. In altri termini, il processo diagnostico in età evolutiva assume connotazioni del tutto peculiari, in quanto è finalizzato non solo ad attribuire significato clinico ai sintomi soggettivi e/o obiettivi che bambino porta in osservazione, ma deve prevedere anche una diagnosi di sviluppo, realizzabile attraverso la conoscenza del bambino e dei suoi comportamenti anche al di fuori del contesto osservativo. Per tale motivo, il processo diagnostico in età evolutiva viene anche definito come “presa in carico”, in quanto è costituito da un complesso di interventi finalizzati a conoscere e capire il bambino e il suo disturbo. In particolare, il processo prevede la: - conoscenza del disturbo per il quale il bambino è stato condotto ad osservazione. Si tratta in pratica di definire il tipo, le caratteristiche, la frequenza e l’intensità del disturbo; - conoscenza del bambino portatore del disturbo. Bisogna, in altre parole, cercare di valutare come funziona il bambino nel suo complesso, con riferimento alle aree motoria, cognitiva, linguistica ed affettivo-relazionale; - conoscenza del significato del disturbo nell’economia generale del funzionamento del bambino; - conoscenza delle relazioni che il bambino stabilisce con le figure del suo ambiente significativo; - conoscenza dei genitori, in termini di atteggiamenti affettivo-pedagogici in genere adottati, e, più in particolare, modalità di percepire e comportarsi nei confronti del disturbo in esame. Questo processo di conoscenza deve inoltre tener conto di alcune caratteristiche intrinsecamente connesse al processo maturativo del sistema nervoso in via di sviluppo e, quindi, alle peculiarità della fase evolutiva nel momento in cui l’osservazione viene effettuata. Fra le peculiarità legate alla maturazione e allo sviluppo vanno in particolare considerate: a) La variabilità: si riferisce ai cambiamenti che un un segno neurologico o un comportamento atipico possono subire nel corso del tempo. Ciò comporta diverse eventualità: - segni neurologici o comportamenti atipici, che ad una prima osservazione sembrano riconducibili ad un generico ritardo maturativo, possono successivamente arricchirsi di altri segni e sintomi che definiscono una precisa categoria nosografica; - segni neurologici o comportamenti atipici, che ad una prima osservazione sembrano configurare un serio problema di sviluppo, posso successivamente “risolversi”, dimostrando di essere stati espressione di una generica difficoltà di adattamento; - segni neurologici o comportamenti atipici, che ad una prima osservazione sembrano indirizzare verso una determinata categoria nosografica, possono successivamente mostrarsi sottesi da processi patologici completamente diversi da quelli inizialmente ipotizzati ed andare a inquadrarsi in un’altra categoria fotografica; - all’interno di una stessa categoria nosografica, il quadro clinico può assumere caratteristiche diverse. b) Gli adattamenti evolutivi: la crescita di un individuo, sia in termini somatici che neurologici e psicologici, è un processo complesso che si realizza attraverso la maturazione e l’integrazione di una serie di funzioni. Molto spesso i ritmi di maturazione di queste diverse funzioni sono asincroni E possono tradursi in disarmonie o crisi evolutive legate a particolari fasi dello sviluppo. si vengono, pertanto, a configurare sul piano clinico segni neurologici o comportamenti atipici, che per definizione sono transitori e privi di significato nosografico. Si considerino, ad esempio: - una serie di segni neurologici “lievi” del primo anno di vita, quali il segno di Babinski legato alla fisiologica immaturità del sistema piramidale, lievi forme di strabismo; - particolari paure in periodi in cui le richieste dell’ambiente sono fisiologicamente maggiori delle capacità di metabolizzazione del bambino; - episodi di disfluenza verbale in bambini di 2-3 anni che non hanno acquisito ancora una completa padronanza della meccanica fono-articolatoria; - la ritualizzazione di alcune attività quotidiane, quali il mangiare, l’igiene personale, l’attaccamento a particolari oggetti; - lievi difficoltà nell’appropriarsi e nell’automatizzare i processi di letto-scrittura con l’ingresso nella scuola elementare. c) La scarsa collaborazione del “paziente”: il bambino, infatti, non ha coscienza di malattia e, peraltro, non ha quella passività e disponibilità che dovrebbero consentire di adattarsi a situazioni e richieste di cui non comprende il significato. Si tratta di una variabile che ha un peso tanto maggiore quanto più piccolo è il bambino e che per alcune patologie rappresenta un fattore fortemente limitante la definizione diagnostica. d) La complessità dei fattori concorrenti: esistono, cioè, svariati eventi interni ed esterni a soggetto, che intervengono nel determinare il disturbo e nel condizionare la sua espressività clinica, sia in termini quantitativi (numero di fattori in causa), che qualitativi (tipo di interazione fra i diversi fattori). In relazione ai fattori appena esposti, può verificarsi in età evolutiva l’opportunità di ricorrere ad una “diagnosi di lavoro”: una diagnosi, cioè, interlocutoria che prevede l’avvio di un processo da fare insieme ai genitori per valutare nel tempo l’evoluzione dei sintomi presentati dal bambino. Le fasi fondamentali del processo diagnostico sono rappresentate da: 1) l’anamnesi; 2) l'esame neurologico; 3) l'esame psichico; 4) le indagini strumentali e di laboratorio, scelte in rapporto alle indicazioni che emergono dalle fasi precedenti. L’anamnesi, come è noto, rappresenta un momento fondamentale in qualsiasi disciplina medica. In neuropsichiatria infantile, essa permette di raccogliere notizie relative a: - la famiglia, in termini di consanguineità e/o presenza fra discendenti e collaterali di particolari condizioni patologiche; - il livello socio-culturale, per valutare i modelli di accudimento e gli atteggiamenti nei confronti dell’infanzia, propri del gruppo cui la famiglia appartiene; - le dinamiche familiari, quali si possono desumere attraverso l’eventuale presenza di litigi, separazioni, divorzi, incoerenze pedagogiche; - il decorso della gravidanza, con particolare riferimento a situazioni, quali infezioni, traumi, intossicazioni, malnutrizione; - l’eventuale presenza di eventi stressanti con potenziale significato patogeno; - la presenza di eventuali malattie o eventi morbosi degni di nota; - l’evoluzione dello sviluppo. Per tradurre in maniera descrittiva questo diverso tipo di conoscenze (conoscenza del funzionamento del bambino, conoscenza delle sue attività e grado di partecipazione all’ambiente, conoscenza dell’ambiente) l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato uno specifico sistema di classificazione comunemente conosciuto come Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health – Child and Youth version, ICF-CY). L’ICF-CY prevede diverse “componenti”, rappresentate da: 1) Funzioni e Disabilità; 2) Fattori Contestuali. Ciascuna componente, a sua volta, consiste di vari “domini”: - funzioni (f), - strutture corporee (s), - attività e partecipazione (d), - fattori ambientali (e). Ciascun dominio infine prende in considerazione una vasta gamma di categorie specifiche, tale da ricoprire tutte le possibili eventualità che possono riscontrarsi in una valutazione esaustiva di un soggetto. Una disponibilità così ampia di categoria permette quindi di poter individuare un “codice” per tutte le variabili ritenute utili per descrivere il soggetto, il suo funzionamento e le caratteristiche del suo contesto di vita. Gli aspetti negativi rilevabili nell' ambito delle Funzioni e delle Strutture Corporee rappresentano le “menomazioni”, mentre gli aspetti negativi rilevabili nell' ambito della Attività e della Partecipazione, vengono rispettivamente definiti come “limitazioni” e “restrizioni”. Il sistema ICF prevede, infine, un qualificatore. Si tratta di un indicatore numerico, variabile da 0 a 4, inserito alla fine della categoria individuata, che traduce il grado di menomazione e/o di limitazione e/o di restrizione. Anche l’ICF-CY utilizza il sistema dei codici alfanumerici. Per quel che riguarda la componente Fattori Ambientali, i fattori ritenuti significativi possono avere effetti positivi, nel qual caso vengono indicati come “facilitatori”, o possono avere effetti negativi e vengono indicati come “barriere/ostacoli”. Anche in questo caso è previsto un qualificatore che traduce l’effetto facilitante o ostacolante del fattore considerato. CAPITOLO 2 L’ESAME NEUROLOGICO DEL NEONATO ASPETTI INTRODUTTIVI L’esame neurologico è un esame finalizzato a valutare l’integrità delle strutture anatomiche del sistema nervoso e la loro organizzazione funzionale. In età evolutiva esso deve tener conto delle complesse modifiche strutturali e funzionali che si verificano in accordo al processo di maturazione e di sviluppo. Per quanto riguarda il neonato, ad esempio, è ben nota la grande variabilità delle risposte ottenibili non solo da un giorno all’altro o da un’ora all’altra, ma addirittura in diversi momenti nel corso di una stessa osservazione. Questa variabilità, che fondamentalmente è l’espressione di un’immaturità del sistema nervoso, è in rapporto ad una serie di fattori che incidono sullo stato di vigilanza, sulla reattività e quindi sulla “qualità” delle risposte. L’esame neurologico va naturalmente preceduto da un’attenta raccolta anamnestica, finalizzata a valutare l’anamnesi familiare e, in particolare, il decorso della gravidanza. La raccolta anamnestica richiede che venga presa visione delle indagini che la gestante ha effettuato nel corso della gravidanza, quali ecografie o esami ematici di routine e specialistici. È necessario inoltre prendere visione della cartella clinica per documentarsi sulla dinamica del travaglio e del parto e sulle condizioni del neonato nell’immediato post-partum. Molto utilizzato nella pratica è l’indice di APGAR che prevede 5 funzioni critiche, rappresentate dall’attività cardiaca, dall’attività respiratoria, dal tono muscolare, dalla reattività e dal colorito. A ciascuna funzione va attribuito un punteggio, variabile da 0 a 2, secondo le indicazioni fornite nello schema sottostante. La somma dei singoli punteggi fornisce l’indice di APGAR. L’indice di APGAR viene abitualmente valutato a un 1 e a 5 minuti dalla nascita; ma in casi più particolari può essere valutato in momenti successivi. Due ulteriori aspetti vanno attentamente valutati: l’età gestazionale e il peso alla nascita. L’età gestazionale si riferisce al numero di settimane che intercorrono fra la nascita e la data dell’ultimo ciclo mestruale. In rapporto all’età gestazionale, il neonato viene definito pretermine, a termine o post-termine. In particolare: - pretermine se l’età gestazionale è inferiore alla 37ª settimana di gestazione; - a termine se l’età gestazionale è compresa fra la 38ª e la 41ª settimana di gestazione; - post-termine se l’età gestazionale è superiore alla 42ª settimana di gestazione. Il peso alla nascita viene abitualmente espresso in grammi. Un peso alla nascita inferiore ai 2500 gr. indica una condizione definita come basso peso alla nascita. Per una esatta interpretazione del peso va tenuta in debita considerazione l’età gestazionale. Il rapporto fra età gestazionale e peso alla nascita fornisce un indice dello stato della crescita intrauterina. In base a tale rapporto si vengono a definire tre possibilità: 1) neonati di peso adeguato all’età gestazionale, con un peso cioè che oscilla fra il 10º e il 90º percentile; 2) neonati di peso basso per l’età gestazionale, quando il peso è inferiore al 10º percentile; 3) neonati di peso in eccesso per l’età gestazionale, quando il peso è superiore al 90º percentile. È caratteristica del neonato un’estrema variabilità dello stato di vigilanza, più semplicemente definito “stato”, che può passare molto rapidamente da una condizione di veglia tranquilla, al pianto e viceversa. Queste diverse condizioni incidono in maniera determinante sulle prestazioni neuromotorie e comportamentali. L'esperienza acquisita ha dimostrato che ciascuna prova riconosce uno stato per così dire ottimale, durante il quale si ottiene la risposta migliore. È stata pertanto avvertita l’esigenza di codifica dei vari “stati” del neonato e di fare ad essi riferimento nella valutazione della qualità delle risposte. La classificazione prevalentemente adottata è quella proposta da Prechtl e Beintema, i quali distinguono i seguenti stati: - stato 1: occhi chiusi, respiro regolare, nessun movimento; - stato 2: occhi chiusi, respiro irregolare, nessun movimento; - stato 3: occhi aperti, nessun grossolano movimento; - stato 4: occhi aperti, movimenti grossolani, non pianto; - stato 5: occhi aperti o chiusi, pianto. Nell’effettuazione dell’esame, pertanto, bisogna tenere sotto controllo tutti i fattori che sono in grado di interferire sulla qualità delle risposte attraverso la modificazione dello stato. È necessaria, in altri termini, un’accurata standardizzazione: a) delle condizioni ambientali in cui viene eseguito l’esame; b) della sequenza delle prove che si vanno ad effettuare; c) delle modalità di esecuzione delle stesse. L’esame neurologico va effettuato possibilmente due ore dopo il pasto, in un ambiente silenzioso, ben illuminato, ad una temperatura ambientale di circa 25°, con un adeguato stato di umidificazione. È infine necessario assicurarsi, nella valutazione di alcuni riflessi e/o del tono muscolare, che il capo del neonato sia allineato al tronco. La posizione del capo infatti influenza in maniera significativa la distribuzione del tono nei due emilati. ASPETTI DESCRITTIVI Dopo queste necessarie premesse metodologiche, si può passare agli aspetti più propriamente descrittivi, individuando gli elementi clinici che caratterizzano l’esame neurologico in questa particolare fase e che lo differenziano da quello del bambino più grande. Tali elementi sono riconducibili a quattro aree, rappresentate da: a) i riflessi arcaici; b) il tono muscolare; c) la reattività; d) le competenze senso-percettive. Il riflesso di piazzamento - Descrizione: anche definito riflesso dello scalino, il riflesso di piazzamento consiste in un movimento di disimpegno del piede quando venga stimolata la sua superficie dorsale. - Modalità di esecuzione: il neonato viene posto in posizione eretta, sostenendolo per le ascelle. Viene quindi portata la superficie dorsale del piede a contatto con il bordo di un tavolo. Tale contatto determina il sollevamento del piede mediante la flessione dell’anca e del ginocchio. Il piede così sollevato viene portato in avanti e quindi poggiato sulla superficie del tavolo. A tale fase segue infine l’estensione dell’arto inferiore (“piazzamento” o “raddrizzamento”). - Significato adattivo: la capacità di disimpegno del piede e la successiva capacità di appoggio fanno ipotizzare l’importanza del riflesso negli adattamenti del feto all’ambiente uterino. L’importanza di tale reazione risulta critica nella dinamica del parto: quando, infatti, il feto in utero con il capo impegnato, la contrazione del fondo uterino, sollecitando i piedi, innesca la reazione estensoria, che a sua volta si traduce in una spinta attiva da parte del feto e nell’assunzione di una postura che si adatta alla fuoriuscita dal canale del parto. - Codifica delle risposte: il giudizio clinico riconosce le seguenti possibilità: 1) riflesso normale; 2) riflesso vivace: l’automatismo parte con un contatto leggerissimo del piede con il bordo del tavolo e tutta la sequenza è molto rapida; 3) riflesso debole: è presente un lungo tempo di latenza; i movimenti sono lenti; lo schema non è sempre completo; 4) riflesso assente; 5) riflesso asimmetrico: l’arto di un emilato ha un comportamento significativamente differente da quello del controlaterale. Il riflesso di suzione - Descrizione: il riflesso di soluzione consiste in una serie di movimenti ritmici della muscolatura orale, tipici del succhiare. - Modalità di esecuzione: la stimolazione viene effettuata con una tettarella introdotta nella bocca. - Significato adaattivo: il significato del riflesso è immediato: esso infatti permette al neonato, da subito, di poter effettuare la funzione della nutrizione. - Codifica delle risposte: il giudizio clinico riconosce le seguenti possibilità: 1) riflesso normale; 2) riflesso vivace: i movimenti di suzione sono molto energici; 3) riflesso debole: i movimenti sono fiacchi, per cui la suzione risulta ipovalida; 4) riflesso assente. Il riflesso dei punti cardinali - Descrizione: il riflesso di punti cardinali, definito anche riflesso di ricerca, consiste in un movimento di rotazione del capo in risposta ad una stimolazione della cute periorale. In particolare, stimolando l’angolo DX della bocca, il capo ruota verso DX, stimolando l’angolo SX della bocca, il capo ruota verso SX, e cosi via. A questi quattro “punti” mi viene aggiunto un quinto, rappresentato dalla superficie mediana di entrambe le labbra: la stimolazione di tale zona determina la protrusione di entrambe le labbra. - Modalità di esecuzione: la stimolazione viene effettuata con una tettarella o con il dito ed è rappresentata da un lieve sfregamento o da un leggero picchettamento portato nei vari punti della superficie periorale del neonato. - Significato adattivo: il riflesso dei punti cardinali, insieme al riflesso di suzione, è una componente di un comportamento altamente adattivo: vale a dire il comportamento alimentare. È sufficiente, infatti, che il capezzolo materno o la tettarella del biberon sfiorino la bocca del neonato per far si che esso si orienti verso la fonte del cibo. - Codifica delle risposte: il giudizio clinico riconosce le seguenti possibilità: 1) riflesso normale; 2) riflesso vivace: il riflesso parte anche in seguito ad un leggerissimo sfioramento della cute periorale; 3) riflesso debole: è presente un lungo tempo di latenza; i movimenti sono lenti; 4) riflesso assente; 5) riflesso asimmetrico: la risposta alla stimolazione dei diversi punti è differente. I riflessi di fuga - Descrizione: consistono nella comparsa di movimenti di retrazione o di allontanamento di parti del corpo su cui venga applicato uno stimolo nocicettivo o “fastidioso”. In tale categoria rientrano fondamentalmente due riflessi: a) il riflesso di incurvamento del tronco, quando lo stimolo è applicato in sede perivertebrale; b) il riflesso di triplice flessione dell’arto inferiore, quando lo stimolo è applicato alla pianta del piede. - Modalità di esecuzione: il riflesso di incurvamento del tronco viene effettuato tenendo il neonato in sospensione ventrale o anche in decubito prono. Viene quindi stimolata con una punta smussa o con il dito la superficie perivertebrale. Il riflesso di triplice flessione dell’arto inferiore viene abitualmente provocato utilizzando una punta smussa con la quale viene effettuata una pressione o uno sfregamento abbastanza energico sulla superficie plantare di un piede del neonato. La risposta può avere diversi gradi di intensità. Essa infatti può: a) limitarsi alla sola retrazione dell’alluce (il che simula un segno di Babinski); b) estendersi alla retrazione del piede (flessione del piede); c) interessare tutto l’arto inferiore (flessione del ginocchio e dell’anca); d) coinvolgere l’arto inferiore controlaterale. - Significato adattivo: i riflessi di fuga rientrano in un’ampia gamma di riflessi che rappresentano reazioni di difesa contro stimoli nocicettivi o “fastidiosi”. Di particolare interesse è il riflesso di triplice flessione che con le sue diverse espressioni rientra in quella che viene definita “reazione di massa”. - Codifica delle risposte: il giudizio clinico riconosce le seguenti possibilità: 1) riflesso normale; 2) riflesso vivace: il riflesso parte anche in seguito ad un leggerissimo sfioramento della cute e, per quel che riguarda il riflesso di triplice flessione dell’arto inferiore, si estende in maniera massiva; 3) riflesso debole: è presente un lungo tempo di latenza; i movimenti sono lenti e, per quel che riguarda il riflesso di triplice flessione dell’arto inferiore, la risposta si limita alla flessione del piede stimolato; 4) riflesso assente; 5) riflesso asimmetrico: l’arto di un emilato ha un comportamento significativamente differente da quello controlaterale. Il riflesso tonico asimmetrico del collo - Descrizione: consiste nella comparsa di uno schema posturale molto caratteristico in risposta alla rotazione del capo. In particolare, l’arto facciale viene esteso, mentre quello nucale viene flesso, determinando così un tipico atteggiamento “a schermitore”, la posizione del capo influenza comunque la distribuzione del tono a carico dei due emilati. - Modalità di esecuzione: a neonato in decubito supino viene votato il capo da un lato e viene osservato il comportamento dei due emilati. - Significato adattivo: il riflesso tonico asimmetrico del collo, insieme al riflesso tonico simmetrico del collo e ai riflessi tonico-labirintici, rientrano in una categoria di reazioni automatiche, sottocorticali, che svolgono un ruolo critico nel controllo della postura. Anche se è presente già alla nascita, tale riflesso, unitamente a quelli menzionati, comincia a svolgere il suo ruolo solo in epoche successive dello sviluppo. - Codifica delle risposte: il giudizio clinico riconosce le seguenti possibilità: 1) riflesso normale: presente, ma incostante e comunque non obbligato, nel senso che l’atteggiamento “a schermitore” non è rigido e stereotipato; 2) riflesso vivace: il riflesso è costante e l’atteggiamento “a schermitore” è molto caratteristico, rigido e stereotipato; 3) riflesso debole: è presente un lungo tempo di latenza e l’atteggiamento “a schermitore” è incompleto o solo momentaneamente accennato; 4) riflesso assente; 5) riflesso asimmetrico: l’arto di un emilato ha un comportamento significativamente differente da quello controlaterale. B) IL TONO MUSCOLARE Nella valutazione del tono risulta particolarmente importante lo “stato” del neonato: la valutazione dovrebbe, infatti, avvenire in uno stato 3-4. Indicazioni sul tono muscolare derivano innanzitutto dalla semplice “ispezione”, osservando, cioè, la postura del neonato: - in condizioni normali prevale un atteggiamento flessorio ai 4 arti; - in situazioni di ipotonia gli atteggiamenti posturali sono condizionati dalla forza di gravità; - in situazioni di ipertonia gli atteggiamenti sono atipici e variabili in rapporto alla prevalenza della componente flessoria o di quella estensoria. Oltre all’ispezione, il tono muscolare si valuta mobilizzando passivamente i vari segmenti corporei. Si fa inoltre riferimento ad alcune manovre, che sono in grado di fornire risposte “quantificabili”. Fra le manovre utilizzate per la valutazione del tono rientrano: 1) Manovra della sciarpa: consiste nel portare una mano del neonato verso la spalla controlaterale. Si valuta quindi la posizione del gomito rispetto la linea medio-sternale. 2) Valutazione dell’angolo degli adduttori: è l’angolo con vertice a livello della sinfisi pubica, che viene a determinarsi abducendo gli arti inferiori tenuti in estensione. 3) Valutazione dell’angolo popliteo: è l’angolo che si forma estendendo la gamba sulla coscia, con vertice nel cavo popliteo. 4) Valutazione dell’angolo di dorsiflessione del piede: si ottiene flettendo dorsalmente il piede. Ciò non di meno, anche nell’ambito della percezione visiva, sono state messe in evidenza interessanti abilità. In effetti, già il riflesso pupillare alla luce, indica che il neonato è sensibile alla luce. Se la stimolazione luminosa è particolarmente intensa ed improvvisa, il neonato non si limita a restringere la pupilla, ma serra gli occhi, dimostrando in questo modo di apprezzare differenti intensità luminose. Il neonato è anche in grado di fissare e di “inseguire” con lo sguardo. Ma la più sorprendente abilità percettiva risulta quella espressa dalla capacità di imitazione delle espressioni facciali. ELEMENTI DI SEMEIOTICA Un’esperienza ormai decennale ha permesso di dimostrare che un singolo reperto abnorme, quando si inscrive in un quadro neurologico per il resto normale, riveste scarsa importanza. L’assenza, ad esempio, del riflesso della marcia automatica in un neonato, nel quale appaiono normali la reattività, il tono e tutti gli altri riflessi, non può costituire motivo di particolare allarme. Molto più significativa appare, invece, la presenza contemporanea di due o più segni o sintomi. Peraltro, quando ciò avviene, si verifica che i sintomi riscontrati si associano in maniera caratteristica, così da configurare dei complessi sindromici. Fra le sindromi neonatali vanno generalmente incluse: - la sindrome da ipereccitabilità; - la sindrome ipertonica; - la sindrome apatica; - la sindrome ipotonica; - l’emisindrome; - la sindrome convulsiva. A) LA SINDROME DA IPERECCITABILITÀ La sindrome da ipereccitabilità appare caratterizzata da aumento della reattività: lo stato prevalente è il 4-5; lo stato di massima agitazione viene facilmente raggiunto; la consolabilità è molto scarsa. La motilità spontanea è particolarmente vivace. Costante è la presenza di clonie spontanee e provocate, rilevabili a carico della mandibola, degli arti superiori o, soprattutto, a carico di quelli inferiori. La soglia dei vari riflessi arcaici è molto bassa e la risposta molto vivace. La sindrome da ipereccitabilità si trova abitualmente associata alla sindrome ipertonica, in cui l’elemento caratterizzante è rappresentato da un aumento generalizzato del tono muscolare, rilevabile attraverso l’atteggiamento, la mobilizzazione passiva e le manovre dinanzi accennate. La sindrome da ipereccitabilità, con o senza segni di ipertonia, risulta di solito legata a situazioni di lieve sofferenza encefalica, nell’ambito di una sindrome post-asfittica, ovvero a disturbi metabolici, quali ipoglicemia, ipocalcemia, ipomagnesiemia. Essa può inoltre essere ritrovata in neonati da madre diabetica o da madre ipotiroidea. Numerosi indagini longitudinali hanno permesso di riconoscere alla sindrome da ipereccitabilità ed ipertonica una prognosi benigna, per una abituale transitorietà, con assenza di esiti a distanza. B) LA SINDROME APATICA Più allarmante è la sindrome apatica, che peraltro si trova abitualmente associata alla sindrome ipotonica: essa infatti rappresenta molto spesso l’espressione di una sofferenza encefalica di maggiore entità. Dal punto di vista clinico, si rileva una riduzione della reattività: il neonato appare prevalentemente nello stato 2, con fugaci passaggi nello stato 4 sono dopo intense stimolazioni e lo stato di massima agitazione non è mai raggiunto. La motilità spontanea è povera. Il tono è diffusamente ridotto. I riflessi arcaici sono deboli o assenti. Una sindrome ipotonica può poi presentarsi senza alcuna alterazione della reattività (floppy infant). Ciò comporta la necessità di un’accurata valutazione delle possibili cause: particolare attenzione andrà rivolta alle malattie neuromuscolari. C) L’EMISINDROME L’emisindrome è caratterizzata da differenze semeiologiche a carico dei due emilati: si possono rilevare asimmetrie nell’atteggiamento, nel tono, nella motilità, nei riflessi arcaici e/o in quelli profondi. In aggiunta alle asimmetrie che posso investire un intero emisoma è possibile riscontrare asimmetrie “distrettuali”. In queste situazioni particolare attenzione da rivolta a: - neuropatie periferiche di natura traumatica, quali paresi del facciale o paralisi del plesso brachiale; - situazioni di agenesia o ipoplasia dei nuclei dei nervi cranici; - patologie muscolari di natura malformativa o di natura traumatica; - asimmetrie di atteggiamento riconducibili a particolari posizioni intrauterine, quali plagiocefalia o paramorfismi a carico degli arti inferiori. D) LA SINDROME CONVULSIVA La sindrome convulsiva è caratterizzata dalla presenza di episodi parossistici, che in questo particolare periodo evolutivo assumono caratteri polimorfici. Le crisi infatti possono essere caratterizzate da clonie, contrazioni toniche, automatismi (suzione) o manifestazioni neurovegetative (cianosi). Tale polimorfismo, legato di maturità delle strutture nervose, rende la diagnosi spesso difficile in assenza di indagini fisiopatologiche mirate. La sindrome convulsiva può riconoscere svariate cause. Talvolta in periodo intercritico non si rileva alcuna anomalia neurologica: più spesso le convulsioni vengono ad iscriversi in una delle sindromi su descritte, conferendole un più grave significato prognostico. CAPITOLO 3 L’ESAME NEUROLOGICO DEL LATTANTE ASPETTI INTRODUTTIVI L’esame neurologico del primo anno di vita deve prendere in considerazione le profonde modificazioni che si verificano durante tale periodo, in termini di acquisizione di competenze posturali, motorie, cognitive. L’esame neurologico nel primo anno di vita, in altri termini, finisce per diventare un esame di sviluppo, finalizzato a valutare la regolarità del processo evolutivo sia nei suoi aspetti quantitativi che, soprattutto, qualitativi. L’esame neurologico dev’essere preceduto dalla raccolta di un’anamnesi molto accurata, relativo all’eventuale presenza di fattori cerebrolesivi pre, peri o postnatali, alle caratteristiche del ritmo sonno-veglia, alle modalità dell’accrescimento pondo-staturale. Il colloquio con i genitori non deve essere mai rigidamente direttivo, ma deve permettere la libera espressione dei problemi parentali, anche se talvolta non strettamente pertinenti all’oggetto di discussione. Particolarmente importante, per una valutazione neurologica attendibile, risulta, nei limiti del possibile, la collaborazione attiva del paziente: il bambino sotto la spinta motivazionale è in grado di fornire prestazioni altrimenti non possibili. In particolare, per quel che riguarda i primi mesi di vita, una scarsa collaborazione non è quasi mai passiva, essendo abitualmente caratterizzata da reazioni di agitazione e di pianto. In queste condizioni possono comparire reperti neurologici abnormi che, pur potendo non avere carattere patologico, possono comunque creare, nel momento in cui vengono rilevati, perplessità diagnostiche. Risulta quindi evidente l’opportunità di condurre l’esame in presenza della madre, la quale, oltre ad agire come elemento di rassicurazione, può essere attivamente coinvolta nell’effettuazione di qualche prova. ASPETTI DESCRITTIVI Se in epoca neonatale i riflessi arcaici rappresentano l’elemento caratterizzante il processo diagnostico, nel corso del primo anno di vita le modifiche che si verificano sul piano posturo- cinetico costituiscono l’aspetto più importante. Nel corso dei primi mesi di vita è possibile riconoscere l’esistenza di due processi strettamente interdipendenti. Da un lato infatti, si osserva la progressiva scomparsa delle reazioni arcaiche e della motricità ereismatica, tipica del neonato, dall’altro, parallelamente, si assiste alla graduale comparsa di competenze motorie sempre più complesse e finalizzate. PROCESSI REGRESSIVI Molti dei riflessi arcaici tendono a scomparire secondo modalità e tempi sufficientemente definiti. Il riflesso della marcia automatica scompare verso il primo mese di vita, così come la reazione globale di raddrizzamento; il riflesso di prensione palmare scompare verso i 2-3 mesi; il riflesso di Moro comincia ad attenuarsi a partire dal secondo mese di vita, ma in bambini “ipereccitabili” può durare fino al quinto mese. L’abnorme persistenza di una o più reazioni arcaiche, oltre quelle che sono considerate le epoche abituali di scomparsa, indica, nel migliore dei casi, un ritardo maturativo; altre volte, l’esistenza di una patologia lesionale che impedisce l’entrata in funzione di centri encefalici superiori. - fra i 5 e gli 8 mesi il controllo posturale si estende progressivamente dal capo al tronco e si esprime sul piano clinico con la comparsa delle reazioni paracadute. Le reazioni paracadute sono rappresentate dall’estensione protettiva degli arti, quando venga applicata una brusca sollecitazione, che minaccia l’equilibrio. Le reazioni paracadute anteriori sono le prime a comparire, potendo essere messi in evidenza verso i 5 mesi. Compaiono successivamente quelle laterali verso i 6-7 mesi ed infine quelle posteriori, verso gli 8 mesi; - a partire dagli 8 mesi, come la progressiva maturazione delle reazioni di equilibrio a livello del tronco, la posizione seduta diviene sempre più sicura e viene mantenuta stabilmente anche in situazioni di equilibrio precario. V fase – Il lattante viene verticalizzato Dalla posizione precedente, il bambino viene successivamente posto in posizione verticale. Anche in questo caso gli atteggiamenti posturali variano in rapporto all’età. In particolare: - in epoca neonatale, la verticalizzazione del bambino comporta la comparsa della reazione globale di raddrizzamento, rappresentato dall’appoggio dei piedi sul piano e da una reazione estensoria che interessa progressivamente gli arti inferiori, il tronco e la testa; - fra i 2 e i 4 mesi, la verticalizzazione mette in evidenza l’incapacità da parte del bambino di prendere appoggio sugli arti inferiori i quali si flettono sotto il peso del corpo (fase di astasia- abasia); - a partire dai 6 mesi, il bambino comincia ad appoggiare i piedi e sviluppa progressivamente la capacità di sostenere il corpo: è la reazione positiva di sostegno che risulta più o meno completa verso gli 8 mesi; - verso i 10 mesi il bambino è ormai in grado di tenere la stazione eretta. VI fase – Il lattante viene posto in sospensione ventrale Dalla posizione verticale il bambino viene posto in sospensione ventrale. In tale posizione si valuta in particolare l’atteggiamento del capo e del tronco: - in epoca neonatale il capo è cadente, il tronco presente una curvatura con convessità rivolta verso l’alto, gli arti inferiori mantengono un atteggiamento in flessione, in accordo alla fisiologica ipertonia flessoria del neonato; - verso i 4 mesi, il tronco è orizzontale ed il capo è allineato al tronco; - a partire dai 6 mesi compare l’estensione del capo e del tronco. VII fase – Il lattante viene posto in decubito prono In questa fase il bambino viene adagiato nuovamente sul lettino, in decubito prono. Nel corso dello sviluppo gli atteggiamenti rilevabili sono i seguenti: - in epoca neonatale il bambino conserva l’atteggiamento flessorio dei quattro arti. Il capo è tenuto prevalentemente poggiato sul piano e solo occasionalmente sollevato nell’ambito della comparsa di saltuari schemi tonici globali; - all’età di 3 mesi, l’atteggiamento estensorio del capo diventa prevalente, in associazione ad un analogo atteggiamento dei quattro arti; - all’età di 6 mesi infine il comportamento dei vari segmenti corporei è dissociato, sicché il bambino riesce a tenere sollevato il capo, mentre gli arti superiori sono flessi, con possibilità quindi di appoggio sui gomiti. VIII fase – Il lattante viene riportato in posizione supina Il bambino viene riportato in posizione supina. Si procede quindi all’esplorazione dei riflessi osteotendinei e dei riflessi superficiali. Si valuta infine il tono muscolare tenendo conto delle manovre esposte a proposito dell’esame neurologico del neonato (manovra della sciarpa, valutazione dell’angolo degli adduttori, valutazione dell’angolo popliteo). L’ampiezza di tali angoli varia nel corso del primo anno di vita in accordo alle fisiologiche modificazioni del tono. In particolare, verso i 9-10 mesi l’ipotonia fisiologica raggiunge la sua massima espressività, per cui: - alla manovra della sciarpa il gomito supera la linea medio-sternale; - l’angolo degli adduttori è di circa 120°-140°; - l’angolo popliteo è di circa 150°-170°. Come precedentemente accennato, l’esame neurologico del lattante si configura come un esame di sviluppo. Esso pertanto deve essere integrato con la valutazione delle altre linee evolutive: interessi, comunicazione, socializzazione. A tale scopo vengono abitualmente utilizzati dei reattivi standardizzati, o scale di valutazione dello sviluppo psicomotorio. Le scale di più frequente uso sono: - la scala di Bailey; - le scale della Griffitths. Tutte le scale menzionate prevedono per ciascuna età le tappe tipiche di quel periodo. La valutazione di un bambino, con riferimento a quello che riesce a fare, permette di ricavare la sua età di sviluppo (ES). il rapporto fra quello che sa fare e quello che dovrebbe saper fare in base all’età (età di sviluppo/età cronologica) fornisce il quoziente di sviluppo psicomotorio (QSPM). ELEMENTI DI SEMEIOTICA Per la formulazione di un giudizio clinico bisogna tener conto, da un lato, degli elementi che emergono dall’esame neuropsicomotorio e, dall’altro, di quelli relativi all’esame neurologico “classico”. Combinando insieme tali elementi possono determinarsi quattro eventualità: 1) sviluppo neuropsicomotorio in epoca con assenza di segni neurologici degni di rilievo; 2) sviluppo neuropsicomotorio in epoca con presenza di segni neurologici degni di rilievo; 3) sviluppo neuropsicomotorio in ritardo con assenza di segni neurologici degni di rilievo; 4) sviluppo neuropsicomotorio in ritardo con presenza di segni neurologici degni di rilievo. Sviluppo neuropsicologico in epoca con assenza di segni neurologici degni di rilievo Tale eventualità permette di formulare un giudizio di normalità, almeno per quel che riguarda l’osservazione attuale. Bisogna infatti, considerare che il particolare periodo evolutivo impedisce diagnosi-prognosi definitive: in una prospettiva preventiva, il lattante deve essere periodicamente controllato nell’ambito dei periodici bilanci di salute. Sviluppo neuropsicomotorio in epoca con presenza di segni neurologici degni di rilievo Questa seconda eventualità pone la necessità di definire la natura dei segni neurologici riscontrati. Essi possono riguardare anomalie di nervi cranici, disturbi del tono muscolare, asimmetrie posturali o funzionali, anomalie dei riflessi arcaici o di quelli profondi. In un elevato numero di casi, tali segni neurologici non sono attribuibili situazioni nosograficamente definite: in tali casi, in cui peraltro lo sviluppo neuromotorio sembra procedere regolarmente, viene utilizzato il termine segni neurologici lievi. Quale che sia la causa del “segno” neurologico riscontrato, essa non sembra interferire sul processo di maturazione, crescita e differenziazione delle strutture anatomiche centrali e sulla loro organizzazione funzionale. Ciò non di meno la presenza di tali segni neurologici lievi comporta l’opportunità di eseguire nel tempo il bambino e il suo sviluppo. Essi infatti possono essere i testimoni di una sofferenza encefalica anche minima. Sviluppo neuropsicomotorio in ritardo con assenza di segni neurologici degni di rilievo; Si tratta di un’eventualità che richiede sempre un’attenzione considerevole. bisogna, infatti, tener presente che la mancata acquisizione delle competenze motorie previste dall'età può rappresentare la via finale comune di una serie di quadri clinici che solo progressivamente si renderanno manifesti in tutta la loro completezza (disabilità intellettiva o malattie neuromuscolari). In tali casi risultano particolarmente utili l’anamnesi e l’esame clinico generale. Nei casi in cui si può escludere l’eventualità che il ritardo rappresenti il “sintomo” precoce di più complessi quadri clinici, si viene a definire una situazione di ritardo motorio semplice. Con tale termine viene indicata la mancata acquisizione delle competenze posturo-cinetiche previste dall’età, in assenza di altri elementi clinici che permettano di riferirlo ad un quadro clinico definito. L’aggettivo “semplice”, indicando l’assenza di altri segni di natura lesionale e/o disfunzionale, lascia prevedere un’evoluzione benigna. Di particolare interesse è la presenza, in molti di questi casi, di atteggiamenti posturali caratteristici quali il sitting in air e lo shuffling. Il riferimento appena fatto allo shuffling e in particolare alla scelta di soluzioni motorie, richiama un concetto che ha una particolare rilevanza: quello della variabilità delle strategie che un bambino può utilizzare per aggiungere una data tappa. Queste strategie alternative, che vanno considerate varianti normali, comportano il raggiungimento della tappa finale in tempi più lunghi. Si viene in questo modo a configurare un’ipotesi interpretativa del ritardo motorio di tipo evolutivo: cioè, il ritardo sarebbe la conseguenza del fatto che il bambino ha intrapreso strategie alternative meno efficienti. Sviluppo neuropsicomotorio in ritardo con presenza di segni neurologici degni di rilievo. In casi di questo genere la natura dei segni permette di definire l’inquadramento nosografico. Le anomalie del tono posturale in senso quantitativo (ipertonia) e/o qualitativo (distonie), associate ad iperreflessia osteotendinea, indirizzano verso una diagnosi di paralisi cerebrale infantile. L’ipotonia generalizzata, associata ad ipotrofia ed a iporeflessia è in genere indicativa di malattie neuromuscolari. Va, infine, considerata la possibilità di un’encefalopatia e eredo-degenerativa o metabolica. LA VALUTAZIONE DEL CRANIO Nell’ambito dell’esame neurologico del lattante uno spazio particolare va riservato alla valutazione dello sviluppo del cranio. Il cranio, adattandosi alla progressiva crescita dell’encefalo, aumenta di volume nel corso di tutta l’età evolutiva. Tale crescita tuttavia non è lineare ma presenta un ritmo variabile nelle diverse età. L’incremento della circonferenza, o perimetro, cranico infatti è massimo nel corso del primo anno di vita, per decrescere poi lentamente negli anni successivi. Questo accrescimento così rapido è reso possibile dal fatto che le ossa del cranio, alla nascita, sono separate tra loro dalle linee di sutura e dalle fontanelle, le quali costituiscono degli spazi che si chiuderanno in epoche successive. Tali spazi permettono il progressivo aumento del perimetro cranico sotto la spinta dell’encefalo. Le principali linee di sutura sono: - coronaria: fra osso frontale e ossa parietali; - lambdoidea: fra ossa parietali e osso occipitale; - sagittale: fra le due ossa parietali, sulla linea mediana; - metopica: lungo la linea mediana dell’osso frontale, la cui saldatura avviene di norma verso il 6° mese di vita intrauterina. CAPITOLO 4 L’ESAME NEUROLOGICO DEL BAMBINO ASPETTI INTRODUTTIVI A partire dal secondo anno di vita la possibilità di poter disporre di una maggiore collaborazione da parte del bambino, l’acquisizione di diverse autonomie e la minore influenza della componente evolutiva nella variabilità semeiologica, permettono di far ricorso ad una metodologia d'approccio che si avvicina molto a quella classica utilizzata per l'esame neurologico dell’adulto. In termini metodologici bisogna garantirsi la partecipazione attiva del bambino, ricorrendo alla creazione di situazioni familiari e rassicuranti, nell’ambito delle quali risulta più agevole valutare aspetti come la coordinazione motoria, la funzionalità dei nervi oculomotori, e così via. In termini semiologici, anche se il bambino è “più grande” l’attendibilità e la validità di un elemento risente comunque della variabilità maturativa. ASPETTI DESCRITTIVI ED ELEMENTI DI SEMEIOTICA Nell’effettuazione dell’esame neurologico del bambino vanno valutati i seguenti elementi: - Nervi cranici; - Stato muscolare: a) trofismo muscolare; b) forza muscolare; c) tono muscolare; - Funzione motoria: a) coordinazione; b) deambulazione; c) movimenti patologici; - Riflessi: a) superficiali; b) profondi; - Sensibilità. NERVI CRANICI L’esame dei nervi cranici risulta spesso di difficile esecuzione per la scarsa collaborazione del bambino. I NERVO CRANICO (OLFATTORIO) La valutazione dell’olfatto in genere non viene sistematicamente effettuata, in relazione alla scarsa attendibilità delle risposte. Le anomalie riscontrabili possono essere di natura quantitativa o qualitativa. Le anomalie quantitative prevedono: - anosmia: perdita della sensibilità olfattoria; - iperosmia: aumentata sensibilità agli odori. Le anomalie qualitative vengono definite parosmie (sensazioni olfattorie distorte). In esse rientra la cacosmia, intesa come percezione di odori sgradevoli. L’anosmia può riscontrarsi per lesioni dirette delle cellule bipolari a livello della zona olfattoria nasale, delle vie periferiche o delle proiezioni centrali. Tali lesioni possono essere di diversa natura: - infettiva, - tossica, - traumatica, - vascolare, - neoplastica. Anomalie dell’olfatto possono inoltre riscontrarsi nelle epilessie, come aura olfattiva o come fenomenologia di crisi parziali. La iperosmia e più ancora la parosmia risultano molto spesso di origine psichica, inquadrandosi nell’ambito di disturbi psicopatologici di diversa natura. Nei disturbi dello spettro autistico si scontrano frequentemente comportamenti atipici in qualche modo riferibili a distorsioni olfattorie. La percezione di odori in assenza di qualsiasi stimolo odorifero costituisce l’allucinazione olfattiva, riscontrabile in diversi quadri psicopatologici (schizofrenia). II NERVO CRANICO (OTTICO) Nella valutazione della funzione visiva va inizialmente rivolta l’attenzione all’eventuale presenza di movimenti oculari anormali a riposo. Successivamente, si valuta la capacità del bambino di fissare un oggetto, di seguirlo nei vari piani dello spazio e di ricercarlo. Particolare importanza assume il riflesso pupillare alla luce. Tale riflesso alla luce viene abitualmente distinto in diretto e consensuale: inviando un fascio di luce su un occhio, oltre alla costrizione della pupilla dell’occhio omolaterale (risposta diretta) si ha anche la costrizione della pupilla dell’occhio controlaterale (risposta consensuale). Alterazioni dell’acuità visiva Sono compromissioni della capacità visiva che possono arrivare alla partita completa (amaurosi). Essa può essere legata a lesioni che riguardano l’occhio, il nervo ottico o le strutture encefaliche preposte all’elaborazione dello stimolo visivo (cecità centrale). Disturbi del campo visivo Gli scotomi possono essere definiti come una lacuna o zona cieca nel campo visivo. Si distinguono: - scotomi positivi, quando la mancanza di una zona del campo visivo è avvertita come una macchia più o meno scura, di grandezza e forma variabile; - scotomi negativi, quando manca tale sensazione soggettiva. Possono ancora essere suddivisi in: - scotomi assoluti, nei quali manca ogni percezione di forma, luce, colore; - scotomi relativi in cui la percezione è soltanto ridotta. L’emianopsia può essere bitemporale (quando interessa le due metà temporali del campo visivo), binasale (quando interessa le due metà nasali del campo visivo) o laterale omonima (quando interessa le stesse metà, destra o sinistra, del campo visivo). I disturbi del campo visivo assumono caratteristiche diverse in rapporto alla sede della lesione: a) Lesione della retina: perdita parcellare della visione (scotomi); abolizione del riflesso pupillare alla luce (diretto), con conservazione del consensuale stimolando l’occhio sano. b) Lesione del nervo ottico: cecità totale di un occhio; abolizione dei riflessi che partono dall’occhio cieco (diretto e consensuale); conservazione del riflesso consensuale che parte dall’occhio sano. c) Lesione del chiasma: per lesioni che riguardano la parte centrale, si ha cecità nei campi temporali di entrambi gli occhi (emianopsia bitemporale). Se è lesa la parte laterale saranno interessate le fibre del lato temporale e si avrà cecità del campo nasale dell’occhio corrispondente. I riflessi pupillari sono solitamente aboliti. d) Lesioni del tratto ottico: cecità nei campi temporale controlaterale per interessamento delle fibre nasali, e nasale omolaterale per interessamento delle fibre temporali (emianopsia laterale omonima). La visione maculare, relativa al centro del campo visivo, è sempre rispettata in quanto le fibre maculari di ogni occhio si distribuiscono in entrambi i tratti ottici. e) Lesioni delle radiazioni ottiche: per lesioni vaste si determina una emianopsia laterale omonima, mentre per lesioni limitate si verifica una emianopsia a quadrante; i riflessi oculomotori sono conservati. Anomalie del fondo dell'occhio Fra le più tipiche vanno citate: a) Edema della papilla, papilla da stasi: è caratterizzato da un edema passivo per aumento della pressione endocranica, stasi venosa per ostacolato deflusso a livello della vena centrale della retina. La papilla è iperemica, protrusa, di colorito grigio-rossastro, a margini sfumati; i vasi assumono un andamento tortuoso e sono dilatati. L’edema della papilla è un segno indicativo di ipertensione endocranica. b) Neurite ottica: è un processo infiammatorio del nervo ottico che può essere determinato da cause numerose e diverse. Il quadro oftaloscopico è spesso simile a quello dell’edema della papilla, ma se ne differenzia per la presenza di essudati, per una maggiore compromissione dell’acuità visiva e per la presenza di uno scotoma centrale. c) Atrofia ottica: è caratterizzata da uno pallore della papilla, con vasi sottili; il riflesso pupillare alla luce è torbido o assente e la pupilla è midriatica. Viene distinta in: - primitiva, che insorge per processi morbosi che colpiscono primitivamente o direttamente il nervoso ottico; - secondaria, che segue ad una papilla da stasi o comunque ad una malattia che interessa il fondo dell’occhio. d) Alterazioni pigmentarie: la retina può essere sede di deposito di pigmenti di varia natura che rappresentano un reperto con significato talora patognomonico. III NERVO CRANICO (OCULOMOTORE), IV NERVO CRANICO (TROCLEARE) E VI NERVO CRANICO (ABDUCENTE) L’esame di tali nervi va effettuato con l’osservazione degli occhi “a riposo” e nel corso di movimenti guidati o volontari. Fra le alterazioni di maggior interesse clinico vanno ricordate: - Il segno del sole calante: esso è rappresentato da una deviazione degli occhi verso il basso e si ritrova tipicamente in caso di idrocefalo. - La sindrome di Parinaud: è rappresentata da paralisi dello sguardo verso l’alto, riscontrabile in seguito a lesioni a livello del collicolo superiore, di natura neoplastica, infiammatoria o vascolare. - Lo strabismo: indica il mancato parallelismo degli assi oculari. La deviazione può essere divergenti, convergente, verso l’alto o verso il basso e può interessare un solo occhio, entrambi o alternativamente l’uno o l’altro. - Il nistagmo: è un movimento involontario dei globi oculari. In rapporto alla direzione, il nistagmo può essere: orizzontale, verticale, rotatorio o misto. - Ipertonia muscolare: si verifica per alterazioni di natura centrale. Alcuni elementi semeiologici permettono di suddividere l’ipertonia muscolare in due grandi categorie: l’ipertonia di tipo spastico (o piramidale) e l’ipertonia di tipo rigido (o extrapiramidale). la spasticità consiste in un aumento del tono muscolare espresso da una resistenza all’allungamento. Un’altra caratteristica dell’ipertonia spastica è rappresentata dal fenomeno del coltello a serramanico: continuando da applicare una forza per difendere il muscolo, la resistenza che si determina, arrivata a un punto critico, cessa improvvisamente. La rigidità consiste anch’essa in una resistenza all’allungamento del muscolo. essa è dovuta, tuttavia, ad uno stato di iperattività che investe in maniera diffusa tutti i motoneuroni spinali, per cui ne deriva uno stato di co-contrazione. - Distonie: sono caratterizzate da una fluttuazione del tono, che passa da una condizione di normo o ipotonia ad una di ipertonia. Quando tale passaggio si verifica a carico dei muscoli posturali, si vengono a determinare atteggiamenti marcatamente atipici (spasmi di torsione). - Miotonia: è una forma di ipertermia dovuta ad un’anomalia della fase del rilassamento del muscolo; il muscolo cioè, dopo essere entrato in azione, si decontrae molto lentamente. FUNZIONE MOTORIA L’apparente semplicità di un’azione motoria deriva dal fatto che le complesse operazioni che la compongono si svolgono in maniera automatica, al di fuori del controllo cosciente. In questa prospettiva, l’automatizzazione delle sequenze motorie viene quindi vista come una forma di apprendimento: nello svolgimento di un compito motorio, il sistema nervoso centrale, elaborando il flusso delle informazioni in entrata, di tipo visivo, uditivo, tattile, propriocettivo, cinestesico, seleziona e memorizza una sequenza motoria coordinata, con le relative specificazioni spaziali e temporali, rispondente alle esigenze del contesto. Per valutare la funzione motoria vengono abitualmente considerati i seguenti aspetti: - la coordinazione motoria, - la deambulazione, - i movimenti patologici. COORDINAZIONE MOTORIA La coordinazione motoria indica la capacità di effettuare movimenti in maniera fluida, armonica e precisa. Classicamente, le alterazioni della coordinazione motoria riconducibili ad un danno organico delle strutture nervose vengono definite con il termine omnicomprensivo di atassia e sono classificate nel modo seguente: a) alterazioni della coordinazione degli aggiustamenti posturali necessari al mantenimento di una posizione stabile (atassia statica); b) alterazioni della coordinazione dei movimenti “grossolani”, quali camminare, correre, saltare, chinarsi, rialzarsi (atassia dinamica); c) alterazioni della coordinazione dei movimenti “fini”, quali afferrare o manipolare (atassia dinamica). d) dismetria, in cui l’intensità e l’ampiezza del movimento sono inadeguati in rapporto al compito da eseguire; e) adiadococinesia, in cui l’alternanza dei movimenti è inadeguata. Nei bambini più grandi e collaboranti tali alterazioni possono essere rilevate con manovre specifiche, rappresentate dalla prova indice-naso, dalla prova calcagno-ginocchio e la prova prono- supinazione delle mani. I vari disturbi della coordinazione possono essere dovuti a patologie di varia natura (malformativa, tossica, infiammatoria, neoplastica) che possono interessare: - il cervelletto, - il sistema vestibolare, - i sistemi di fibre ascendenti per la sensibilità (atassia di informazione), - strutture encefaliche preposte all’elaborazione degli stimoli sensoriali (lobi parietali) o alla pianificazione dell’atto motorio (lobi frontali e circuiti fronto-ponto-cerebellari). Nell’ambito dei disturbi della coordinazione motoria rientrano anche le disprassie evolutive. Il termine di “disprassia” viene utilizzato per indicare un gruppo eterogeneo di situazioni cliniche, il cui elemento caratterizzante è rappresentato da una motricità “goffa” ed impacciata, che incide sulla realizzazione sia delle attività grossolane che di quelle fini. Nel concetto di “disprassia” è implicita l’assenza di danni strutturali a carico dell’encefalo e del sistema nervoso periferico: la patogenesi viene ricondotta ad un disordine di sviluppo di quelle funzioni centrali implicate nella programmazione e realizzazione del movimento. La valutazione delle prassie è finalizzata ad individuare elementi utili a classificare le diverse tipologie di disordini presentati dal soggetto al fine di procedere ad un inquadramento nosografico. La valutazione prevede, in aggiunta ad un’osservazione libera del bambino mentre si muove, corre, salta, tocca, afferra e/o manipola, la somministrazione di prove standardizzate che permettono di rapportare le performance del bambino a parametri normativi riferiti alla popolazione “tipica”. Le prove consistono nell’invitare il bambino a imitare determinati movimenti o a riprodurli su richiesta verbale dell’esaminatore. Nella tabella vengono riportati alcuni esempi di movimenti da richiedere o fare imitare e che riguardano, rispettivamente: - movimenti con l’uso di oggetti di varia natura (gesti transitivi); - movimenti da effettuare senza l’uso di oggetti e che hanno un valore simbolico (gesti intransitivi con significato); - movimenti da effettuare senza l’uso di oggetti e che non hanno alcun significato (gesti intransitivi senza significato). Le risposte del soggetto a tali richieste permettono di rilevare una serie di elementi particolarmente utili a definire le sue competenze prassiche. In particolare: a) il soggetto è in grado di effettuare su richiesta o su imitazione gesti transitivi e intransitivi simbolici in maniera corretta e sufficientemente fluida. Ciò indica che il soggetto dispone di schemi di movimento già appresi e che riesce a combinarli mentalmente in programmi di movimenti; b) il soggetto pur disponendo di schemi di movimento già appresi potrebbe avere difficoltà a “richiamarli” in memoria e a organizzarli mentalmente per mandarli poi in esecuzione. Viene a configurarsi in questi casi un disordine specifico nella programmazione mentale del movimento; c) il soggetto, pur disponendo di programmi di movimenti già appresi e pur essendo capace di richiamarli e organizzarli in pre-esecuzione, potrebbe avere poi difficoltà a modulare adeguatamente le componenti posturo-cinetiche del movimento. Si tratta, in questi casi, disordini che appartengono le strutture neuro-anatomiche e neuro-funzionali preposte alla realizzazione del movimento; d) il soggetto potrebbe avere difficoltà che non riguardano le componenti strettamente “motorie” dell’azione, ma che investono prevalentemente la percezione di informazioni che riguardano l’ambiente e quindi la contestualizzazione del programma di movimento. Si configura in questi casi un disturbo a carico della componente visuo-percettivo-spaziale necessaria alla realizzazione del movimento. DEAMBULAZIONE L’esame della deambulazione rappresenta un momento fondamentale dell’esame neurologico. Si tratta di osservare il bambino mentre cammina, predisponendo eventualmente il percorso da fargli effettuare: linee sul pavimento, piccoli ostacoli, scalini. La deambulazione presenta talvolta modalità talmente caratteristiche da rivestire significato patognomonico di una serie di condizioni morbose: - Deambulazione anserina: è una forma di deambulazione caratterizzata da iperlordosi lombare e basculamento del bacino per ipostenia dei muscoli del cingolo pelvico. Essa è tipicamente presente nelle distrofie muscolari con interessamento del cingolo pelvico. - “Andatura da ubriaco”: la deambulazione è incerta e barcollante, su base allargata, con braccia in abduzione, passi aritmici e di lunghezza diversa. Essa si rileva tipicamente nelle sindromi cerebellari. - “Andatura falciante”: è una forma di deambulazione legata ad un ipertono estensorio dell’arto inferiore, il quale pertanto assume un atteggiamento in iperestensione, interessante soprattutto l’articolazione tibio-tarsica. Ne deriva che l’arto inferiore paretico risulta funzionalmente più lungo, per cui viene fatto avanzare con un movimento di circonduzione verso l’esterno. - “Andatura diplegica”: si tratta di un termine che non viene abitualmente utilizzato in letteratura. Esso sta ad indicare una forma particolare di deambulazione che interesse i soggetti affetti da diplagia spastica, che riescono a raggiungere un’autonomia deambulatoria. In queste situazioni l’ipertono estensorio della tibio-tarsica (che caratterizza l’andatura a forbice) è compensato da una flessione del ginocchio e dell’anca. - “Andatura con steppage”: è caratteristica delle neuropatie periferiche; per l’ipostenia muscolare distale, il piede è cadente, per cui, nel tentativo di evitare lo strisciamento della punta al suolo, l’arto inferiore viene esageratamente sollevato. MOVIMENTI PATOLOGICI Nel corso dell’esame neurologico deve essere rivolta particolare attenzione all’eventuale presenza di movimenti patologici. Fra essi sono inclusi: 1) Tremori: sono movimenti ritmici, rapidi, che possono interessare diversi distretti corporei. Essi possono verificarsi “a riposo” o nel corso dell’esecuzione di un movimento (tremori intenzionali). I tremori sono in genere dovuti a lesioni dei nuclei della base o del cervelletto. - il modo in cui reagisce alla presenza dell’altro, che può essere caratterizzato dalla completa indifferenza o da un’eccessiva diffidenza o da una buona disponibilità; - il modo in cui risponde alle richieste dell’esaminatore, che può variare da una sollecita disponibilità ad interagire, ad un’aderenza passiva o al completo rifiuto. Una seduta di osservazione si configura come una situazione in cui il bambino è comunque messo in condizione di agire ed interagire liberamente, ma in cui le variabili esterne sono controllate attraverso una sorta di standardizzazione. Tale standardizzazione, in pratica, si traduce in un’organizzazione predefinita dello spazio in cui deve svolgersi l’esame, del materiale messo a disposizione del bambino e delle sequenze con cui devono essere proposte le attività. Il ruolo dell’osservazione nel contesto dell’esame varia in rapporto all’età del soggetto e al tipo di problema. L’attività esplorativa e il gioco vengono generalmente considerati come fenomeni simili se non identici, il che sembra si basi sul fatto che entrambi hanno in comune basi motivazionali simili (motivazione intrinseca). Il comportamento esplorativo consiste in un esame relativamente stereotipato motorio-percettivo di un oggetto, di una situazione o di un evento la cui funzione è ridurre l’incertezza soggettiva (cioè acquisire informazione). L’incertezza soggettiva nasce come uno stato motivazionale dal confronto con oggetti, persone, luoghi e/o eventi che in qualche modo sono diversi rispetto alla passata esperienza del soggetto. Ne deriva che gli attributi di uno stimolo in grado di determinare il comportamento esplorativo sono la novità. Il gioco, al contrario dell’esplorazione, non è prevalentemente associato con l’acquisizione di informazione circa il contesto dello stimolo; il comportamento è appropriata allo stimolo ma non dominato da esso. Ne derivano comportamenti e sequenze comportamentali che sono intrinsecamente motivate, ma che appaiono apparentemente compiuti “per sé stessi” e condotti con relativo rilassamento ed attivazione emotiva di tonalità positiva. IL GIOCO Il gioco è in grado di offrire all’esaminatore una serie di conoscenze in merito a diversi aspetti, quali: - l’attitudine del bambino a rapportarsi ai giochi e le modalità con cui li usa; - la capacità di organizzare il gioco, che indica la maturazione affettiva del bambino ed il tipo di funzionamento mentale; - la tematica del gioco per il suo alto significato proiettivo; - la verbalizzazione che accompagna il gioco; - l’abilità psicomotoria; - la tolleranza alle frustrazioni, che si può rilevare al momento di interrompere il gioco. Nel complesso, il gioco rappresenta una modalità privilegiata per valutare il livello di sviluppo del bambino, per conoscere le caratteristiche del suo pensiero e, soprattutto, per accedere al suo mondo interno. Due aspetti vanno, in particolare, sottolineati: 1) il gioco come strumento per conoscere il livello di sviluppo; 2) il gioco come strumento per capire le dinamiche relative al mondo interno del bambino. Il gioco come strumento per conoscere il livello di sviluppo Il gioco traduce livello di sviluppo cognitivo raggiunto dal bambino, nella misura in cui, anche per il gioco, è possibile individuare un’evoluzione sequenziale, per tappe. Fino all’età di 7-8 mesi il rapporto con l'oggetto, si limita ad un gioco “manipolativo” mediante il quale il lattante peraltro estrae i dati rilevanti dallo stimolo, in termini di caratteristiche fisiche e connotazioni emozionali ad esso connesse. A partire dagli 8 mesi comincia di impegnarsi giochi pre-simbolici, nell’ambito dei quali il bambino si diverte ad agire sull’oggetto. All’età di 10 mesi fa la sua comparsa il “gioco funzionale” legata all’acquisita capacità del bambino di riconoscere l’oggetto secondo l’uso. Già verso i 10 mesi, infatti, il bambino fa finta di bere da una tazza vuota o di mangiare con un cucchiaio una pappa inesistente. Si tratta di un tipo di gioco che viene definito funzionale, in quanto l’oggetto è riconosciuto nel suo uso ed è utilizzato per gioco come tale. È solo a partire dai 2 anni, grazie alla comparsa della funzione rappresentativa, che nel gioco di finzione gli oggetti adoperati rappresentano cose completamente diverse. Verso i 4-5 anni compare il gioco socio-drammatico, nell’ambito del quale il bambino comincia ad interpretare delle parti o ad assumere ruoli definiti. Aldilà degli aspetti emozionali e relazionali rilevabili nell’ambito di questo tipo di giochi, essi testimoniano la raggiunta capacità del bambino di capire i ruoli sociali, le regole che caratterizzano i rapporti interpersonali, e di pensare con la testa degli altri. Sempre in relazione alle conquiste cognitive, a partire dai 7 anni il bambino comincia ad impegnarsi in giochi che hanno regole ben precise: il calcio, i birilli ed altri giochi simili. Il gioco come strumento per capire dinamiche relative al mondo interno del bambino Il gioco viene considerato l’equivalente delle libere associazioni dell’adulto, in quanto esso costituisce un mezzo di espressione fondamentale e congeniale al bambino. L’indagine può essere condotta o osservando il bambino che gioca liberamente con giocattoli vari oppure fornendogli del materiale prestabilito. Nel contesto diagnostico, l'osservazione delle modalità attraverso le quali il bambino si muove coi giocattoli, l'analisi delle sequenze ludiche e dell'organizzazione del mondo rappresentativo, può fornire indicazioni valide sull'organizzazione psichica ed in particolare su eventuali nuclei conflittuali, sulla struttura dell’Io e sui meccanismi di difesa. L’interpretazione è naturalmente psicodinamica, anche se la valutazione del significato del gioco non dovrebbe mai prescindere dall’analisi del contesto relazionale in cui esso si svolge. Un aspetto particolarmente importante è l’atteggiamento che deve assumere l’osservatore nell’ambito dell’osservazione. Abitualmente è prevista la partecipazione dell’esaminatore; una partecipazione intesa con un atteggiamento propositivo teso ad incoraggiare l’azione e l’interpretazione del bambino. Si tratta tuttavia di una partecipazione che non è mai invadente né direttiva. Bisogna, infatti, tener presente che quanto più l'osservazione è apparentemente libera, in un contesto relazionale rassicurante, tanto maggiori saranno le possibilità espressive del soggetto e, quindi, gli elementi che si riescono a cogliere. In ambito psicoanalitico, tuttavia, il ruolo dell’osservatore è concepito in maniera differente. La tecnica dell’osservazione in campo psicoanalitico è molto semplice: l’osservatore è presente nella situazione osservata, ma a differenza di quanto avviene nell’abituale contesto clinico, egli non interviene attivamente nell’azione o nella verbalizzazione. Il rapporto osservatore-osservato è un rapporto che, lungi dall’essere neutrale ed oggettivo, è sotteso da una valenza affettiva particolare. La posizione dell’osservatore implica infatti risonanza affettive, spesso molto intense, e la frequente messa in atto di un processo di identificazione con il soggetto osservato, il quale, d’altra parte, verrà a sua volta inevitabilmente condizionato dalla presenza dell’osservatore. IL COLLOQUIO Il colloquio viene comunemente considerato la tecnica clinica per eccellenza, in quanto comporta un rapporto diretto ed individualizzato con il bambino e il suo mondo interno. Di particolare importanza è la preparazione del bambino all’esame da parte della famiglia, nonché le modalità con le quali egli viene accolto dall’esaminatore e l’ambiente nel quale si deve svolgere la valutazione. Per quel che riguarda in particolare l’ambiente, esso deve essere accogliente e dotato di materiale necessario a facilitare l’espressione verbale e fisica del bambino. Pur rispettando la libertà di espressione del bambino, è sempre interessante affrontare alcune delle seguenti tematiche: - motivi della consultazione, per acquisire elementi in merito al livello di conoscenza del bambino sui problemi relativi; - natura delle attività ludiche e degli interessi; - tipo di rapporto con i coetanei; - progetti per il futuro; - qualità delle relazioni all’interno della famiglia; - modalità di partecipazione all’attività scolastica; - caratteristiche delle fantasticherie delle esperienze spiacevoli; - consapevolezza sociale. È necessario in ogni caso evitare atteggiamenti direttivi, in quanto essi possono facilitare situazioni di aderenza passiva alle richieste o per contro mobilitare comportamenti oppositivi e a volte francamente aggressivi. Il colloquio, nel concedere ampio spazio ad una relazione con il bambino più intima ed intensa, mobilità vissuti emozionali sia da parte dell’esaminato che dell’esaminatore. Di qui la necessità, da parte dell’esaminatore stesso, di analizzare la natura dei che gli prova nei confronti del bambino e di comprenderne le motivazioni. Oltre al colloquio con il bambino anche il colloquio con i genitori assume un’importanza fondamentale. Esso, infatti, permette di valutare l’atteggiamento affettivo di ciascun genitore in rapporto al bambino e, soprattutto, relativamente al posto che il bambino occupa nella relazione di coppia. In accordo a tale scopo è sempre opportuno esaminare i genitori insieme per meglio osservare l’interazione affettiva dei vissuti e delle eventuali problematiche. GLI STRUMENTI DI VALUTAZIONE Gli strumenti di valutazione sono rappresentati da una serie di procedure che vengono abitualmente utilizzate ad integrazione dell’esame neuropsichiatrico infantile. Essi si differenziano in base alle modalità di somministrazione e alle finalità che si propongono. Modalità di somministrazione Per quel che riguarda le modalità di somministrazione, possono essere individuate le seguenti tipologie: - questionari; - interviste semi-strutturate; - osservazioni strutturate, con procedure standardizzate. I questionari sono elenchi di domande che, in rapporto alla finalità, possono riguardare il comportamento generale del soggetto, determinati aspetti del suo funzionamento e/o particolari modalità relative a situazioni ambientali. La modalità di compilazione è quella dell’autosomministrazione. La siglatura può essere binaria o espressa su scala ordinale da 3 a 10 punti. Le interviste semi-strutturate prevedono una serie di domande-chiave che vengono poste al soggetto, o più spesso ai genitori, in forma colloquiale, per lasciare ampio spazio all’intervistato di esprimersi liberamente. L’oggetto delle domande varia in rapporto alla finalità che l’intervista si propone: può riguardare il comportamento di tipo generale, le autonomie, determinate abilità, stili di interazione sociale o particolari manifestazioni disattive. Come per i questionari, la siglatura delle risposte alle domande-chiave può essere binaria o ordinale, ma le modalità con cui vengono poste le domande accresce l’attendibilità e la validità delle risposte. - Dai 3-4 anni in poi, diventando gli elementi grafici più organizzati, ha inizio la fase propriamente figurativa, nella quale i disegni strutturati rappresentano oggetti corrispondenti a specifiche e già elaborati immagini mentali. - Prima dei 5 anni sono scarse le differenze tra le forme grafiche dei maschi e delle femmine; successivamente soprattutto le influenze culturali determinano la scelta di soggetti diversi. Il disegno come reattivo proiettivo A partire dai 5-6 anni l’attività grafica assume un’esplicita finalità narrativa e rappresentativa in quanto la motivazione cosciente, che spinge il bambino a disegnare, è data dal desiderio di raccontare e comunicare le esperienze vissute. In relazione a ciò, il disegno si pone anche come reattivo proiettivo. Sia la forma grafica che il contenuto possono infatti rivelare il mondo interno del bambino e taluni tratti della personalità in formazione. Gli aspetti formali (tipo di linea, intensità del tratto, uso dello spazio grafico, scelta dei colori) hanno già di per sé una forte carica espressiva: per esempio, l’aggressività si può manifestare con segni diretti verso l’alto, linee appuntite, colori caldi; l’insicurezza con chiaroscuro e colori tenui. Anche il contenuto riveste grande importanza sia nel disegno libero che nella rappresentazione a tema indicato. Tra i disegni a contenuto indicato, il disegno della figura umana e il disegno della famiglia rivestono una particolare importanza nell’esame del bambino, al punto da essere utilizzati quali specifici strumenti diagnostici. Disegno della figura umana L’evoluzione del disegno della figura umana è generalmente costante anche in bambini provenienti da ambienti culturali diversi. La prima rappresentazione grafica, verso i 3 anni, è molto schematica ed essenziale: un cerchio è la testa da cui si dipartono dei tratti che sono le braccia e le gambe (omino-testone). Successivamente (4-5 anni) si osserva un aumento progressivo dei dettagli: compaiono gli occhi, quindi la bocca ed il naso e la rappresentazione si arricchisce ulteriormente con l’aggiunta del tronco e di elementi di vestiario, fino a diventare completa intorno ai 10 anni circa. Il disegno della figura umana può fornire utili indicazioni sullo sviluppo intellettivo del bambino e, in considerazione di ciò, alcuni autori lo utilizzano come test intellettivo assegnando un punto ad ogni dettaglio del corpo o del vestiario disegnato. La figura umana disegnata rappresenta l’immagine che il bambino ha di sé stesso o del proprio corpo e, di conseguenza, può fornire anche utili indicazioni sulle proprie caratteristiche di personalità. Partendo da queste considerazioni venne proposta un’utilizzazione proiettiva del disegno della figura umana. Il metodo di somministrazione consiste nel far disegnare al bambino due personaggi, il secondo di sesso opposto al primo. L’interpretazione tiene conto degli aspetti formali (dimensione, proporzione, atteggiamento), grafologici (tratto, linea, ombreggiature) e di contenuto (significato simbolico delle parti del corpo). La testa rappresenterebbe il potere intellettuale ed insieme la capacità di relazioni affettive; le braccia, le mani e le gambe sono gli strumenti principali di esplorazione e di contatto con l’ambiente esterno. In linea generale si può dire che quanto più la figura si presenta armoniosa nel suo insieme, tanto più è probabile che il bambino sia ben adattato. Viceversa, omissioni, sproporzioni tra le parti o dimensioni particolari, possono indicare la presenza di conflitti. Disegno della famiglia Il disegno della famiglia è di valido ausilio per esplorare come il bambino si colloca all’interno del nucleo familiare o come vive i suoi rapporti con i genitori e con i fratelli. L’interpretazione può venir fatta prendendo in considerazione sia i fattori grafico-formali che il contenuto. L’analisi del contenuto, più feconda sul piano proiettivo, si articola tenendo conto di tre principali aspetti: 1) Disposizione e composizione globale della famiglia, che fornisce indicazioni sul modo in cui il soggetto vive i rapporti tra i membri in base alla posizione di vicinanza o di lontananza secondo cui li disegna o all’eliminazione di qualche componente del nucleo per problemi conflittuali. 2) Posto in cui soggetto stesso si colloca in relazione agli altri, che è indicativo delle modalità con cui il bambino vive il suo adattamento al nucleo familiare. La stretta vicinanza ad entrambi genitori o ad uno dei due esprime generalmente dipendenza e bisogno di protezione. Una relazione a distanza è invece, nella generalità dei casi, segno di rapporti difficili. L’autoeliminazione può essere indicativa di autosvalutazione, sentimenti di esclusione o di isolamento. In taluni casi, inoltre, il soggetto è assente, ma viene sostituito da un personaggio aggiunto con il quale si identifica. 3) Grado di enfatizzazione dei componenti della famiglia. Il personaggio valorizzato rappresenta il membro a cui il soggetto è più legato sul piano l’affettivo e con il quale tende ad identificarsi. Viene quasi sempre disegnato per primo, di dimensioni maggiori rispetto agli altri, più curato ed armonico nei dettagli. Il personaggio svalorizzato è disegnato per ultimo, di dimensioni minori, collocato talvolta in disparte o con un numero ridotto di dettagli; rappresenta generalmente il membro verso il quale il bambino nutre ostilità o rifiuto. La svalorizzazione può anche essere espressa attraverso la cancellatura o con l’eliminazione totale del personaggio. CAPITOLO 6 PSICOPATOLOGIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA ASPETTI INTRODUTTIVI La psicopatologia dello sviluppo studia le disorganizzazioni delle funzioni emergenti di natura affettivo-relazionale, sistematizzandole in termini descrittivi ed analizzandole in termini di vissuti da parte del paziente. In questa prospettiva, le informazioni ricavate attraverso l’esame psichico realizzato con l’osservazione, il gioco, il disegno, il colloquio e/o gli strumenti di valutazione, sono finalizzate a chiarire tre aspetti fondamentali del percorso di maturazione e crescita psicologica della persona: 1) se le funzioni emergenti di natura affettivo-relazionale si stanno organizzando in maniera regolare o se per contro stanno mettendo in evidenza chiari segni di deviazioni dalla loro abituale traiettoria evolutiva; 2) nel caso che le funzioni emergenti stiano mostrando evidenti segni di deviazione, quali sono le circostanze interne e/o esterne che possono essere alla base di tali deviazioni; 3) come si può intervenire sulla riorganizzazione adattiva di funzioni emergenti di natura affettivo-relazionale che mostrino segni di deviazioni. LE FUNZIONI EMERGENTI DI NATURA AFFETTIVO-RELAZIONE E E LE MODIFICHE EVOLUTIVE Si tratta di una serie di dimensioni che interessano la persona. Queste diverse dimensioni determinano e caratterizzano quel modo unico, originale e “personale” che ciascuna persona mette in atto nell’agire e nell’interagire nel gruppo sociale di appartenenza. Una caratteristica comune a queste diverse dimensioni è il loro modo di evolvere, modificarsi ed arricchirsi progressivamente nel corso dello sviluppo. Le funzioni che devono essere tenute in debita considerazione sono essenzialmente rappresentate da: a) la reciprocità sociale, b) la sicurezza, c) il controllo degli impulsi, d) l’autostima. A) LA RECIPROCITÀ SOCIALE La reciprocità sociale si riferisce ad una naturale tendenza ad entrare in uno scambio di emozioni, affetti e/o conoscenze con una o più figure del gruppo sociale di appartenenza, utilizzando un sistema di codici, regole e comportamenti condivisi. Questa naturale tendenza è presente fin dalla nascita e si configura come un bisogno primario non inferito dalle esperienze, né condizionato o dettato da altri tipi di bisogni. L’universalità di tale spinta sociativa, induce a ritenerla l’attività funzionale di un sistema neurobiologico, che viene a strutturarsi in rapporto ad informazioni genetiche inscritte nel patrimonio della specie. La spinta sociativa che fin dalle primissime fasi dello sviluppo porta l’individuo ad agire e interagire con l’altro, viene indicata con diversi termini, quali empatia non inferenziale o intersoggettività primaria. Con le aperture sociali collegabili all’inizio della scuola primaria, il ragazzo allarga i suoi orizzonti e individua nuovi modelli di identificazione con adulti ed estranei alla sua famiglia. Con l’adolescenza la dimensione della sicurezza va incontro a forti attacchi. In tale contesto emozionale e relazionale la ricerca di punti a cui aggrapparsi per aumentare la sicurezza porta l’adolescente a rivolgersi al gruppo dei pari, vale a dire persone che sente che stanno provando i suoi stessi turbamenti. Nell’ambito del gruppo il ragazzo trova una sorta di Io ausiliario che lo sostiene nei confronti delle fisiologiche incertezze legate alla ricerca di una dimensione personale e sociale. Quale che sia la fase evolutiva, quando i modelli di riferimento risultano inadeguati sul piano qualitativo, o assenti sul piano quantitativo, lo sviluppo del senso di sicurezza risulta ad alto rischio evolutivo. In questa prospettiva, la sicurezza assume tutti caratteri di una funzione emergente di natura affettivo-relazionale che può andare incontro a disordini neuroevolutivi. Tali disordini, sul piano comportamentale, si traducono in sintomi psicopatologici ad espressività variabile in rapporto all’età, al livello di sviluppo e alla presenza di disordini che interessano le altre funzioni emergenti. C) IL CONTROLLO DEGLI IMPULSI La denominazione di “controllo degli impulsi” viene utilizzata per esprimere concetti apparentemente differenti, ma sostanzialmente riferibile ad una stessa capacità: la capacità del soggetto di modulare il proprio comportamento, ricorrendo a modalità reattive aderenti alle esigenze definite dal contesto. In accordo ad una prospettiva comportamentista, il controllo degli impulsi si riferisce al self-control, vale a dire alla capacità di rinunciare ad una ricompensa immediata in previsione di una ricompensa “ritardata”, ma più gratificante. In questa prospettiva il controllo degli impulsi è il prodotto di un apprendimento che si realizza in accordo alle teorie associazioniste. Le scienze cognitive fanno rientrare il controllo degli impulsi nei più generali processi di controllo centrale preposti all’elaborazione dell’informazione. Tali processi riguardano le modalità con cui il sistema nervoso centrale pianifica il flusso, lo smistamento e l’analisi dei dati, ottimizzando le prestazioni del sistema. Tali processi “controllano” anche le risposte che tenderebbero ad essere attivate in automatico (inibizione) e “regolano”, dall’alto, l’esecuzione dell’atto comportamentale monitorando le informazioni provenienti dal contesto. La denominazione “controllo degli impulsi” rimanda anche ad aspetti che rientrano nell’area della ricerca psicologica, volta ad approfondire dinamiche, tensioni e conflitti appartenenti al mondo interno. Già Freud nel teorizzare il passaggio dal principio del piacere al principio di realtà aveva fatto esplicito riferimento allo sviluppo di una capacità di controllare il proprio comportamento. In questa prospettiva, la regolazione affettiva nasce dalle precoci esperienze di sintonizzazione e rispecchiamento emotivo nell’ambito degli scambi diadici e rappresenta una componente oltremodo importante nei processi di mentalizzazione del Sé, dell’altro, del Sé con l’altro. Sulla base delle considerazioni appena esposte, il controllo degli impulsi, quale che sia la prospettiva interpretativa utilizzata, si configura come una modalità caratteristica di un individuo di essere e di reagire negli abituali contesti di vita. Questa modalità reattiva, tuttavia, presenta sensibili modifiche nel corso dello sviluppo in rapporto all’interazione dinamica fra fattori neurobiologici (maturazione di strutture encefaliche, fra cui in particolare i lobi frontali) e fattori ambientali (esperienze relazionali e apprendimento). In questa prospettiva, il controllo degli impulsi assume tutti caratteri di una funzione emergente di natura affettivo-relazionale che può andare incontro a disordini neuroevolutivi. Tali disordini, sul piano comportamentale, si traducono in sintomi psicopatologici ad espressività variabile in rapporto all’età, al livello di sviluppo e alla presenza di disordini che interessano le altre funzioni emergenti. D) L’AUTOSTIMA Nella progressiva acquisizione della conoscenza di sé, come persona, il bambino passa attraverso una lunga serie di fasi. Da un’iniziale fase neonatale, in cui viene a verificarsi una sorta di stato di “indifferenziazione”, il bambino accede attraverso una serie di tappe alla conoscenza del corpo, prima, e alla conoscenza del proprio corpo successivamente. Con l’autoriconoscimento, che si verifica verso i 2 anni, si realizza una tappa fondamentale nell’evoluzione dell’identità personale. Con l’entrata nel gruppo, il bambino comincia progressivamente a confrontarsi con i coetanei, ricevendo ed elaborando una serie di dati relativi a sé stesso: le sue caratteristiche fisiche, le sue competenze motorie, le sue abilità prestazionali. In questa prospettiva, l'altro, e più generale dell'intero contesto ambientale con il suo carico esperienziale, si pone come parametro di riferimento che permette al bambino, da un lato, di “scoprire” le proprie abilità e le caratteristiche di sé stesso come persona e, dall’altro, di “misurarle”. Tali conquiste possono facilmente essere apprezzate quando il bambino comincia all’età di 5 anni ad essere in grado di dare una descrizione di sé. A partire dai 7 anni, la descrizione che il bambino fornisce di sé stesso è molto più articolata e completa. Egli non si limita più a descrivere i propri attributi fisici o alcuni aspetti del proprio comportamento, ma comincia a fornire dettagli relativi alle proprie qualità interiori. È una capacità che si arricchisce progressivamente e che gli permette di delineare, all’età di circa 11 anni, un ritratto di Sé di tipo psicologico. Va tuttavia considerato che questa in fascia di età (7-11 anni), anche se i bambini ricorrono con sempre maggiori dettagli a definizione psicologiche per descrivere sé stessi, essi tendono ad applicarle in modo assoluto, considerando questi attributi come stabili ed immutevoli. Un altro aspetto che caratterizza la descrizione di sé in questo periodo, è che essa è di tipo comparativo. È solo con l’adolescenza che il soggetto arriva ad una completa coscienza di sé, ragionando in termini “astratti”. Compare, cioè, la capacità di riflessione sul proprio aspetto fisico, sui tratti temperamentali e sugli stati emotivi che caratterizzano il suo modo di essere e di rapportarsi alla realtà circostante. In questo percorso di progressiva individuazione di Sé come persona, si inserisce un aspetto di particolare importanza: l’autostima. L’autostima può essere definita come la valutazione delle qualità che l’individuo percepisce come proprie. Si tratta, cioè, di un giudizio qualitativo che ciascuno formula su sé stesso, sulle proprie capacità cognitive, sulle proprie abilità motorie, sulle proprie qualità sociali. L’adolescenza, così come per le altre funzioni emergenti considerate, comporta anche per l’autostima compiti di sviluppo particolarmente impegnativi. L'adolescente, infatti, alla ricerca di una sua identità personale sociale deve costantemente confrontarsi con sé stesso e con gli altri. Si tratta di una valutazione che non è sempre obiettiva in quanto condizionata da fattori legati alla sicurezza, alla qualità delle relazioni sociali e alla capacità di un'adeguata gestione degli impulsi; fattori che possono funzionare con una sorta di lente deformante sia in senso positivo che in senso negativo. Ne deriva che lo sviluppo dell’autostima, o meglio il grado dell’autostima, è un carattere dinamico che varia nel tempo. Quale che sia la fase evolutiva considerata, quando le circostanze interne ed esterne al soggetto gravano sulla possibilità di sereni giudizi auto valutativi, lo sviluppo dell’autostima risulta ad alto rischio evolutivo. In questa prospettiva, l’autostima assume tutti caratteri di una funzione emergente di natura affettivo-relazionale che può andare incontro a disordini neuroevolutivi. Tali disordini, sul piano comportamentale, si traducono in sintomi psicopatologici ad espressività variabile in rapporto all’età, al livello di sviluppo e alla presenza di disordini che interessano le altre funzioni emergenti. ASPETTI DESCRITTIVI Un aspetto particolarmente importante ai fini di un’interpretazione inerente a valutare le funzioni emergenti, riguarda i compiti dello sviluppo, vale a dire quei periodi in cui lo sviluppo pone alla persona in crescita delle richieste particolarmente pressanti che come tali rappresentano delle vere e proprie sfide alla regolare evoluzione delle funzioni “emergenti” di natura affettivo-relazionale. In questa prospettiva risulta determinante prendere in considerazione separatamente tre periodi: 1) il bambino in età prescolare (fascia di età compresa al’incirca fra 0 e 5 anni); 2) il bambino in età scolare (fascia di età compresa all’incirca fa 6 e 12 anni); 3) l’adolescente. ELEMENTI DI PSICOPATOLOGIA RELATIVI AL BAMBINO IN ETÀ PRESCOLARE Si tratta della fascia di età in cui le difficoltà di un definito inquadramento nosografico risultano particolarmente accentuate. Vengono di seguito riportati alcuni dei segni che possono essere riscontrati con maggiore frequenza della comune pratica clinica. IRREGOLARITÀ DEL RITMO SONNO-VEGLIA Sono abitualmente rappresentate da difficoltà nell’addormentamento, da frequenti risvegli notturni o da una riduzione complessiva della quantità del sonno. Nell’interpretazione di tale dato vanno tenute in considerazione diverse possibilità. Le irregolarità del ritmo sonno-veglia possono essere dovute a: - condizioni mediche generali; - disturbi precoci della regolazione nell’ ambito di quadri neuropsichiatrici più complessi che solo progressivamente si renderanno chiaramente manifesti; - disturbi delle relazioni di attaccamento per instabilità dell’ambiente significativo; - ansia; - quadri depressivi ad insorgenza precoce. Quando vengono escluse situazioni di questo genere va valutata la possibilità che tali irregolarità possano rientrare in un disordine “maturativo” dell’organizzazione dei ritmi del sonno. Nell’ambito delle irregolarità del ritmo sonno-veglia vanno inclusi anche disturbi in eccesso: l’ipersonnia. Sempre nell’ambito dell’irregolarità del ritmo sonno-veglia vanno considerate le parasonnie, che includono: - il pavor nocturnus, rappresentato da episodi di terrore che si manifestano nel sonno non REM, con agitazione e fenomeni neurovegetativi (sudorazione). Al risveglio il bambino non ricorda nulla; - l’incubo notturno, caratterizzato da risvegli improvvisi, durante i quali il bambino diventa completamente vigile, ricordando il sogno che lo ha turbato; - il sonnambulismo, costituito da comportamenti psicomotori complessi che si verificano mentre il bambino continua a dormire; - il sonniloquio, che letteralmente significa “parlare nel sonno”; - il bruxismo, caratterizzato da un automatismo motorio consistente nel digrignamento dei denti. ELEMENTI DI PSICOPATOLOGIA RELATIVI AL BAMBINO IN ETÀ SCOLARE In questa fascia di età possono fare la loro comparsa “nuovi” sintomi che vanno a sommarsi a quelli precedentemente esposti. Un aspetto particolarmente importante per i sintomi di questa fascia di età è valutare i contesti in cui essi si presentano. In particolare, possono essere considerati: il contesto osservativo, il contesto familiare, il contesto scolastico, il contesto del tempo libero. In effetti, solo quando il sintomo in esame è presente in più contesti esso può essere considerato un tratto caratterizzante il profilo emotivo-comportamentale del bambino. DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO Si tratta di un sintomo che esprime l’incapacità da parte del bambino di fornire prestazioni scolastiche rispondenti a quelle che l’età e la classe frequentata farebbero prevedere. Le cause possono essere molteplici: la difficoltà di apprendimento, cioè, possono presentarsi come sintomo in sindromi complesse. Va tuttavia considerato che in numero relativamente elevato di casi il quadro di base presenta una scarsa espressività clinica, per cui le difficoltà di apprendimento assumono l’aspetto di carattere dominante e primario. In tali situazioni vanno comunque prese in considerazione le seguenti condizioni: - Disturbi neuropsicologici complessi: si tratta di un gruppo alquanto eterogeneo di disturbi che riguardano i processi di elaborazione dello stimolo da parte dell’encefalo. I processi in causa sono quelli che permettono ai dati percettivi di essere appresi e sistematizzati in nuovi schemi di conoscenza (apprendimento); - Disabilità intellettiva di grado lieve; - Disturbi d’ansia: occorre considerare la possibilità che l’ansia non sia primaria, ma secondaria alle ridotte capacità di apprendimento, che mobilizzano pertanto situazioni di disagio; - Disturbi dell’umore: anche in tali situazioni va considerata la possibilità che le dinamiche depressive, associate a vissuti di inadeguatezza e bassi livelli di autostima, non siano primarie, ma secondarie ad un primitivo disturbo dell’apprendimento; - Disturbo dello spettro autistico; - Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (DDAI); - Deficit sensoriali; - Carenze socio-culturali, che possono impedire al bambino di adeguarsi ai modelli e agli stili di comportamento propri del gruppo in cui viene ad essere inserito. In una prospettiva dimensionale, la sicurezza e l’autostima sono aspetti che vanno attentamente valutati. Ciò, in quanto essi possono interferire con l’apprendimento, e possono essere seriamente minacciati da un disturbo dell’apprendimento. DIFFICOLTÀ DI SOCIALIZZAZIONE Le difficoltà di socializzazione esprimono l’incapacità da parte del bambino di stabilire un’adeguata relazione con l’altro. Esse possono manifestarsi con: - Inibizione: il bambino presenta una mimica poco vivace ed una postura “stabile”; non aderisce alle consegne o lo fa in maniera passiva; non prende l’iniziativa nello scambio; si limita a rispondere alle domande che gli vengono poste; presenta un linguaggio coartato e povero sul piano narrativo: - Disinibizione: il bambino presenta elevati livelli di attività motoria; familiarizza in maniera eccessiva con l’esaminatore; è particolarmente curioso, diventando pertanto facilmente distraibile; risponde alle domande che gli vengono poste arricchendo il discorso di elementi poco aderenti al contesto; prende l’iniziativa dello scambio verbale rivolgendo continue domande all’esaminatore, senza interessarsi eccessivamente delle risposte. In entrambi i casi, al di là degli aspetti comportamentali è la qualità della relazione che ne viene a risentire, impedendo il normale fluire degli scambi interpersonali. Le difficoltà di socializzazione si ritrovano tipicamente nei disturbi dello spettro autistico e ne rappresentano un sintomo patognomonico. Al di là di tali quadri, esse possono essere ritrovate in varie altre situazioni. In caso di un bambino inibito, con difficoltà di socializzazione, vanno tenute in considerazione le seguenti possibilità: - Fobia sociale; - Disturbi dell’umore di qualità depressiva; - Mutismo selettivo; - Disturbo oppositivo-provocatorio; - Carenze socio-culturali. Nei casi in cui non ricorrono le situazioni sopraccennate, va comunque approfondito il profilo di sviluppo del soggetto per valutare le funzioni affettivo-relazionali emergenti, quali la sicurezza, l’immagine di Sé o i livelli di autostima. In caso di un bambino disinibito, con difficoltà di socializzazione, vanno tenute in considerazione le seguenti possibilità: - Disturbi dell’umore di tipo maniacale; - Disturbi della condotta; - Disturbi da deficit di attenzione con iperattività. Anche in tali casi va comunque previsto un approfondimento psicodiagnostico per una migliore definizione del profilo di sviluppo del soggetto, con particolare riferimento le funzioni affettivo- relazionali emergenti. CONDOTTE REGRESSIVE Si riferiscono alla comparsa o meglio alla ricomparsa di comportamenti propri di epoche precedenti: succhiasi il pollice, piangere per futili motivi, perdere il controllo sintetico notturno. Tali sintomi traducono un disagio del bambino, che tuttavia è spesso transitorio, in quanto legato alla particolare fase di crescita (crisi evolutiva dei 7-9 anni). In questa fascia di età si verifica infatti una “fisiologica” disarmonia fra varie linee evolutive. È evidente che l’espressività di tali manifestazioni dipende da una serie di fattori che vanno attentamente valutati e trattati (sicurezza, immagine di Sé, livello di autostima, capacità di controllo degli impulsi). Le condotte regressive vanno differenziate da tutta una serie di manifestazioni regressive che possono rappresentare sintomi di esordio di alcuni quadri patologici quali: - Disturbi dello spettro autistico; - Schizofrenia ad esordio molto precoce; - Processi espansivi endocranici. In effetti, in tali casi, i problemi diagnostici si vengono a creare solo quando i quadri citati presentano un esordio molto subdolo o francamente atipico. PAURE Strettamente connesse con le condotte regressive sono le “paure”. I genitori cioè notano e riportano la comparsa nel bambino di paure, talvolta limitata a situazioni, oggetti o eventi specifici; più spesso estese e caratterizzanti uno stato di costante “tensione”. Le paure rappresentano l’aspetto caratterizzante le fobie, specifiche e sociale; ma possono ritrovarsi anche in altre situazioni, quali: - Disturbo d’ansia generalizzato e di separazione; - Disturbo post-traumatico da stress; - Disturbi dello spettro autistico; - Disturbi dell’umore. Va, tuttavia, tenuto in considerazione che le “paure” possono ritrovarsi in varie altre situazioni collegate con la dimensione della sicurezza e dell’autostima. Le “paure” possono, infine, esprimere: - bisogni regressivi (bisogno, cioè, di ritornare a livelli di funzionamento propri di epoche precedenti, quando le fisiologiche pressioni dell’ambiente risultano intollerabili); - strumento per manipolare le figure dell’ambiente significativo; - condotte apprese per imitazione di un modello significativo. RIFIUTO SCOLASTICO La causa più frequente di rifiuto scolastico è quella situazione definita come “fobia scolare”, riconducibile ad un’ansia di separazione. In tali casi l’oggetto fobogeno non è la scuola di per sé: il disagio è legato alla paura di allontanarsi dall’ambiente familiare, per una riattivazione di pregresse angosce abbandoniche. Al di là di questa situazione va tenuto presente che il rifiuto scolastico può essere espressione di: - Fobia sociale e, più in generale, Disturbi d’ansia; - Disturbi depressivi; - Disturbi della condotta; - Disturbi dell’apprendimento. Il riferimento ai disturbi dell’apprendimento, induce a considerare la possibilità che in molte situazioni il rifiuto scolastico rappresenta una modalità reattiva a situazioni di disagio con vissuti di inadeguatezza. ELEMENTI DI PSICOPATOLOGIA RELATIVI ALL’ADOLESCENTE Nell’adolescenza, ma già a partire dai 10 anni, la semeiotica psichiatrica si avvicina sempre di più a quella propria dell’adulto. Pertanto vengono di seguito riferite alcune delle anomalie più significative, con il relativo significato limitato ai quadri francamente patologici. ANOMALIE DELLA COSCIENZA La coscienza può essere definita come lo stato di consapevolezza di sé e dell’ambiente. Quando una persona ha una piena consapevolezza di sé e del suo ambiente si dice che la sua coscienza è lucida ed integra. Al contrario, quando questa consapevolezza risulta ridotta, ristretta o comunque alterata si parla di disturbi dello stato di coscienza. I disturbi della coscienza possono pertanto essere di tipo quantitativo o di tipo qualitativo. Disturbi della coscienza di tipo quantitativo 1) Torpore o ottundimento Indica un abbassamento dello stato di coscienza con interessamento di tutte le funzioni psichiche. In tali condizioni il soggetto appare inerte e apatico, non riesce a fornire risposte rapide e precise, ha difficoltà ad organizzare le idee secondo nessi unitari e presenta molto frequentemente un disorientamento temporo-spaziale. Nell’ambito del torpore o ottundimento possono essere individuati due sottostadi in rapporto all’entità della compromissione della coscienza: a) la sonnolenza è la forma più leggera, in quanto il soggetto può essere richiamato alla piena lucidità mediante stimoli intensi; b) il sopore è una forma più accentuata, in quanto lo stato di vigilanza può essere raggiunto solo con stimoli molto intensi ed i risvegli sono molto brevi. Significato: condizioni mediche generali; abuso di sostanze; azione di farmaci; epilessia; manifestazioni parossistiche non epilettiche (lipotimie); lesioni traumatiche. DISTURBI DEL PENSIERO In tale gruppo rientrano le turbe dell’immaginazione e della ideazione, intesa come la capacità della mente di immaginare, desiderare, comprendere la realtà, fare riflessioni sugli eventi passati, fare previsioni sugli eventi futuri. In accordo ad un’impostazione classica vengono distinti disturbi formali del pensiero e disturbi del contenuto. I disturbi formali del pensiero 1) Rallentamento del pensiero Il pensiero è povero; i contenuti creativi scorrono lentamente, con riduzione della vivacità, della ricchezza e della varietà dei nessi associativi. Conseguentemente, anche l’eloquio è povero, lento, con risposte brevi e poco elaborate. Significato: depressione; stati confusionali; schizofrenia. 2) Accelerazione del pensiero Il ritmo dell’ideazione è particolarmente vivace e si associa ad un eloquio fluente con un rapido fruire dei contenuti. Tale fenomeno risulta molto marcato dello stato maniacale e viene definito fuga delle idee. Frequentemente nell’accelerazione del pensiero vengono meno i legami associativi fra i contenuti ideici: - nel deragliamento le idee deviano in direzioni apparentemente non collegate con la direzione di partenza; - nella tangenzialità del pensiero si assiste ad una modalità di rispondere di tipo “obliquo”, nel senso che le risposte sono scarsamente aderenti al significato della domanda; - nell’incoerenza del pensiero l’eloquio è confuso, disordinato sul piano sintattico e grammaticale e come tale spesso inintelligibile. Significato: stati maniacali; schizofrenia; stati confusionali. 3) Perseverazione È la tendenza a rimanere ancorato a un contenuto ideico anche quando cambia il contesto che lo ha innescato. Sul piano verbale la perseverazione su traduce, ad esempio, nel fornire sempre la stessa risposta, anche quando cambiano le domande. Significato: disturbi pervasivi dello sviluppo; stati confusionali; schizofrenia; sindromi psicorganiche. 4) Circostanzialità Rappresenta quella forma di pensiero caratterizzato dal particolare risalto fornito a dati rilevanti che si interpongono nel tema principale. Ne deriva un eloquio prolisso per l’aggiunta di dettagli inutili, pleonastici, marginali, con difetto della capacità sintetica. Significato: sindrome psicorganiche; ritardo mentale. I disturbi del contenuto del pensiero 1) Delirio Il delirio può essere genericamente definito come un’idea derivante da un falso giudizio di realtà. È una falsa convinzione basata su erronee deduzioni riguardanti la realtà esterna, che viene fermamente sostenuta contrariamente a quanto gli altri credono e a quanto costituisce prova ovvia e incontrovertibile della verità del contrario. Sono evidenti in questa definizione i tre elementi classicamente considerati tipici del delirio: a) la certezza soggettiva dell’idea e la straordinaria convinzione con cui viene mantenuta; b) l’incorreggibilità, vale a dire il fatto di non essere influenzata dall’esperienza concreta o da confutazioni stringenti; c) l’impossibilità del contenuto, o falsità del contenuto dell’idea, derivante dal fatto che l’esperienza delirante comporta la trasformazione soggettiva della realtà. Per quel che riguarda il contenuto, il delirio viene abitualmente distinto in alcune forme tipiche, quali: 1) delirio bizzarro: il contenuto del delirio è particolarmente insolito, assurdo, non plausibile in rapporto al contesto socio-culturale; 2) delirio di controllo: è una forma di delirio in cui il soggetto è convinto che i suoi sentimenti, il suo pensiero le sue azioni sono sotto il controllo di una forza esterna e come tali sfuggono al controllo della sua volontà; 3) delirio erotico (o erotomane): l’idea delirante riguarda la convinzione di essere in possesso di attrattive sessuali particolari o di essere oggetto di corteggiamenti e di proposte a sfondo sessuale continue e non sollecitate o di essere in grado di effettuare con grande capacità e frequenza conquiste sentimentali e sessuali; 4) delirio di grandezza: il soggetto è convinto di possedere attributi speciali che riguardano il sapere, il saper fare o l'avere poteri fuori dal comune o addirittura sovrannaturali; 5) delirio di persecuzione: il contenuto del delirio è rappresentato dalla convinzione da parte del soggetto che vengano ordite trame contro di lui; 6) delirio di riferimento: in tale forma di delirio gli oggetti, le persone o gli eventi che appartengono all’ambiente del soggetto assumono significati particolari ed inusuali e sempre autoreferenziali; 7) delirio ipocondriaco: l’elemento caratterizzante è rappresentato dalla convinzione di soffrire di una malattia fisica o di una particolare condizione patologica che riguarda il corpo. Significato: schizofrenie. DISTURBI DELL’UMORE L’umore può essere definito con una tonalità emotiva di fondo, che ha una certa durata del tempo, nasce in genere in maniera spontanea, permea in maniera diffusa tutto l’essere, connotando l’attitudine posturale e motoria del soggetto e le sue modalità di rapportarsi alla realtà. I disturbi dell’umore possono assumere connotazioni diverse per variazioni “in difetto” o “in eccesso”. 1) Flessione del tono dell’umore (depressione) Viene espressa dal soggetto con un senso di tristezza, di disperazione, di dolore morale. L’ideazione è povera e spesso rallentata; essa è abitualmente centrata su tematiche pessimistiche, di perdita, di intimità, di colpa, con l’assenza di vie d’uscita. La tristezza è spesso associata a paura, angoscia, tendenza al pianto e si traduce a livello somatico con senso di malessere diffuso, astenia e rallentamento psicomotorio. Significato: depressione. 2) Elevazione del tono dell’umore (euforia, mania) È la situazione opposta alla precedente. Viene espressa dal soggetto come un senso di benessere e di gioia (euforia), che può arrivare fino all’esaltazione marcata con eccitamento psicomotorio (mania). L’ideazione è ricca e fluente, e può arrivare alla fuga delle idee; le tematiche del pensiero sono centrate su idee di onnipotenza e di grandezza. Sul piano somatico, i livelli di attività motoria sono molto elevati; la mimica è gaia e vivace. Significato: mania. 3) Labilità affettiva Esprime uno stato di instabilità del tono dell’umore, che può passare da uno stato di tristezza ad uno stato di segno opposto con eccitazione ed euforia. L’elemento caratterizzante è rappresentato da un’incontinenza emozionale (bassa soglia di emotività) che si estrinseca con effusioni esteriori marcate, di pianto o di riso, per stimoli del tutto insufficienti ed inadeguati. Significato: disturbi dello spettro bipolare; sindrome borderline; disturbi d’ansia. GLI INTERVENTI PSICO-EDUCATIVI Rientrano in questa categoria una serie di interventi molto eterogenei nelle modalità di realizzazione, che tuttavia condividono tre elementi comuni: 1) Non sono interventi medici, in quanto il loro scopo non è quello di “curare” il disturbo. Essi rientrano piuttosto in quelle misure finalizzate a favorire il percorso di crescita psicologica della persona in difficoltà. 2) Non sono misure educative in senso generico. Si tratta di misure che non si limitano ad individuare le finalità dell’atto educativo fornendo suggerimenti impersonali sulle modalità con cui tali finalità potrebbero essere raggiunte. Esse, viceversa, mirano a individuare le strategie da applicare per il conseguimento degli obiettivi educativi tenendo conto dell’originalità di ciascuna situazione. 3) Non sono interventi applicati direttamente al bambino, nel senso che si rivolgono all’ambiente significativo. Il percorso psico-educativo, infatti, prevede la presa in carico dei genitori con i quali vanno discussi e definiti gli obiettivi educativi. In età scolare, gli insegnanti assumono un ruolo determinante ed è con essi che bisogna discutere e definire gli obiettivi educativi che vadano ad integrare quelli già discussi e definiti con i genitori. GLI INTERVENTI RIABILITATIVI Nell’ambito del PTP, gli interventi riabilitativi assumono un ruolo di particolare rilevanza. Bisogna, infatti, tener presente che la maggioranza dei quadri nosografici, sul piano clinico-funzionale si traducono nella mancata acquisizione di quelle abilità normalmente previste nel corso dello sviluppo. Si vengono, cioè, a determinare delle disabilità, che posso investire in diversa misura molteplici aree funzionali: - l’area delle abilità grosso-motorie (cammino, salto, corsa); - l’area delle abilità fini-motorie (prensione, manipolazione, prassie); - l’area delle abilità comunicativo-linguistiche (linguaggio nelle sue molteplici forme); - l’area delle abilità cognitive (programmazione dei movimenti, organizzazione del linguaggio, messa in atto di strategie per la soluzione dei problemi, scelte di comportamenti appropriati alle diverse situazioni sociali); - l’area delle autonomie (lavarsi, vestirsi, provvedere ai propri bisogni). Gli interventi riabilitativi, sono finalizzati alla “cura” delle disabilità. Tipi di intervento Gli interventi si diversificano in rapporto all’area funzionale a cui si rivolgono, pertanto, vanno individuati: - interventi sulle abilità motorie; - interventi sulle abilità comunicativo-linguistiche; - interventi sulle abilità cognitive generali; - interventi sulle abilità sociali. Le finalità dell’intervento Ciascun intervento racchiude in sé due finalità complementari: la riorganizzazione funzionale delle componenti che sottendono la competenza da riabilitare e l’organizzazione adattiva della competenza comunque appresa. Non si tratta di colmare meccanicamente un deficit attraverso una sorta di allenamento o di trattamento intensivo, ma piuttosto di condurre progressivamente il bambino ad aver voglia di usare la funzione che si intende “riabilitare”. Le attività devono essere alla portata del bambino, appropriate alle sue possibilità del movimento, orientate verso la sua realtà quotidiana. Le possibilità di riuscita dell’intervento abilitativo risiedono nella capacità del terapista di trovare i mezzi per rivelare progressivamente al bambino questo piacere di essere agente, o soggetto di esperienze, un “piacere” molto spesso sconosciuto al bambino in difficoltà. Le strategie dell’intervento Ciascun intervento, all'interno della propria area operativa, deve tener conto di una serie di variabili, rappresentate dall'entità della compromissione funzionale, dall'eventuale presenza di disabilità appartenenti ad altre aree funzionali, dalle caratteristiche temperamentali e di personalità del soggetto in trattamento. In altri termini una volta definiti gli obiettivi, in rapporto alle variabili su indicate vanno individuate le strategie. Ne deriva che, all’interno di ciascun intervento bisogna prevedere l’applicazione di strategie diversificate, scelte in rapporto alle caratteristiche di ciascun soggetto. Figure professionali coinvolte Le figure professionali abitualmente coinvolte nella realizzazione dei vari interventi riabilitativi sono: - i fisioterapisti, che si occupano dei disordini motori da cause neurologiche ed ortopediche; - i terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, che si occupano specificamente dei disordini dello sviluppo sia di natura neuromotoria che psicomotoria; - i logopedisti, che si occupano dei disordini della voce e del linguaggio; - gli educatori professionali, impegnati nel favorire comportamenti adattivi negli spazi di vita abituali del soggetto; - i terapisti occupazionali, che facilitano l’apprendimento e l’adattamento sociale attraverso un lavoro in laboratori opportunamente strutturati; - gli ortottisti, che lavorano sulla motricità oculare. In accordo ad un orientamento ormai prevalente, prima ancora di stabilire aprioristicamente chi deve intervenire, è piuttosto necessario individuare su che cosa bisogna intervenire e solo successivamente scegliere quale figura può realizzare il programma. GLI INTERVENTI PSICOTERAPEUTICI Le psicoterapie possono essere definite come trattamenti che utilizzano strumenti psicologici per incidere sui disturbi emotivi e comportamentali. Le psicoterapie possono assumere forme diverse, distinte in rapporto all’organizzazione del setting (psicoterapia individuale, di coppia o familiare), ai costrutti teorici cui fanno riferimento (psicoterapia ad orientamento psicoanalitico, cognitivo- comportamentale, relazionale) o alle finalità (counseling psicologico, psicoterapia di sostegno, psicoterapia esperienziale o di cambiamento). La psicoterapia ad orientamento psicoanalitico La psicoterapia ad orientamento psicoanalitico si rifà alle teorie di Freud. In accordo alle teorie freudiane, i sintomi presentati dal paziente sono riconducibili a situazioni conflittuali, non risolte, risalenti all’epoca infantile. La terapia, pertanto, è finalizzata a riportare a livello conscio questi conflitti dinamicamente rimossi nell’inconscio. Lo scopo del trattamento, infatti, è cercare di favorire l’insight, che può essere definito come “la capacità di comprendere le origini e i significati inconsci dei propri sintomi e del proprio comportamento”. Tale obiettivo viene in genere perseguito attraverso l’interpretazione da parte dell’analista del materiale che l’analizzando porta in seduta. L’interpretazione è un’informazione che comunica all’analizzando qualcosa di sé stesso, di cui egli non ha coscienza. Essa può riguardare: - il transfert dell’analizzando verso lo psicoanalista, per come si esprime nella seduta analitica; - quello che l’analizzando comunica in merito alla sua vita attuale; - quello che l’analizzando comunica relativamente ai vissuti della sua storia personale. In età evolutiva, le tecniche di analisi si basano fondamentalmente sul gioco. Nel gioco, il bambino traduce in modo simbolico le proprie fantasie, i desideri, le esperienze passate. Ciò consente al terapeuta di accedere al mondo interno del bambino e di interpretare i conflitti e le difese. Pur non avendo quella chiara consapevolezza di malattia, che dell’adulto è una potente spinta al lavoro terapeutico, il bambino percepisce il senso di malessere, sente il bisogno di essere aiutato e sviluppa di conseguenza un solido rapporto con il terapeuta. Indipendentemente dalle specifiche modalità tecniche adottate, la terapia ad orientamento analitico richiede tempi di trattamento che si protraggono per anni e sono variabili in relazione sia alla struttura di personalità del soggetto sia allo svolgere progressivo del rapporto analitico. Le sedute, in genere, si svolgono con frequenza plurisettimanale. All’interno di questo quadro teorico di riferimento, si inseriscono altri due tipi di trattamento: 1) la psicoterapia breve: caratterizzata da un numero definito di sedute e riservata a quei casi in cui caratteristiche legate al soggetto o alla natura del problema consentono di “accelerare” le tecniche comunemente associate alle psicoterapie a tempo indeterminato; 2) la psicoterapia di sostegno: finalizzata a rinforzare le difese del soggetto, per aiutarlo a gestire le difficoltà della vita quotidiana, facilitando le sue capacità adattive, senza ricorrere all’acquisizione dell’insight, vale a dire, senza cercare di favorire la consapevolezza dei conflitti inconsci. In età evolutiva, è indispensabile il trattamento congiunto del bambino e dei suoi familiari. Nel bambino la struttura psichica interna è in evoluzione e totalmente dipendente dall’ambiente esterno. È quindi opportuno affiancare le sedute di psicoterapia individuale del bambino con sedute di terapia della coppia. La terapia di coppia ha lo scopo di modificare l’interazione ed il comportamento di due individui che hanno tra loro un rapporto continuativo molto intenso sul piano affettivo. Il terapeuta aiuta i coniugi a comprendere il significato delle reciproche modalità di reazione, collegandole sia alla storia della loro relazione che alla storia personale di ciascun componente della coppia. La psicoterapia familiare La psicoterapia familiare è un metodo particolare di trattamento, che ha come oggetto del lavoro terapeutico non l’individuo singolo, ma l’intero gruppo familiare. Essa si prefigge non tanto di favorire l’adattamento della personalità all’ambiente, quanto di modificare le condizioni ambientali stesse, risolvendo conflitti patogeni entro la matrice stessa delle relazioni familiari. La psicoterapia familiare comincia al momento del primo contatto. Il terapeuta incontra direttamente la famiglia, facendo osservazioni sulla personalità dei suoi membri, sul loro modo di interagire e sul clima affettivo complessivo. In forma schematica, la pianificazione del trattamento prevede i seguenti punti: 1) identificare il tipo di comportamento da incrementare o da diminuire; 2) identificare i fattori ambientali che estinguono o rinforzano tale comportamento; 3) identificare quali dei fattori ambientali rilevanti possono essere manipolati per modificare il comportamento; 4) registrare la frequenza e l’intensità del comportamento; 5) scegliere i tipi di rinforzi che possono influenzare il comportamento, sia in frequenza che in intensità. Terapia cognitiva Sia i teorici che i terapisti del comportamento hanno dato in passato scarsa importanza alla relazione esistente fra il pensare, il conoscere ed il comportamento. Solo recentemente si è cominciato a considerare l’influenza delle conoscenze sul comportamento umano. Secondo questa tendenza, i pensieri, le attitudini, le credenze rappresentano fattori importanti per comprendere un certo comportamento. Appare pertanto evidente che la conoscenza, da parte del bambino, di un’opinione verbalizzata da persone per lui importanti, può essere responsabile di un certo comportamento. Pertanto, l’obiettivo fondamentale per la terapia cognitiva è rappresentato dalla definizione delle relazioni reciproche fra processi conoscitivi, processi emozionali e comportamenti espliciti. Le tecniche cognitive riconoscono come momento di partenza all’auto-osservazione. Esse cercano, cioè, di aiutare il soggetto a riflettere sui propri pensieri, sentimenti e azioni. Ciò rappresenta la necessaria premessa per facilitare la revisione dei modelli conoscitivi abnormi che sono correlati al malessere e che costantemente lo rinforzano. Il successivo lavoro del terapeuta consiste poi nell’aiutare il soggetto a modificare la conoscenza di sé e degli altri, e a trovare strategie risolutive al suo problema. CAPITOLO 8 I DISTURBI D’ANSIA ASPETTI INTRODUTTIVI Quanto più piccolo è il bambino tanto più l’ansia si esprime con manifestazioni che coinvolgono l’intero organismo, portando eccitazione motoria o disagio fisico. Via via che si va strutturando l’apparato psichico, l’ansia viene vissuta come fenomeno interiore ed è sperimentata come stato spiacevole. L’ansia, quale esperienza normale, ha un enorme significato adattivo ed evoluzionistico: essa, infatti, rappresenta quello stato emozionale sollecitato da situazioni nuove e/o potenzialmente pericolose, che induce a adottare comportamenti rispondenti alle specifiche esigenze del contesto. Questo stato emozionale può assumere, talvolta, caratteristiche abnormi per quantità o qualità. In questi casi si parla di ansia patologica. L’ansia normale si differenzia da quella patologica in quanto: - non è anacronistica, non è, cioè, collegata a vissuti riconducibili a situazioni passate, ma è legata ad esperienze presenti; - non è fantasmatizzata, vale a dire, non è ancorata a situazioni immaginative, ma a fatti reali; - non è stereotipata e ricorrente, in altre parole, non fa parte delle modalità abituali di comportamento. Nelle forme patologiche, l’ansia si caratterizza come uno stato d’animo abituale, che si manifesta generalmente con sentimenti di inadeguatezza e di indecisione, con irritabilità e instabilità, o con uno stato di allarme al quale corrisponde spesso una sintomatologia vegetativa, rappresentata da dilatazione pupillare, secchezza delle fauci, nausea, tachicardia, sudorazione, minzione imperiosa. Questa variabilità espressiva caratterizza forme cliniche differenti. I disturbi inclusi in questa categoria nosografica rispondono, in pratica, alle manifestazioni che, in passato, caratterizzavano il quadro delle Nevrosi. I disturbi d’ansia rilevabili in età evolutiva sono principalmente rappresentati da: - disturbo d’ansia di separazione (DAS), - disturbo d’ansia generalizzata (DAG), - fobie. Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) precedentemente incluso nei disturbi d’ansia, viene attualmente trattato in una categoria a sé stante, in quanto l’ansia associata al disturbo non si pone come sintomo primario, ma piuttosto come un sintomo secondario all’ideazione ossessiva. PREVALENZA I disturbi d’ansia, considerati nel loro complesso, rappresentano un’evenienza molto frequente. La loro prevalenza, stimata su popolazioni di bambini di età compresa fra i 7 e gli 11 anni è stata valutata intorno al 16%. CAUSE Le cause, intese come modelli interpretativi dell’ansia patologica e dei comportamenti ad essa correlati, si rifanno principalmente a tre orientamenti interpretativi: - costituzionalista; - psicoanalitico; - cognitivo-comportamentale. IPOTESI COSTITUZIONALISTA La concezione che potrebbe essere definita “classica” dava prevalente importanza ai fattori costituzionali, individuabili in una predisposizione su base genetica, che si manifestava attraverso particolari modalità di funzionamento neuropsichico e, in questo modo, configurava una condizione di “neuroticismo”. Attualmente si continua a sostenere una disposizione di base caratterizzata da una labilità dei sistemi di controllo dell’ansia e dei processi neurovegetativi ad essa connessi. Gli elementi caratterizzanti questa disposizione di base sarebbero rappresentati da iperemotività, ipereccitabilità neuro-muscolare, labilità dell’equilibrio neuro-vegetativo, astenia, tremori, ecc. Sulla base di questa disposizione costituzionale si verrebbe quindi a definire uno particolare stile reattivo che in rapporto al ripetersi di eventi stressanti darebbe luogo al quadro clinico conclamato. Peraltro, questa disposizione di base sarebbe poi caratterizzata dalla presenza di specifici tratti ansiosi con le caratteristiche di tipo fobico, di tipo ipocondriaco o di tipo sociale: pertanto, nelle situazioni di scompenso si configurerebbero i diversi sottotipi specifici. Allo stato attuale, questa ipotesi costituzionalista trova nuovi elementi di sostegno derivanti dalla neurobiologia. La definizione di specifici network encefalici, specificamente coinvolti nei processi di percezione, elaborazione e gestione della paura e dell’ansia, permette di riconoscere in tali network, quando disfunzionale, quella disposizione di fondo che facilita l’insorgenza del “sintomo” ansioso con i correlati somatici ad esso connessi. IPOTESI PSICOANALITICA Secondo la teoria psicoanalitica, l’ansia ed i disturbi ad essi correlati, configurano un gruppo definito come nevrosi. I disturbi nevrotici, apparentemente incomprensibili, trovano la loro spiegazione nelle esperienze relazionali precoci. L’elemento centrale della nevrosi è considerato il conflitto, che si viene a determinare allorché le pulsioni profonde, che fanno parte dell’Es, sono interdette dalle istanze interiorizzate, rappresentate dal Super-Io. Nelle situazioni nevrotiche, il sintomo rappresenta il segno indicativo del fallimento dei meccanismi di difesa messi in atto contro l’angoscia conflittuale ed esprime il manifestarsi del materiale rimosso a livello della coscienza. IPOTESI COGNITIVO-COMPORTAMENTALE L’approccio cognitivista ai disturbi d’ansia parte dal presupposto che le persone tendono ad interpretare gli eventi che quotidianamente si verificano. È una disposizione innata, finalizzata a dare un senso a tali eventi ed organizzare le esperienze effettuate in sistemi di conoscenza. Con il passare del tempo le varie interpretazioni portano ad alcuni convincimenti e apprendimenti, che possono essere più o meno aderenti alla realtà e più o meno funzionali al benessere della persona. Il modello cognitivo sostiene che da questa interazione dinamica con la realtà vengono a definirsi tre livelli di “consapevolezze”: - Le convinzioni profonde (o core beliefs o schemi cognitivi): sono delle strutture interpretative di base con cui la persona organizza il suo pensiero. - Le convinzioni intermedie: rispondono alla stessa funzione di quelle profonde relativamente all’organizzare l’esperienza in base a idee e interpretazione su noi stessi, sugli altri e sul mondo. Esse, tuttavia, sono meno radicate e meno rigide e rispondono all’esigenza di prendere decisioni in tempi brevi e orientarsi nelle relazioni con le altre persone. - I pensieri automatici: sono idee che riguardano sé stessi, gli altri o le relazioni interpersonali. Esse accedono ad un’elaborazione cosciente, possono essere rappresentate con enunciati verbali o immagini e sono direttamente responsabili delle emozioni provate dalla persona. In rapporto al loro grado di consapevolezza conscia sono anche quelle più facilmente modificabili. C) IL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATO Definizione Il disturbo d’ansia generalizzato è caratterizzato dalla presenza di ansia e preoccupazioni eccessive, che si associano ad irrequietezza, facile affaticabilità, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, tensione muscolare, o disturbi del sonno. Per definizione, l’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è legato ad un elemento specifico, ad una determinata situazione o ad un particolare contenuto ideativo. L’elemento caratterizzante è un’esperienza di malessere, che, dei bambini più grandi, può essere verbalizzata come una preoccupazione eccessiva, e, nei bambini più piccoli, si traduce in correlati somatici inequivocabili (mimica tesa, irrequietezza, manifestazioni neurovegetative). Sintomatologia I bambini con disturbo d’ansia generalizzato sono i bambini che hanno “paura di tutto”. Essi mostrano ansia e preoccupazione eccessiva nei confronti di svariate situazioni: quando vengono lasciati soli; quando devono effettuare esperienze nuove; quando sono chiamati a svolgere un compito. Possono preoccuparsi per eventi catastrofici come terremoti o guerre, ed anche per alcuni eventi naturali (temporali). Le ansie e le preoccupazioni spesso riguardano la qualità delle prestazioni, anche quando queste non devono essere valutate da altri. Quest’ultimo aspetto rappresenta un importante elemento per la diagnosi differenziale: quando infatti l’ansia è legata a giudizio che l’altro può dare alla sua prestazione si configura una fobia sociale. Sul piano comportamentale, l’insicurezza di fondo può tradursi in atteggiamenti eccessivamente conformisti e perfezionisti, con la tendenza a rifare le cose, per un costante sentimento di insoddisfazione per la prestazione effettuata. Tali bambini richiedono spesso l’approvazione e/o la rassicurazione circa la validità delle loro prestazioni. D) LE FOBIE Definizione Le fobie possono essere definite paure ingiustificate di un oggetto o di un evento, il contatto con il quale determina nel bambino intense reazioni di angoscia. Nei confronti della fobia, il bambino tende ad utilizzare strategie difensive rappresentate tipicamente dall’evitamento. Pertanto, gli elementi caratterizzanti i comportamenti fobici sono rappresentati da: - l’angoscia nei confronti dell’oggetto o dell’evento fobogeno; - l’ansia anticipatoria; - le condotte di evitamento. Il DSM-5 distingue due categorie: 1) la fobia sociale, caratterizzata dal timore persistente e irrazionale di situazioni che possono comportare sentimenti di umiliazione derivanti dal giudizio degli altri; 2) la fobia specifica, caratterizzata da paure persistenti e irrazionali nei confronti di specifici oggetti o di specifiche situazioni (ma non per il timore di essere giudicati dagli altri, come si verifica nella fobia sociale). Sintomatologia La presenza dell’evento fobogeno scatenare il bambino intense reazioni di angoscia, che si traducono sul piano comportamentale in pianto, scoppi d’ira, irrigidimento e manifestazioni neurovegetative. Ciò comporta l’aggrapparsi o il bisogno di stare vicino ad una persona familiare. Nella fobia sociale, l’ansia anticipatoria e l’evitamento fanno sì che il bambino tenda ad apparire eccessivamente timido negli ambienti non familiari, a sfuggire al contatto con gli altri, a rifiutare di partecipare a giochi di gruppo. Tali comportamenti investono anche la vita scolastica del bambino, con rifiuto della scuola e marcato decadimento delle prestazioni. L’elemento caratterizzante i diversi tipi di comportamento è rappresentato dal bisogno del bambino di evitare quelle situazioni che implicano un giudizio di altre persone. Nella fobia specifica, il bambino prova una paura marcata, persistente ed eccessiva quando è in presenza di un oggetto o di una situazione specifica, o anche quando si aspetta di doverla affrontare. Il livello di ansia o paura che l’evento fobogeno determina di solito varia in funzione sia del grado di vicinanza allo stimolo fobico, che del grado di limitazione della possibilità di allontanarsi da esso. DIAGNOSI La diagnosi si basa fondamentalmente sull’anamnesi, sul colloquio con i genitori e sull’osservazione del soggetto. L’anamnesi permette di: - verificare l’eventuale presenza di familiarità per disturbi d’ansia o altre patologie neuropsichiatriche; - ricostruire lo sviluppo neuropsichico del soggetto; - definire le caratteristiche del disturbo. Il colloquio con i genitori permette di conoscere: - le caratteristiche dell’ambiente significativo; - la qualità degli atteggiamenti affettivo-pedagogici. L’osservazione del soggetto, infine, fornisce indicazioni necessarie per definire il profilo affettivo- relazionale. Essa viene abitualmente integrata da reattivi mentali proiettivi, rappresentati da: - disegno; - favole della Düss; - CAT; - TAT; - Rorschach. Per tutti i disturbi d’ansia descritti, il processo diagnostico è finalizzato a chiarire tre aspetti nodali: 1) valutare se i comportamenti riferiti (e osservati) siano da considerare realmente patologici; 2) individuare gli elementi caratterizzanti il disturbo, in rapporto ai quali effettuare un corretto inquadramento nosografico; 3) definire il profilo emotivo del soggetto e le caratteristiche dell’ambiente significativo, per la formulazione di un adeguato programma d’intervento. TERAPIA Considerando l’ampio ventaglio di possibilità di intervento, un lavoro “educativo” oltre a favorire una più rapida evoluzione dei sintomi attuali, può assumere una valenza preventiva ponendo le basi per facilitare l’adozione di modalità di fronteggiamento delle difficoltà più efficienti ed efficaci. Peraltro, anche nelle situazioni in cui il processo diagnostico orienti per un’ansia parafisiologica, è comunque necessario fornire suggerimenti e consigli ai genitori. In tutti i casi quindi la presenza di manifestazioni ansiose comporta la formulazione di un Progetto Terapeutico Integrato, nel senso più volte indicato, il quale prenda in considerazione diversi interventi, scelti in rapporto alle esigenze del singolo caso ed articolati in maniera armonica e funzionale. Fra gli interventi da prendere in considerazione vanno indicati i seguenti: a) interventi farmacologici; b) interventi psicoterapeutici; c) interventi educativi. A) INTERVENTI FARMACOLOGICI Le terapie farmacologiche trovano, in età evolutiva, un’applicazione limitata. L’indicazione del farmaco deve essere diretta non alla categoria diagnostica, ma ad un sintomo-bersaglio. Gli ansiolitici sono farmaci frequentemente utilizzati. Tra di essi vanno menzionati l’idrossizina, alcune benzodiazepine ed il bustiporone. B) INTERVENTI PSICOTERAPEUTICI Gli interventi psicoterapeutici assumono caratteristiche differenti in rapporto ai diversi orientamenti concettuali cui fanno riferimento. Per esempio, gli interventi psicoterapeutici ad orientamento psicoanalitico, cercano di condurre il soggetto ad un’elaborazione del materiale inconscio rimosso, e di attivare la funzione dell’Io per l’adeguata gestione delle istanze pulsionali. Essi sono articolati in sedute plurisettimanali per periodi lunghi, ma possono anche prevedere tempi limitati. Le psicoterapie cognitivo-comportamentali, viceversa, pongono al centro dell’intervento il comportamento osservabile, con l’intento di modificarlo; ovvero il tipo di conoscenza che il paziente ha di sé, degli altri e della realtà esterna in generale, con lo scopo di modificare i suoi modelli conoscitivi che risultano collegati al comportamento disattivo. C) INTERVENTI PSICO-EDUCATIVI Tali interventi finiscono per assumere il carattere di “terapie di sostegno psicologico” dirette al soggetto, ma necessariamente integrate da analoghi interventi diretti alla coppia genitoriale. Tali interventi prevedono, pertanto, una serie di incontri, che rappresentano uno spazio di ascolto e di parola, all’interno del quale il soggetto e le figure dell’ambiente significativo posso esprimersi, conoscersi ed interagire con un operatore disponibile. Gli incontri con i genitori sono finalizzati ad analizzare con essi: - gli aspetti caratterizzanti lo sviluppo affettivo del figlio; - gli atteggiamenti più frequentemente adottati nei confronti del disturbo; - le abituali modalità pedagogiche. La ricostruzione di questi aspetti critici rientra in un processo finalizzato a favorire nei genitori: - la riflessione sulle abituali modalità pedagogiche; - la presa di coscienza di eventuali errori educativi; - l’attivazione delle loro risorse per l’adozione di atteggiamenti maggiormente strutturanti. In tale contesto relazionale vengono facilitate le possibilità di concordare con i genitori e con il soggetto gli altri aspetti che posso completare il piano di trattamento. In particolare, molto utile risulta l’inserimento del soggetto in attività che non devono necessariamente avere una connotazione terapeutica. Tali attività possono essere rappresentate dalla pratica di uno sport, dall'apprendimento di uno strumento musicale o da esperienze di gruppo. PROGNOSI I disturbi d’ansia caratteristici dell’età evolutiva, nella maggioranza dei casi, tendono a scomparire nell’età adulta. In alcuni casi il disturbo persiste, anche se con notevoli fluttuazioni nel decorso. - controllare; - contare; - pregare; - toccare; - mettere in ordine; - raccogliere e conservare determinati oggetti. Molto spesso, in età evolutiva, si rileva una modifica del disturbo nel corso del tempo: uno stesso bambino, cioè, può cambiare nel corso dello sviluppo i contenuti delle ossessioni e/o delle compulsioni. Va inoltre considerato che il bambino, abitualmente, è incapace di raggiungere la consapevolezza dell’irrazionalità dei contenuti ossessivi: il suo livello di sviluppo, cioè, gli impedisce di effettuare una valutazione cognitiva di questo genere. Viene in tal modo a mancare uno degli aspetti tipici del disturbo: vale a dire, il carattere egodistonico. Il DOC si trova spesso associato a quadri di interesse neuropsichiatrico infantile. Fra le situazioni più frequentemente associate si trovano: - il disturbo da tic, presente circa nel 33% dei casi, - la depressione, presente in circa il 26% dei casi, - vari disordini specifici dello sviluppo, come i disturbi dell’apprendimento, del linguaggio o della coordinazione motoria, che nel loro complesso sarebbero presenti nel 18% dei casi. DIAGNOSI Il processo diagnostico, in tale situazione, è primariamente teso a stabilire il carattere patologico della manifestazione, facendo riferimento alla sua severità. Sotto questo aspetto, nell’ambito delle procedure diagnostiche abituali risulta utile il ricorso a strumenti di valutazione standardizzati quali la K-SADS-PL e la CY-BOCS. Il processo diagnostico prevede poi la definizione del quadro clinico generale e la valutazione delle eventuali situazioni associate. Il merito alle situazioni associate, la diagnosi differenziale fra DOC e disturbo da tic risulta particolarmente problematica, soprattutto per quel che riguarda il disturbo di Tourette. A fronte di alcune differenze sintomatologiche, infatti, esistono nel complesso notevoli sovrapposizioni cliniche, che rendono le relazioni fra i due disturbi ancora mal definite. TERAPIA Fra gli interventi già indicati per i disturbi d’ansia, la terapia farmacologica assume un particolare significato. In particolare vengono utilizzati gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). DISTURBI CORRELATI AL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO DEFINIZIONE E INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO Il DSM-5 ha inserito nel capitolo del disturbo ossessivo-compulsivo alcuni quadri clinici sottesi da idee ossessive particolari o da uno bisogno impellente di dover effettuare specifici comportamenti. CLINICA I quadri inseriti in questa sezione condividono con il disturbo ossessivo-compulsivo la presenza di una invasività di pensieri, immagini, bisogni impellenti, che “assediano” la mente e lasciano al soggetto margini molto limitati per resistervi. In altri termini, anche in queste condizioni dovrebbe essere soddisfatto il carattere egodistonico dei pensieri, delle idee e/o delle immagini che invadono la mente del soggetto. Nella comune pratica clinica, tuttavia, tale aspetto può perdersi per la cristallizzazione di comportamenti che finiscono per diventare ritualizzati. La peculiarità dell’oggetto su cui si incentra la manifestazione ossessivo-compulsiva giustifica una descrizione a margine di tali quadri, tra cui i più rappresentativi sono: - il disturbo di dismorfismo corporeo; - la tricotillomania; - il disturbo da accumulo; - il disturbo da escoriazione. A) IL DISTURBO DA DISMORFISMO CORPOREO Tale disturbo include preoccupazioni che angosciano il soggetto nei riguardi di difetti o imperfezioni che egli riscontra nel proprio corpo. Le preoccupazioni possono riguardare l’aspetto fisico generale o specifiche imperfezioni. Talvolta le imperfezioni possono anche essere reali: ciò che è patologico è la percezione esagerata dell’imperfezione da parte del soggetto che diventa preda di vissuti di vera e propria angoscia. Tali vissuti si traducono in una serie di comportamenti ripetitivi, come guardarsi costantemente allo specchio o in qualsiasi superficie riflettente, confrontare il proprio aspetto fisico con quello di altri, mettere in atto misure tese a ridurre le imperfezioni percepite. Il disturbo assume aspetti di particolare rilevanza in adolescenza in cui esiste fisiologicamente una condizione di particolare attenzione al proprio corpo e alle trasformazioni che esso subisce. Ne deriva che il disagio diventa molto importante e, secondo alcune casistiche, aumenta il rischio di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio. B) LA TRICOTILLOMANIA La tricotillomania indica il comportamento di strapparsi i capelli o i peli da determinate parti del corpo. Il cuoio capelluto è in genere il luogo prevalente in cui avvengono i comportamenti di strappamento. Il disturbo porta quindi alla comparsa di aree di alopecia. Al comportamento di strappamento poi possono associarsi una serie di manifestazioni rituali che riguardano il materiale strappato (il soggetto può ispezionarlo, accarezzarlo, spezzettarlo o ingerirlo). Per definizione, il soggetto vive male il suo disturbo, che diventa motivo di imbarazzo, di vergogna e di sensazione di perdita di controllo. C) IL DISTURBO DA ACCUMULO Il disturbo da accumulo consiste in una difficoltà a separarsi dalle proprie cose o dei propri beni indipendentemente dal loro valore reale. Il soggetto sente il bisogno di conservare gli oggetti e prova un profondo disagio quando è costretto a separarsene. Il disturbo può comparire a tutte le età. Anche il bambino molto piccolo può, infatti, presentare un “attaccamento” eccessivo non a uno specifico oggetto, ma al conservare una serie di oggetti, accumularli e a volte nasconderli. Tuttavia, è a partire dagli 11-12 anni che il disturbo assume connotazioni più specifiche e invalidanti, nel senso che posso interferire sul funzionamento adattivo generale del soggetto. D) IL DISTURBO DA ESCORIAZIONE Il disturbo si riferisce alla presenza di comportamenti ripetitivi rappresentati dallo “stuzzicamento” della pelle. In particolare, il soggetto può stuzzicare la pelle sana, ma più frequentemente si accanisce su brufoli, calli o croste dovute a precedenti escoriazioni. Il comportamento ripetitivo può durare per tempi molto prolungati nel corso della giornata e si associa a un senso di inquietudine da parte del soggetto, legato all’impossibilità di interromperlo. LA PRESA IN CARICO La “cura” di tutti i disturbi appena elencati comporta, preliminarmente, un approfondimento diagnostico teso a valutare le caratteristiche delle manifestazioni e la loro rispondenza ai criteri definiti dei principali sistemi di nosografia codificata. La diagnosi nosografica diventa, in ogni caso, solo il punto di partenza per un percorso finalizzato a conoscere il soggetto nella sua complessità, definire il suo profilo funzionale, analizzare le circostanze interne e esterne che favoriscono l’insorgenza del disturbo o che incidono sulla sua espressività. Si tratta di elementi critici che permettono in fase di “terapia” di operare le scelte più idonee in termini di rispondenza agli specifici punti di forza/punti di debolezza del soggetto da “curare”. Disordini neuroendocrinologi Fra le alterazioni segnalate, è riferita una ridotta increzione di ormone della crescita dopo stimolo. Questa disregolazione del GH è stata interpretata da alcuni autori come espressione di una disfunzione dei recettori noradrenergici, mentre da altri è stata ritenuta secondaria alla disfunzione di altri tipi di trasmettitori, quali la somatostatina. Studi condotti sui livelli ematici di prolattina e su quelli di cortisolo, dopo stimolo, hanno sottolineato l’importanza di una disfunzione del sistema serotoninergico. Nel loro complesso, questi dati sembrano indicare una disfunzione a livello ipotalamo-ipofisario dei sistemi regolatori noradrenergico e serotoninergico. Situazioni familiari inadeguate Studi controllati sulle caratteristiche dell’ambiente familiare di pazienti depressi hanno permesso di rilevare, rispetto a famiglie di bambini normali di controllo, una maggiore frequenza di conflitti intrafamigliari, situazioni di abuso, rifiuto, problemi di comunicazione, atteggiamenti educativi improntati alla direttività e alla scarsa capacità di ascolto e di sostegno ai problemi del bambino. Presenza di eventi stressanti In circa il 70% dei soggetti l’esordio della depressione è preceduta dalla presenza di un evento stressante. Tali eventi sono in genere rappresentati da: - separazioni prolungate dei genitori; - divorzio dei genitori; - morte di uno dei genitori o di altre persone significative per il bambino; - malattie dei genitori; - malattie del bambino con ospedalizzazioni. B) MODELLI INTERPRETATIVI DELLA CLINICA Relativamente alle modalità con le quali possibili fattori causali possono agire nel determinare la comparsa di un disturbo depressivo, sono state formulate diverse ipotesi. Ipotesi psicodinamiche Nel 1915 Freud differenziò il lutto, inteso come reazione ad una perdita reale di una persona significativa, dalla melanconia, rappresentata da un vissuto sostanzialmente analogo, ma legato a una perdita fantasmatica dell’oggetto d’amore; un vissuto costantemente associato ad una perdita della stima di sé e a marcati sensi di colpa. Nell’ipotesi originaria di Freud i sentimenti di autosvalutazione erano legati ad una rabbia intensa rivolta verso sé stessi, per un’identificazione dell’Io con l’oggetto amato perduto. Qualche anno più tardi, Melanie Klein ricondusse la depressione ad una fissazione ad una fase peraltro normale nello sviluppo affettivo: la posizione depressiva. La posizione depressiva secondo la Klein, è la fase in cui il bambino accede alla consapevolezza di aver perso, a causa della propria avidità e distruttività, gli oggetti buoni, sentendosi nel contempo perseguitato dai restanti oggetti cattivi. La depressione, in questa prospettiva, sarebbe interpretata come la riattivazione in età successive di queste complesse dinamiche. Entrambi questi modelli sottolineano l’importanza delle esperienze precoci, che, quando particolarmente frustranti, impediscono i normali processi di elaborazione. Il verificarsi di eventi stressanti, in fasi successive dello sviluppo, comporterebbe movimenti regressivi, con comparsa di vissuti depressivi, la cui essenza è rappresentata da un disturbo dell’autostima nel contesto di relazioni interpersonali fallimentari. Ipotesi cognitivista Secondo l’ipotesi cognitivista i disturbi del pensiero, intesi come la percezione negativa di sé stessi e della qualità delle relazioni che il soggetto stabilisce con le persone del suo ambiente significativo, non sono la conseguenza delle dinamiche emozionali a carattere depressivo, ma rappresentano essi stessi l’essenza del disturbo. Viene in particolare sottolineato uno stile indicato con il termine di stile cognitivo negativo, in rapporto al quale il bambino tende ad elaborare in maniera atipica le esperienze: - per la sistematica attribuzione a sé stesso di caratteristiche negative; - per la convinzione che i risultati di un evento sono necessariamente legati a cause esterne non controllabili; - per la tendenza a ritenere che nessuno lo possa aiutare; - per la mancanza di un’adeguata elaborazione cognitiva delle esperienze di tipo sociale. Il modello suggerito è definito learned helplessness, che letteralmente significa “impotenza appresa”. Esso indica un vissuto di impotenza, insicurezza e passività, appreso in conseguenza dell’esposizione a eventi o stimoli non controllabili. Ipotesi neurobiologica L’ipotesi neurobiologica nasce, in pratica, sulla base dell’osservazione che diversi farmaci erano in grado di incidere sul tono dell’umore. Tali osservazioni indussero ad elaborare “la teoria aminergica della depressione”, secondo la quale il disturbo depressivo era riconducibile ad un deficit funzionale di tali amine biogene. Successivamente l’attenzione dei ricercatori si rivolta allo studio dei singoli neurotrasmettitori: noradrenalina, serotonina, dopamina, GABA e vari altri peptidi. Un particolare interesse ha sempre suscitato la serotonina, che svolge un importante ruolo come modulatore inibitorio ed è implicata nella regolazione di molti di quei processi che risultano alterati nel paziente depresso, quali il sonno, l’appetito, la secrezione ormonale e l’attività motoria. La depressione, come tutti i quadri psichiatrici complessi, è un disturbo psicopatologico a patogenesi multifattoriale, la cui espressione è legata ad interrelazioni ancora mal definite fra: - diversi fattori neurobiologici, - fattori neurobiologici, considerati nel loro complesso, e fattori ambientali. In merito a quest’ultimo aspetto, tuttavia, risulta opportuno riferire che la ricerca neurobiologica sta cominciando a fornire interessanti spunti interpretativi circa il ruolo svolto dalle esperienze stressanti. Esperienze dolorose esistenziali, soprattutto se vissute in epoche precoci dello sviluppo, determinerebbero una sorta di sensibilizzazione di particolari siti recettoriali; una sensibilizzazione che si pone come una situazione di vulnerabilità. Questa prospettiva è coerente con le ipotesi psicodinamiche e cognitiviste, nel senso che in soggetti sensibilizzati le idee o le immagini abitualmente associate a stati depressivi sarebbero in grado di far precipitare, anche in assenza di una reale perdita o di un obiettivo fattore stressante esterno, un episodio depressivo. CLINICA L’elemento caratterizzante la sintomatologia depressiva è rappresentato da un’alterazione del tono dell’umore. Nelle situazioni in cui il soggetto non è in grado di verbalizzare il suo stato, o non è disponibile a farlo, il tono dell’umore si manifesta generalmente attraverso un’espressione di tristezza, caratterizzata da povertà della mimica, sguardo inespressivo, rarità del sorriso, pianto per motivi futili. Il soggetto appare incapace di provare piacere per tutte, o quasi tutte, le attività, anche per quelle che in precedenza lo avevano particolarmente coinvolto. Ne deriva una marcata riduzione dei livelli di attività, in termini di scarsa iniziativa, inibizione e rallentamento motorio. I disturbi appena riferiti si ripercuotono inevitabilmente sulla qualità dell’interazione sociale. I bambini depressi, infatti, tendono ad evitare le occasioni di incontro con gli altri e, quando inseriti nell’ambito del gruppo, assumono atteggiamenti passivi o tendono ad isolarsi. Queste difficoltà relazionali sono presenti anche a scuola: il bambino non mostra interesse a condividere esperienze e se ne sta seduto da solo nel banco. In tali situazioni, ne risente anche il rendimento scolastico, che risulta inadeguato. Il bambino lamenta spesso disturbi della memoria, mostra difficoltà di concentrazione ed appare eccessivamente preoccupato dell’insuccesso. L’eccessiva preoccupazione dell’insuccesso è riferibile ad un altro elemento caratterizzante il disturbo depressivo: vale a dire, l’abbassamento dell’autostima. Si tratta di un disturbo che compare solo quando il bambino è in grado di accedere al concetto astratto del sé e può essere: - verbalizzata (i bambini, cioè, possono affermare di essere stupidi o incapaci di eseguire compiti anche elementari); - espressa attraverso determinati comportamenti (evitare il confronto o rifiutare di fare compiti che in altre occasioni hanno dimostrato di saper fare); - tradotta nei reattivi mentali proiettivi. Costantemente associato all’abbassamento dell’autostima è il senso di colpa: sia il sentimento di autosvalutazione, che quello di colpa sono eccessivi ed inappropriati e talvolta deliranti. In tale contesto emozionale, sono abituali i disturbi somatici, che possono essere rappresentati da: - eccessiva faticabilità, la quale può essere verbalizzata come “mancanza di energia” o espressa da una riduzione dei livelli di attività; - alterazioni del ritmo sonno-veglia, caratterizzati da difficoltà di addormentamento, frequenti risvegli notturni o incubi; - disturbi del comportamento alimentare, rappresentati da anoressia o da bulimia; - dolori vaghi, riferiti allo stomaco, alla testa o alle gambe. Anche in età evolutiva, i pensieri di morte sono ricorrenti. Il suicidio è estremamente raro prima dei 10 anni, mentre diventa più frequente tra gli adolescenti. ASPETTI EVOLUTIVI La sintomatologia depressiva assume differenti modalità espressive in rapporto all’età e al livello di maturazione del bambino: a) Nei primi due anni di vita, in relazione alla presenza di modalità reattive primitive e alla povertà dell’attività fantasmatica e dell’espressione verbale, le manifestazioni depressive vengono espresse essenzialmente a livello comportamentale attraverso il pianto frequente, la riduzione dei livelli di attività, uno scarso interesse all’ambiente e la presenza di disturbi del comportamento alimentare ed alterazione del ritmo sonno-veglia. b) A partire dai 3-4 anni, con l’acquisizione di più evolute capacità di elaborazione degli effetti e con il progressivo arricchimento della vita fantasmatica, le manifestazioni depressive, oltre che sul piano del comportamento, vengono espresse anche a livello fantasmatico (sogni, giochi). c) Con l’inizio dell’adolescenza, infine, per l’ulteriore maturazione dell’apparato psichico, il soggetto acquisisce capacità di introspezione e consapevolezza dei propri sentimenti di colpa e di autostima, per cui le manifestazioni depressive vengono espresse anche sul piano della verbalizzazione. 2) Gli antidepressivi triciclici: sono stati i farmaci maggiormente utilizzati in passato, ed in particolare l’imipramina, la clorimipramina e l’amitriptilina. L’azione dei triciclici allegato di un potenziamento del sistema serotoninergico e noradrenergico, che si realizza attraverso l’inibizione della ricaptazione di tali trasmettitori a livello sinaptico. 3) Gli stabilizzatidell’umore: alcuni farmaci anticonvulsivanti, in particolare la Carbamazepina ed il Valproato, vengono utilizzati nei soggetti depressi per la loro capacità di agire come stabilizzanti dell’umore. PROGNOSI Nella maggioranza dei casi l’episodio depressivo maggiore tende a risolversi nel giro di qualche mese e resta un episodio unico nella vita del soggetto. In altre situazioni, stimate dal 6% al 10% si possono verificare recidive più o meno frequenti e più o meno lunghe, che volgono verso forme croniche. In merito all’evoluzione a lungo termine, va tuttavia segnalato che il rischio psicopatologico non è limitato solo alla persistenza o alla ricorrenza di forme depressive. In molti casi, infatti, a partire dall’adolescenza possono comparire altri tipi di disturbi, quali disturbo d’abuso di sostanze, disturbo bipolare o disturbi di personalità. Tale evenienza riguarderebbe in particolare le forme depressive ad insorgenza molto precoce. In altri termini, mentre le forme depressive ad insorgenza in adolescenza riconoscono come rischio principale la cronicizzazione, le forme ad insorgenza più precoce posso più frequentemente associarsi a lungo termine con quadri psicopatologici diversi dalla depressione. Ciò peraltro, ha indotto considerare la possibilità che, al di là delle somiglianze sintomatologiche, la depressione del bambino e la depressione dell’adolescente possano rappresentare forme in qualche modo “distinte”. DISTURBI CORRELATI ALLA DEPRESSIONE A) IL DISTURBO BIPOLARE ASPETTI INTRODUTTIVI Il disturbo bipolare rappresenta la visione moderna del disturbo maniaco-depressivo classico. L’esperienza clinica, infatti, ha da sempre permesso di rilevare che in alcuni casi clinici la “depressione”, nel suo decorso, lascia spazio al suo posto, la “mania”, che esprime un tono dell’umore abnormemente esaltato. L’esaltazione del tono dell’umore (ipomania) si esprime con un eccitamento psicomotorio e con un senso di benessere e di gioia. Tale stato può assumere un’espressività particolarmente intensa ed associarsi a manifestazioni psicotiche con marcata compromissione del funzionamento adattativo generale (mania). Durante l’episodio i sintomi caratterizzanti si collocano fra i seguenti: - autostima ipertrofica o grandiosità; - diminuito bisogno di sonno; - maggiore loquacità rispetto al solito o spinta continua a parlare; - fuga delle idee o esperienza soggettiva che i pensieri si succedono rapidamente; - distraibilità; - aumento dell’attività finalizzata o franca agitazione psicomotoria; - eccessivo coinvolgimento in attività che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose. L’episodio ipomaniacale così definito può presentarsi: - come episodio singolo ovvero ricorrente; - di intensità marcata, tale da incidere sul funzionamento adattivo generale (episodio ipomaniacale) oppure con intensità molto marcata e complicata da manifestazioni psicotiche (episodio maniacale); - associato in vario modo ad episodi depressivi, ciascuno dei quali, peraltro, può assumere diverse caratteristiche. I criteri diagnostici abitualmente utilizzati per l’adulto risultano nel complesso poco applicabili all’età evolutiva per la variabilità e la scarsa definizione dei sintomi. I sostenitori dell’esistenza di un disturbo bipolare già in pre-adolescenza propongono per l’età evolutiva le seguenti modifiche ai criteri diagnostici: - una netta prevalenza della “irritabilità” rispetto alla “euforia”; una “irritabilità” che assume un’intensità superiore a quella riscontrabile in altri quadri psicopatologici e che comunque si associa con spunti di euforia e grandiosità; - una “ciclicità” giornaliera; - una pressoché abituale alternanza con stati depressivi (stati misti). PREVALENZA La prevalenza dei disturbi bipolari in età evolutiva non è ben definita. Alcuni lavori riportano stime che oscillano fra lo 0,2% e l’1,1%. CAUSE Anche la definizione delle possibili cause risente delle incertezze nosografiche. Fra i i fattori di maggior interesse assume particolare rilevanza la familiarità. Bambini con un familiare affetto da DB presentano un rischio 10 volte superiore di presentare un DB rispetto alla popolazione di bambini senza familiari affetti. CLINICA Nelle forme tipiche, il quadro clinico è caratterizzato da episodi durante i quali il soggetto presenta una vistosa modifica del tono abituale dell’umore, presentandosi marcatamente euforico e particolarmente attivo. In rapporto al livello di sviluppo può verbalizzare contenuti ideativi improntati ad un egocentrismo esasperato, marcata assertività, elevati livelli di autostima, con spunti di grandiosità. In età evolutiva, tuttavia, il quadro clinico è abitualmente dominato da una situazione di marcata “irritabilità” che non è mai proporzionata ad eventuali fattori esterni favorenti. Sono, inoltre, presenti disturbi del sonno e accentuata distraibilità. Nelle forme non episodiche, la sintomatologia non si inscrive in limiti temporali ben definiti, ma caratterizza un periodo che può durare anche alcuni mesi, durante i quali si ha una ciclica esasperazione dei sintomi con frequenza anche pluriquotidiana. Frequentemente, il quadro clinico mette in evidenza sintomi riferibili ad altri quadri psicopatologici, quale disturbo da deficit di attenzione con iperattività (DDAI), disturbo oppositivo-provocatorio (DOP) o disturbi d’ansia (DA). DIAGNOSI Nelle forme tipiche, le caratteristiche dell’episodio, che peraltro rompono una continuità evolutiva caratterizzata da un profilo di sviluppo nel complesso adeguato, risultano fortemente suggestive per un inquadramento diagnostico. In tali evenienze, l’esame clinico va integrato con un’attenta ricostruzione anamnestica e strumenti di valutazione standardizzati, quali, ad esempio, la Kiddie- Schedule for Affective Disorders and Schizophrenia (K-SADS), di cui esiste una versione specificamente dedicata ai disturbi dello spettro bipolare (WASH-U-KSADS). Risulta particolarmente importante accertare se, al di là dei sintomi maniacali o ipomaniacali, il bambino presenti o abbia presentato manifestazioni depressive. Il processo diagnostico mira poi a valutare l’eventuale presenza di quadri clinici in comorbidità (DA, DOP o DDAI). Nelle situazioni in cui le manifestazioni cliniche non assumono i caratteri tipici delle forme dell’adulto, la diagnosi risulta particolarmente problematica, anche in rapporto alla frequente associazione con sintomi riferibili ad altri quadri psicopatologici (DA, DOP o DDAI). Peraltro, va considerato che in una percentuale rilevante di casi, un quadro sintomatologico inizialmente diagnosticato come DA, DOP o DDAI, evolve poi verso una forma conclamata di DB. Nella comune pratica clinica, una delle diagnosi differenziale maggiormente impegnativa e quella con il DDAI. Va tenuto in considerazione che nel DDAI non si verificano episodi di brusco mutamento dell’umore, con gli abituali sintomi ad esso associati (disturbi del sonno, logorrea, grandiosità). D’altra parte, i sintomi caratterizzanti il DDAI (iperattività, impulsività, distraibilità) sono presenti anche al di fuori di episodi di mutamento dell’umore e pertanto non possono essere ricondotti ad esso. In tema di diagnosi differenziale va attentamente valutata la possibilità di un abuso di sostanze illecite che possono determinare episodi ipomaniacali o maniacali. TERAPIA In aggiunta agli interventi educativi e psicoterapeutici, vanno inclusi gli interventi farmacologici. In particolare, possono essere utilizzati, in rapporto alle indicazioni del singolo caso, degli stabilizzanti dell’umore, quali alcuni farmaci anticonvulsivanti e neurolettici atipici. Il carbonato di litio viene in genere utilizzato a partire dall’età di 12 anni, quando, cioè, tali forme cominciano a manifestarsi. PROGNOSI Il dibattito circa i confini nosografici del disturbo impedisce di disporre di indagini longitudinali attendibili. B) IL DISTURBO DA DISREGOLAZIONE DELL’UMORE DIROMPENTE ASPETTI INTRODUTTIVI Il disturbo da disregolazione dell’umore dirompente (DDUD) rappresenta una categoria diagnostica recentemente inclusa nella nosografia codificata. Tale categoria si riferisce a una presenza di una situazione di irritabilità permanente, non episodica, che incide significativamente sulla qualità del funzionamento adattativo del soggetto. Attualmente, i quadri precedentemente descritti con il termine psicosi precoci, ed in particolare l’autismo di Kanner, sono stati inclusi nel gruppo dei disturbi dello spettro autistico, che si pone come una categoria diagnostica maggiormente definita in termini etiopatogenetici, clinici ed evolutivi. Contestualmente, il termine di “psicosi” ha assunto progressivamente un’accezione molto più ristretta. Esso, infatti, viene attualmente utilizzato per indicare non tanto una serie di “sindromi”, ma piuttosto una serie di “sintomi”, i sintomi psicotici, indicativi di un grave disordine del funzionamento mentale: allucinazioni, deliri e disorganizzazione del pensiero. In termini nosografici, vengono in particolare a definirsi due raggruppamenti sindromici: a) il primo include i quadri clinici, in cui i sintomi psicotici sono necessari e caratterizzanti; b) il secondo, viceversa, include i quadri in cui essi sono frequenti ma non caratterizzanti. I quadri clinici in cui i sintomi psicotici assumono l’aspetto di sintomi necessari e caratterizzanti sono rappresentati dai quadri clinici che attualmente il DSM-5 include nella meta-categoria denominata “disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici”: - disturbo delirante; - disturbo psicotico breve; - disturbo schizofreniforme; - schizofrenia; - disturbo schizoaffettivo; - disturbo psicotico indotto da sostanze/farmaci; - disturbo psicotico dovuto a un’altra condizione medica. I quadri clinici in cui i sintomi psicotici sono frequenti ma non caratterizzanti sono essenzialmente rappresentati dalle seguenti categorie diagnostiche: - i disturbi depressivi con sintomi psicotici (anche indicati con il termine di depressioni psicotiche); - il disturbo bipolare. In età evolutiva i sintomi psicotici difficilmente assumono caratteristiche tali da poter essere inquadrati in categorie non nosografiche definite. Il più delle volte, cioè, i sintomi psicotici si presentano come manifestazioni “isolate”, cui solo l’osservazione longitudinale permette di definirne il reale significato. Il capitolo di disturbi caratterizzati da manifestazioni psicotiche resta problematico, il quanto risente di una serie di dicotomie che investono più in generale la Psichiatria: - approccio categoriale vs. approccio dimensionale; - orientamento clinico-descrittivo vs. orientamento dinamico-interpretativo; - atteggiamento nosografico vs. atteggiamento antinosografico. In accordo ai primi termini di queste diverse dicotomie, l’approccio diagnostico è teso ad individuare i quadri clinici che risultano caratterizzati da manifestazioni psicotiche, cercando di definirne i confini nosografici in rapporto a specifici criteri diagnostici. È un approccio descrittivo, ateoretico e per definizione poco attento alle cause. In questa prospettiva il sintomo psicotico non è considerato di per sé stesso, ma solo quale elemento utile per individuare dei complessi sindromici, con significato di entità nosografiche discrete. Per contro, in accordo all’altro termine delle varie dicotomie, l’approccio diagnostico si rivolge alla manifestazione psicotica di per sé stessa, cercando di descriverne le caratteristiche, di definirne la natura ed individuarne le cause. In tale prospettiva, tale tipo di approccio rinuncia a considerare i vari quadri clinici che i “sintomi” psicotici possono contribuire a definire. Si tratta di una rinuncia molto spesso giustificata dal fatto che in età evolutiva il processo di maturazione e crescita del sistema nervoso centrale rendono particolarmente difficile, e spesso impossibile, definire delle categorie nosografiche discrete e stabili nel tempo. LA SCHIZOFRENIA AD INSORGENZA IN ETÀ EVOLUTIVA DEFINIZIONE Con il termine schizofrenia vengono indicati diversi quadri clinici caratterizzati da un’evoluzione cronica, un deterioramento della personalità e la presenza di sintomi psicotici (allucinazioni, deliri, catatonia, disorganizzazione ideativa) almeno in alcune fasi del decorso. Relativamente all’età di esordio, l’inizio della schizofrenia si colloca abitualmente fra i 18 e i 25 anni per i maschi e qualche anno più tardi per le femmine. Anche se raramente, la schizofrenia può insorgere in età evolutiva: nell’adolescenza ed anche nell’infanzia. Con riferimento all’età di esordio, le forme precoci di schizofrenia vengono ulteriormente suddivise in due gruppi: 1) la schizofrenia a insorgenza precoce (Early Onset Schizophrenia, EOS), con esordio prima dei 18 anni; 2) la schizofrenia ad insorgenza precocissima (Very Early Onset Schizophrenia, VEOS o anche Childhood Onset Schizophrenia, COS), con esordio prima dei 13 anni. CAUSE Le “forme precoci” di schizofrenia, differenziandosi dalle “forme dell’adulto” esclusivamente per l’età di esordio, condividono con esse la natura e le problematiche etiopatogenetiche. Le cause della schizofrenia risultano ancora oggi mal definite. Vengono di seguito prese in considerazione alcune delle ipotesi più accreditate. Ipotesi genetiche Le evidenze a favore di quest’ipotesi sono essenzialmente tre: a) frequente familiarità per schizofrenia e sindromi correlate; b) elevata frequenza fra ascendenti e collaterali di “tratti” incompleti della malattia; c) significativi valori di concordanza nei fratelli, nei gemelli di dizigoti ed ancor più nei monozigoti. Viene attualmente privilegiato il modello poligenetico in rapporto al quale la malattia sarebbe il risultato dell’effetto additivo di più geni. Tale ipotesi, tuttavia, non propone un rigido determinismo genetico, in quanto prevede comunque l’intervento di fattori ambientali. Il modello poligenetico, infatti, suggerisce che la componente genetica si esprimerebbe come una “predisposizione” ad ammalare. Ipotesi neurotrasmettitoriali Particolare attenzione è stata rivolta allo studio del profilo neurotrasmettitoriale dei soggetti affetti da schizofrenia. In particolare, il sistema principalmente coinvolto sembra essere il sistema dopaminergico. I circuiti dopaminergici sono fondamentalmente quattro: 1) nigro-striatale; 2) mesolimbico; 3) mesocorticale; 4) tubero-infundibolare. Di tali circuiti, quelli maggiormente coinvolti nella patologia sembrano essere il mesolimbico, in cui si avrebbe un incremento dei livelli di dopamina, ed il mesocorticale, in cui si verificherebbe invece un deficit dei livelli di dopamina. Oltre a quello dopaminergico, sono stati chiamati in causa altri sistemi neurotrasmettitoriali. Le vie serotoninergiche, ad esempio, sono normalmente coinvolte nella modulazione degli impulsi. Pertanto, si ritiene che un’iperattività serotoninergica possa porsi quale disfunzione responsabile dell’impulsività esasperata degli schizofrenici. Ipotesi neuroendocrinologiche Strettamente connessa all’ipotesi neurotrasmettitoriale è la ricerca di specifiche alterazioni neuroendocrine. Dovrebbe infatti verificarsi un’ipersecrezione del GH ed una riduzione dei livelli di prolattina. Tale riscontro, tuttavia, è stato confermato da alcune ricerche, ma non da altre. Indipendentemente da tali risultati, alcuni sottogruppi di pazienti schizofrenici sembrano presentare caratteristiche neuroendocrine che li differenziano dalla popolazione normale e dai pazienti affetti da altre patologie psichiatriche. Ipotesi neuropatologiche Le evidenze neuropatologiche derivano sia da materiale autoptico di soggetti schizofrenici, che da neuroimmagini in vivo. Le ricerche effettuate in questo senso hanno messo in evidenza alterazioni dei lobi frontali e temporali, del cervelletto e del sistema mesolimbico. Considerando, tuttavia, l’eterogeneità e la variabilità delle alterazioni rilevate resta da definire se esse abbiano un ruolo primario, quale “causa” della schizofrenia, o se siano piuttosto secondarie, quale “conseguenza” di una generale disorganizzazione delle attività mentali che può ripercuotersi sul funzionamento di specifiche aree, determinandone alterazioni strutturali. Ipotesi psicogenetiche La prospettiva psicoanalitica per molti anni è stata caratterizzata dalla controversia tra il modello del conflitto rispetto a quello del deficit. In accordo al modello del conflitto la schizofrenia sarebbe stata la conseguenza di una globale incapacità di governare pulsioni libidiche e/o distruttive molto potenti. Secondo Freud, mentre la nevrosi era in qualche modo l’espressione di un conflitto tra l’Io e l’Es, la psicosi era riconducibile ad un conflitto tra l’Io ed il mondo esterno che facilitava forti spinte regressive. Tale regressione dalle relazioni oggettuali a uno stadio evolutivo autoerotico avveniva parallelamente a un ritiro di investimento emotivo dalle rappresentazioni oggettuali e dalle figure esterne. In questa prospettiva la carica energetica disinvestita era reinvestita sull’Io. In accordo al modello del deficit, invece, la schizofrenia sarebbe stata l’esito di un difetto maturativo dell’ego, delle sue funzioni di integrazione delle esperienze e di confine con il mondo. Il modello del deficit, nato con la “scuola britannica” delle relazioni oggettuali, nell’enfatizzare l’importanza delle vicissitudini delle relazioni oggettuali interne, piuttosto che quella della teoria pulsionale, poneva particolare attenzione all’influenza del primo ambiente di vita del lattante. Posizioni intermedie sono state espresse dall’ipotesi integrate, secondo cui la schizofrenia sarebbe stata caratterizzata dalla perdita dei confini dell’Io e dalla dominanza di un pensiero arcaico. Indipendentemente dal modello utilizzato per spiegare la schizofrenia, l’approccio psicoanalitico ha sempre posto la figura materna quale elemento critico nella genesi del disturbo schizofrenico. Attualmente, tuttavia, la responsabilità materna è stata notevolmente attenuata con il ricorso al modello della “corrispondenza” madre-bambino. Secondo tale modello, il fallimento delle prime relazioni oggettuali non è necessariamente da imputare alla mamma. Tale fallimento, infatti, può essere primitivamente dovuto ad un bambino con una barriera di stimoli danneggiata per fattori genetico-costituzionali, nei cui confronti la madre può essere solo relativamente poco equipaggiata dal punto di vista emotivo per svolgere il suo ruolo di contenitore. L’allargamento dell’osservazione dal genitore a tutta la famiglia ha poi portato a focalizzare l’attenzione sui ruoli e sulla comunicazione all’interno del gruppo. Secondo alcuni autori, l’assenza di una comunicazione reale induce il bambino a un estremo bisogno di ottenere risposte; bisogno espresso attraverso reazioni abnormi. I conseguenti inaccettabili comportamenti del bambino vorrebbero poi rinforzati dagli atteggiamenti dei genitori, improntati ad aggressività, solitamente rimossa. SINTOMI CARATTERISTICI I sintomi caratteristici sono rappresentati da due raggruppamenti sintomatologici: 1) Sintomi positivi: riflettono un’alterazione “quantitativa”, in eccesso, di una serie di funzioni mentali (sintomi produttivi). Essi infatti includono distorsioni o esagerazioni del pensiero deduttivo (deliri), della percezione (allucinazioni), del linguaggio e della comunicazione (eloquio disorganizzato) e del controllo del comportamento (comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico). Attualmente si ritiene che tali sintomi positivi rientrino in due dimensioni distinte. Tali dimensioni sono rappresentate da una “dimensione psicotica”, che include deliri e allucinazioni, ed una “dimensione disorganizzativa”, che include eloquio e comportamento disorganizzati. 2) Sintomi negativi: riflettono un’alterazione “quantitativa”, in difetto, di una serie di funzioni mentali. Essi, infatti, riguardano restrizioni nello spettro e nell’intensità delle espressioni emotive (appiattimento dell’affettività), nella fluidità e nella produttività del pensiero e dell’eloquio (alogia) e nell’iniziare comportamenti finalizzati a una meta (abulia). DECORSO Il decorso del quadro clinico, in accordo alle originali indicazioni di Kraepelin, assume di per sé stesso una valenza diagnostica. Tipicamente infatti il quadro schizofrenico riconosce una storia naturale caratterizzata da tre fasi: 1) la fase prodromica; 2) la fase attiva; 3) la fase residua. La fase prodromica La fase prodromica è tipicamente caratterizzata da un progressivo cambiamento del modo di essere e di comportarsi del soggetto. Gli aspetti che maggiormente segnalano tale cambiamento sono rappresentati da un progressivo impoverimento degli interessi sociali, con comparsa di condotte di evitamento e di ritiro, e da un significativo calo del rendimento scolastico o lavorativo. Il sintomo prevalente in questa prima fase prodromica è in genere rappresentato dall’ansia: un vago senso soggettivo di tensione e di timore che possa accadere qualcosa di indefinito, l’ansia può assumere un’intensità crescente fino a diventare uno stato di profonda angoscia. Ciò rende il soggetto distratto, irritabile, talvolta francamente aggressivo. Viene talvolta segnalata, in tale fase la comparsa di interessi bizzarri (interesse per le scienze occulte o le scienze esatte) cui il ragazzo si dedica con la dedizione assorbente a scapito delle relazioni sociali. Un altro sintomo riscontrabile nella fase prodromica è costituito dalla comparsa di preoccupazioni somatiche immotivate, che variano da dolori vaghi e mal definiti fino ad insistenti dismorfofobie. Possono, inoltre, comparire, già in fase prodromica, esperienze di depersonalizzazione, in forma di depersonalizzazione autopsichica, allopsichica e/o somatica. L’esordio della fase prodromica può essere acuto o subdolo e lentamente progressivo; la durata può variare da pochi giorni ad alcune settimane (nei casi ad esordio acuto) o da mesi ad anni (nei casi ad esordio subdolo e lentamente progressivo). La fase attiva La fase attiva ha inizio con la comparsa dei sintomi psicotici propriamente detti. In tale fase, anche definita come fase di stato, il quadro è dominato da allucinazioni, deliri, disorganizzazione del pensiero o sintomi negativi, i quali peraltro possono presentarsi variamente associati. La durata della fase attiva è variabile, in rapporto anche alla risposta alla terapia. per definizione, tuttavia, essa deve avere una durata sufficientemente lunga per poterla differenziare da un disturbo psicotico breve. Tale durata viene quantificata in termini di 4 settimane, a meno che il clinico non ritenga che la durata inferiore al mese sia riconducibile all’efficacia del trattamento. La fase residua La fase residua segue la fase attiva ed è caratterizzata da un’attenuazione dei sintomi psicotici. In aggiunta a questi sintomi positivi attenuati, i sintomi che maggiormente caratterizzano questa fase, così come quella prodromica, sono quelli negativi: persiste il disinvestimento delle relazioni interpersonali e l’appiattimento dell’affettività, con ripercussioni sul funzionamento scolastico, lavorativo, sociale e familiare. CARATTERISTICHE CLINICHE DELLE FORME PRECOCI Anche se le “forme precoci” rispondono ai criteri diagnostici abitualmente utilizzate per le “forme dell’adulto”, vanno tenute in considerazione una serie di caratteristiche clinico-evolutive strettamente connessi alla particolare fascia di età e ai relativi processi di maturazione e crescita del sistema nervoso centrale. RAPPORTO MASCHI-FEMMINE Le “forme precoci” sembrano mostrare una prevalenza per il sesso maschile con un rapporto variabile da 2:1 a 3:1. IL PROFILO DI SVILUPPO PREMORBOSO Si riferisce alle caratteristiche dello sviluppo relative alla fase precedente l’esordio della fase prodromica. Tutte le ricerche effettuate in questo senso hanno messo in evidenza un’elevata frequenza dei disordini dello sviluppo con interessamento di diverse aree funzionali: difficoltà di apprendimento, compromissione del comportamento sociale, ritardi del linguaggio, disordini dello sviluppo motorio. Molte ricerche riportano nei soggetti che successivamente sviluppano un quadro schizofrenico, valori medi del Quoziente Intellettivo (QI) significativamente inferiori rispetto gruppi di controllo. LE MODALITÀ DI ESORDIO L’esordio delle forme precoci è generalmente insidioso e mal definito, con una fase prodromica lentamente progressiva e di lunga durata (diversi mesi). Peraltro, l’elevata frequenza di disordini premorbosi, rappresentati da atipie cognitive e comportamentali, comporta due tipi di problemi aggiuntivi: a) da un lato, i disordini premorbosi determinano una situazione di generale malfunzionamento adattivo che rende difficile apprezzare il tipico cambiamento che nelle forme dell’adulto segna l’ingresso nella fase prodromica; b) dall’altro, il cambiamento molto spesso si esprime con un’accentuazione di disordini preesistenti, il che può portare alla formulazione di diagnosi fuorvianti. LA FASE DI STATO I sintomi caratteristici, anche se “quantitativamente” simili alle forme dell’adulto, sono “qualitativamente” differenti in relazione alle caratteristiche del funzionamento mentale legato all’età. Allucinazioni Prevalgono nettamente le allucinazioni uditive, rispetto a quelle visive e tattili. Il più delle volte esse assumono il carattere di comando. Decisamente meno frequenti rispetto alle forme dell’adulto sono le allucinazioni uditive di voci “dialoganti” o “di commento”. Deliri Il contenuto e la complessità dei deliri varia necessariamente con l’età. Essi comunque sono meno complessi e sistematizzati, spesso variabili, con tematiche che riguardano prevalentemente mostri ed animali. Frequentemente i deliri sono bizzarri, più spesso somatici. Eloquio disorganizzato Si tratta di uno dei sintomi più difficili da valutare in età evolutiva, in relazione alla fisiologica incompetenza linguistica del bambino, che frequentemente può portare ad apparenti disturbi della coerenza, della coesione e dell’aderenza dei contenuti creativi al contesto conversazionale. Ciò nondimeno, rispetto a gruppi di controllo paragonabili per età, sesso e livello cognitivo, i bambini con schizofrenia presentano, in percentuale significativamente maggiore, ragionamenti illogici, perdita di associazione fra le tematiche del discorso ed incapacità di adeguarsi ai ritmi conversazionali. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico Rispetto alle “forme dell’adulto” il comportamento catatonico è generalmente assente, mentre relativamente frequenti sono le bizzarrie comportamentali e la presenza di crisi di agitazione imprevedibili ed inspiegabili. Sintomi negativi I sintomi negativi sono abituali e facilmente diagnosticabili. Essi sono espressi da un globale rallentamento ideomotorio, povertà delle espressioni mimiche, scarsa disponibilità allo scambio relazionale con un eloquio marcatamente ridotto. Tale atteggiamenti si traducono in una compromissione dell’interazione sociale con condotte di evitamento. Molto spesso i sintomi negativi così descritti sembrano rappresentare l’esasperazione di comportamenti preesistenti l’inizio della malattia. DECORSO E PROGNOSI Anche se le casistiche sono ancora ridotte e il periodo del follow-up ancora limitato, le “forme precoci” sembrano presentare una prognosi decisamente peggiore rispetto alle “forme dell’adulto”. Tale rilievo è peraltro confermato dalle indagini retrospettive di adulti schizofrenici, le quali hanno messo in evidenza che quanto più precoce è l’età di esordio tanto più compromesso è il funzionamento sociale del soggetto.
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