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Riassunto completo per esame di Filosofia del Diritto - Francesco Cavalla - "L'origine e il diritto", Sintesi del corso di Filosofia del Diritto

Teoria del dirittoFilosofia politicaDiritto pubblicoDiritto privato

Riassunto completo del libro di Francesco Cavalla: "L'origine e il diritto" nelle parti selezionate dal Prof. Paolo Moro (UniPd - Sede Treviso) ovvero: - Il Principio - Diritto, principio e processo. La tragedia Greca. - La Teoria di Herbert Hart - La norma giuridica secondo Hans Kelsen Voto preso studiando da questi riassunti: 29/30 - Completamente sostitutivi al testo, a primo impatto difficilmente comprensibile.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 10/06/2020

SimonePrevidi
SimonePrevidi 🇮🇹

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Scarica Riassunto completo per esame di Filosofia del Diritto - Francesco Cavalla - "L'origine e il diritto" e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! Riassunto Filosofia del Diritto – 2019/2020 QUARTA PARTE – LA TEORIA DI HERBERT HART Appunti e riassunti di Simone Previdi Università degli studi di Padova – Giurisprudenza 2.0 Considerazioni introduttive Se non è lo stato il solo a produrre norme valide ed efficaci, quale altro organo concorre con lui o addirittura lo sostituisce in tale funzione? Le risposta diffusa è: le corti, gli organismi giudiziali con le loro sentenze. Dopo aver affrontato la questione del normativismo statualistico è opportuno ora affrontare quella che potremmo chiamare “normativismo giudiziario”. Si tratta di quella forma di normativismo che – concependo ancora il diritto come costituito da norme valide ed efficaci – ritiene che tali norme coincidano con le pronunce dei giudici nell’ambito della loro attività istituzionale. La tesi secondo cui il diritto è quello che i giudici dicono che sia prende il nome di “realismo”: e già il fatto che prenda tale nome la dice lunga su come vadano effettivamente oggi le cose nel campo giuridico. Al normativismo giudiziario da ora ci avvicineremo attraverso la lettura dell’opera di H.L. Hart (non entrando quindi in contatto diretto con le tesi realistiche) che realista propriamente non è. Herbert Hart ha costituito l’ultima visione del diritto nella quale si sono riconosciuti in modo unitario una gran parte degli studiosi che si definivano “positivisti”: positivismo che si è poi frantumato in una serie di posizioni in cui la varietà di esse dimostra la difficoltà di tale prospettiva di organizzarsi in tesi diffusamente convincenti. Il pensiero di Hart, nei dibattiti più recenti, è stato opposto alla tesi di Kelsen. Ma perché, per quali criteri, le tesi di Hart si oppongono a quelle di Kelsen? Probabilmente perché Hart promette di raggiungere una delimitazione del campo del diritto attraverso il metodo della descrizione che, come sappiamo, non è quello attribuibile a Kelsen. Allora, visto che il metodo della coerenza (quello secondo i criteri della scienza che abbiamo visto con Kelsen), a proposito della concezione del diritto, non si sono ottenuti risultati soddisfacenti, lo spirito critico esige si vada a trovare un altro metodo, quello della descrizione: così da esaminare se gli esiti che con esso si propongono siano davvero non criticabili e sino a domandarci anche se la descrizione sia la via più idonea a comprende la realtà del diritto nella sua totalità. Dobbiamo capire cosa intende Hart per “descrizione” e quali criteri egli propone per attuarla. Da ora in poi sosterremo questa posizione che si articola nelle seguenti tesi: a) Hart mostra con quali strumenti si più raggiungere la realtà del diritto tramite la descrizione b) Affidandosi alla descrizione si raggiunge inevitabilmente quella visione del diritto che può andare sotto il nome di normativismo giudiziario, per il quale il diritto valido ed efficace è quello che si trova nelle sentenze dei giudici c) E così si ritrova quali siano i presupposti teorici del normativismo giudiziario anche in quelle forme dello stesso dove i medesimi presupposti non sono espressamente invocati d) In questo modo si potrà criticare la visione del normativismo giudiziario, che oggi è la più diffusa pratica del diritto, utilizzando confutazioni cogenti e non solo appellandosi a pur giustificabili considerazioni di opportunità politica. Una prospettiva fenomenologica Il primo punto del pensiero di Hart riguarda il metodo. Hart dichiara che nella sua indagine si atterrà ai canoni di una “sociologia descrittiva” (anche se il termine è stato parecchio criticato in quanto la sociologia è scienza che procede per verifiche sul campo e misurazioni… cosa che Hart non fa). Tuttavia bisogna capire quali fossero le reali intenzioni del giurista di Oxford. Esse ci sembrano orientate a produrre una prospettiva che prende il nome di “fenomenologica”: formata cioè da un insieme di criteri idonei a descrivere ed individuare fenomeni. Il termine non proprio corretto di “sociologia descrittiva” verrebbe ad indicare quindi: a) L’intenzione di porre a tema fenomeni sociali b) Cercando di descriverli Vedremo come sarà possibile arrivare ad una visione che considera il diritto come un oggetto descrivibile. Questa ipotesi interpretativa potrà indicarci le differenze tra Kelsen e Hart: uno impegnato a formulare una teoria sulle caratteristiche formali di certe norme; l’altra con l’obiettivo di fissare le caratteristiche tipiche e ricorrenti di certi comportamenti soggettivi nella società dai quali possa desumersi la presenza efficace di norme giuridiche. Nonostante tutto, anche Hart, come Kelsen, si dichiara positivista: egli intende mostrare “il diritto come è non come deve essere” e appunto il “diritto come è” è quello che si manifesta osservando certi fenomeni sociali presenti e ricorrenti nell’esperienza. La norma di riconoscimento Esaminiamo come Hart realizza il suo programma fenomenologico. Troviamo ora il concetto di norma di riconoscimento che rappresenta una tipica idea del suo pensiero. É una novità. Di che si tratta? Notiamo subito che per Hart una cosa è l’osservanza di una regola e un conto è l’abitudine a comportarsi in modo regolare e ripetitivo. Nel primo caso, e non nel secondo, interviene un atteggiamento critico da parte dell’osservante. Il che vuol dire che egli deve essere cosciente che potrebbe anche non obbedire alla regola e, se lo fa, lo fa perché ha trovato una buona ragione perché lo ritiene giusto. Ulteriore precisazione: come si manifesta una norma valida nell’esperienza? Attraverso il comportamento di coloro che la considerano tale: sia obbedendola sia anche trasgredendola, quando la trasgressione si accompagna alla consapevolezza di venir meno ad un dovere. La norma può essere scritta ma anche non scritta e in entrambi i casi può esprimersi in un testo fisso o non fisso: però, in qualunque modo la si presenti, la norma può essere ritenuta valida ed efficace. Infatti la sua realtà è in primo luogo desumibile dal comportamento di un gruppo di soggetti i quali quella data norma ritengono valida. Allora alla fine ciò che rende valida una data norma non è un insieme di qualità formali (come sarebbe per Kelsen) ma l’atteggiamento dei soggetti che la considerano tale. Hart quando parla di fenomeni normativi intende descrivere azioni umane che sono fatte in modo da mostrare che i loro autori reputano valide certe norme, non importando se queste norme siano scritte o non scritte. Ebbene, di fronte ad un sistema normativo si possono assumere, secondo Hart, tre diversi punti di vista. 1) Punto di vista esterno estremo proprio di chi intuisce la presenza di un sistema normativo dal comportamento delle persone che egli esamina: ma non conosce il contenuto delle norme da loro seguite e quindi non pensa che tali norme lo riguardino (Esempio di Harti: il punto di vista di chi, imbattendosi casualmente in due giocatori di scacchi, capisce che essi muovono i pezzi secondo delle regole che però egli non conosce) I criteri di validità sono quelli adottati dai giudici nelle sentenze quando, avendo accettato una norma di riconoscimento, riconoscono di conseguenza certe norme come valide. Il diritto valido è quello ritenuto tale dai giudici. Ciò che caratterizza la prospettiva che stiamo delineando è che il giudice non deve riconoscere una norma perché è valida, ma una norma è valida perché riconosciuta da un giudice. Tuttavia anche se si attribuisce ai giudici una capacità nomopoietica, essi si distinguono nettamente dai legislatori. Senso comune, contesto culturale e riconoscimento Il giudice accetta di riconoscere una norma perché è valida o una norma è valida perché la riconosce il giudice? La questione è, nel caso di Hart, semplicemente non affrontata. Una risposta al problema sollevato si può trovare invece nell’originale critica di Mario Jori. Jori rimprovera Hart di non aver distinto la identificazione e la individuazione del diritto dalla determinazione del diritto stesso. Per Jori, Hart non metterebbe in luce le complesse operazioni che nel contesto sociale si pongono in atto per produrre un contenuto alla parola “diritto”. Secondo Jori il senso comune ci permette di distinguere ciò che è diritto e ciò che non è diritto e, sempre grazie al senso comune, si trovano criteri per distinguere il diritto tout court (in breve) dalla presenza di un diritto avvertito come vigente in un certo luogo e tempo (individuazione del diritto). “Nel senso comune c’è dunque in qualche modo la capacità concettuale di distinguere ciò che è diritto da ciò che non lo è; inoltre il diritto tout court viene altrettanto automaticamente distinto dal diritto vigente, il che vuol dire il diritto vigente dal diritto passato, dal diritto del futuro, dal diritto immaginario, dal diritto utopico, insomma… dal diritto che non è vigente” Altra operazione è la determinazione del diritto: che consiste nell’attività dei tecnici diretta a delimitare il campo del diritto vigente. Stando così tutti coloro che sono chiamati a determinare il diritto, a delimitare i confini dell’ordinamento vigente, sono soggetti che operano su una realtà già presente come condizione del loro lavoro e non prodotta da questo: si tratta di ciò che il senso comune ha identificato come diritto e individuato come diritto vigente. Venendo ad Hart ora egli confonde il ruolo del senso comune e del linguaggio ordinario (identificare e individuare il diritto) con il ruolo del pensiero tecnico (delimitare il diritto). Con la norma di riconoscimento si entra nel campo delle operazioni tecniche: chi le accetta si impegna a determinare in modo specifico gli elementi del diritto vigente. Hart si dimentica di dire che l’individuazione in questa fase è però già avvenuta. Il momento tecnico infatti è condizionato e preceduto da un’idea del diritto che ha origini altrove, nel senso comune: e infatti il giurista non ha bisogno di mezzi tecnici per rilevarne la presenza. Visto che ora stiamo esaminando la risposta moderna per la quale la più rigorosa concezione del diritto si ottiene attraverso la descrizione di certi comportamenti sociali che con la loro regolarità mostrano l’obbedienza a determinate regole, allora è legittimo chiedersi: è descrivibile il senso comune? La risposta è no, per la sua intrinseca vaghezza. Invece è descrivibile il senso comune dei funzionari. Dunque il diritto valido e vigente è quello accettato dal giudice. Ciò non significa che il senso comune e il contesto culturale non condizioni le decisioni giudiziali: non c’è atto che non sia influenzato dal contesto in cui si pone. Ma non è possibile presupporre che il giudice debba conformarsi a un sistema precostituito alla sua volontà. Concludiamo: se si parla di criteri di validità restando a ciò che può essere descritto non possiamo che pensare a criteri che il funzionario stesso stabilisce al momento dell’accettazione della norma di riconoscimento. Ci chiediamo anche: in che modo il condizionamento ambientale limita la volontà del giudice? Insomma, il ricorso ai fattori condizionanti ci potrà consentire di affermare che una data sentenza è certamente “sbagliata”? Intanto a completare il nostro discorso specifichiamo che la norma di riconoscimento non si rivolge soltanto ai funzionari ma anche ai cittadini che vogliono vivere pacificamente l’esperienza sociale. Ma si rivolge anche al bad man ovvero al cittadino sleale verso leggi e istituzioni: costui infatti può divenire cosciente che il suo comportamento costituisce la violazione di una norma solo ammettendo implicitamente che quella norma avrebbe dovuto essere obbedita ed era, dunque, valida. Ma quali norme, in concreto, il cittadino deve ammettere come valide in seguito alla accettazione della norma di riconoscimento? Le stesse norme che i funzionari hanno riconosciuto come valide. Se non reagissero così i cittadini sicuramente incontrerebbero decisioni dei giudici a loro sfavorevoli. Di conseguenza anche per l’ordinamento nazionale, i cittadini sono indotti a riconoscerlo come valido solo perché e finché anche i funzionari i assumono la stessa posizione. E cos’è di tutte quelle leggi che il cittadino rispetta ma che non entrano nelle dispute dei tribunali? Le norme emesse da un’autorità formano una realtà che ha a che fare strettamente con il diritto ma non è essa stessa, da sola, il diritto. Il mondo della coazione organizzata è informato da un principio proprio che è quello della politica. La figura del giudice Ribadiamo per chiarezza alcune conclusioni: la norma di riconoscimento non è in grado di imporre limiti alla discrezionalità dei giudici nel selezionare le norme valide, ma può rappresentare i confini che loro stessi si danno alla loro autonomia. In altri termini: se la norma di riconoscimento si desume dal fatto che i giudici riconoscono valido un certo diritto, allora la norma di riconoscimento non propone come valido nessun altro diritto se non quello che i giudici riconoscono per tale. Sottolineiamo una differenza di comportamento tra legislatore e giudice: il giudice, ma non il legislatore, si ritiene in obbligo di comunicare le sue decisioni come conseguenti a certe norme poste previamente alla sua volontà. Presentare le proprie decisioni come conseguenza “necessaria” di norme riconosciute come valide: è questo un modo tipico di procedere che caratterizza un determinato tipo di funzionari. Dunque la norma di riconoscimento non vale a porre limiti di contenuto all’attività del giudice; vale invece per caratterizzare il fenomeno “attività dei giudici” così da consentirne la descrizione. L’accettazione della norma di riconoscimento si manifesta in ulteriori caratteristiche del comportamento dei giudici. Nessuno infatti può “inventarsi” di fare il giudice in modo efficace se non è convinto di essere stato investito nelle sue funzioni da chi ha il potere di determinarle e garantirne l’efficacia. Sotto questo profilo la norma di riconoscimento assume il ruolo anche di norma attributiva di funzioni: il giudice mostra di averla accettata quando, quasi sempre in modo esplicito, emette le sue pronunce “in nome di” altro soggetto che gli ha conferito il compito che sta svolgendo (in nome del popolo italiano… in nome di sua maestà… ecc.) E quando parla di “in nome di” lo fa perché si sente incaricato di derimere una determinata controversia con una sua decisione. Facciamo ora due precisazioni: 1) La presenza di “attribuzione di compiti” nella norma di riconoscimento è desumibile non da qualche testo che ne voglia presupporre la validità, ma dal comportamento di certi soggetti, dalla loro convinzione di svolgere una funzione dotata di efficacia. 2) La seconda specifica riguarda il contenuto del compito istituzionale accettato. Come l’accettazione della norma di riconoscimento non limita nei contenuti le decisioni dei giudici, anche l’accettazione del compito istituzionale si mostra nella convinzione del giudice di dover esercitare le proprie funzioni solo nel caso che venga chiamato esplicitamente a dirimere una controversia: ma non limita il giudice stesso ad adottare forme, procedure o ambiti di competenza. In conclusione l’accettazione della norma di riconoscimento e dell’attribuzione di funzioni in essa contenuta non comporta per l’accettante alcun vincolo normativo per quanto riguarda le forme e i contenuti delle sue decisioni, risolvendosi tutta nell’adozione di fatto di un comportamento tipico: caratterizzato dall’assunzione di decisioni efficaci, giustificate da norme precedentemente poste e considerate valide, al fine di dirimere una controversia. La pluralità delle norme di riconoscimento Il giudice accetta una sola norma di riconoscimento o può accettare anche più di una? Una volta stabilito che la validità è conseguenza del riconoscimento non ha più senso chiedersi quante siano le norme primarie che debbano o possano accettarsi. Certo, nello spazio e nel tempo le norme di riconoscimento sono molte perché molte e diverse sono le organizzazioni di potere che ne costituiscono la fonte. Ma il fatto che più funzionari accettino una norma è proprio ciò che permette che i funzionari stessi possano essere riuniti in gruppi tra loro diversi, ciascuno capace di costruire un ordinamento giuridico particolare. Per ora ci basti osservare come non è in base alla qualità e neppure alla fonte delle norme riconosciute che è possibile suddividere in gruppi diversi i funzionari come appartenenti a ordinamenti diversi. Ma la separazione tra gruppi di giudici appartenenti a ordinamenti diversi può farsi solo guardando quale norma di riconoscimento attributiva di funzioni sia da loro accettata e quindi quale sia il potere garante della efficacia del loro operato. L’idea hartiana della norma di riconoscimento attributiva di funzioni si riferisce ad una realtà che si manifesta nei fatti: i fatti sono una serie di comportamenti sociali nei quali si mostra che i loro autori hanno accettato la norma di riconoscimento perché presentano determinate caratteristiche. Che sono: a) Il presentarsi come una decisione produttiva di effetti b) Diretta a determinare una controversia c) Giustificata da una norma previa riconosciuta come valida In parole povere: il diritto valido è quello che i giudici riconoscono come valido. Desiderio di sopravvivenza e diritto naturale Se la norma di riconoscimento non è in grado di limitare la discrezionalità del giudice tuttavia l’attività del giudice nel suo complesso non si conclude con decisioni arbitrarie. Perché la giurisprudenza non è arbitraria? Intanto bisogna ricordare che una sentenza deve essere emessa entro i limiti caratteristici della giurisprudenza. Non potrà essere considerata una sentenza, produttrice di norme valide, la pronuncia di un funzionario che motu proprio, senza che sia stato istituito da nessuno, di propria iniziativa. Ma parliamo ora dei limiti che incontrano le decisioni giudiziali: il più esteso prevede che vi sia una “legge naturale” sovraordinata ad ogni normativa storica. Anche Hart parla di diritto naturale. E qui andiamo a toccare il discorso del giusnaturalismo che può essere considerato incompatibile con la dottrina positivistica che Hart dichiara di sostenere… Intanto, per giusnaturalismo intendiamo: La prima posizione afferma che esistono norme (diritto naturale) giuste in ogni tempo e luogo perché si fondano sulla natura immutabile dell’uomo. La seconda posizione è la versione soggettiva della prima: esistono in capo ad ogni uomo delle pretese a raggiungere certi scopi che sono propri della sua natura immutabile. è la giustificazione della sentenza si può esigere che il termine “giustificazione” assuma un significato forte, tale da alludere ad un legame controllabile. Quando la giustificazione si traduce in un rapporto logico cogente tra una premessa e una conclusione? Quando tra premessa e conclusione si forma una o più verità derivate, per coerenza o per descrizione. E se ciò non avvenisse (e non avviene sempre) la sentenza apparirà censurabile. Nella maggior parte dei casi la contraddizione tra interpretazione e sentenza (quando c’è) non risulta subito. Perché emerga una contraddizione c’è un lavoro da fare con risultati che possono risultare discutibili. Una sentenza può considerarsi definitiva ma se non forma una verità con la sua premessa interpretativa è una sentenza sbagliata e chi la rifiutasse avrebbe dalla sua parte argomenti cogenti. Non è invece possibile contestare le norme riconosciute come diritto dal giudice. I caratteri tipici dell’attività giudiziaria Tiriamo le somme del discorso di Hart. L’attività giudiziaria si risolve in un comportamento sociale: quello di certi soggetti che hanno accettato di conferire al medesimo date caratteristiche per permettono di stagliarlo nell’esperienza. Le caratteristiche del comportamento in oggetto possono essere così precisate: esso è attivato dalla richiesta di risolvere una controversia; opera con decisioni efficaci; giustificate dal riconoscimento della validità di certe norme previamente poste. Quanto al contenuto della sentenza esso varia in base ad una serie di fattori contestuali formati: dalla prassi giudiziaria; dalle convinzioni e valori dominanti; dal nucleo di buon senso del diritto naturale. Sarebbe certo possibile contestare una sentenza che non rispettasse i condizionamenti: ma si tratterebbe di una critica politica non idonea a squalificare la sentenza stessa in modo indiscutibile. Il diritto valido come oggetto di una descrizione Per avere una descrizione occorre una premessa: in questa si assemblano una serie di proprietà che sono idonee a stagliare una porzione della realtà fenomenica (oggetto) in modo che possa distinguersi da tutto ciò che la circonda. La premessa è costruita per essere verificabile attraverso il confronto con la realtà fenomenica: ed è verificata quando nella realtà si riesce a identificare l’oggetto come caratterizzato nella premessa. Torniamo ad Hart. Per Kelsen la validità giuridica di un enunciato prescrittivo è una qualifica i cui elementi sono dedotti da un assioma. Per Hart la validità è la caratteristica di certi enunciati prescrittivi che emergono nell’esperienza in quanto prodotti da un fenomeno tipico: che è quindi descrivibile. In cosa consiste questo fenomeno? In un comportamento sociale dotato di specifiche caratteristiche, frequentemente ripetibile. Come lo si può descrivere? Come sempre si tratta di fissare in una premessa verificabile le sue proprietà: in modo tale che l’oggetto stagliato possa poi venire identificato nella realtà. Quali sono queste proprietà? Sono quelle proprietà che definiscono quel comportamento che Hart dice manifestante l’accettazione di una norma di riconoscimento. Nel dettaglio, le proprietà del comportamento vengono così specificate: è diretto a dirimere una controversia; pone prescrizioni conclusive mettendole in un rapporto di continuità con norme precedenti che vengono, per questo fatto, riconosciute come valide ; produce decisioni efficaci. Quanto al contenuto delle norme valide Hart non dice nulla che esorbiti dal campo dei fenomeni storici e così siamo invitati a riconoscere che il merito delle sentenze è condizionato da vari fattori agenti nel contesto culturale. Ecco allora che emerge nell’esperienza un fenomeno al quale Hart da con “successo” il nome di diritto valido. Il diritto valido coincide con le norme dei giudici. Intorno ad un’importante critica mossa al pensiero di Hart Tale critica accusa le premesse di Hart perché sarebbero affette da circolarità. Si vorrebbe mettere in luce un difetto logico del pensiero di Hart. Secondo i suoi critici egli assumerebbe una premessa che diventa significante solo dopo che se ne sia conosciuta la conseguenza; ma la conseguenza non potrebbe essere precisata finché non è specificata la premessa. Così Hart assumerebbe che c’è diritto dove ci sono soggetti che acquistano la qualifica di “funzionari” perché accettano una norma di riconoscimento; allora per capire chi sono i funzionari bisognerebbe conoscere il contenuto della norma di riconoscimento. Ma ciò non è possibile perché la norma di riconoscimento si manifesta solo attraverso il comportamento di soggetti che già devono essere considerati funzionari. Insomma, non si potrebbero vedere dei funzionari se prima non si è vista la norma di riconoscimento; ma non si può vedere la norma di riconoscimento se prima non si sono visti dei funzionari che ne manifestano la presenza. L’accusa di circolarità è durissima ed è insuperabile finchè si continua a vedere nel discorso di Hart una teoria nella quale ogni idea è derivata da una precedente fino a giungere ad un assioma primo. Diritto e Morale Positivistica è la visione che concepisce il diritto come interamente composto da elementi posti nella storia da agenti, a loro volta, tutti nella storia risolti. Certamente un punto sensibile di ogni visione positivistica è quello di stabilire una netta separazione tra diritto e morale. L’uno è quello che mostra di aver accettato una norma di riconoscimento; è il comportamento proprio dei giudici che da luogo a norme comunque giuridiche. L’altro è il comportamento di qualunque soggetto che operi scelte e persegua scopi. Niente può impedire che le convinzioni morali del giudice possano influire le sue sentenze. La distinzione tra diritto e morale rimane comunque netta: ma solo se si guarda alla differente forma empirica dei comportamenti nell’esperienza. La distinzione tra morale e diritto è necessaria secondo alcuni positivisti perché secondo loro la morale andrebbe ad intaccare la sacra laicità del diritto, alla sua neutralità rispetto ai valori ecc. Scarpelli affermava: “è morale distinguere la morale dal diritto”. Ma è davvero così? Hart realizza il proposito dichiarato di rappresentare “il diritto come è e non come deve essere”? Sicuramente questa è la sua intenzione. Ma ci è riuscito? Bisogna riflettere: l’uso dello strumento descrittivo è il più idoneo a persuadere chi lo riceve che si sta producendo un oggetto che appare come una realtà che è quella che è, a prescindere da ogni valutazione della stessa. Quindi è certo che il metodo di Hart vale a rappresentare qualcosa “come è” solo per tutti coloro i quali accettano che: il diritto sia descrivibile. Il normativismo giudiziario Alla fine ciò che ci resta di Hart è quanto segue. Se si vuole ridurre il diritto ad un oggetto di descrizione bisogna identificare un comportamento tipico produttivo di norme. Ma a quali condizioni queste altre norme, diverse dalle sentenze, possono essere dette diritto valido? Se è certo solo l’esito di una descrizione, e si possono descrivere comportamenti tipici, sono certamente valide quelle norme il cui riconoscimento come valide faccia parte di comportamenti tipici descrivibili. In altri termini: l’unico modo per sapere se una norma è valida è che la sua qualificazione faccia parte di un fatto: il fatto che certi soggetti definiti la considerino valida. In questo senso concludiamo dicendo che per Hart il diritto valido è quello dei giudici. Ciò non deve togliere la piena consapevolezza che l’attività dei giudici è soggetta ad una serie di condizionamenti culturali: ma riconoscere la presenza e la qualità dei condizionamenti non vuol dire terminarli in modo tale che costituiscano criteri per censurare in modo cogente le sentenze che vi si discostino. Come si è già detto, la prospettiva ricavata dalla lettura di Hart è ancora normativista. Ma la norma è vista come un accadimento, esito di un comportamento descrivibile: il diritto diventa così l’oggetto definito da una proposizione passibile di verificazione. Con Hart abbiamo quindi trovato la concezione del diritto che possiamo chiamare “normativismo giudiziario”. Pensando anche a Kelsen: abbiamo potuto esaminare per quali vie le due concezioni del normativismo conducano a risultati diversi: - L’una privilegiando come paradigma della norma valida la legge dello stato; - L’altra privilegiando la decisione del giudice complesso di leggi poste ma anche leggi che possono essere “trasportate” e posizionate in ogni luogo ove se ne manifesti il bisogno. Con la nascita del diritto positivo nasce anche una visione del diritto che prenderà il nome di “positivismo giuridico”. La definizione più semplice di positivismo è quella per cui esso designa la prospettiva di quanti reputano l’intero diritto circoscritto nella positività e reputano quindi oggetto del proprio studio soltanto il diritto positivo. Tra i primi positivisti troviamo l’inglese Austin e il tedesco Thon. Questi teorici si riferiscono al diritto come un insieme di imperativi del sovrano: come ad un insieme di comandi emessi da un’autorità politicamente riconosciuta. Ad alimentare le posizioni del positivismo contribuì notevolmente un fatto storico: l’avvento della così detta epoca delle codificazioni. La codificazione rappresenta la raccolta in un testo scritto promulgato come un’unica legge per volontà del potere politico di una serie ordinata di disposizioni. Con l’avvento dei codici il primo dei quali si ebbe in Francia (1811) per volontà di Napoleone le leggi positive assunsero una veste tendenzialmente unitaria. Dopo la Francia seguì la Germania. Ma il codice non rappresentava soltanto un’espediente per facilitare la conoscenza e l’applicazione del diritto ma rappresentava il frutto e il principale mezzo di diffusione di una precisa concezione del diritto positivo. Infatti il codice costituiva una manifesta volontà dello stato la cui sovranità appariva incontestabile. Con l’avvento dei codici nacque anche un indirizzo scientifico che proclamava come unico oggetto di studio proprio i codici perché solo dal testo si applicavano le norme al caso concreto. Vale la pena ricordare uno dei più grandi penalisti dell’800 Francesco Carrara. Secondo Carrara la natura dei reati e la giusta misura della loro punizione potevano essere conosciuti senza l’ausilio di alcun testo scritto: però riteneva che gli uomini non fossero abbastanza “maturi” per raggiungere tale scopo. La questione dei caratteri specifici della norma giuridica La legge positiva diventava fonte esclusiva del diritto; le norme giuridiche erano dotate di imperatività, coattività e formalità. Erano quest’ultime anche le caratteristiche idonee a distinguere la norma giuridica da altri tipi di norma (morale, religiosa). A queste si aggiungeva l’esteriorità che esprime il criterio per cui le norme giuridiche potevano disciplinare e punire soltanto comportamenti esterni cioè le azioni che modificano visibilmente il panorama fenomenico circondante il loro autore. In realtà nessuna di queste caratteristiche è priva di dubbi. Nella coattività si è osservato che chi viola norme di costume riceve una sanzione, sullo stesso piano del costume, talvolta dolorosa quanto una sanzione giuridica. (Esempio: chi si comportasse male in certe situazioni potrebbe essere escluso da circoli e associazioni abbassandosi così la qualità di vita sociale da lui auspicata) Circa la formalità è facile notare come molti precetti religiosi che non hanno rilievi giuridici assumono una forma precisa e vengono ritenuti obbligatori da quanti reputano doveroso seguire le prescrizioni di una certa autorità confessionale. L’esteriorità invece rappresenta sicuramente un limite alla potestà dello stato di governare e di punire. I pensieri, le intenzioni e le emozioni sono difficilmente controllabili con mezzi con cui normalmente gli apparati di giustizia accertano comportamenti giuridicamente rilevanti. Vi sono poi evidenti esigenze connesse al necessario rispetto per la libertà personale per le quali non possono essere sanzionate opinioni politiche, scelte religiose, gusti letterari e artistici. Però se badiamo al contenuto delle norme una loro classificazione in base alla esteriorità risulta arbitraria. Non esistono infatti azioni umane che non vadano ad intaccare la sfera personale degli altri. Non esistono azioni che nascano e si esauriscano nel perimetro della vita individuale. Certamente c’è una difficoltà a controllare e disciplinare i pensieri e intenzioni e si possono sostenere ragioni di principio perché non lo si faccia. Ma non è detto che non ci si possa provare… I grandi stati totalitari del ‘900 hanno prodotto un diritto che puniva non solo le azioni criminose ma anche l’orientamento di vita del presunto reo, cioè la sua fedeltà o meno ai principi del nazionalsocialismo germanico o del socialismo sovietico. La statualità del diritto e il problema di giustificarla in termini “scientifici” É risultato sempre problematico identificare il diritto, rispetto a complessi normativi diversi (etica, costume ecc.) guardando ai contenuti delle sue prescrizioni. Ciò che prevaleva, soprattutto con la codificazione, era che il diritto era la mera volontà dello stato. É utile ora una digressione sulla consuetudine. Per consuetudine si intende un comportamento sociale unito all’opinio iuris cioè alla convinzione che tale agire sia una norma giuridica. Essa è fonte del diritto al pari della legge sui più importanti codici Europei. Per Norberto Bobbio, noto studioso torinese, l’opinio iuris sta a significare che il corpo sociale si comporta credendo di rispettare una norma giuridica; e tale norma, anche se non è scritta, è valida perché viene resa tale da una norma scritta che ad essa rinvia espressamente. Quindi il fatto che la consuetudine sia una fonte non costituisce affatto un’eccezione rilevante alla posizione per la quale molti ritengono che il diritto positivo coincida con le norme dello stato. Il problema era invece quello di delimitare con certezza i confini del diritto indipendentemente dal contenuto delle sue norme; ed era quello di produrre una giustificazione rigorosa alla convinzione che fossero dotate di positività giuridica solo le leggi provenienti dallo stato. A prima vista la giustificazione sembra facile: quelle dello stato sono le norme che più facilmente possono essere riconosciute con certezza. In realtà tale risposta semplicemente sposta la domanda. Che allora diventa: perché il diritto è solo ciò che si vede con certezza e perché è solo il complesso normativo che disciplina l’uso della forza ed è garantito dalla stessa? Kelsen, le premesse É significativo che Kelsen abbia frequentato il circolo di Vienna che esprimeva l’orientamento neopositivistico nel quale esponente di rilievo era Carnap. In effetto l’aspirazione a produrre una concezione del diritto “avalutativa” (Nel pensiero di Max Weber (1864-1920), di una teoria scientifica che escluda qualsiasi giudizio di valore) svolta attraverso procedimenti tipicamente scientifici. Kelsen non tenta di legare il concetto di diritto positivo alla presenza dello stato. Kelsen d’altro canto non può neppure legare la consistenza del diritto al perseguimento di certi valori costanti alla maniera giusnaturalistica. E allora? Ciò che garantisce una conoscenza critica e inoppugnabile dei suoi oggetti è la scienza. Bisogna produrre una conoscenza scientifica del diritto. Intendiamoci: Kelsen è lontano dalla visione ottocentesca per la quale la scienza otteneva una visione indeformabile e obiettiva della realtà. Per una visione scientifica del diritto il problema è trovare la premessa “giusta”. Quindi fermo restando che il diritto è un complesso di norme, non si poteva caratterizzarle per il loro rispetto o meno di un valore supremo di giustizia, stante l’astrattezza e la contestabilità di ogni visione della stessa. In secondo luogo non si potevano ricavare le caratteristiche della norma giuridica guardando ai comportamenti sociali effettivi e ai criteri che li regolavano. Perciò la definizione della giuridicità doveva essere indipendente dai fatti, frutto di un’operazione scientifica diversa da quella delle discipline storico sociologiche. Per lo stesso motivo la definizione di norma giuridica non poteva dipendere dalla presenza e dall’azione dello stato moderno. Quanto poi alla coattività bisogna vedere come la si considera. Se si tratta di constatare se una norma è effettivamente coattiva bisogna indagare l’esperienza e vedere se esistono forze capaci a mandare ad effetto la minaccia di una sanzione. E infatti nell’esperienza notiamo come a volte ci si imbatte in norme giuridiche che però non sono affatto coattive. La coattività, nei fatti, non è una caratteristica esclusiva delle norme giuridiche. La norma giuridica come giudizio ipotetico Per raggiungere il suo scopo Kelsen trasforma la prescrizione contenuta in ogni norma (fai questo! Se non lo fai subisci quest’altro!) in un giudizio ipotetico. Se A allora B. Dove B rappresenta una sanzione e A la fattispecie che si verifica. Se succede A allora deve seguire una sanzione B come conseguenza. L’idea generale che Kelsen rovescia è quella che la norma primaria era quella che comandava o proibiva un certo comportamento, mentre quella secondaria era la previsione di una sanzione. Kelsen invece afferma che la norma primaria è proprio quella che prevede una sanzione. Norma secondaria invece è quella che prevede un dato comportamento avverandosi il quale segue la sanzione. Non importa che la sanzione sia effettivamente eseguita nell’esperienza: la minaccia della sanzione basta da sola a caratterizzare un certo tipo di norme, quelle giuridiche. Inoltre la norma viene depurata dal carattere imperativo. La norma giuridica non impone che si faccia o non si faccia qualcosa, afferma invece che se accade qualcosa, a questa cosa consegue una sanzione. Ordinamenti chiusi e aperti Tuttavia i caratteri sopra menzionati non sono sufficienti a definire la norma giuridica. Essa, per Kelsen, è tale solo quando fa parte di un ordinamento. Cioè di un insieme dove gli elementi hanno qualche caratteristica in comune. Qui Kelsen distingue ordinamenti dinamici e statici: Sono statici gli ordinamenti nei quali il numero di norme rimane costante. Per Kelsen sono statici gli ordinamenti morali. É dinamico l’ordinamento nel quale si producono continuamente nuove norme. Qui viene la parte caratteristica del pensiero Kelseniano. Come mai si producono norme nuove? Perché sussiste una norma giuridica di grado superiore che autorizza determinati poteri a produrre nuove norme? E perché possiamo dire che tale norme è giuridica e valida? Perché a sua volta è stata prodotta da un potere legittimato da una norma superiore e così via. Prende corpo una costruzione caratteristica ed originale di Kelsen: la così detta costruzione a gradi. La costruzione a gradi Alla base sta la norma che non istituisce nuovi poteri e riguarda casi particolari immediatamente incidenti sulla vita dei consociati. Si tratta delle sentenze dei giudici e dei provvedimenti amministrativi. Tali norme sono giuridiche perché emesse da un potere giuridicamente legittimato a produrle. Quale? Nel caso della sentenza si tratta dell’autorità giudiziaria. L’autorità giudiziaria è un potere giuridico perché previsto da una norma giuridica che è in linea di massima la legislazione ordinaria del parlamento. E il parlamento è organo giuridicamente legittimato da una legge superiore che è la Costituzione. La costituzione è norma giuridica perché emessa da un potere: il potere costituente. Siamo arrivati alla punta della piramide sui lati della quale le norme e le fonti possono dirsi reciprocamente superiori o inferiori. legislatore P (potere costituente), secondo le procedure da esso stabilite, o da un organo dallo stesso delegato”. B) A conseguenza di tale ragionamento diventa chiaro anche quale ragionamento debba fare il giurista per produrre conclusioni rigorose. Dall’assioma della norma base si ricava questo enunciato: “Una proposizione normativa è valida (appartiene all’ordinamento) se, e solo se, è stata enunciata da P, o da un organo da esso direttamente o indirettamente delegato p, con la procedura o nelle circostanze stabilite da P o da p”. C) A questo punto si chiarisce la questione di scientificità o meno della dottrina Kelseniana. Certamente il giurista non si adegua a nessuno dei modelli previsti da Carnap ma è opportuno assumere un concetto di scienza più elastico di quello da lui esposto. “Scienza” non è un “titolo onorifico” di un certo sapere, ma è un termine capace di indicare conoscenze assistite da un particolare rigore (diremmo noi, dotate di certezza). In questi termini la giurisprudenza è concepita come sviluppo da premesse date e quindi non possiede lo stesso grado di certezza delle scienze formali e tuttavia adotta come proprio modello quello del procedimento scientifico. Quindi anche il giurista, quando utilizza il modello scientifico, nella misura impostagli dal proprio sapere, può considerarsi uno scienziato. D) Bisogna però capire anche i limiti degli assiomi. Un assioma per sua natura non è dimostrato, è semplicemente assunto. Non è richiesto nemmeno che sia evidente o diffusamente accolto. Di qui la conseguenza: una scienza che si fonda su determinati assiomi non è mai l’unica scienza possibile. E) Da qui un’ulteriore conseguenza: La scelta dell’assioma è dettata da una serie di valutazioni che impegnano il giurista: nelle quali operano le sue convinzioni morali e politiche nonché il giudizio che egli abbia sull’opportunità di adottare un sapere scientifico o meno. Insomma, quando si assume che il diritto è costituito da norme pronunciate da P, le ragioni di tale scelta non si trovano nell’obbedienza a una norma particolare tra quelle prodotte da P. F) Ma se la scelta dell’assioma è libera non per questo vuol dire che essa sia arbitraria. Scarpelli ritiene che vi siano profonde ragioni morali per ritenere, soprattutto nelle democrazie occidentali, un assioma che gli consenta di riconoscere come diritto positivo le leggi dello stato. G) Se adottato il modello di ragionamento proposto da Scarpelli, il giurista è in grado di concludere in modo “scientifico” che D è norma valida. La prospettiva del normativismo statualistico: considerazioni conclusive Sicuramente le osservazioni di Scarpelli rimuovono alcuni dubbi sulla dottrina Kelseniana e decade anche l’accusa del sistema di reductio ad Hitlerum. Non è necessario infatti allo scienziato del diritto considerare giuridico l’infame sistema nazista: se lo fa, presupponendo la norma base che glielo consente, se ne assume la piena responsabilità sotto il punto di vista etico. Con le precisazioni di Scarpelli dunque si mostrano le condizioni alla quali il discorso di Kelsen propone al sapere del giurista l’adozione del modello delle scienze formali. Tuttavia, nel momento in cui riconduce il discorso di Kelsen nell’ambito di una struttura scientifica, Scarpelli ne rileva anche i limiti. Infatti l’assioma da cui muove ogni procedimento scientifico non è dimostrato, ma dipende da una scelta libera (sebbene non arbitraria) dello scienziato che lo privilegia per lo scopo che egli vuole raggiungere. Il conferimento di validità ad un sistema di regole dipende sempre da un giudizio di valore del soggetto su quel sistema. Questo principio è sostenuto anche da ambienti lontani alla filosofia di Scarpelli: si pensi a Enrico Opocher (padovano). Egli aveva due prospettive: - La prima era quella dei giusnaturalisti che volevano la ragione obbligata a riconoscere la validità universale di certe norme. - La seconda era quella di certi giuristi che volevano che il riconoscimento della positività di un ordinamento dovesse avvenire in modo indipendente da qualsiasi giudizio di valore. Ad entrambi i punti di vista Opocher opponeva la certezza che l’uomo non possiede la verità. Di conseguenza non si poteva sostenere l’esistenza di norme asseritamente universali da cui dedurre altre norme comunque e ovunque valide. Concludiamo, alla concezione del diritto di Kelsen vanno attribuite le seguenti qualifiche: a) Positivistica, perché reputa che il diritto sia formato da elementi posti nella storia da volontà nella storia situate. b) Normativistica, reputa che gli elementi del diritto siano costituiti da prescrizioni (norme) dotate di specifiche caratteristiche. c) Sistematica, perché reputa che una norma è giuridica solo se fa parte di un dato insieme d) Formalistica, in quanto il carattere giuridico non è dato alla norma dal suo contenuto. e) Statualistica, perché pur non ritenendo esplicitamente che giuridiche siano solo le norme emesse dallo stato, è costruita in modo da giustificare la tesi di quanti trovano utile ritenere che giuridiche siano certamente le norme statuali. Riassunto Filosofia del Diritto – 2019/2020 PRIMA PARTE – IL PRINCIPIO Appunti e riassunti di Simone Previdi Università degli studi di Padova – Giurisprudenza 2.0 Introduzione L’origine è ciò che permette una serie indefinita di inizi. Ad ogni tramonto seguirà una nuova alba. I primi a teorizzare che tutto avesse una unica origine furono i Greci: chiamarono arké l’origine del mondo, il principio. Furono i primi a concepire l’idea di intero, di “tutto”. É stato possibile per l’uomo fare discorsi razionali (non più mitici) sulla realtà a partire dall’idea del tutto. Se l’intero non è solo la somma delle parti, lo sguardo su di esso appare rischioso. Guardando oltre l’intero cosa apparirà? Una inaudita realtà o il nulla? E se non vi fosse nulla, che senso avrebbe la nostra vita? I greci hanno pensato a “quel qualcosa d’altro” anche come “principio”: colui che tiene insieme tutte le parti di un intero. Il primo che ne parlò fu Talete. I Greci temevano la morte e per sollevarsene avevano istituito cerimonie annuali giunte a noi come riti orfici. Veniva qui celebrato l’eterno ritorno, supponendo che tutto dovesse ricomparire una volta terminato il suo ciclo. Come il sole scompare nella notte per tornare il giorno dopo. Così la vita dell’uomo non sarebbe stata spenta per sempre ma, si sperava, sarebbe riapparsa a pulsare sulla terra. Dominava la visione del tempo ciclico. I riti orfici non avevano però nessuna garanzia razionale e fungevano solo da elementi consolatori dinnanzi alla propria sicura fine. Ma Talete pensò: certamente tutti gli uomini sono destinati ad una fine, ma non per questo finisce l’umanità. Tanto è vero che continuiamo a chiamare uomini coloro che sono scomparsi, quelli che sono presenti e quelli che nasceranno. In ogni uomo è presente qualcosa che non si annienta con la morte del singolo. Tale ragionamento potrebbe valere per qualsiasi cosa a pensarci. Questa presenza che è in tutte le cose ma non si esaurisce in alcuna di esse né nella loro somma è il principio. A questo punto nasce il pensiero: quella capacità della mente di recepire e comunicare ciò che non ha alternative. La capacità di dare risposte razionali ai problemi e non mitiche, fantastiche e magiche. É sorto l’occidente. Il principio l’acqua e la morte Talete pensò che il principio è come l’acqua (non che era acqua): questa infatti può assumere diverse forme potendone assumere sempre di nuove ed inaspettate. Similmente il principio è in ogni forma presente e futura senza che nessuna di esse o la loro somma rappresenti quella sua propria. É vero però che la metafora dell’acqua è incompleta in quanto l’acqua può assumere ogni forma, ma ciò che da forma all’acqua (il vento, ad esempio) non è acquatico. Quindi l’unica realtà destinata a perdurare è il principio e le forme sono destinate a perire. Il Principio così si manifesterebbe all’atto in cui le differenze fra le forme particolari si cancellano: il principio viene definito come indifferenziato. Se il principio è comprensibile soltanto come ciò di fronte a cui tutte le differenze si annullano allora la conseguenza è che tutte le cose, con le rispettive differenze, sono destinate a perire. Per il principio indifferenziato tutto è destinato a scomparire. Concepito come indifferenziato il Principio si identifica con la morte e non vale più ad indicare ciò che in ogni forma, in ogni uomo, sopravvive alla sua scomparsa nel tempo. É vero: all’esperienza di ognuno appare come la morte sia comune ad ogni ente e non consista certamente nella loro somma. La morte riprende la struttura del Principio. La morte è il destino comune di ogni esistenza: il problema è vedere se è l’ultimo destino. Nel momento in cui le pone vicino ad altre il pensiero trasforma le sue acquisizioni perché conferisce loro un significato sempre nuovo senza alterare la consistenza senza che in esse né nasca né perisca alcunché. Ogni idea acquista infatti un significato proprio e sempre diverso a seconda dei discorsi in cui si inserisce. La capacità più stupefacente del pensiero è quella di trattenere nella memoria la forma di cose passate che non cadono più nella sua esperienza diretta. L’essere è “come” il pensiero? Parmenide dice: “lo stesso è pensare ed essere”. Tale affermazione ci dice che l’essere di ogni cosa è la sua pensabilità. Nulla che esista non può essere pensato. Se si dichiara l’esistenza di una cosa, nel momento in cui lo si fa, si pensa a quella cosa. L’essere è dunque quel continuo proliferare di forme dovuto all’attività del pensiero. Luce e Notte Esponiamo in punti le idee e le conseguenze di tali idee di Parmenide: 1) Parmenide arriva a concetti rigorosi irrefutabili a mostrare la presenza di un Assoluto eterno al quale da sempre e per sempre l’uomo è consegnato. 2) Va compreso che il Principio, proprio perché non è la semplice somma dei pensieri umani, unifica gli stesso in modo più profondo di quanto non accada semplicemente con l’accostamento dell’uno all’altro nel tempo e nello spazio. I pensieri particolari, dunque, per essere autentici e non la negazione stessa del pensare, devono assumere una loro propria direzione: devono formarsi senza escludere opposti pensieri particolari ma cercando di attuare con gli stessi ogni possibile forma di coesistenza, comprensione e mediazione. a. In diverse forme della cultura greca infatti si avvisa l’uomo che proprio l’attaccamento alle sue tradizioni, prospettive abituali, opinioni, con l’esclusione di ogni altro punto di vista, prepara infallibile la sua rovina morale e materiale. 3) L’uomo non solo pensa ma è a sua volta pensabile non solo da altri uomini ma anche dal Principio che oltrepassa i pensieri degli uomini. L’uomo può quindi essere originariamente individuato ma anche conservato oltre il suo apparire nel mondo dei fenomeni. Quindi la sua vita è “eterna”. 4) Ma dove e come continua la vita che è eterna negli uomini? Messa in questi termini la domanda non ha risposta poiché non si tratta di qualcosa soggetto a descrizione come accade a ciò che appare nel mondo. Bisogna parlare quindi di “nascondimento”. Il principio nell’uomo è la possibilità di pensare e l’uomo pensa le più varie forme. Ma c’è anche un “Prima” del pensiero, ovvero la possibilità che il pensiero ci sia. Ma la possibilità che qualcosa avvenga non è descrivibile. Quindi anche nell’uomo, nel Principio che è in lui, ci sono queste due dimensioni: nascondimento oscuro e palesare formando. Il pensiero non ha dunque una sola direzione ma anche una direzione che indica una zona silenziosa precedente di nascondimento. Luce e Notte, ciò che è apparso nella luce è conservato nella notte: ma nell’una e nell’altra non alberga il nulla, non agisce alcuna potenza annientante. 5) É dunque l’alternanza silenzio-parola che caratterizza il protagonista del pensiero. Per questa vita si staglia l’uomo, il soggetto pensante rispetto al pensato, indicando quello che è in lui originario, è principio: si resta fuori dalla mentalità dominante moderna per la quale si definisce il soggetto attraverso le sue facoltà psicologiche. In conclusione per Parmenide il Principio è l’essere. L’essere è sempre identico, immobile, imperituro non perché affatto inerte o uniforme: ma perché non varia mai il suo modo di presentarsi in ogni punto della realtà. L’essere si manifesta attraverso il pensiero: che distingue forme, le unisce e le conserva. L’abisso Questa idea che nell’essere-Principio vi sia una doppia dimensione (oscurità e apparire) non è affatto gratuita. Notte e Luce stanno insieme e non potrebbe essere diversamente, diciamo noi. Ma stare insieme significa stare in rapporto. Due termini stanno in rapporto se è possibile confrontare l’uno con l’altro. Confrontare significa analizzare i singoli elementi e definire quali siano simili e quali no. Inoltre, l’esistenza di un rapporto implica la presenza di un terzo che effettua un confronto fra i termini adottando un certo criterio. (Ad esempio: si può dire tra due case che una è più grande dell’altra se: vengono analizzate e si trovano gli elementi per definirle entrambe case e se c’è un terzo che effettuando il confronto sceglie, per determinare il rapporto, il criterio dell’ampiezza e un’unità di misura). Ma ora, come possiamo stabilire rapporti tra il mondo della Luce dove tutto è confrontabile e visibile con il mondo della Notte dove tutto è celato e nascosto? É assurdo immaginare che vi sia un terzo al di fuori del Principio e che possa giudicarne gli aspetti. Quindi non è possibile confrontare Luce e Notte, forme e senza forma, apparizione e oscurità. Quella semplice congiunzione e, mentre sembra dire una unione che non si può negare, nasconde in realtà un’impossibilità a congiungere. Vediamo cosa dice Parmenide nel Proemio della sua opera: Vi si parla dell’uomo destinato a sapere: egli è colto mentre, condotto su di un carro velocissimo percorre la strada che attraversa “tutti i luoghi” fino ad un estremo confine. Qui si erge una grande porta chiusa. Per i gemiti e le preghiere delle “fanciulle della notte”, misteriose messaggere del mondo nascosto oltre la porta, questa aprirà i battenti e l’uomo sul carro potrà vagliarne la soglia. Ed ecco che gli si para davanti ciò che sta oltre. Una voragine senza fondo, un abisso. In esso cessa ogni movimento, nulla prende forma, nulla può essere visto, nulla nominato. Appare ora una dea dal volto rasserenante che rassicura l’astante: “non un’infausta sorte” ella dice, lo ha condotto in quei siti “non battuti dai mortali”, dagli insipienti. Da lì infatti non esiste più differenziare e unire. Ella tende la mano all’uomo e gli chiede fiducia e poi gli rivela la verità sul mondo: e cioè “che è”. Rivela così il proliferare molteplice degli enti visibili è tutto e solo costituito nell’essere sicché nessuna parte è destinata all’annientamento. Solo riconoscendo il Principio come soverchiante il mondo del molteplice si riesce a pensare correttamente la consistenza dell’essere e garantirsi che l’intero non è votato al nulla. Quasi se ne rendesse conto Parmenide ci presenta una dea che “chiede fiducia” come a dire che la compresenza di Luce e Notte, fino ad un certo punto va razionalmente garantita e dopo va accettata per fede. Ma la fede, appunto, non dimostra. E allora l’abisso può fare paura, può apparire ostile alle nostre conquiste e le nostre conoscenze minacciandone la definitività. Il Logos Il termine Logos viene affidato alla filosofia dal lascito di Eraclito. Secondo Eraclito il Principio è il Logos. Logos oggi vuol dire “parola” o “discorso”. In una visione più antica il termine significava invece l’attitudine delle cose di connettersi l’una alle altre. La parola stessa infatti è destinata ad unirsi ad altre parole. Ogni discorso si collega ad altri discorsi. Non solo perché ce lo dice l’esperienza ma anche per una ragione dovuta alla natura stessa del discorrere. Nessun discorso può infatti pretendere di essere l’unico e definitivo capace di escludere tutti gli altri. Dunque per Eraclito ciò che è in tutte le cose è la loro “dicibilità”, la loro attitudine a connettersi l’una all’altra attraverso il discorrere. La dicibilità però rimanda a ciò che la rende possibile ovvero il Principio, cioè la potenza che “butta fuori”, fa apparire forme distinte e comprensibili che sono tali perché si possono connettere l’una alle altre. Ma da dove vengono buttate fuori le forme? Cosa c’è prima del loro apparire? Ricordiamo che il Logos, in quanto Principio, non è la somma di tutti i discorsi né si esaurisce in un discorso decisivo ma è sempre qualcosa d’altro: che in quanto è altro non è discorso. Ed ecco che l’Efesio parla del Logos come quello che viene fuori, butta fuori, produce ma anche si ritrae in zone inaccessibili a qualunque discorrere. Il Principio quindi è parola e silenzio, mostrarsi e nascondersi. Precisiamo anche che i termini usati ora come “buttar fuori” non significano affatto “creare dal nulla”. La zona del silenzio (della ritrazione) non è nulla: è il luogo dove non si distingue niente perché in esso giace semplicemente la possibilità di ogni tipo di distinzione, di ogni tipo di discorso determinato. Pensiamo al nostro discorrere quotidiano. Ogni parola è intervallata da un certo silenzio: e guai se non ci fosse, se così fosse il nostro dire apparirebbe come un insieme di suoni indistinguibili e senza senso. Questo silenzio consente alle parole di avere forma, è una zona dell’esistenza di ognuno. Prima di ogni discorso siamo taciti e finché tacciamo nessuno può prevedere cosa diremo dopo. Il silenzio custodisce infinite possibilità. Ed è un silenzio che non cessa mai di accompagnarci per tutta la vita: non ci sono discorsi sufficienti ad esaurire la nostra possibilità di dire altre e nuove cose rispetto al passato. Quindi la nostra vita quotidiana, così come tutta la nostra esistenza è costituita fin dall’origine dalla compresenza di un rivelare con le parole e un nascondersi con il silenzio. La soggettività Quando l’uomo accoglie la presenza del principio si rende conto di poter pensare l’intero. Ma l’intero non è una forma particolare: non è un oggetto. E allora si rende conto anche di non poter dire tutto. Il Logos nell’uomo è, secondo Eraclito, “fame e sazietà”. La fame di ottenere un sapere compiuto, definitivo, si accompagna dalla sazietà di sapersi svincolato dalle ristrettezze del proprio stesso dire. Il Logos si accresce continuamente e proviene da un luogo profondo nella psiche dell’uomo da apparire senza limiti. Il termine psiche non viene inteso come propriamente “psicologico” (come lo direbbe un moderno) ma indica piuttosto ciò che costituisce l’uomo e lo rende universalmente diverso a qualsiasi altra forma nel mondo. L’uomo, prima di calcolare, costruire, emozionarsi, rappresentare ecc. è in grado di “poter dire”. Quindi l’uomo è costituito in parte dalla capacità di produrre parole e discorsi e in parte da una zona recessa che sfugge ad ogni determinazione dalla quale dunque può sempre provenire una parola nuova. (Notiamo sempre la contrapposizione di luce e oscurità, conosciuto e non). In questi termini alla psiche si possono attribuire le caratteristiche della soggettività. Collegare (raccogliere, trasformare, custoride) Non tutto è Logos. Non è Logos una chiacchera vana, un discorso pregiudizialmente ostile o un insieme di detti casuali e contraddittori. Logos è il discorso che collega. Ma cosa si intende per collegamento? Per Eraclito dobbiamo distinguere 3 piste: il raccogliere, il trasformare e il custodire. 1) Collegare è raccogliere: perché implica che venga scelto cosa collegare ad altro. Scegliere dunque da un piano dove giacerebbe altrimenti disperso tra altre cose senza valore. Il raccoglimento è l’atto preliminare del collegare. che il sapere sia dato dalle sue “private” particolari presupposizioni e non si preoccupa di vedere se, e come, possano collegarsi ad altre idee così da formare un sapere comune. Il pensiero del pensiero Il pensiero è quell’attività con cui l’uomo esercita la sua libertà che determina, unisce e custodisce forme diverse nella consapevolezza di essere anticipata dal Principio. La parola “logica” mostra il suo senso originario: che è quello di mantenersi nel logos cioè nella connessione e nella comunicazione, al di fuori della quale nessuna idea risulta fondata nel pensiero. L’uomo che pensa non può cercare nel Principio una causa della propria esistenza e degli eventi che la caratterizzano, quasi potesse attribuirgli una qualche responsabilità o invocarne l’intervento perché cambino gli eventi. Queste riflessioni ci permettono di capire sempre meglio cosa significhi per il pensiero arcaico vivere (pensare, operare) seguendo il Principio. L’uomo non può rimproverare il Principio dei mali di questa terra o della sua vita o addirittura pretendere che li levi di torno. Infatti da un lato il Principio è segretezza inaccessibile, dall’altro è ciò che apre possibilità, non che causa eventi. Ciò che agisce casualmente è parte di un tutto più grande e non vi è nulla di più grande del principio. Quindi il principio non agisce casualmente. Il dolore e la sofferenza sono sempre e solo addebitabili ad una dimenticanza tutta umana della possibilità di collegare e custodire. Ma non per questo (per il fatto che non ci sia nessuno “che gli tolga le castagne dal fuoco”) l’uomo deve sentirsi solo, abbandonato, senza mezzi adeguati per i suoi bisogni: anzi, in quanto il Principio è comunicazione, tutto quello che l’uomo fa coinvolge direttamente l’opera del Logos, è luogo dove il Logos si incarna e, dunque, ha un valore salvifico per l’eternità. Pensare, è chiamare alla coscienza forme e il proprio stesso pensare come collegate ad un altro pensare in virtù di una potenza anticipatrice che tiene ogni cosa unita: così l’uomo si consegna al suo destino, alla sua libertà. Il dio e il fuoco Qualche dubbio permane ora. Riflettiamo: il silenzio è costitutivo della soggettività solo se è indissolubilmente votato a produrre parole, manifestazioni. Un silenzio da solo, che non produca niente, rimane una dimensione vuota nella quale ogni voce si perde. In altre parole, se il silenzio non è sempre e comunque “obbligato” a parlare abbiamo come conseguenza che ciò che è anteriore a tutto, il Principio, è una zona inaccessibile dalla quale le forme possono venir fuori ma anche no: allora il Principio potrebbe stare anche da solo. Ma se si pensa ad un Principio che non ha bisogno di differenze, delle forme, allora si torna a percepire un Principio indifferenziato di fronte al quale tutte le cose, e ciò che le distingue una dall’altra, sono destinate a scomparire (torniamo così al pensiero di Talete, Anassimene e Anassimandro, che abbiamo detto inaccettabile). Eraclito afferma si che ogni cosa si presenta uscendo fuori dal nascondimento ma non dice anche che sempre, in ogni momento, l’atto di ritirarsi si coniuga con la disposizione a protendersi e produrre forme. Per essere certi che silenzio e parola stiano comunque insieme, bisognerebbe riuscire a dire ciò che stringe l’uno all’altro. Bisognerebbe concepire ciò che una potenza che tiene uniti i due aspetti del Principio. É un compito arduo, difficile. Se però si evitano le difficoltà si tenderebbe a pensare che l’infinito nascosto sia indipendente dal logos produttivo di forme. Allora si aprono due piste: 1) Si può, visto che non possono esserci due Principi, reputare che ci sia una terza realtà antecedente a silenzio e parola, principio di entrambe. Ma più abissale dell’alternarsi di silenzio e parola non può esservi altro che ciò che sta al di là dei processi che portano alla nascita di cose determinate. Quindi si tratterebbe di un assoluto indeterminato. E ciò equivale al nulla. Si tornerebbe a dare consistenza al nulla. 2) Erigere il solo silenzio a Principio. Ma una volta ritenuto che dal silenzio le parole possono uscire, ma anche no, si dice che il Principio non ha bisogno delle parole e quindi queste sono tutte destinate a dissolversi. Così alla fine, ciò che rimane destinato a durare per sempre è ancora una volta un assoluto indeterminato. Seguendo una o l’altra possibilità il risultato è lo stesso. Se nell’oscurità, nell’assenza di ogni determinazione, risiede l’unico e originario custode del senso ultimo delle cose, lì ancora finiranno per dissolversi tutte le forme comprese quelle che si sostanziano nelle diverse soggettività. Un simile esito distruttivo potrebbe apparire nelle parole dell’Efesio. Pensiamo a come Eraclito utilizza la metafora comparando il Principio al fuoco. Il fuoco guizza in forme sempre nuove ma alla fine dissolve ogni forma materiale che gli si opponga. Egli afferma che tutte le cose sono intercambiabili con il fuoco. Quasi a dire siano destinate a diventare fuoco. Cosa abbia realmente pensato Eraclito non lo sapremo mai. Certo, noi pensiamo che parola e silenzio devono stare sempre insieme, perché la loro separazione porta a conclusioni già dette inaccettabili. Quindi affermiamo la costante implicazione tra silenzio e parola dicendo che “sarà senz’altro così”. Ma in tal modo stiamo facendo un atto di fede. Cioè l’atto che la dea dal volto benigno (ricordi la storia sopra?) chiede al giovane che, nelle parole di Parmenide, ha varcato la grande porta dell’essere. Si tratta di una fede che non ha nulla a che vedere con la creduloneria. É una fede che è adesione provvisoria a delle affermazioni in attesa di ulteriori garanzie. Regola divina e legge umana Nelle parole dell’Efesio che ora verranno esposte verrà trattato per la prima volta il concetto di “legge umana”. Per legge umana intendiamo una prescrizione efficace, dotata di certe forme, emessa da un soggetto verso certi destinatari e ritenuto dagli stessi autorizzato a prescrivere. L’efficacia della prescrizione consiste nella capacità di produrre una diffusa obbedienza nei soggetti a cui si rivolge. Ciò avviene con una minaccia di sanzione. La sanzione è una conseguenza sfavorevole in capo a chi disobbedisce che il soggetto legislatore ha il potere di provocare. Nelle parole della legge si distinguono due elementi: 1) Con il primo viene definito un certo comportamento con le sue caratteristiche ricorrenti. 2) Il secondo elemento costituisce il comando in senso stretto: una comunicazione da parte del comandante, che egli vuole che il comando a sua volta voglia perseguire o evitare una certa condotta. A seguito del comando la condotta acquista così una qualifica “degna di essere perseguita” o “degna di essere evitata”. Perciò il comando indica sempre la trasmissione di un giudizio “assiologico” (relativo a ciò che è degno) intorno a certe azioni. A questo punto anche il comando può venire distinto in due elementi: A) Un atto di imposizione di un soggetto ad un altro B) Il contenuto di questo atto che è un giudizio assiologico su di una certa condotta: quella che costituisce il secondo elemento della norma. Concludendo possiamo affermare che una norma sia un atto di imposizione – reso efficace dalla minaccia di una sanzione – di un giudizio assiologico intorno ad una determinata condotta. Affrontiamo ora il testo di Eraclito, afferma allora l’Efesio: “Se uno vuole parlare comprendendo come stanno le cose deve fondare il suo discorso su ciò che è a tutti comune”. E comune a tutti è il ragionare. Prosegue: “appunto come la città si fa salda con la legge. Ma in modo anche più radicale. Invero tutte le leggi umane si nutrono di un’unica regola, quella divina: essa infatti ogni cosa regge nella misura che desidera, bastevole per tutte, tutte soverchiandole”. Il passo comincia ribadendo la potenza del pensiero: non vi è intelligenza di alcunché se non fondata su quella struttura che è comune a tutti e volta ad accomunare le idee di tutti. Si tratta appunto del logos con il quale si manifesta la presenza del Principio. Quindi il logos si imbatte nella legge. La legge è fenomeno diffuso nell’esperienza e esercita una funzione unificatrice: uniforma i comportamenti di una comunità attraverso la prescrizione degli stessi e mediante la minaccia di sanzioni a chi non obbedisce. Eppure non basta per Eraclito: le premesse offerte dalla legge sono insufficienti. Occorre anche che vi sia concordia tra i cittadini, comunanza tra idee ed intenti e corretto funzionamento delle istituzioni – è la persistenza di un’unione tra i consociati. La legge umana ha sempre un’efficacia particolare, in certi ambiti della vita sociale e solo per i soggetti obbedienti: mentre tende a rendere uniformi le condotte, esercita sempre anche una funzione “escludente”. La legge umana riesce ad uniformare, a rendere comuni tra certi uomini certi comportamenti perché prima c’è una realtà comune a tutti gli uomini e questa realtà comune, nel luogo in esame, viene definita “regola divina”. In cosa consiste la legge divina? Eraclito la indica come quella che è dappertutto presente. I caratteri della legge divina sono quelli che convengono al Principio il quale appunto è in ogni cosa. La legge divina regola la presenza di ogni realtà costituita dalla presenza in tutte del Principio, del Logos in atto. I confini e i compiti della legge umana Adesso Eraclito mette l’uno accanto all’altro Principio, pensiero e legge. E si pone una domanda radicale: cosa ne è della legge di fronte al pensiero e al Principio? La legge è insufficiente a garantire quella concorde unità tra i cittadini di cui ha bisogno ogni comunità politica per durare saldamente. Ciò che in realtà mette realmente in comunicazione è il pensiero unificante. Ciò avviene fruttuosamente quando è consapevole di essere anticipato dal principio, qui menzionato come regola divina. Ma quale forma o contenuto deve assumere la legge umana per essere conforme a quella divina? La legge divina sicuramente non è un insieme di precetti voluti dal Principio che la legge umana debba riprodurre. Ne comunque la legge divina rappresenta un ordine cosmico universale deducibile dall’uomo. La legge divina coincide con la presenza del Logos il quale manifestandosi e ritirandosi consente ogni tipo di collegamento purché sia un collegamento. E quindi non vieta ne impone collegamenti ma è ciò che rende possibile ogni autentico collegare. Dobbiamo riflettere sul significato di metaforico del termine “nutrire”. Chi si nutre non riproduce le fattezze di chi lo alimenta: ma cresce e si fortifica ricevendo la condizione per svilupparsi mutando il suo aspetto in forme nuove, autonome e ricche di nuove qualità. Riflettiamo poi sul termine legge: É comune nel pensiero filosofico che la legge umana sia degna di approvazione solo se “conforme” ad una legge di “grado” superiore dovuta ad una autorità più alta, addirittura divina. Il problema è vedere cosa vuol dire “conforme”. In genere indica un rapporto nel quale la legge umana ripete o specifica un comando divino assolutamente valido. Ma Eraclito ci conduce su nuove Nel “Vangelo di San Giovanni” vi è un incipit di rilievo su cui basare la nostra ricerca sull’intelligenza del Principio. L’incipit prende il nome di Prologo ed è la premessa dei 4 Vangeli. Le parole dell’annuncio primario sono: ‘EN = Nel -> separa il testo di San Giovanni dalla tradizione del pensiero iniziale. “Nel” dice subito che all’originario appartiene la differenza. Quindi è tolta la possibilità di concepire il Principio come indifferenziato equivalente al nulla. É raggiunta una visione incontraddittoria nella quale l’idea di Principio possa legarsi essenzialmente a quella di soggettività. ‘APHX = Principio -> Non si tratta dell’inizio temporale della storia, ma del Principio che è in ogni cosa anticipando ogni inizio. ‘HN = Era -> “É da sempre e per sempre”. Non vuol dire una situazione collocabile in un passato temporale. Prende il nome di “imperfetto filosofico”. ‘O λόγος -> Si tratta del Logos. Ma proprio di quel logos di cui abbiamo parlato? Ci sono molti dubbi a riguardo. Come può il termine “logos” già di per sé complicato aver superato senza mutare così tanti contesti storici differenti? Heidegger infatti respinge l’ipotesi di interpretare il logos Eracliteo mediante il logos di San Giovanni. Eppure insistiamo su tale proposta. Il punto è questo. Nel Prologo si deve intendere per Logos l’attività originaria di cui abbiamo parlato se vi si trovino elementi che la sviluppino coerentemente: se così fosse, ci si troverebbe davanti ad una nuova enunciazione di ciò che è necessario dire del Principio e del suo comparire tra gli uomini. Quindi: nel Principio – quindi insieme ad altro (che non si nomina proprio perché innominabile) – è l’attività che anticipa ogni cosa e le rende tutte dicibili mostrandole, collegandole, custodendole. Principio e Dio Proseguendo nel Prologo, il Logos viene paragonato alla presenza di Dio. “E il Logos è unito a Dio, e Dio è il logos stesso. Questo era, nel Principio, unito a Dio.” Se il Principio è nominato dopo la preposizione “nel”, il Logos si presenta accanto a qualcos’altro. Ma questo “altro” non è immediatamente nominabile poiché diverso da qualsiasi altra realtà dicibile e dalla dicibilità stessa. Ciò che non è Logos (e quindi non fa nascere, manifesta e tiene insieme) è niente di nato: non gli conviene propriamente nessuna parola. Peraltro, il nascondersi e il mostrarsi, comunicazione e inaccessibilità, formano una realtà molto conosciuta all’uomo. Non una realtà inconcepibile. Si tratta di quella cosa che abbiamo nominato “soggettività”. Con essa non intendiamo nulla di psicologico, bensì la capacità di manifestarsi, col dire, che resta tuttavia da subito disposta a recedere nel silenzio. Considerando il Logos unito e non opposto ad un nascondersi nell’unità nel Principio, si riconosce al Principio stesso la struttura della soggettività. Prende il nome di “Dio”. Il prologo quindi vede il Logos intrinseco a Dio. L’uscir fuori è proprio e originario del Principio. Ora, secondo il testo di San Giovanni, l’uscir fuori non può essere una presenza temporanea destinata al nulla. Non può essere destinato a finire per sempre. Il Logos mantiene un legame non distruttivo con l’altro sé, il silenzio. Quindi vi è alternanza tra “uscir fuori” e nascondersi. Vi è la compresenza di due stati differenti. In ogni punto del Logos vi è un passaggio in atto dal silenzio alla parola. In ogni punto del Logos è all’opera il Principio nella sua totalità: come silenzio, come parola, come silenzio e parola insieme. Come silenzio che si compie nella parola e tuttavia rimane, trascendendo ogni determinazione. Il Logos è intrinseco a Dio, ma bisogna aggiungere che Dio insiste nel Logos. Quest’ultima affermazione riunisce i 3 termini. Riassunto Filosofia del Diritto – 2019/2020 SECONDA PARTE – DIRITTO PRINCIPIO E PROCESSO. LA TRAGEDIA GRECA. Appunti e riassunti di Simone Previdi Università degli studi di Padova – Giurisprudenza 2.0 Alle origini del diritto, Mito e conoscenza. Con il lascito di Eraclito abbiamo compreso come la legge sia una possibilità aperta del pensiero solo se essa si assume un compito preciso che è quello di dar vita ad una certa forma dell’esperienza: il confronto tra opposte pretese. Ci soffermiamo a questo punto su un testo che è la tragedia delle Eumenidi di Eschilio. La tragedia ha origine antichissima: era il momento culminante delle feste, ad Atene, che si celebravano in onore di Dioniso. Precedentemente il culto del dio avveniva solo tramite cortei con cori della tradizione. Nel 534 a.C. i magistrati decisero che i cortei venissero sostituiti da una “rappresentazione” che appunto fa vita alla tragedia. La tragedia diventa un meccanismo di educazione collettiva ed elevazione morale: le autorità volevano che i contenuti della tragedia fossero contenuti conosciuti dai cittadini e da loro ritenuti e meditati. Noi possediamo oggi testi di Eschilio, Sofocle, Euripide. Nelle rappresentazioni vi sono i caratteri del teatro: la possibilità di rappresentare vicende mosse dal confronto di diverse mentalità, scopi e azioni di personaggi diversi. Nelle tragedie si narravano miti di dèi ed eroi leggendari ma anche eventi storici. Ovviamente i greci non credevano all’esistenza in corpore vili degli dèi. Gli dèi dono la personificazione delle grandi potenze che si manifestano nella natura e nell’animo umano di fronte alle quali l’uomo può solo riconoscere la sua inferiorità. L’esempio è: pensiamo a Zeus. Egli rappresenta il padre degli dèi che agiscono sulla terra. Personifica la forza primaria che garantisce equilibrio tra tutte le forze e simboleggia anche, tra l’altro, la capacità che si manifesta nell’uomo di governare mantenendo tra i governati un’armonia. Zeus si racconta abbia “incorporato” l’amante incinta Meti, dea che rappresenta la prudenza e l’astuzia. Il che ci fa capire che, per governare, è necessaria in ogni momento una valutazione sagace e avveduta delle situazioni. Nel complesso, la mitologia per i Greci era un mezzo per rappresentare l’universo e la consapevolezza dei limiti dell’uomo in esso. Il culto di Dioniso e la nascita della tragedia La tragedia fu una vera e propria “rivoluzione culturale”. Per la prima volta i nostri Padri vedevano rappresentati concretamente (fisicamente) i soggetti dei quali avevano sempre solo sentito parlare (ma ovviamente che non avevano mai visto). Il teatro permise ai Greci di vedere per la prima volta gesti, discorsi e caratteri dei personaggi dei quali sempre avevano sentito parlare nei miti e leggende. La nascita della tragedia si inserisce in una progressiva presa di coscienza dell’uomo arcaico della presenza delle capacità del logos. La tragedia infatti da un lato è il prodotto di un pensiero unificante (personaggi, situazioni ed eventi) mentre dall’altro è l’occasione per lo spettatore di utilizzare il pensiero e rendersi conto della sua capacità: collegare cose diverse. Si può dire infine che il tema dominante di ogni tragedia greca: è mettere in scena la natura del pensiero perché gli spettatori se ne rendano conto e non la tradiscano. Dioniso non nasce ne dimora nell’Olimpo. É un “dio a parte”. Figlio di Zeus e della mortale Cibele. Dioniso rappresenta lo straniero rispetto alle potenze divine che agitano il mondo. Dioniso viene sempre seguito da In seguito la dea dice: “La questione è troppo grave perché si ritenga di farla giudicare da uomini” e allora “fonderò un istituto di giustizia che sarà saldo per sempre”. E l’istituto è questo: per sapere se un uomo è colpevole o meno si sceglieranno un numero di giudici tra i più saggi della città, estranei agli interessi delle parti e che giureranno di decidere con prudenza ascoltate le ragioni dell’accusa e della difesa. Esauritasi la discussione, la dea pronuncia un terzo discorso: “Poiché il numero di giudici è pari, in caso di parità di voti prevarrà la mia decisione – poiché non ho conosciuto colei che mi ha generato, non sono in grado di mettere sullo stesso piano l’uccisione del padre e quella della madre: perciò non farò prevalere la morte di una donna che ha ucciso lo sposo custode della sua casa. Oreste vincerà anche se giudicato a parità di voti”. Si apre l’urna dei voti dei giudici: parità. Decisivo è il giudizio di Atena: Oreste è assolto. L’invenzione di Atena è dunque IL PROCESSO. Gli elementi caratteristici del processo sono dunque: - Le parti parti sono opposte su un piano di assoluta parità davanti al giudice: per arrivare alla soluzione della controversia non può essere usata nessuna forza che non sia quella degli argomenti utilizzati per sostenere la propria tesi e squalificare quella avversaria. - La soluzione segna la fine della controversia. Probabilmente il processo come pratica per risolvere controversie esisteva ancora prima di Eschilio. Ma solo con le Eumenidi si espone appieno la consapevolezza della novità che il processo rappresenta. Con il primo dei 3 discorsi (quello con il quale impedisce alle accusatrici di parlare senza che prima sia comparso l’accusato con il suo difensore), Atena proclama il fondamentale principio del contraddittorio per il quale il giudice non può prendere nessun provvedimento contro una parte se anche l’altra non è presente e se entrambe non hanno avuto la possibilità di difendersi esponendo le proprie tesi. Con il secondo dei 3 discorsi Atena proclama il principio della terzietà del giudice cioè della sua completa estraneità rispetto alle parti. Il terzo discorso invece esprime un “non sapere”, una difficoltà a prendere cognizione di tutti gli aspetti della questione da giudicare. E quando è vero che il dubbio su chi abbia ragione non si toglie se ciò che è in ballo è punire o meno un accusato, non si può condannarlo. Quindi fino a quando permanga il dubbio sulla colpevolezza dell’accusato, è certo che la decisione del giudice deve essere a suo favore. Questo principio lo troviamo nella storia della giustizia penale nella formula in dubio pro reo. Il Principio, il processo, il diritto Terzietà del giudice, necessità del contraddittorio e presunzione di innocenza fino a prova contraria sono i 3 cardini sui cui deve basarsi ogni organizzazione legale delle contese per trovare una soluzione. Ma la ragione per la quale deve esserci il processo non dipende da Atena. Ha luogo in una realtà più profonda a cui rimanda il coro finale delle Eumenidi. Esso afferma che ciò che è avvenuto piace a Zeus, custode di ogni equilibrio tra le forze nel cosmo. Ma piace anche ad una potenza divina più segreta alla quale nemmeno Zeus può fuggire: è la Moira, il destino. Il destino, possiamo dire noi, di ogni parola di essere collegata con le altre in virtù del logos che le forma tutte: perché con questa possibilità, che nessuno può trascurare, si manifesta tra gli uomini il Principio. Il Principio costringe ogni legge a confrontarsi con leggi diverse. Nel 545 a.C. nel teatro di Atene con le parole di Eschilio è nato nell’umanità il diritto in senso razionale. Razionale perché spazza fuori qualsiasi tipo di credenza o superstizione. É razionale anche perché rappresenta ciò che la ragione esige per mantenere la comunicazione tra gli uomini anche per mezzo della legge. Legge positiva e argomentazione processuale: nuovi campi di riflessione Vi sono ora due discussioni aggiuntive da fare: la prima questione tratta la validità della legge positiva. La città dove si svolge la narrazione delle Eumenidi ha ormai una legislazione con caratteri ben diversi rispetto a quella precedente: proviene da fonti certe, è scritta e ha un contenuto preciso. Le leggi della città antica si avvicinavano molto al concetto moderno di leggi positive anche se tra le une e le altre vi sono sensibili differenze. Se la legge positiva è l’unica valida il processo non serve a confrontare norme di condotta diverse, quando confrontare significa porre su un piano di parità due elementi opposti per vedere quale sia preferibile al caso concreto. Se la legge positiva è l’unica valida, il processo serve solo ad accertare se colui che è sottoposto a giudizio ha violato o meno quella legge. Questa questione è fondamentale anche oggi negli ordinamenti nazionali Europei. Questi sono formati da leggi certe o “positive”. Le chiamiamo tali perché sono: emanate da un potere chiaramente identificabile nell’esperienza, lo stato; sono promulgate secondo procedure e con forme stabilite che valgono a distinguerle da altri tipi di comando; perciò sono storicamente “poste” da un determinato soggetto, in un determinato tempo e in un determinato luogo. É stata invero diffusa nella dottrina una prospettiva per la quale è un determinato insieme di leggi positive che costituisce il campo, e garantisce lo scopo, del diritto. La fonte del diritto, si afferma, è la legge. É parso alla mentalità moderna che la legge positiva sia sufficiente a garantirle una validità esclusiva in ordine alle fattispecie da essa previste. La visione moderna crede che l’unico sapere autentico sarebbe quello che si forma partendo da premesse chiare e convenienti. Ora, nel campo del diritto non si dispone di premesse assolutamente garantite: allora conviene assumere quelle più facilmente conoscibili, più diffusamente accolte; occorre dunque agli operatori del diritto assumere, come uniche premesse dei loro ragionamenti, dentro e fuori il processo, le leggi positive dello stato. Questa impostazione mentale in realtà sta incontrando nella prassi moderna non pochi problemi tra i quali il più significativo vede i giudici ricorrere a criteri, norme e regole extralegali (oltre la legge) senza dichiararne il fondamento o la provenienza spacciandole anzi come corrette interpretazioni della legge: così si mina in modo grave proprio il valore della certezza mentre vi sono molti che coprono il carattere arbitrario dei loro ragionamenti. Oggi, pensare alle origini non è affatto sbagliato. Ancora una volta la seconda “mossa” del pensiero arcaico non si trova in un testo dottrinale ma in una tragedia, L’Antigone di Sofocle. Qui “l’altro” che l’uomo è invitato ad incontrare è proprio un’altra legge rispetto a quella posta dalla e nella città. Qui non vedremo un processo e la successiva riconciliazione delle parti ma vedremo un rito che non riesce a costruirsi come processo e le disastrose conseguenze del mancato accordo tra i contendenti. Ci saranno riflessioni da fare: - Prima di tutto, è possibile, e a quali condizioni, che una legge possa giustificare da sé la sua validità e pretendere di offrire criteri senz’altro validi per giudicare un comportamento particolare? - L’altro problema irrisolto dalle Eumenidi invece è quello dell’argomentazione. Si tratta di ciò: le parti cercano di ottenere ragione tramite il dibattito processuale usando esclusivamente la forza dei loro ragionamenti. Ma qual è l’argomento vittorioso? Quale criterio stabilisce che un discorso abbia le effettive capacità di squalificare il discorso opposto? In alcuni punti della tragedia di Eschilio viene invocata Peithò, la dea della persuasione. Ma in cosa consiste la “persuasività”? Certo, si può far leva sulla mentalità dell’ascoltatore e cercare di mostrargli che una tesi è migliore di un’altra, oppure si possono classificare gli argomenti e constatare empiricamente quali ottengano più successo. Questo modo (tra l’altro moderno) di intendere la persuasività non va bene: non offre tutte le garanzie auspicabili perché fin che ci si rivolge “all’animo” dell’ascoltatore, questi può sempre rifiutare, per motivi suoi, anche il discorso più accattivante. Il problema allora è questo: c’è un criterio per il quale si possa giudicare con certezza giusto o sbagliato il rifiuto di una (o l’accoglimento) di una determinata tesi da parte di chi ascolta? C’è una regola per la quale si possa affermare con certezza che nel processo il giudice abbia sbagliato o meno ad accettare una data conclusione? Bisogna attendere la terza “mossa” del pensiero Greco: il criterio per il quale un ragionamento è logicamente persuasivo verrà esposto, proprio durante un processo, per bocca di Socrate (Apologia di Socrate). La legge posta nella città. Antigone Torniamo al primo dei problemi sopra indicati. Nella città che va organizzandosi in modo sempre più autonomo rispetto alle tradizioni tribali delle genti che vi abitano, la legge appare un fenomeno con caratteristiche nuove: essa è pronunciata da un’autorità che è ritenuta l’unica legittima perché voluta dai consociati. É tanto chiara che può essere scritta. Ed è poi efficace: chi la viola subisce una sanzione attuata e garantita non dai privati ma da un potere costituito all’interno dell’organizzazione della città. Data la diversità della legge rispetto alla previgente normativa consuetudinaria sono sorti, ai Greci, interrogativi inquietanti e radicali da essere presenti ancora oggi. É sufficiente che la legge possieda i caratteri sopra menzionati per essere considerata valida, efficace, completa indipendentemente dai suoi contenuti? Nel 422 a.C. 40 anni dopo le Eumenidi di Eschilio, Sofocle compone la tragedia Antigone e parla della legge ai suoi contemporanei narrando una vicenda del passato. Viene raccontato il dissidio tra Creonte ed Antigone. Il primo, Creonte, è il tiranno di Tebe poiché esercita il potere senza controllo istituzionale e privo di legittimazione formale ma è comunque appoggiato dalla città che ne ha apprezzato le gesta durante un precedente assalto predatorio. Creonte afferma che il corpo di Polinice non debba essere sepolto in quanto non merita nemmeno questo avendo combattuto contro la sua stessa città. Era morto da traditore. La pronuncia di Creonte ha i caratteri fondamentali della legge: la sua fonte è sostenuta dall’approvazione dei cittadini, ciò basta a rendere irrilevante qualsiasi altro prospetto normativo che valesse a metterne in discussione i contenuti. Al decreto di Creonte si oppone Antigone, sorella di Polinice, appellandosi ad un diritto panellenico non scritto ma risalente alla normativa consuetudinaria il quale imponeva che anche il corpo dei nemici caduti in battaglia dovesse venire sepolto perché altrimenti si temeva che l’ombra del defunto avrebbe continuato a vagare senza pace e senza raggiungere mai l’ultima dimora nel regno di Ade. Ed ecco che Antigone compie un maldestro tentativo di seppellire il fratello. Viene però spiata e denunciata da una guardia del tiranno. Creonte la convoca davanti a sé per punirla senza però passare attraverso un rituale significativo. A differenza del “processo” che avviene nelle Eumenidi di Eschilio, qui nell’Antigone Creonte giudica accusando. Quello di Creonte è un rito e non più un processo. Nel secondo millennio tali caratteristiche saranno attribuite all’inquisizione. Oltre la legge dello stato Corruzione della forma e abbandono della ricerca della verità attraverso il logos vanno di pari passo. La forma corrotta è funzionale ad un giudice che si allontana dalla verità proprio nel momento in cui pretende di averne il monopolio. Il giudice diventa inquisitore quando non conosce altra voce, altre regole oltre che le proprie: sicché il confronto con l’opposto gli pare superfluo. Socrate mostra anche come la verità universale possa comparire determinata nel particolare: quando si scontra un numero definito di posizioni, la confutazione delle posizioni false produce anche come effetto che le posizioni non confutate appaiano vere, nella situazione particolare, fino a prova contraria. Infine: il principio metodologico dell’argomentazione giudiziale dell’Apologia è necessario non perché sia capace di garantire un risultato pratico, che sarebbe la persuasione psicologica dell’avversario. É necessario perché produce la comparsa di una proposizione senza alternative, produce quindi la comparsa della verità nel particolare. Gli elementi strutturali del diritto Con il processo a Socrate si conclude una sorta di trilogia del pensiero Greco che ci mostra la natura complessa, specifica e necessaria del diritto. Nelle Eumenidi, la narrazione tratta in primo luogo il processo. Sebbene la narrazione sia meno rilevante nei confronti della legge, essa viene riconosciuta come elemento fondamentale per attuare una comunicazione sempre più intensa tra gli uomini. Essa ha infatti la capacità di uniformare i comportamenti nell’ambito dei vari gruppi sociali scoraggiandoli e reprimendo deviazioni violente. Quando la socialità dell’uomo, sempre più alla ricerca di una comunicazione sicura al riparo da lotte e dissidi non può affidarsi più a norme non scritte e dal contenuto incerto, bisogna che la legge venga positivizzata in modo che sia costante, conoscibile a tutti ed emessa da una fonte egualmente riconosciuta come autorevole. Nell’Antigone, nonostante la prima narrazione tratti la legge positiva, non è meno importante la posizione che il testo prende nei confronti del processo. Il problema è capire se la positività di una legge sia sufficiente per garantirle un’assoluta validità. La risposta alla questione è negativa: perché anche la legge positiva, come ogni altro tipo di legge, rappresenta una visione da un punto di vista parziale. Implica cioè valutazione da parte di soggetti che non conoscono tutto il bene di tutti gli uomini. Quindi, se la legge positiva non basta, è necessario che via sia anche dialogo. La parzialità della legge può essere superata tramite il confronto dialettico tra una legge positiva e l’altro da essa: cioè tra chi considera valida la legge positiva e chi si appella ad un’interpretazione diversa. Il legame originario tra legge e processo, che nelle Eumenidi appare apertamente, viene espresso nell’Antigone dicendo ciò che accade quando esso viene trascurato. Se non vi è processo la legge non basta, anzi, essa tenderà a causare conflitti ancora maggiori, talvolta insanabili, perdendo la sua funzione pacificatrice. Resta poi il problema dell’argomentazione: cosa occorre perché l’opposizione tra le parti nel processo si risolva in un confronto autentico e non risulti invece come una mera ostensione alla diversità tra discorsi opposti? Quale criterio farà di un discorso il sicuro vincitore sul discorso opposto? Ecco che entra in scena Socrate con il principio del discorso dialettico per il quale colui che dice abbatte, inconfutabilmente, l’avversario quando dimostra che le sue tesi sono contraddittorie e incapaci di opporre resistenza alcuna. La natura del diritto: complessa, specifica, necessaria Siamo giunti al termine delle 3 “mosse” con le quali il pensiero Greco mostra l’origine del diritto e la sua natura complessa, specifica e necessaria. Complessa perché composta da 3 elementi: legge, processo e dialettica, nessuno dei quali può esistere senza gli altri. Una legge senza processo è un comando arbitrario. Un processo senza legge e senza dialettica sarebbe un insieme di voci sconclusionate. Specifica perché non può essere confuso con nessun orizzonte normativo, lo si chiami legge positiva, morale o costume. Ciò che caratterizza come giuridico un insieme di norme è che in esse alcune prevedano che vangano tutte messe in discussione. Ecco perché anche se il processo è temporalmente preceduto da norme che lo disciplinano logicamente è esso l’elemento originario del diritto, quello che costituisce una nuova realtà rispetto ad un qualsiasi complesso di comandi. Necessaria perché non può esistere come forma dei rapporti sociali che esige di essere determinata nell’esperienza. Il Principio esige che gli uomini colleghino relegandoli ad un originario rapporto dialogico. Il Principio vuole essere determinato, vuole essere tradotto in forme particolari dell’esperienza. Perciò nascono formazioni sociali come determinazioni della struttura dialogica dell’esistenza: grandi o piccole, semplici o complesse. Eraclito affermava che: un complesso di leggi non basta a garantire che tra i destinatari permanga il collegare, il dialogo in atto. Occorre anche il dibattito processuale, l’esercizio della dialettica, il diritto. Natura necessaria ma con quale fine? Il fine primario deve essere di ripristinare la possibilità del dialogo in certi luoghi, componendo certe fratture, quando tale scopo non potrebbe raggiungersi in modo diverso. Socrate ci ricorda anche che: La sospensione di un conflitto può sempre ottenersi per effetto di un potere efficace che riesca ad impedire di fatto la prosecuzione della lotta; però un risultato così non è detto che implichi che le parti “si capiscano”, si che ciascuna colleghi i suoi pensieri con i pensieri dell’altra in un sapere comune. Anzi, interrompere un conflitto con la forza implica che la questione non venga mai risolta, magari traducendosi, non appena possibile, in nuovi atti di violenza. Ma quale realtà deve comparire perché venga meno qualsiasi motivo di contendere tra parti diverse? É il sapere che per tutti non ammette alternative. Al quale non ci si può opporre. Stiamo dunque parlando della verità. É la presenza della verità che obbliga logicamente a deporre le armi. Socrate ci mostra come la difesa compare nel processo: quando di due tesi solo una risulti contraddittoria, cioè nulla, l’altra rimane senza alternative e quindi vera. Diritto e ricerca della verità Alla fine lo scopo ultimo è del diritto è la comparsa di una manifestazione particolare della verità con il fine di far cessare le contese. Ciò che è universale è la possibilità di trovare una verità nel particolare delle singole controversie. La legge e il diritto come realtà possibili Il comando dispotico non può essere una legge. Non è una delle realtà rese possibili dal Principio per attuarsi nella comunicazione intersoggettiva. E lo stesso possiamo dire dei riti inquisitori, che non sono processi. Ciò non vuol dire che non possiamo trovare caratteri empirici tra legge e comando o tra inquisizione e processo. Ma come è possibile che non ci sia qualche cosa d’altro che non è reso possibile dal principio? Fuori dal principio non c’è nulla: ma fin dall’inizio il Principio non produce, non “causa”, ma semplicemente non toglie la possibilità che la sua presenza sia ignorata dagli uomini che “dormono” (secondo il detto di Eraclito). Questi “dormienti” non comprendono la realtà e le sue possibilità: vedono gli uomini e cose come semplici ostacoli e tra loro scollegati. La realtà non è così ma i dormienti la vedono come tale. Ciechi quindi davanti alla verità si lasciano andare al pregiudizio, alle pulsioni immediate, alla violenza e non concepiscono altra alternativa se non di abbattere le opposizioni attraverso la distruzione. Riflessione sulle origini. Conclusione Alla domanda posta sopra si può rispondere così: non può esistere una realtà estranea alle possibilità aperte dal principio ma è originariamente possibile che gli uomini non se ne accorgano. Proprio questa mancanza costituisce per l’uomo un’inerte rinuncia a l’unica libertà possibile: ed è rinuncia che riduce in schiavitù corpi e menti, rende contraddittori i discorsi e lascia irrisolti i conflitti sociali.
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