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La disorganizzazione dell'Impero di Carlo V e la sua riconfigurazione - Prof. Terzaghi, Schemi e mappe concettuali di Storia Moderna

Il grande problema costituito dalla disorganizzazione dell'impero di carlo v, che venne ridimensionata grazie all'opera di unificazione religiosa dell'europa cristiana da parte di carlo. Il documento illustra i contrasti fra le due potenze, le questioni su cui vigevano dei contrasti, come la borgogna, il dominio sul ducato di milano, il possesso di genova, la rivendicazione francese sui territori imperiali delle fiandre e della contea di artois, e la creazione di una grande coalizione antifrancese. Viene inoltre descritta la pace di cambrai, la creazione di 14 nuove sedi episcopali di nomina regia e la crisi locale nella città di donawurth. Il documento termina con una breve descrizione della francia e inghilterra: assolutismi, rivolte e rivoluzioni.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 25/02/2024

EmanueleCellini
EmanueleCellini 🇮🇹

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Scarica La disorganizzazione dell'Impero di Carlo V e la sua riconfigurazione - Prof. Terzaghi e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Premessa: siamo quattro studentesse di Scienze Politiche, Aly Susan, Grassi Alessandra, Migali Mirea e Stazi Vanessa. Quello che abbiamo tentato di sistemare è un manuale lungo e complesso. Noi quattro ci siamo divise i capitoli, potreste quindi notare differenze nei modi di sottolineare o alcuni più dettagliati rispetto ad altri. Inoltre, ammettiamo che ci siam o aiutate con dei riassunti già circolanti online. Ci sono parti che saranno identiche a questi, altre leggermente modificate n ella forma e nella sintassi. Buono studio! Storia moderna dalla formazione degli Stati nazionali alle egemonie internazionali -Aubert e Simoncelli Capitolo 1 - Verso l’accentramento nazionale: l’Europa alla fine del Quattrocento L’immagine geopolitica dell’Europa che oggi fa parte del quotidiano bagaglio d’esperienza politica individuale è un’immagine che nulla ha a che fare con l’Europa delle origini dell’età moderna. Tre erano infatti i ceppi religiosi diffusi nel continente: prevalente quello cristiano (nella sua ancor duplice divaricazione, fino al 1439, tra chiesa romano-latina e greco-ortodossa). Diffusa poi a macchie di leopardo la religione ebraica, costretta a continua scomposizione e ricomposizione geografica da persecuzioni d’ordine non solo religioso ma anche politico-economico. Infine il ceppo islamico radicato nel regno di Granada, secondo tradizione sunnita e, nei Balcani, secondo tradizione sciita. I confini politici erano d’una mobilità estrema e la pluralità di insediamenti ex feudali, divenuti statali, ne moltiplicava le facili possibilità di scomposizione e ricomposizione: basti pensare, per fare appena qualche esempio, che nella penisola iberica erano presenti 5 distinti regni: di Portogallo, d’Aragona, di Castiglia e di Navarra, oltre quello “moro” di Granada; e che nel giro di pochi decenni ne sarebbero rimasti solo due (Portogallo e Spagna). 1 L’Europa orientale Dalle steppe russe alla penisola iberica, l’assetto geopolitico d’Europa viene completamente ridisegnato nel volgere di pochi decenni. È una tendenza generale che non lascia esente neanche una terra lontana come la Russia: non ancora entità statale, ma agglomerato di grandi feudi principeschi; monaci bulgari avevano diffuso il cristianesimo ortodosso, e l’influenza religiosa di Costantinopoli-Bisanzio aveva aperto alla vasta regione la cultura proveniente dal tardo Impero latino. Dalla precedente dominazione di Gengis Khan e soprattutto del successore Batù che instaurò nella Russia sud orientale il Regno dell’“Orda d’oro”, il Principato di Mosca acquisì una esplicita primazia tra tutti gli altri principati russi. Questo gran principato territorialmente si incuneava tra il Regno di Svezia a ovest e il Regno del Kazan a est. Il gran Principato di Mosca appariva dunque destinato economicamente e militarmente a fungere da centro politicamente unificante della Russia. Padre politico di questo nuovo aggregato statale, Ivan III, usò la diplomazia e forza (matrimoni) per estendere progressivamente verso Occidente, verso la Lituania, l’acquisizione di nuovi territori. La Lituania si trovava sotto la protezione del principe di Tver, che non voleva assolutamente cedere il suo vastissimo feudo al gran Principato. Vano il tentativo di assoggettare quella regione, malgrado Ivan III concludesse il matrimonio di sua figlia Elena col gran duca Alessandro di Lituania, la spinta militare offensiva riprese fino a riportare il confine moscovita al fiume Soj. Giovò enormemente al nuovo stato e al suo assetto interno la caduta di Costantinopoli in mano turca nel maggio 1453. Ivan III volle infatti sposare allora in seconde nozze Sofia Paleologo nipote dell’ultimo imperatore romano d’oriente, Costantino XII, superando così anche l’opposizione del Papa Niccolò V. Il matrimonio consentì a Ivan di proporsi come il nuovo legittimo imperatore e a Mosca non fu importato soltanto il fastoso cerimoniale bizantino, ma la città divenne la “terza Roma” (dopo la Roma capitale dell’impero d’occidente e la Costantinopoli capitale dell’impero romano d’oriente). La dinastia boema regnante in Polonia dall’inizio del XIV secolo non era riuscita a condurre, in anticipo sui tempi, una lotta interna vittoriosa sulla nobiltà locale e la successione al trono nel 1370 - spenta senza eredi la dinastia boema-, del re Luigi d’Ungheria comportò la necessità di accordi con la nobiltà polacca. È questa l’origine dei pacta convinta, cioè di accordi preventivamente stipulati e giurati dal sovrano con l’aristocrazia locale che sarebbe sopravvissuta all’accentramento monarchico. Se uno strumento giuridico del genere consentì inizialmente un forte sviluppo del paese, alla lunga costituì un elemento di grave debolezza politica dello Stato polacco. La fusione coi lituani, spinti dalle rive del Baltico verso sud dall’aggressività dell’Ordine teutonico, avvenne socialmente grazie alla loro conversione al cattolicesimo, contrattata per successione ereditaria alla morte di Luigi d’Ungheria: la figlia del re, Elisabetta, andò in sposa a Jagellone di Lituania in cambio della sua professione di fede cattolica e conseguente diffusione popolare. Nel 1499 veniva formalmente programmata l’unione indissolubile lituano-polacca. Quel vasto territorio era tuttavia politicamente soggetto, come visto, alle pressioni da est del Principato di Mosca, e da ovest dai teutoni con cui i conflitti sarebbero stati da allora tristemente tragicamente ricorrenti. L’ordine teutonico nato come ordine monastico militare impegnato contro i turchi alle crociate, conclusa quell’epopea era stato trasferito nel 1226 dall’imperatore Federico II nella regione tra la Vistola e il Baltico, col compito di cristianizzarla e colonizzarla. I cavalieri teutoni, persa progressivamente la vocazione monastica - ma non quella militare - cristianizzarono a forza la regione (è rimasta tristemente nota la “caccia” ai lituani allora ancor pagani). La Prussia e i popoli rivieraschi del Baltico orientale furono così segnati dalla civiltà teutonica e dal cristianesimo. Con la battaglia di Tannenberg del 1410 (contro le forze polacco-lituane) l’ordine subì una sconfitta. Successivamente però con la pace di Thorn del 1466 il re Casimiro III consentì che l’Ordine continuasse a mantenerne l’amministrazione solo per fare un investimento feudale e tutta la Prussia orientale con Danzica divenne polacca. Per quanto riguarda il Regno di Ungheria, esso si pose - sotto la guida del re Sigismondo - come il confine politico-militare europeo, l’antemurale cristiano, che avrebbe dovuto fronteggiare l'avanzata dei turchi ottomani musulmani. La politica dinastica di Sigismondo era molto attenta: fece sposare la figlia Elisabetta con Alberto II d’Asburgo, che gli successe alla morte. Ad Alberto seguì successivamente Federico III. Non accettando il fatto di essere governati da un re tedesco, quest'ultimo ultimo venne disconosciuto dalla nobiltà ungherese, che nominò sovrano Ladislao III di Polonia (1440-44), mentre la dinastia boema riconobbe come proprio reggente Giorgio Podiebrad. Era l’inizio di un momento critico nel continente. Si produsse uno scontro, nel 1444, fra le forze cristiane (polacche e ungheresi) e le forze turche a Varna: Ladislao III morì nello scontro e a lui prese il posto il generale Hunyadi, seguito, dopo lunghe dispute dinastiche, suo figlio Mattia Corvino. La successione al trono ungherese di Mattia Corvino comportò un mutamento della tradizionale strategia politico-militare, che ora era diretta contro l’Impero Asburgico e non più contro i turchi. Mattia col pretesto della scomunica del Podiebrad acquisì il regno di Boemia e marciando contro Federico III d’Austria, giunse persino a conquistare Vienna. Fu il momento di massimo fulgore ungherese. Questa nuova strategia, che metteva in secondo piano il "problema musulmano" dei turchi, pose fine alla solidarietà internazionale cristiana vigente fino a quel momento. I turchi rappresentano l’immaginario negativo per eccellenza nella psicologia collettiva europea e cristiana. Essi portarono il fanatismo religioso islamico cui erano stati convertiti in Europa, ma erano vittime a loro volta di devastazioni subite, più ad oriente, ad opera dei mongoli guidati da Tamerlano. Solo alla morte di quest'ultimo gli ottomani poterono riappropriarsi dei territori persi in precedenza in Anatolia e dilagarono anche in zona balcanica. Alla fine del XV secolo, l'Impero Ottomano si era espanso fino a raggiungere le coste del basso e medio Adriatico, a danno anche di alcuni presidi veneziani, mentre più a Nord Il regno del Portogallo manteneva una forte individualità politica grazie alle peculiarità che lo caratterizzavano: 1) gli stretti rapporti commerciali con l'Inghilterra e 2) la proiezione marittima aldilà dello stretto di Gibilterra (le c.d. Colonne d'Ercole). Alla metà del XV secolo, i portoghesi erano i padroni dei mari e le loro esplorazioni, malgrado l'incremento di strumenti tecnici quali bussole o carte nautiche, avvenivano soprattutto grazie a dati empirici e grazie all’esperienza dei marinai. Durante il regno di Re Giovanni I Aviz (1385-1433) e con suo Enrico il Navigatore (1394-1460) si incentivò l'espansione nei mari e celebri furono alcune imprese, come quella di Vasco da Gama che arrivò a toccare il vertice basso della penisola indiana ed aprì così la Via delle Indie. Nella sua espansione marittima e commerciale il Portogallo dovette fare i conti con la presenza musulmana dei turchi : dopo lo scontro navale di Diu (1509), per continuare l'espansione coloniale in Asia, i portoghesi dovettero allearsi con l'impero persiano. Tuttavia la particolarità di questa colonizzazione era che fosse limitata soltanto alla fondazione di porti commerciali nei territori scoperti, senza una vera penetrazione all'interno del territorio (a eccezione del Brasile e di alcuni territori africani colmi di miniere d'oro). Nonostante ciò la proiezione marittima e colonizzatrice del Portogallo lo allontanarono, a differenza di altri stati Europei come la Spagna e l'Olanda, per molto tempo dalle convulse situazioni politico-militari presenti in Europa. L'accentramento nazionale in Spagna invece si basò soprattutto sull'unione delle corone di Castiglia e Aragona, sancita dal matrimonio fra Isabella e Ferdinando (1469); tuttavia quest'unione non fu di per sé silenziosa: infatti dapprima l'esistenza dell'ancora re di Aragona Giovanni II, padre di Ferdinando, poi l'ostilità delle aristocrazie e delle nobiltà nei confronti del matrimonio, infine la presenza di una doppia amministrazione (clausole del matrimonio comportavano la sopravvivenza di una duplice e separata amministrazione) rallentarono questo processo di unione. Per di più i regni cristiani della penisola erano impegnati a combattere contro la presenza musulmana dei Mori a sud. Morto Giovanni II, poteva avviarsi il vero processo di unificazione. Una peculiarità del regno di Castiglia-Aragona non presente negli altri regni della penisola era la ramificata presenza di comunità etnico-religiose ebraiche e musulmane, che spesso si erano trovate in contrasto con i cristiani. Per quanto riguarda gli ebrei, essi disponevano di unità auto-amministrate concentrate soprattutto nella zona settentrionale della penisola; le mansioni svolte erano soprattutto di carattere mercantile (prestito a interesse e attività usuraie), medico e artigianale. La comunità musulmana veniva tollerata per mezzo di imposizioni fiscali più alte rispetto ai cristiani e con dei segni di riconoscimento (mezzaluna sulla spalla sinistra) e praticavano maggiormente lavori agricoli. Entrambe le comunità rimanevano comunque abbastanza discriminate, sia dal punto di vista etnico-religioso (antigiudaismo), sia da quello giuridico, si assistettero per questo a “conversioni di convenienza”, in cui l'ebreo o il musulmano di turno adottava in pubblico i modi di fare e le abitudini cristiani, mentre nell'ambito familiare continuavano a professare la propria originaria religione (fenomeno del Criptogiudaismo). La presenza costante di discriminazione e dei resti dell'ex regno musulmano di Granada comportò una profonda reazione di assemblaggio sociale, consistente in: 1) un senso arroccato di appartenenza ad una stessa regione e gruppo etnico, 2) la riesumazione di miti nuovi e antichi, come la Reconquista e infine 3) un nuovo sentimento di identificazione nazionale e del desiderio della limpieza del sangre. Questo processo diede avvio alla costituzione dell'Inquisizione spagnola per reprimere il fenomeno del criptogiudaismo, su richiesta della Corona castigliana nei confronti del Papa Sisto IV (1471-84), che l'approvò con una bolla Exit sincerae devotionis del 1478. L'inquisizione iniziò la propria opera di conversione forzata soltanto nel 1480, poiché precedentemente si ricorse ai normali metodi cattolici di conversione (evangelizzazione delle zone musulmane, diffusione del catechismo nelle diocesi, ecc.). L'opera dell'inquisizione (roghi di eretici, confische e condanne per chi offriva loro protezione) scatenò alcuni conflitti sociali che vennero mitigati dall'opera del pontefice che riconobbe il potere di designazione degli inquisitori locali ai sovrani spagnoli. La conquista e la capitolazione del regno musulmano di Granada avvenne definitivamente nel 1492. Diverse erano le forze politico-sociali che spingevano alla guerra: oltre all' aristocrazia e al clero - che vedevano nella conquista l'aumento delle proprie ricchezze e dei propri privilegi economici e territoriali -, anche gli ebrei e gli esattori delle tasse spingevano all'occupazione del regno, in quanto erano i finanzieri dell'impresa e ne avrebbero ricavato cospicui guadagni. La conquista cristiana fu favorita dalle divisioni interne presenti nella dinastia islamica e Granada cadde nel gennaio 1492 proprio grazie al tradimento di uno dei sultani del regno, Boabdil. Nei successivi anni di regno i sovrani cristiani Ferdinando e Isabella imposero il rispetto della libertà di culto e l'autonomia giudiziaria islamica, basata sulla Sharia (legge islamica), e si impedirono le conversione forzate. Contemporaneamente però prendevano avvio le misure legislative d'espulsione a danno degli ebrei, mirate a risolvere definitivamente i problemi nati col fenomeno del Criptogiudaismo e dell'attività usuraie perpetrate dagli giudei nei confronti dei cristiani. A concludere il processo politico di accentramento nazionale della Spagna moderna mancava ancora la regolamentazione di alcune questioni di frontiera con la Francia. La Spagna voleva raggiungere l'annessione del montuoso Regno di Navarra. Dopo aver rettificato l'acquisizione di Cardagne e Rossiglione al confine francese (accordo Carlo VIII-Ferdinando d’Aragona, gennaio 1493), la politica spagnola si diresse all'indebolimento del regno controllata dalla dinastia filo-francese dei d'Almbret-Foix: Ferdinando ottenne facilmente dal pontefice la scomunica dei sovrani di Navarra solo perché alleati politici d’uno scismatico re francese. Alla scomunica seguì, prima ancora della conquista militare, il riconoscimento da parte pontificia della nuova sovranità spagnola. 4 Il nuovo mondo Il marinaio genovese Cristoforo Colombo (1451-1506) militava nella marina portoghese, e nel 1485 espose il proprio progetto di aprire da occidente la Via delle indie al re portoghese Giovanni II (1481-95), che però respinse la richiesta. Successivamente Colombo si rivolse alle repubbliche Marinare di Genova e Venezia e anche all'Inghilterra, ricevendo sempre risposte negative. Furono i sovrani spagnoli ad accogliere il progetto nell’aprile del 1492: le Capitolazioni di Santa Fé, dal nome della località in cui vennero firmate, nominavano Colombo Grande ammiraglio dell'oceano e viceré delle terre che avrebbe scoperto. Salpato da Palos il 3 agosto del 1492 con 3 caravelle, Colombo sbarcò nella notte fra l'11 e il 12 ottobre su un’isola che chiamò San Salvador, che si pensava fosse essere una delle tante isole dell'arcipelago antistante la regione cinese del Cipango. Lasciata San Salvador, toccate le Antille, Colombo giunse a Cuba (qui conobbe abitanti aggressivi e dediti al cannibalismo) e sull’isola Hispaniola (oggi Haiti). Ai primi di gennaio del 1493 salpava alla volta delle coste iberiche portando con sé oggetti in oro, piante e soprattutto alcuni indigeni per testimoniare gli effetti del viaggio e della scoperta. Alle Azzorre, sotto sovranità portoghese Colombo fu forzato a trattenersi più del previsto, per poi doversi recare a Lisbona ad incontrare personalmente il re Giovanni II. Giovanni II contestò a Colombo di aver preso possesso delle nuove terre in nome dei sovrani di Spagna e per tale ragione voleva bloccare il suo viaggio di ritorno per Barcellona. Resosi però conto della possibile crisi diplomatica, lo lasciò andare. La controversia fra Spagna e Portogallo venne poi risolta dall'intervento di Papa Alessandro VI Borgia (1492- 1503) che con le due bolle Inter Caetera (1493) fissava gli obblighi e limiti della potestà politica sui nuovi territori: i territori pagani, secondo la tradizione giuridica medievale, erano da considerare terre da sottoporre all'evangelizzazione cristiana, quindi sotto il controllo della Santa Sede; per cui vennero assegnate ai sovrani cattolici di Spagna tutte le isole e terre trovate e da trovare, scoperte o da scoprire nella parte verso occidente e mezzogiorno. Veniva così fissata la linea detta della Raya che divideva la sovranità coloniale spagnola da quella portoghese. Ai portoghesi veniva riconosciuta la sovranità sul Brasile. Colombo salpò per una seconda volta nel settembre del 1493, al comando di una flotta e di un numero di uomini enormemente maggiore rispetto al primo viaggio. Facendo sosta alle Canarie, si spinse più a sud della prima esplorazione, scoprendo i Caraibi e le Isole Vergini (Porto Rico) e stabilendosi nuovamente a Hispaniola: la seconda permanenza in quest'isola fu più conflittuale, poiché la guarnigione che aveva lasciato sul posto l'anno prima era stata annientata; tuttavia scoprì le prime miniere d'oro. Nel giugno 1496 era di ritorno in Spagna. Nel terzo viaggio scoprì finalmente il continente americano meridionale e nel quarto e ultimo viaggio (1502-1504) si spinse a nord fino a Nicaragua e Panama. Maggiore fu l'opera di esplorazione di Amerigo Vespucci, ammiraglio fiorentino al servizio della corona spagnola, che arrivò a scoprire il Rio delle Amazzoni e a toccare le punte meridionali della Patagonia, per poi tornare in Spagna toccando anche le isole Falklands (1499-1500); fu lui a dare il nome di America al nuovo continente, confutando le tesi di Colombo di aver colonizzato la parte più orientale dell'Asia. Alla scoperta di nuove terre, era sopraggiunta la conquista vera e propria, attraverso mezzi militari: nei primi territori scoperti (Cuba, Hispaniola, Portorico ecc.), la presenza europea superò quella indigena. I conquistatori divennero poi i primi governatori delle nuove terre, e la ricerca dell'oro e di nuovi miti costituivano le motivazioni principali di conquista degli europei. La prima, vera, circumnavigazione del globo fu operata da Fernando Magellano e Sebastiano del Cano. Entrambi erano al servizio della corona spagnola e, proposto e ottenuto il consenso per il loro progetto di navigazione dall’amministratore della Casa de Contratacion (il centro di smistamento del commercio spagnolo), salparono il 20 settembre del 1519 da Cadice. Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre l'America era già stata superata (dalla parte meridionale della Patagonia, in quello che poi venne chiamato lo stretto di Magellano) e davanti agli europei si stagliava l'enorme oceano Pacifico (chiamato così proprio da Magellano per la notevole calma delle acque.). Nel marzo 1521 le prime navi costeggiarono le isole Marianne e le Filippine, ma in uno scontro con gli indigeni locali Magellano restò ucciso; al suo posto prese posizione Sebastiano del Cano. La traversata finale fu aspra e piena di insidie, toccato il capo di Buona speranza, l'ultima nave rimasta (la Victoria) risalì le coste occidentali dell'Africa e sbarcò finalmente a Sanlucár nel settembre 1522, tre anni dopo l'inizio del viaggio. Tutte queste nuove, fondamentali conoscenze geografiche proiettano sulla cultura europea l’ombra grave della ricerca empirica, sperimentale, come diversa e avversa al principio d’autorità. Autorità intellettuali, morali, religiose furono d’improvviso revocate in dubbio dal fatto; e non solo per la necessità di rifare ogni genere di carte nautiche e di ridisegnare i confini del “noto”. Jean François Fernel, ad esempio, nella sua Cosmotheoria giungeva alla conclusione logico-sperimentale della sfericità della terra. Infine le nuove scoperte favorirono la nascita di nuovi miti e leggende riguardanti i nuovi territori (Eldorado, la fonte della giovinezza, il Paradiso terrestre, ecc.). Capitolo 2 - La crisi italiana e le nuove concezioni della politica e dello Stato 1 Gli Stati italiani nel Quattrocento e la politica dell’equilibrio L'Italia nel XV secolo era un territorio omogeneo dal punto di vista culturale, ma profondamente diviso sul lato economico, politico e sociale. La penisola era spaccata in 2: al nord era presente una delle aree più urbanizzate e sviluppate dell’Europa, in cui le maggiori città (Milano, Venezia, Genova ecc.) avevano accresciuto il proprio potere nei confronti delle campagne circostanti e delle piccole nobiltà feudali che ancora governavano nei contadi, mentre all'interno di queste città erano le oligarchie mercantili a tenere il controllo governativo. Al sud e nelle isole, la realtà sociale era prevalentemente agricola e dominavano i latifondi a base feudale. Le uniche basi istituzionali delle regioni del sud erano lo Stato della Chiesa e il Regno del Napoli. Il governo del Ducato di Milano, nel corso del Medioevo, era passato dalla famiglia dei Visconti alla famiglia Sforza (dal 1450). Al suo interno era già in atto, all'inizio del ‘400, un processo di accentramento amministrativo e giudiziario che aveva eliminato i privilegi e le immunità di stampo feudale, sebbene questo processo avesse incontrato le resistenze dei feudatari e di alcune comunità locali, ancora aggrappate al dominio del governo locale. Dal punto di vista economico, la regione settentrionale milanese era ampiamente sviluppata sia dal punto di vista agricolo, in cui la meccanizzazione dell'agricoltura, la rotazione delle colture e la bonifica idraulica di ampie aree lacunose favorì la nascita di colture produttive, mentre nell'ambito dell' industria era il settore manifatturiero, in particolare tessile e metallurgico, a fare la voce grossa. signore della città, che cercò di trattare col nemico per dissuaderlo dai suoi intenti. Tuttavia, non ottenendo alcun appoggio da città importanti quali Arezzo e Pisa, favorevoli alla cacciata dei Medici, non poté opporsi al rifiuto di Carlo VIII e dovette inoltre cedere alcune fortezze al nemico (tra cui l’importante porto di Livorno). Fra il 31 e il 1 gennaio 1495 Carlo entrò a Roma e da lì si diresse velocemente nel regno di Napoli, forte del via libera del Papa. Ferdinando II dovette ritirarsi in Sicilia. Tuttavia la discesa di Carlo si arrestò a Napoli, dove ricevette notizie di un importante coalizione internazionale (composta da Impero, Venezia, Spagna e le truppe di Ludovico il Moro, il quale dopo la morte di Gian Galeazzo non aveva più motivo di guerreggiare con l’Aragona) che era nata con lo scopo di sconfiggere le armate francesi in terra italiana: nello scontro di Fornovo sul Taro (luglio 1495) senza né vincitori né vinti, il re francese perse gran parte delle sue truppe e infine ripiegò in patria. Ferdinando II rientrava a Napoli. 3 Girolamo Savonarola e la Repubblica fiorentina La discesa di Carlo VIII in Italia, anche se fallita provocò sgomento e preoccupazione in tutto il territorio della Penisola. Iniziarono a diffondersi predizioni di carattere astrologico e profetico che vedevano nella discesa del Re francese come a un evento millenario, che poneva fine ad una fase religiosa dominata dai peccati e dava inizio a una nuova età dell'oro. Si guardava a Carlo VIII come un liberatore di un paese che fino ad allora aveva conosciuto soltanto la corruzione e l'avidità della Santa sede. A Firenze soprattutto queste predizioni si condensarono tutte nella persona di Girolamo Savonarola, un prete domenicano del convento di S. Marco. Egli aveva dedicato tutta la sua vita alla predicazione e molte volte si era scagliato contro la curia romana, ritenuta da lui peccaminosa e disonesta. Al momento della discesa in Italia di Carlo VIII, iniziò a aizzare i cittadini fiorentini per rovesciare il corrotto governo mediceo, predicando per la nascita di una nuova repubblica fiorentina a larga partecipazione popolare: il 30 novembre 1494 vennero aboliti alcuni organi di governo dei medici (Il Consiglio dei 70, il Consiglio dei 100, i 12 procuratori, ecc.) e venne creato un Consiglio maggiore, che aveva funzioni legislative ed era composto da un Consiglio degli 80 e dalla Signoria, entrambi dotati di poteri esecutivi e giudiziari. Di questo consiglio potevano far parte soltanto i cittadini con almeno 30 anni che fossero considerati beneficiati, ovvero in regola con il pagamento delle tasse, con almeno 29 anni e che avessero avuti discendenti in politica. La riforma di Savonarola ebbe la meglio su un altro movimento, quello degli Ottimati che, accettando comunque la cacciata dei Medici, avrebbe preferito la creazione di un governo oligarchico. Le lotte intestine a Firenze fra i Piagnoni (seguaci di Savonarola), gli Arrabbiati (Ottimati) e i filo-medicei si sommarono insieme al clima di profonda austerità propugnato dal frate domenicano. Inoltre l’introduzione dell’imposta fondiaria e di quella progressiva sul reddito, unita a un ondata di peste del 1497, fecero sprofondare la città nel pieno disordine. I contrasti con la Santa Sede erano talmente intensi che Savonarola venne scomunicato e costretto al silenzio dal governo fiorentino, il quale, dopo le elezioni dell’aprile ’97, era composto dai nemici politici del frate domenicano. La parabola del frate domenicano era destinata a chiudersi: Savonarola fu processato dall'inquisizione secondo le accuse di eresia e di mancato rispetto verso il pontefice (Alessandro VI). Dopo 3 processi, avvenuti tra il 21 e il 24 aprile, e attraverso i metodi della tortura, Savonarola fu costretto a confessare i suoi capi d'accusa e infine venne giustiziato il 23 maggio del 1498. 4 La spartizione franco-spagnola dell’Italia e il ducato di Cesare Borgia Il dissidio fra la Repubblica fiorentina e la Santa Sede non smise di intensificarsi con la morte di Savonarola, ma si accentuò nel momento in cui il governo fiorentino decise di non partecipare alla coalizione antifrancese, presente anche dopo la cacciata di Carlo VIII dalla penisola. Inoltre Firenze aveva ben altro a cui pensare: si stava logorando con una guerra avversa a Pisa, la quale fu aiutata nei suoi tentativi di ribellione da Venezia. Nonostante la pace franco-milanese di Vercelli (ottobre 1496) la coalizione antifrancese non si rinvigorì neanche quando Carlo VIII mandò un esercito ai confini della Lombardia, minacciando il ducato di Milano (gennaio ’97). Nel 1498, la lega antifrancese perdeva un altro alleato, la Spagna dei sovrani cristiani (pace franco-spagnola di Marcoussis). Intanto però in Francia il potere passò da Carlo VIII, deceduto in quell'anno, a Luigi XII d'Orleans (1498-1515), che rivendicò sin da subito il possesso del ducato milanese, (in quanto discendente dei Visconti). Assicuratosi alleanza di Veneziani, Svizzeri e Santa Sede, Luigi XII iniziò a preparare spedizione contro Milano. Venezia nel frattempo stava combattendo la sua personale guerra con i Turchi: aiutati dalle forze ostili alla potenza veneta (Milano, Impero, Napoli) gli ottomani ottennero grandi vittorie (conquista di Lepanto) e si spinsero fino in Friuli e nell’Adriatico. Venezia fu costretta a operare lunghe trattative di pace, che si conclusero nel maggio 1503 Poiché gli ottomani governavano su gran parte della costa della Dalmazia. Luigi XII decise di agire: sfruttando anche il favorevole consenso di Alessandro VI, scaturito dal soccorso francese all'impresa di conquista della Romagna operata dal nipote del Papa Cesare Borgia. Il re francese, attaccando il ducato milanese nell’estate del 1499, mise in fuga Ludovico il Moro, il quale si rifugiò presso l'imperatore Massimiliano I. Nuovamente sconfitto a Novara nel 1500, Ludovico venne imprigionato in Francia, dove poi morì nel 1518. Conclusasi la vicenda milanese, altro obiettivo di conquista francese era il Regno di Napoli, in cui governava Federico III di Aragona. Accordatosi con il re spagnolo Ferdinando il Cattolico sulla spartizione dei territori italiani (trattato di Granada, novembre 1500: Campania e Abruzzo francesi, Puglia e Calabria agli spagnoli) e concludendo altre promesse di pace con Venezia e la Santa Sede, nell'agosto del 1501 il regno di Napoli cadeva sotto i colpi degli eserciti francesi, a nord, e di quelli Spagnoli a sud (intanto Federico III abdicava e riceveva in cambio il ducato d'Angiò). Tuttavia gli accordi franco-spagnoli non erano stati precisi e si scatenò un conflitto per il controllo di regioni strategicamente vitali come la Basilicata, non menzionata nel trattato di Granada; il conflitto fu infine vinto dagli spagnoli e Luigi XII fu costretto a rinunciare ai possedimenti napoletani, mantenendo solo quelli milanesi (armistizio di Lione, 1504). L'intesa tra Stato pontificio e Francia permise al nipote di Papa Alessandro VI, Cesare Borgia di conquistare in breve tempo la Romagna e di instaurare lì il suo ducato. Dopo la Romagna e dopo aver consolidato la neutralità del ducato estense con un attenta politica matrimoniale, conquistò anche le importanti città di Piombino, Urbino e Camerino. Le conquiste del Borgia iniziarono a impensierire le nobiltà locali delle città del centro Italia, tanto che si formò una lega di feudatari (maggio 1502) avversi al dominio del Borgia in grado di riconquistare alcune città, tra cui Urbino e Camerino. Tuttavia Cesare riprese velocemente il controllo del territorio e sconfisse la lega. Nonostante ciò Il suo potere nel centro Italia restò a lungo condizionato dalla protezione francese e della Santa sede, e dall'impossibilità delle altri compagni statali di intervenire in qualche modo (Venezia era occupata nella guerra con i Turchi, Milano era ormai sotto il controllo francese e Firenze era impegnata a risolvere i propri conflitti interni). Infine il controllo sul Ducato di Romagna non era così autorevole: i piccoli e medi feudatari godevano ancora di ampie autonomie. Così la parabola di Cesare Borgia si concluse in poco tempo: con l'improvvisa morte di Alessandro VI (forse avvelenato) e dopo solo un mese di pontificato dello sfortunato Pio III (22 settembre-18 ottobre 1503). Il soglio pontificio venne occupato da Giulio II della Rovere (1503-13), aspro nemico della famiglia romana. Borgia fu catturato e confinato in Spagna, dove morì poi nel 1507 nel corso di una battaglia per la dinastia dei Navarra. 5 Gli anni di Giulio II e Leone X La repubblica veneziana aveva accresciuto i propri domini grazie alle conquiste delle terre in mano al Borgia e questa supremazia nella penisola italiana iniziò a preoccupare sia l'Impero, da sempre in contrasto con la Serenissima nel controllo del nord Italia, sia il Papa Giulio II che non vedeva di buon occhio un'egemonia veneziana nel nord Italia. Inoltre l'ampliamento territoriale ebbe ripercussioni anche all'interno dello stato veneto, poiché soprattutto i mercanti marittimi e alcune famiglie patrizie rimasero deluse dalla perdita di importanza dell'attività mercantile e commerciale nei mari, sostituita dalla nascita di un'aristocrazia terriera ben radicata e rinvigorita dalle rendite fondiarie. Il contrasto fra il Papa e la Serenissima era anche acuito dal sistema di designazione vescovile e di elargizione dei benefici adottato nello Stato veneto, che era interamente nelle mani delle oligarchie della città lagunare (sistema delle Probae). Tuttavia vi era la frangia dei c.d. Papalisti, di cui facevano parte anche alcuni esponenti delle famiglie veneziane, che desideravano un riavvicinamento con la Chiesa, poiché godevano di alcuni benefici ecclesiastici e di conseguenza erano contrari a un ampliamento territoriale nel nord Italia sfavorevole alla Chiesa. Giulio II passò all'azione: nel settembre del 1504 a Blois formò con Francia e Impero una coalizione antiveneziana; tuttavia quest'azione non portò sin da subito allo scoppio di una guerra, poiché da una parte Venezia cercò di accontentare le mire del Papa cedendogli alcuni territori minori della Romagna (1505), mentre dall'altra Giulio II cercò di rafforzare internamente la sua compagine statale: 1) si riappacificò con alcune famiglie baronali romane a lui ostili, 2) si impadronì, non senza difficoltà, di importanti città quali Perugia e Bologna e 3) permise il rientro di alcuni signori nei loro possessi, guadagnandosi la loro fiducia per un'eventuale prossima guerra. L'Impero prese la decisione unilaterale di attaccare Venezia, ma la repubblica dimostrò la sua forza respingendo tutti gli attacchi imperiali (1508). Cosicché alla coalizione anti-veneziana (la lega di Cambrai, dicembre 1508) si aggiunse anche la Spagna, desiderosa di prendersi i porti commerciali della repubblica, e i ducati di Savoia, Mantova e Ferrara, i quali avrebbero voluto riconquistare i territori occupati dapprima dal Borgia e poi dalla potenza veneta. Nella battaglia di Agnadello (maggio 1509) la coalizione inflisse ai veneziani una dura sconfitta, ma temendo un rafforzamento troppo grande da parte della Francia, l'anno dopo Giulio II si accordò con Venezia (restituendole alcuni territori e permettendo il sistema delle Probae) in funzione antifrancese. Tuttavia sia l'Impero che la Spagna si svincolarono da questa presa di posizione del Papa, il quale conseguì diverse sconfitte (soprattutto a Genova e Milano). Luigi XII, soddisfatto delle vittorie militari (si era impadronito anche di Genova nel 1507, aizzando una rivolta popolare contro i signori del posto), decise di attaccare la Santa Sede anche dal punto di vista clericale promuovendo un concilio religioso scismatico a Pisa, al quale a sua volta rispose Giulio II istituendo un Concilio in Laterano fra Papa, Venezia e cantoni svizzeri, ostili alla Francia. Il concilio di Pisa perse sin da subito il suo forte significato morale. Dopo la vittoria francese di Ravenna (aprile 1512), l'avvento delle truppe svizzere nel Nord Italia indebolì le forze luigine, che dovettero ritirarsi da importanti roccaforti. A Firenze il Papa, vendicandosi della scelta della repubblica di accettare il concilio scismatico in terra propria, rovesciò la repubblica e istituì l'oligarchia medicea. Nell'agosto del 1512 venne istituito il Concilio di Mantova, con lo scopo di riordinare i territori nel Nord Italia, protagonisti di sconvolgimenti continui nel corso degli ultimi decenni, e indebolire il dominio francese: si sancì la restituzione di Milano a Ludovico il Moro, anche se sotto l'influenza dell'Impero e della Spagna, e la cessione di Parma e Piacenza al Papa; questi ingrandimenti territoriali, fra cui l'acquisizione da parte della Chiesa del ducato estense di Reggio, comportarono la stipulazione di un'alleanza franco-veneta in funzione anti-papale, immediatamente avversata da un accordo fra Chiesa e Impero. Infine nel convegno si sancì il ritorno dei Medici a Firenze. La grande debolezza della città fiorentina era l'instabilità di governo, causata dalle continue frizioni fra gli Ottimati (aristocratici) e l'ala democratica del governo: i primi volevano ridimensionare il potere del Consiglio Maggiore, che aveva ampi poteri sulle finanze del regno, mentre i secondo volevano boicottare l'elezione dei membri del Consiglio dei 10, organo direttivo della politica estera. Puntando al rafforzamento dell'esecutivo, gli Ottimati spinsero per l'elezione di un Gonfaloniere a vita, sul modello del doge veneziano e nel 1502 fu eletto Pier Soderini. Con la restaurazione medicea tuttavia, la carica di Gonfaloniere venne rese bimestrale e vennero riportati in vita i vecchi consigli (dei 70 e dei 100) e creato un Senato, al posto dei vetusti consigli (Consiglio Maggiore e consiglio degli 80). per il ducato milanese. Al fine di contenere l’espansione francese in seguito alla discesa in Italia di Carlo VIII era stato poi celebrato nel 1497 il matrimonio tra l’erede dei sovrani di Spagna, Giovanni. La precoce scomparsa di quest’ultimo, tuttavia, fece sì che Margherita andasse sposa nel 1501 a Filiberto II il Bello, duca di Savoia, sempre allo scopo di ridurre la pressione della Francia. Un altro chiaro significato antifrancese ebbero le nozze tra l’altro figlio nato dal primo matrimonio, Filippo il Bello, e la figlia del re di Spagna, Giovanna la Pazza. La morte di Giovanni (unico successore dei sovrani spagnoli) aprì un periodo di incertezza dinastica per la compagine iberica: la successione spagnola entrò in un intricatissimo periodo di dispute per il potere La successione al trono sarebbe spettata alla figlia maggiore dei 2 sovrani, Isabella, che era andata in sposa nel 1497 a Emanuele I, re del Portogallo, affinché si realizzasse la tanto agognata (da parte degli spagnoli) riunificazione della penisola iberica sotto un'unica bandiera. Isabella muore nel 1498, subito dopo aver concepito Michele, il quale però rimase in vita solo 2 anni. A questo punto la successione, di diritto, sarebbe toccata a Giovanna la Pazza, moglie dell'arciduca d'Austria Filippo il bello, ma il suo squilibrio psichico, secondo la madre (Isabella di Castiglia), non la consentiva di governare, quindi fino al 1504 fu il marito di Isabella, Ferdinando d'Aragona (Il cattolico) a detenere il potere. Alla morte di Isabella, nel 1504, la nobiltà castigliana nominò Re Filippo il Bello, di origine fiamminga, in modo da intensificare i rapporti con i Paesi bassi e preferendolo a Ferdinando, considerato un "Re straniero". Ferdinando reagì ammogliandosi con la nipote di Luigi XII di Francia, Germaine de Fox, e rinsaldando i legami fra Aragona e Francia. Nel 1505, la situazione vedeva un governo tripartito sui domini castigliani-aragonesi con Giovanna la Pazza (regina secondo il diritto, ma sconfessata dagli altri contendenti), Ferdinando d'Aragona (nominato dalla nobiltà aragonese), Filippo il Bello (nominato dalla nobiltà castigliana). Con la morte di Filippo il Bello, e a causa della follia di Giovanna, Ferdinando d'Aragona si appropriava del potere facendo rinchiudere la figlia pazza in un convento, dove ella morì nel 1555. Intanto, nei Paesi Bassi, dopo la morte di Filippo il Bello, suo figlio Carlo d'Asburgo diveniva il reggente di questo fruttuoso territorio. Nel 1516 la morte di Ferdinando senza eredi consentì a Carlo di cingere la corona aragonese e, di fatto, quella castigliana. Rispetto a quest’ultima, la legittima regina era la madre Giovanna la Pazza. Carlo divenne Re di Castiglia e Aragona (col nome di Carlo I) grazie alla dichiarazione dell’entourage fiamminga (colpo di mano) e sconfessando la povera Giovanna e il Cardinal Cisneros (il reggente della Castiglia), che accettò tutto per non aprire nel regno una nuova crisi dagli esiti imprevedibili. E così Carlo, ottenuta la corona, poté riunire i territori aragonesi (Sardegna, Sicilia e Regno di Napoli) e castigliani (le fiandre e le colonie) sotto un unico vessillo. Guardato con diffidenza per le sue origini fiamminghe in Spagna (dunque uomo ignaro della realtà del paese che neppure la lingua conosceva), Carlo colse l'attimo e divenne Imperatore del Sacro Romano Impero. Nel gennaio 1519, infatti, muore il legittimo sovrano Massimiliano I. Carlo eredita i possedimenti degli Asburgo, e la possibilità di candidarsi a imperatore. L’elezione di Carlo (divenuto con l'unione Carlo V d'Asburgo) al trono di imperatore, avvenuta alla Dieta imperiale (grazie all’aiuto finanziario dei banchieri tedeschi e fiamminghi e a quello politico della piccola nobilità) si rivelò un'astuta mossa politica, in grado di circondare la Francia di Francesco I su due fronti. 2 Organizzazione e problemi dell’Impero di Carlo V Più forte della Francia, il complesso ispanico-imperiale appariva per capacità militare: una solida flotta, gli addestratissimi lanzichenecchi tedeschi e l’armata spagnola costituivano i capisaldi di una macchina bellica difficilmente eguagliabile. Enormi apparivano poi le potenzialità economiche imperiali, con il controllo del grano siciliano, le colonie d’oltreoceano, le ricchezze delle Fiandre e le riserve finanziarie dei banchieri tedeschi, fiamminghi e genovesi. Ulteriore elemento di forza Carlo V fu la capacità di proseguire la politica matrimoniale dei suoi avi. Stabilizzò il fronte nordico facendo sposare la sorella Isabella con Cristiano II di Danimarca. Riprendendo il disegno dei Re Cattolici di unificare la penisola iberica, fece sposare un’altra sorella, Eleonora, con Emanuele I di Portogallo, e un’altra ancora, Caterina, con Giovanni III, erede di Emanuele, 1519. Infine, lui stesso sposò la figlia di Emanuele I di Portogallo, Isabella di Portogallo, da cui ebbe tre figli. La politica dinastica non risparmiò i Balcani: già nei piani di Massimiliano I, un’altra sorella di Carlo, Maria, sposò il re d’Ungheria, Luigi II Jagellone, e una sorella di questi, Anna, si unì al fratello minore di Carlo, Ferdinando. Queste nozze erano studiate per aspirare alla corona ungherese e rafforzare una frontiera antiturca. Da qui si evincono i problemi di Carlo V su fronte esterno: arginare la pressione turca nei Balcani e nel Mediterraneo, e proteggere linee di comunicazione Impero (sia marittime che terrestri). Effettivamente l’Impero presentava diversi punti deboli, fra cui la disomogeneità geopolitica e religiosa (riforma protestante), e la vastità dei domini, uniti solamente dalla persona del sovrano. Ciò implicava che ad ogni necessità Carlo V dovesse costantemente spostarsi nei vari domini. Per questo, tuttavia, si servì anche delle reggenze dei suoi figli nei vari stati amministrati per sbrigare i propri impegni. Ma soprattutto Carlo si servì di un elaborato sistema di Consigli per poter "arrivare" fin dove lui non poteva essere in quel momento. I Consigli si dividevano in Consultivi e/o Competenti su materie o per territorio: - il Consiglio di Stato, organo consiliare dell’imperatore, più formale che effettivo; - il Consiglio di Guerra, che si occupava dell'organizzazione militare dell’Impero; - il Consiglio delle Finanze, istituito dal consigliere e cancelliere di Carlo V, Mercurino da Gattinara giurista e umanista piemontese; - i Consigli regionali, come il Consiglio delle Indie per il controllo di questi territori dal centro. Infine, i singoli territori erano governati in loco da viceré dipendenti del Re che avevano il compito di respingere le spinte autonomiste delle periferie dell’Impero (Aragona, Navarra, Sardegna, Sicilia, Napoli e colonie). Questa lunga catena di comunicazioni politiche ebbe due effetti evidenti: intempestività (ritardi) e burocrazia pesante. La volontà di Carlo V di non unificare tutti Stati sotto unico ordinamento (pensando che l’unità politico- religiosa bastasse) ebbe come conseguenza di lasciare intatte le strutture politico-amministrative precedenti nei singoli domini. Continuarono a riunirsi le Assemblee (Cortes, Diete, Parlamenti ecc.) in tutti i territori dell’impero. Questi particolarismi finirono per sgretolare la pretesa universalistica di unire tutta Europa sotto unico Impero. Dunque, i grandi grossi freni a una monarchia universale potremmo riassumerli 1) contrasti tra universalismo della Corona e le realtà locali; 2) difficoltà finanziarie della Corona (che vedremo meglio in seguito); 3) lo scisma protestante estesosi poi in tutta l’Europa. Tuttavia, una nota positiva è che fallì il tentativo dei prìncipi tedeschi di limitare potere Imperatore. Infatti Carlo V fece compromesso con principi tedeschi nel 1519 per ottenere il titolo imperiale : la c.d. “Capitolazione” assicurava ai prìncipi la compartecipazione al governo della Germania e ripristinava riforme costituzionali e amministrative di Massimiliano I, fra cui l'istituzione di un Consiglio di Reggenza. La capitolazione venne ridiscussa e precisata nella Dieta di Worms nel 1521 (la prima di Carlo). Ma negli anni successivi i nuovi organismi istituiti (come il Consiglio di Reggenza) divennero docili strumenti del potere asburgico. Quanto i particolarismi costituissero un problema, Carlo dovette accorgersene non appena salì sul trono di Spagna. Quando infatti da quel trono dovette momentaneamente allontanarsi, lasciandovi come reggente il suo consigliere Adriano di Utrecht, per recarsi in Germania a cingere la corona imperiale, gli abitanti dei comuni castigliani (comuneros) esplosero in una violenta ribellione, capeggiata da un nobile, Juan de Padilla. Cause della rivolta: ) alta pressione fiscale b) troppi funzionari stranieri c) rivendicazione primato delle Cortes. Le comunidades castigliane in rivolta si unirono in una Junta e cercarono di liberare Giovanna “la pazza”, nel tentativo di prendere il potere “legalmente” governando in suo nome. Contemporaneamente esplose un’altra rivolta a Valencia, sempre di origine anti-fiscale, che assunse però connotazione radicale e anti-signorile. Gli artigiani si unirono in "fratellanze" armate. Radicalismo anti-nobiliare impaurì aristocrazia castigliana che non si schiera con i ribelli e lascia la porta aperta per la violenta repressione guidata da Adriano di Utrecht nel 1521-22. Insomma il fisco era il nodo cruciale dello scontro. Carlo V si scontrò con le assemblee dei vari Stati per fissare l’ammontare delle nuove imposte e la loro riscossione. Nonostante gli sforzi, l’assenza di una razionale organizzazione finanziaria e fiscale fu insieme causa ed effetto di questa situazione. La crisi economica si faceva sempre più sentire, l’indebitamento pubblico aumentava e l’imperatore iniziò a drenare in maniera squilibrata risorse dalle aree economiche più proficue. Così, se poco gravata fu la Germania, il peso maggiore delle finanze imperiali fu sostenuto dapprima dai domini italiani e dai Paesi Bassi, e poi anche dalla Spagna (Castiglia fu la regione più spremuta fiscalmente). Ogni tentativo di migliorare la situazione non servì a molto, aumentò il divario tra privilegiati e massa dei contribuenti e il risultato ultimo fu l’insufficienza del gettito fiscale e la tendenza della monarchia a cercare fonti alternative di finanziamento. Altro grande problema costituiva per Carlo V la disorganicità del suo impero, che venne (in un certo senso) ridimensionata grazie all'opera di unificazione religiosa dell'Europa Cristiana da parte di Carlo, timoroso soprattutto nei confronti dello scisma della Chiesa Luterana (a cui avevano partecipato molti principi tedeschi). Questa politica di unificazione religiosa si nutrì e fu incentivata dal dialogo interconfessionale e dal moderato riformismo religioso professato dal grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam. Gli ideali proposti da Le questioni sulle quali vigevano dei contrasti fra le due potenze erano diverse: - Il destino della Borgogna, in mano francese ma rivendicata per motivi dinastici da Carlo V; - Il dominio sul Ducato di Milano, in mano alla Francia, che diveniva di vitale importanza per l'Impero poiché costituiva il nodo di aggancio fra la Germania e la Spagna; - Il possesso di Genova, grande scalo commerciale, utile per entrambi le compagini statali, in particolare per Carlo, in quanto avrebbe potuto unire l’Aragona e l’Italia via mare; - La rivendicazione francese sui territori imperiali delle Fiandre e della Contea di Artois. A dare il via alle operazioni belliche non fu tuttavia Carlo V, ma Francesco I, forte della sua egemonia nell’Italia settentrionale dove poteva contare sull’alleanza della Repubblica di Venezia e sul decisivo aiuto militare degli Svizzeri. L’impero poteva contare sull'aiuto dell'Inghilterra dei Tudor e sul Papa Leone X. Enrico VIII Tudor riteneva opportuna l'alleanza (1521) con l'impero per via dei possedimenti dei Paesi Bassi, proficui dal punto di vista commerciale, e anche per continuare la normale politica anti-francese inaugurata con la guerra dei 100 anni. Leone X invece aveva scelto di unirsi con l'Impero per via delle confliggenti mire espansionistiche tra la Francia e lo stato Pontificio (entrambe volevano estendere i propri possedimenti nell'area ferrarese e lombarda). Le prime incursioni furono francesi, prima in Lussemburgo e poi in Navarra (1521), entrambe stoppate dalle truppe tedesche. La guerra volse sin da subito a favore dell'Impero: nell'estate del 1521 le truppe ispanico- pontificie occupano Milano, e nel dicembre dello stesso anno Leone X muore e viene eletto pontefice l'ex reggente di Spagna e consigliere di Carlo V, Adriano di Utrecht, col nome di Adriano VI. Nel 1522 la Francia provava una controffensiva nel nord Italia, ma con la sconfitta della Bicocca (aprile 1522) dovette cedere anche Genova agli imperiali. La defezione di uno dei maggiori generali francesi, Carlo di Borbone (per aver organizzato un complotto nei confronti di Francesco I ed esser passato al nemico), e il voltafaccia di Venezia, alleatasi con l'Impero (1523), rilevarono la debolezza della monarchia francese e permisero a Carlo V di creare una grande coalizione antifrancese di cui facevano parte: Impero, Inghilterra, Stato della Chiesa, Repubblica di Venezia, Repubblica di Firenze, Repubblica di Genova, Repubbliche di Lucca e Siena (agosto 1523). Questa vasta coalizione non poteva tuttavia ritenersi sicura, in quanto Venezia pur facendone parte non aveva sconfessato i passati accordi con la Francia, e il contributo degli inglesi non fu così determinante come pensava Carlo V. A ciò si aggiunge la morte di Adriano VI e l'elezione del Papa Clemente VII (1523-34), che indirizzò la sua politica verso l'intesa con Francesco I. Francesco I, nel corso del 1524, aveva ripreso Milano e iniziò ad assediare la fortezza di Pavia. Il corso della guerra sembrava stesse cambiando: la Francia riesce a far riavvicinare Venezia (che voleva impedire un dominio imperiale nel nord Italia) e la Santa Sede (la quale non vedeva di buon occhio il programma religioso di stampo erasmiano portato avanti da Carlo V) con un accordo nel 5 gennaio 1525. Ma per la Francia gli eventi precipitarono: sconfitte le truppe che assediavano Pavia (febbraio ’25), i soldati imperiali catturarono Francesco I, che dovette firmare a Madrid un trattato impietoso (gennaio ’26) che sanciva: a) restituzione Borgogna all’Impero e b) fine pretese francesi su Italia, Fiandre e Artois. Ciò però andò a sfavore dell’Impero: gli stati coinvolti nel conflitto iniziarono a temere una egemonia incontrastata dell'Impero in Europa, e reagirono di conseguenza→ Inghilterra, Venezia e Santa Sede firmarono delle paci separate con la Francia e si unirono in funzione anti-imperiale. Nacque così la Lega di Cognac (maggio 1526) di cui faceva parte anche Milano; ma le divergenze strategiche che dividevano i componenti della Lega vennero a galla (Venezia era interessata alla difesa della zona lombarda, il Papa alla conquista di Genova) e l'alleanza non seppe organizzare un'unità politica di attacco nei confronti di Carlo V (impegnato a combattere contro i turchi a Mohacs, agosto ‘26). Intanto il Papa, rimasto senza soccorsi a Roma, vide il Vaticano saccheggiato da 5000 uomini della famiglia Colonna (settembre 1526), alleata dell’Impero. Turbato da questi sviluppi Clemente VII cercò di sganciarsi dalla Lega di Cognac aprendo negoziati separati con gli spagnoli, dai quali ottenne nel marzo del 1527 il ritiro delle truppe imperiali già penetrate nei domini settentrionali dello Stato ecclesiastico. 6 Dal sacco di Roma alla pace La notizia della pace separata (marzo 1527) e il ritardo nei pagamenti portarono circa 20.000 soldat i tedeschi, i Lanzichenecchi, a continuare la discesa in Italia; dopo aver sbaragliato presso Mantova le forze della Lega di Cognac, giunti alle porte di Roma, 6 maggio 1527 iniziarono un terribile saccheggio della Capitale durato quasi 9 mesi: vennero profanate le chiese, distrutte le opere d'arte e uccisi i prelati. Ciò che li spingevano erano principalmente risentimenti nazionali e religiosi (la maggior parte dei guerrieri era di fede luterana). Clemente VII si ritirò nella fortezza di Castel Sant'Angelo. Il 29 Maggio 1527, a Westminster, Francesco I e Enrico VIII si uniscono in un’alleanza franco-inglese in funzione anti-imperiale, per attaccare l’esercito asburgico in Italia e difendere il papato. Ma l’alleanza non riesce a frenare il collasso dello Stato della Chiesa: le altre potenze italiane approfittarono del momento di estrema debolezza del Papato per occuparne i territori (rimangono solo Reggio e Modena), mentre a Firenze i Medici (privi di protezione) venivano cacciati alla notizia della resa del Papa, ed al loro posto veniva instaurata la Repubblica fiorentina. Clemente VII si consegna agli invasori in Giugno e viene costretto a firmare un trattato di resa (16 Maggio 1527) che gli imponeva neutralità nel conflitto Francia-Impero, e inoltre gli strappa promessa di indire un concilio. Nel maggio 1528 l'offensiva francese riparte al comando del Generale Lautrec. L’obiettivo era di rimpossessarsi Regno di Napoli. Si conclude però miseramente: nell'assedio di Napoli Lautrec muore di peste, e Genova (che nel 1527 era tornata città francese) con la sua flotta (comandata dall’ammiraglio Andrea Doria) passa all’Impero. Clemente VII tentava un riavvicinamento molto difficoltoso con l'Impero, a causa delle divergenze di carattere religioso e culturale aperte dal saccheggio di Roma, ma che si concretizza con il Trattato di Barcellona del 1529: 1) accettazione da parte del Papato dell'annessione diretta del Ducato di Milano all'Impero; 2) in cambio alla restituzione delle città di Firenze alla famiglia De’ Medici; 3) aiuto asburgico a recuperare le terre occupate dai nemici dello stato della Chiesa durante la crisi del 1527. Agosto 1529 → Pace di Cambrai (Pace delle 2 dame, poiché negoziata da zia di Carlo, Margherita d'Austria, e da madre di Francesco I, Luisa di Savoia), si giunge finalmente all’accordo fra i 2 grandi contendenti, Carlo V e Francesco I, che sancì: - Francesco I 1) rinuncia alle pretese di dominio in Italia, 2) conserva la Borgogna, 3) restituzione dei figli di Francesco I (ostaggi in Spagna sin dalla cattura di Francesco I a Pavia nel 1525) .La Francia salvava così la propria integrità territoriale, al costo di lasciare a Carlo V il dominio sull’Italia. - Carlo V ottiene la supremazia imperiale in Italia e l’annessione del ducato di Milano, sancita dalla Pace di Bologna del Gennaio 1530, e dalla cerimonia di incoronazione (febbraio 1530) nella quale Clemente VII poneva sul capo di Carlo V la corona di Imperatore e Re d'Italia. Capitolo 4 - “La Riforma Luterana” 1 Le premesse I controversisti cattolici contemporanei di Lutero non ebbero una percezione immediata della novità radicale del movimento religioso tedesco in tutta l'area centrale del continente europeo; credettero di avere a che fare con una delle 7 ribellioni dottrinali che sin dal Medioevo avevano osteggiato l'autorità ecclesiastica della Chiesa romana e che erano state faticosamente represse dall'azione dei missionari e degli inquisitori cattolici. L'unica forma di eresia ancora fortemente diffusa, nell'area tedesco-renana, era il Libero spirito, mentre l'Hussitismo era stato appena sradicato in Boemia, suo nucleo territoriale di nascita. Jan Hus (1369-1415),fondatore dell’Hussitismo, si ispirò per l'elaborazione del contenuto dottrinale dell'eresia, alle posizioni teoriche del riformatore religioso inglese John Wycliff, ovvero: ● la Bibbia è l'unica fonte di verità rivelata; ● negazione della transustanziazione (la trasformazione reale delle specie eucaristiche del pane e del vino in corporea presenza di Cristo); ● la Chiesa costituiva una comunità di predestinati. Queste tesi vennero alla luce in Boemia grazie agli studi di uno studente ceco dell'Università di Oxford, Girolamo da Praga, e poi vennero assunte da Hus, la cui posizione fu tuttavia più cauta e in certa misura ambigua, soprattutto riguardo la transustanziazione. Inoltre, Hus criticava la promulgazione di nuove indulgenze di Papa Giovanni XXIII (1410-1414); così egli venne chiamato dal Concilio di Costanza (1414-1418) a spiegare le sue controverse posizioni: gran parte delle conclusioni teoriche contenute nel suo trattato “De Ecclesia” vennero condannate e Hus si rifiutò di ritrattarle; venne condannato al rogo e morì il 6 luglio 1415 a Costanza, e stessa sorte ebbe Girolamo da Praga l'anno dopo. Ma anziché spegnersi l'Hussitismo dilagò in Boemia e tra i principi dottrinali venne introdotta anche la comunione “sub utraque specie” cioè l'uso del calice anche ai laici. Maggiori tensioni religiose nacquero in seguito alla formazione della divergenza teorica del Taboritismo, sotto corrente religiosa radicale nata nella città di Tabor (sorta nel 1470) grazie all'influenza di Niccolò di Dresda. Questa sotto-corrente da una parte negava l’esistenza del Purgatorio e rifiutava la prestazione del giuramento dall’altra predicava il rinnovamento radicale della Chiesa, la creazione di una società basata sui fondamenti della fratellanza e dell'egualitarismo e la formazione di un regno millenario guidato da Cristo, precedente al giudizio finale (millenarismo o chiliasmo rivoluzionario). Mentre il radicalismo taborrita sfociava nel chiliasmo rivoluzionario, lotte e guerre divisero la Boemia fino ad una prima conclusione favorevole all’ala moderata dell’hussitismo seguita dalla battaglia di Lipany del 30 maggio 1434 e successiva pace di Kutna Hora che consenti di mantenere la chiesa nazionale hussita e mise fine al dissidio con la Chiesa romana. È in questo contesto che Lutero (italianizzazione del cognome tedesco di grafia varia: Ludher, Lüder,Luther), che aveva anche ricevuto una copia del “De ecclesia” di Hus, poté contare per la diffusione della nuova dottrina. Diverso dunque il terreno di cultura e di diffusione del protestantesimo, individuabile nella tradizione umanistica e più diffusamente nel “Deutschtum” tradizione popolare-nazionale tedesca e progressivamente anti-romana su cui si sarebbe inserita e avrebbe avuto effetto detonante la parabola biografica e la riflessione dottrinale di Lutero. La condanna del passato ci accompagnava all’attesa di un “novus ordo” religioso e politico di palingenesi e di riforma, cui concorrevano pronostici e oracolo, congiunzioni astrali e predicazioni apocalittiche, contraddittoriamente assunte nella cultura umanistica come segni rivelatori d’un futuro che si annunciava dirompente rispetto al passato e alle sue forme tradizionali di vissuto politico e religioso. Questa condanna umanistica del passato, in campo religioso, non era di per sé una condanna della Chiesa romana quanto dle suo più recente patrimonio culturale e giuridico da cui la Chiesa non voleva svincolarsi nel timore di perdere la struttura portante della sua stessa esistenza storica prima ancora che della sua legittimazione all’azione politica. La polemica anti-curiale e anti-monastica fu uno dei tòpoi della corrosiva koinè umanistica destinato a più facile diffusione popolare. Una delle armi utilizzate per mettere in discussione l'autorità religioso-politica della Chiesa romana era la filologia, che permise di destrutturare alcuni punti cardini presenti nella Bibbia che favorivano il potere della Santa Sede: di capitale importanza si rivelò la critica filologica della presunta Donazione di Costantino, articolata in un libro, di Lorenzo Valla (1407-1457), con cui fece crollare la base giuridica e il potere politico-temporale dello stato della Chiesa (venne dimostrato che il testo risaliva all'alto medioevo, VIII-IX secolo d.C., e non al periodo di regno dell'Imperatore romano Costantino, IV secolo d.C., presunto autore della donazione). Lorenzo Valla ha simbolicamente posto nella pro-genitura culturale e metodologica della Riforma protestante. Martin Lutero nacque a Eislen in Turingia il 10 novembre 1483, da una famiglia di discreta condizione sociale; il giovane non conserva un ricordo sereno della sua infanzia , caratterizzata da un forte rigore morale, il quale poi 3. La libertà del Cristiano (esposizione della giustificazione ex sola fide). Il 3 gennaio 1521 Lutero veniva scomunicato grazie alla nuova bolla papale (Decet Romanum Pontificem) e venivano interdette (sospensione delle liturgie e dei sacramenti) le città che accoglievano Lutero. Tuttavia l'opera propagandistica di von Hutten continuava e ormai quasi l'intera Germania stava abbracciando gli ideali della riforma. 3 La stabilizzazione politica del luteranesimo La “dieta imperiale” di Worms, convocata nel gennaio 1521 dall’imperatore Carlo V non aveva all'ordine del giorno il “caso” Lutero, bensì contributi finanziari a Carlo V, governo e tribunale camerale dell’Impero, problemi di politica estera ecc. ma la tensione sociale provocata da Lutero fece sì che l’imperatore in persona se ne dovesse occupare. La diplomazia pontificia alla dieta voleva far eseguire la scomunica del teologo tedesco, tuttavia si accorse delle rilevanti difficoltà politiche che ostacolavano una tale richiesta; prevalevano considerazioni più di politica che religiosa (sia per la costituzione imperiale giurata da Carlo V sia per il fatto che la sua cancelleria guidata da Mercurino da Gattinara non era disposta a spingere a fondo per la condanna di Lutero); perciò per non destabilizzare ulteriormente la struttura sociale tedesca, si volle attuare una politica di tolleranza, come quella propugnata da Erasmo da Rotterdam (1466-1536), umanista , della cui corrente si fece portavoce. Il suo appello alla riforma della Chiesa non aveva i toni aspri di contrapposizioni come in Savonarola o come in Lutero, attraverso la clericalizzazione del laicato e la diffusione della Sacra scrittura, la riforma avrebbe avuto carattere pacifico; inoltre Erasmo esaltava la spiritualità individuale e gli insegnamenti morali rispetto alla formalizzazione delle istituzioni e delle gerarchie ecclesiastiche. Nella sua opera, “Encomium moriae” cioè “Elogio alla pazzia”, egli definisce la “pazzia”, come la vita individuale che si sottrae al formalismo dogmatico della scolastica e le sue bigotte manifestazioni. La differenza tra Lutero ed Erasmo è che Lutero era fuori la Chiesa cattolica tant’è che egli era stato condannato per le sue idee religiose. Nonostante alcune critiche dell'impianto dottrinale della Chiesa Romana (formalismo religioso, istituzioni gerarchiche e autorità polarizzata nella figura del Papa e dei Vescovi), Erasmo presumeva la sua diffusione in tutto il globo, insieme alla connessa lingua latina. Egli quindi non voleva provocare fratture religiose e scismatiche (al contrario di Lutero) e il suo programma dottrinale era ampiamente accettato sia dalla cancelleria pontificia che da quella imperiale di Carlo V. Da qui l’opposizione di Mercurino allo spedito procedere anti-luterano richiesto nella prima fase dei lavori della dieta di Worms e a cui l’imperatore sembrava sensibile. Nel viaggio verso Worms, Lutero, constatò il favore di cui godeva tra la gente ma ciò cambiò all’arrivo a Worms poiché durante l’udienza preliminare gli fu chiesto se riconosceva come suoi i libri che gli erano stati mostrati e se era disposto a ritrattare le sue dottrine e i suoi principi religiosi; egli prese tempo ma il giorno seguente (18 aprile 1521) rifiutò pubblicamente di ritrattare, salvo che con l’autorità della Sacra Scrittura non gli fossero dimostrati gli errori dottrinali imputatigli. L’imperatore rifiutò di convocare ulteriormente Lutero, ma acconsentì che privatamente si cercasse una elaborazione del caso; comunque il 26 aprile Lutero lasciò Worms. Nel maggio del 1521 venne elaborato il testo di condanna del teologo, il così detto “Editto di Worms”, a cui seguì il rogo delle opere luterane; Lutero riuscì a sfuggire all'arresto grazie all'intervento del principe elettore Federico di Sassonia, che lo condusse al sicuro nel castello della Wartburg, in Turingia, dove rimase fino al marzo del 1522. Al riparo dalle persecuzioni della Santa Sede, Lutero compose un’esegesi del Magnificat, raccolse le prediche domenicali, scrisse sui voti monastici e la messa privata e sopratutto poté tradurre per la prima volta l'intera Bibbia in una lingua volgare, il tedesco. Un’opera che non solo fondò la lingua tedesca moderna ma che influì profondamente sulla vita religiosa e culturale della Germania evangelica. Durante questi 10 mesi di soggiorno presso il castello della Wartburg, Lutero affidò a dei suoi collaboratori il compito di continuare la diffusione della Riforma al suo posto, fra questi vi erano Filippo Melantone e Carlostadio,il quale a Wittenberg celebrò la “messa tedesca” di natale del 1521 in abiti secolari distribuendo la comunione sub utraque specie. Proprio a Wittenberg Lutero tornò nel marzo del 1522 e il suo atteggiamento risultò cambiato; infatti i mesi passati a Wartburg furono fonte di crisi spirituale, la quale gli fece fare marcia indietro su alcuni novità dottrinali introdotte. Lutero fu definito nuovo papista da Carlostadio il quale avviò una polemica per la quale fu costretto a lasciare Wittenberg e a ritirarsi a Orlamünde. Peraltro, la diffusione del luteranesimo era anche sottoposta a profonde strumentalizzazioni che fuorviavano dal contesto religioso e che favorirono la detonazione di alcune rivolte locali come nel caso della così detta “guerra dei cavalieri” e della “guerra dei contadini”. Nella prima accanto a Ulrich von Hutten a rappresentare il ceto dei cavalieri e le loro ambizioni sociali vi era Franz von Sickingen che ne ha poi capeggiato le bande. I cavalieri costituivano ormai un ceto sociale in declino, ancorato agli antichi privilegi caratteristici del feudalesimo, i cui poteri venivano ormai limitati dalla progressiva statalizzazione del contesto sociale. Ultimo tentativo di ribalta per questo ceto fu “l'alleanza fraterna” stretta tra i cavalieri della Renania e della Francia nel 1522. Il comandante della rivolta Franz diede inizio all'attacco (il quale avrebbe dovuto provocare l'insurrezione dal basso nei confronti della clero locale) dell'arcivescovato di Treviri; ma nel girio di pochi mesi l'attacco venne stroncato e Sickingen morì nel 1523 nel suo castello. Alla fine dell'estate del 1523 il problema sociale della rivolta dei cavalieri era ormai inesistente. Nella seconda la sollevazione non fu principalmente causata da miseria e dalla disperazione contadina, sebbene i contadini erano da sempre vessati e indeboliti dalla miseria e dalla precarietà economica, per cui bisogna analizzare il perché questa rivolta scoppiò proprio negli anni 1524-25. Come successo per i cavalieri, il declino del sistema giuridico-economico feudale aveva indebolito fortemente le antiche libertà di cui i contadini godevano (libertà di caccia, di pesca, uso dei boschi ecc; libertà garantite dalla presenza del diritto comune, soppiantato nell'Impero tedesco dall'introduzione del diritto romano che le aboliva) a favore dell'accentramento burocratico- statale. Essa quindi fu soprattutto una rivolta socio-politica, poiché la lotta religiosa di Lutero e dei suoi compagni contro le istituzioni ecclesiastiche si era trasformata in una lotta politica contro le istituzioni imperiali. Capo morale della rivolta fu Thomas Muntzer che esercitava l'azione pastorale nella città mineraria di Zwickau dove venne in contatto con la setta profetico-millenaristica del luteranesimo, che profetizzava la venuta del “regno dei giusti”, ovvero coloro che sarebbero stati Illuminati dallo Spirito santo e che erano rappresentati dai ceti sociali più tartassati. Questi contenuti Thomas li espresse nel suo “Manifesto di Praga”. I primi violenti moti contadini scoppiarono a Sthulingen, nel sud della Germania odierna, per poi propagarsi in Renania, Franconia e Turingia; in particolare in Franconia il movimento contadino assunse carattere militare, in quanto vennero arruolati cavalieri e soldati feudali, mentre in Svevia era più moderato e diplomatico (vennero stilati I dodici articoli in cui chiedevano in sostanza la rivendicazione di alcune scelte sociali-religiose, il ripristino dei propri diritti aboliti, la diminuzione dei carichi fiscali ecc.). Mentre Muntzer continuava la sua predicazione che avrebbe favorito la nascita di nuovi focolai di rivolta, Lutero si rivolgeva (con la sua Esortazione alla pace) ai principi e ai signori locali tedeschi imponendogli di comprendere le ragioni dei rivoltosi, in quanto erano loro stessi la causa del male. Munzter prese il controllo della città di Muhlausen (1525), centro di propulsione della rivolta in Turingia dove il malcontento e le rivendicazioni dilagavano. Le autorità politiche si risvegliarono dal loro torpore e nel maggio 1525, il langravio Filippo d'Assia, insieme a Federico di Sassonia, assediarono e conquistarono Muhlausen, facendo strage di 5000 cittadini (tra cui lo stesso Munzter); entro la fine dell'estate la rivolta venne soffocata in tutte le regioni tedesche in cui si era diffusa. Da Roma, il Papa Clemente VII si congratulava per la repressione della rivolta, da lui considerata luterana. Lutero se ne era dovuto occupare già prima che la contingenza drammatica di questa sollevazione contadina lo spingesse a rivendicare il servizio divino dell'autorità politica. Lutero elaborò la teoria cosiddetta dei “due regni”, delle due distinte sfere d'autorità attraverso cui Dio governa l'umanità: spiritualmente per mezzo della “parola”, e secolarmente mediante “l'autorità politica”. Questa autorità politica (che non ha potere d'intervento in campo dottrinale) è prevista nell'ordine provvidenziale divino contro la disgregazione sociale che è la conseguenza secolare del peccato originale senza il quale non vi sarebbe stata necessità di autorità politica,e di cui teoricamente i «veri cristiani» potrebbero fare a meno. Dunque l'autorità politica, concretamente i re, i principi, ogni magistrato di qualsiasi ordine e grado, espletano una funzione divina. Tanto era espressamente previsto in S. Paolo (che era la base dottrinalmente portante della teologia di Lutero) nella Lettera ai Romani. Ma proprio questa base dottrinale paolina comportava l'attribuzione della funzione divina ad autorità politiche anche non cristiane! Ora non solo S. Paolo in quello stesso capitolo della Lettera ai Romani, ma anche il Vangelo di Matteo riportando espressamente le parole del Cristo, supportavano la posizione luterana nel negare al popolo cristiano il diritto di resistenza alle autorità politiche, allo Stato anche non cristiano o tirannico. Capitolo 5 - Diffusione e sviluppi della Riforma 1 L’area baltica e tedesca Il Luteranesimo, dopo essersi espanso a macchia d'olio in tutti territori centro-occidentali dell'Europa, arrivò a lambire anche l'area baltica e scandinava. Una prima spinta determinante verso nord-est si ebbe grazie all'opera di Alberto di Brandeburgo, gran maestro dell'Ordine teutonico, che venne conquistato dalla propaganda dottrinale dell'Osiander. Per sottrarsi dal vincolo feudale-religioso e dai contrasti che interessavano appunto l'ordine Teutonico e rispettivamente la Polonia (vedi cap1, par1) e la Chiesa Romana, il gran maestro decise di secolarizzare l'ordine e di farne un nuovo dominio, il Granducato di Brandeburgo (1525). Da lì si diffuse la nuova religione, arrivando a interessare l'intera Prussia, favorita dalla borghesia cittadina, ma osteggiata dalla aristocrazia e dalla monarchia polacca. Nell'area scandinava furono soprattutto motivi politico-nazionali a contribuire alla diffusione della nuova confessione: l'unione di Kalmar (che riuniva danesi, svedesi e norvegesi sotto un’unica corona, nata per formare un forte stato scandinavo) si era infatti disgregata nel 1523, in seguito alle lotte innescate dagli svedesi nel XV secolo per riottenere la sovranità del loro stato: il re danese Cristiano II (1512-23) cercò di riequilibrare la situazione a suo favore, ma dopo aver sconfitto il reggente svedese Sten il Giovane (il c.d. Massacro di Stoccolma del 1520), dovette assistere alla sollevazione della stessa e all'elezione al trono svedese di Gustavo I Vasa (1523-60), che poneva fine all'unione. In Danimarca venne eletto re di Danimarca e Norvegia Federico I (1523-33), che mise in fuga il perdente Cristiano II. Svezia: Il nuovo sovrano cercò di rafforzare l'assolutismo regio con alcune riforme, in grado di indebolire l'opposizione aristocratica e di mettere a tacere le rivolte dei ceti popolari sottoposti a un duro fiscalismo: 1. riforma dell'amministrazione; 2. introduzione del servizio militare obbligatorio; 3. impossibilità di riunione del parlamento svedese, il Riskdag; 4. trasformazione della monarchia da elettiva ad ereditaria (1540). Inoltre il bisogno di risollevare le finanze dello stato portò il sovrano ad aderire e a diffondere il Luteranesimo, in quanto si sarebbe potuto incamerare le proprietà ecclesiastiche. Danimarca: Non appena eletto, Federico I definì istituzionalmente la questione religiosa, appoggiando la fede luterana con la dieta di Odense del 1526, per cui i vescovi danesi sarebbe stati consacrati dall'arcivescovo di Lund, e non dal Papa (scelta che portò a delle dispute teologiche nella città di Copenaghen). Germania meridionale: La diffusione della nuova credenza in queste regioni comportò una sua rimodulazione e modifica che ne frastagliò il profilo teologico. Casi di diffusione emblematici in questi termini rappresentano le città tedesche di Norimberga, Augusta e Strasburgo, in cui l'emanazione del nuovo dogma avvenne contemporaneamente nei primi anni 20, ma se ne diversificarono gli esiti, in base ai preesistenti filoni politico- culturali che concernevano le 3 città. Norimberga: l'azione diffonditrice dell'Osiander venne facilitata dall'adesione al luteranesimo da parte dei componenti del consiglio cittadino e da un clima politico-culturale radicale, favorito dalla presenza di correnti mistico-settarie; e lo stesso Osiander iniziò a deviare dall'ortodossia luterana con la dottrina dell'inhabitatio Christi: nell'anima di ogni fedele vi era la presenza santificante di Cristo. Augusta: essa poteva essere considerata un crogiolo dottrinale: erano presenti la fede cattolica (la città era interna alla regione della cattolica Baviera dei duchi di Wittelsbach); l'ortodossia luterana propagandata da Urbano Reghio; la derivante dottrinale zwingliana e soprattutto anabattista (diramata dall'opera di Hans Deck ). Strasburgo: caso peculiare, in quanto il passaggio di consegne fra Cattolicesimo e Luteranesimo avvenne senza particolari tumulti o violenze, e questo grazie a vari fattori: 1. la presenza di una tolleranza religiosa di influenza erasmiana, 2. la presenza di tensioni mistiche collettive e di una forte religiosità popolare controllata da autorità laiche piuttosto che da autorità cattoliche. L'opera di indottrinamento luterano venne iniziata da un canonico, Zell, e intensificata da 2 teologi giunti in città nel 1523, Capitone e Bucero, il primo spiritualista e il secondo anabattista (non aderiva alla tesi eucaristica luterana della consustanzazione: nel sacramento eucaristico il pane e il vino al tempo stesso mantengono la loro natura fisica e divengono anche sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Differisce dalla transustanziazione poiché quest'ultima afferma invece la reale conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di guerra anti-turca, venivano ripristinate le decisioni della Dieta di Augusta, in attesa delle decisioni del prossimo concilio. Grazie a questa vittoria diplomatica, la Lega di Smalcalda poté incrementare le adesioni alle proprie file, rintuzzate dalle fughe di zwingliani dalla Svizzera ormai cattolica. 4 Sette radicali e istituzionalizzazione calvinista La rottura dogmatica venutasi a creare tra Riforma tedesca e svizzera rischiava di mettere intimamente in discussione l'infiltrazione della Riforma stessa nell'Europa sconvolta dallo scontro fra l'Impero di Carlo V e la Francia di Francesco I. Era quindi necessario ricomporre la frattura religiosa, e tra le prime idee propugnate (da Carlo V) per raggiungere l'obiettivo vi era la proclamazione di un concilio universale religioso (a Trento, città imperiale). All'interno dell'Impero, si erano formati i primi agglomerati politici-religiosi interstatali: 4. cattolico, con la lega di Dessau (con i principi di Magonza, di Brandeburgo ecc.); 5. luterano, con la la Gotha-Thargau (con i principi d'Assia, di Sassonia, di Anhalt ecc.); 6. neutrali rimanevano i principi del Palatinato, di Baviera e di Treviri. Nella Dieta di Spira (1526) convocata e presieduta dal fratello di Carlo V, Ferdinando d'Asburgo, le leghe religiose e i principi tedeschi ampliarono il loro potere nei confronti del Papato e dell'Impero stesso: grazie infatti alla deliberazione del recesso, i principi tedeschi, all'interno del proprio stato e in attesa della convocazione del concilio universale, avrebbero avuto libertà formale d'azione religiosa (anticipazione del principio cuius regio, eius religio affermata ad Augusta nel 1555). Tuttavia una seconda Dieta di Spira (1529) convocata stavolta da Carlo V, ribaltò le decisioni precedenti: si condannò la deliberazione del recesso e il ripristino dell'autorità religiosa; nell'aprile del 1529 i rappresentanti degli stati tedeschi e di molte contee e città libere protestarono per la decisione e da allora in poi gli aderenti al luteranesimo iniziarono a essere chiamati “Protestanti”. Essi si unirono in nucleo di opposizione militare protestante comandato dai principi della Sassonia elettorale e dell'Assia; a sua volta, Ferdinando d'Asburgo e i cantoni svizzeri cattolici confluirono nella Unione Cristiana, la quale destò i timori di Zwingli di una repressione della sua corrente: cercò quindi una precaria ricomposizione religiosa fra le 2 confessioni, luterana e zwingliana. Questa ricomposizione venne principalmente caldeggiata dal principe protestante Filippo d'Assia, che voleva costituire un vero e proprio blocco politico-militare che si sarebbe esteso dai paesi scandinavi alla Francia, contrapposti all'impero di Carlo V. L'incontro fra le 2 correnti venne organizzato a Marburgo nell'ottobre 1529, ma nonostante la mediazione di Lutero e Zwingli, la volontà di ricompattazione non prevalse, in quanto motivo di contrasto profondo rimaneva la questione della presenza o meno di Cristo nelle specie eucaristiche. Tornato in Germania dopo 9 anni, Carlo V convocò una Dieta ad Augusta nell'aprile del 1530, sperando di poter porre fine ai contrasti politici-religiosi che ormai dilaniavano il suo impero: 3. per parte cattolica era presente il cardinal-legato Lorenzo Campeggio, insieme al nunzio pontificio della corte imperiale, Vincenzo Pimpinella; poiché il motivo più caro ai pontefici era continuare la guerra contro i Turchi infedeli, l'unita religiosa dell'Impero costituiva la base politica necessaria alla guerra anti-Islam; 4. per parte luterana, erano presenti il principe tedesco Giovanni di Sassonia e il braccio destro di Lutero (il quale, dopo l'editto di Worms del 1521, era stato bandito dai territori tedeschi e non poté partecipare), ossia Filippo Melantone, la cui posizione irenica (erasmiana) sembrò lasciare spazio alla prospettiva d'una possibile ricomposizione dello strappo dottrinale con la Chiesa Romana piuttosto che con gli Zwingliani (-Sacramentari). Melantone redasse il testo protestante ufficiale: la Confessio Augustana, con cui si cercò di essere il più possibile conforme ai dettami generali del Cattolicesimo: sui punti essenziali dello scontro con la Chiesa Romana, predestinazione e giustificazione ex sola fide , erano stati utilizzati termini più moderati e blandi; venivano condannati gli anabattisti e si insisteva sulla comunione sub utraque specie e sulla separazione della vita civile da quelle religiosa. Tanto moderatismo risultò inviso a Lutero, che condannò ogni ipotesi di compromesso con i papisti, i quali risposero con la loro Confessio Catholica, riaccendendo la polemica. Da Roma intanto, il Papa Clemente VII accettava di convocare un Concilio Universale romano, ma fino ad allora, imponeva ai protestanti di attenersi agli usi e alle dottrine della religione cattolica; grandi furono le polemiche sollevate ad Augusta. Così mentre i 2 maggiori esponenti del protestantesimo politico religioso, Giovanni di Sassonia e Filippo d'Assia, lasciavano Augusta in segno di protesta, Carlo V pose fine alla Dieta imponendo l'obbligo ai protestanti di convertirsi al cattolicesimo, l'obbligo di osservanza e di culto dello stesso e l'obbligo di restituzione dei beni ecclesiastici espropriati. La decisione scatenò le reazioni dei protestanti tedeschi, che si riunirono, appianando e lasciando da parte ogni contrasto confessionale, nella lega anti-imperiale di Smalcalda, nel febbraio del 1531, comandata da Giovanni di Sassonia e Filippo d'Assia. A questo appello all'unione contro la potenza imperiale e cattolica non rispose Zwingli, per il quale permaneva ancora un pregiudizio dogmatico che minava l'adesione alla lega; egli inoltre si stava concentrando sulla liquidazione dei cantoni cattolici alleatesi nell'Unione Cristiana con Ferdinando d'Asburgo. La politica bellicosa del riformista svizzero venne però meno con la sua morte, sopravvenuta a Kappel nell'ottobre 1531 proprio in un scontro militare tra zwingliani e cattolici, che vedeva la vittoria di quest'ultimi e l'imposizione della pace cattolica nella Confederazione elvetica. Nel luglio 1532 intanto, stretto tra 2 fuochi (a est nella guerra contro i Turchi e a in Germania con i protestanti tedeschi), Carlo V patteggiò una tregua a Norimberga (1532) per cui, in cambio di finanziamenti e aiuti nella guerra anti-turca, venivano ripristinate le decisioni della Dieta di Augusta, in attesa delle decisioni del prossimo concilio. Grazie a questa vittoria diplomatica, la Lega di Smalcalda poté incrementare le adesioni alle proprie file, rintuzzate dalle fughe di zwingliani dalla Svizzera ormai cattolica. 5 Lo scisma anglicano Si parla di Scisma Anglicano e non di riforma in quanto alla base del contrasto fra Chiesa Inglese e Chiesa Romana non vi era un fondamento dottrinale e/o teologico, bensì soltanto un rifiuto di riconoscere come legittima l'autorità giuridica, politica e disciplinare della Chiesa Romana. Contingenze private quali la questione del divorzio del re d'Inghilterra Enrico VIII con Caterina d'Aragona e religiose come la propagazione della riforma protestante in tutta Europa hanno certamente influito ad influenzare il rapporto tra le 2 Chiese, contrasto che però si protraeva già dal Medioevo (1164, costituzioni di Clarendon contro i privilegi del clero inglese; statuti di Provvisores (1351) e di Praemunir (1353) contro il potere del clero inglese). Tuttavia, paradossalmente il re era stato insignito del titolo di Defensor fidei da parte di Leone X (1521) in quanto era intervenuto (con l'Assertio septem Sacramentorum) sulla diatriba sacramentaria innescata da Lutero con la riduzione dei sacramenti da 7 a 2. Fra i ceti sociali favorevoli alla diffusione luterana vi era la borghesia cittadina, che era sommamente interessata all'acquisizione dei beni e delle proprietà ecclesiastica: simbolo di essa e del clero inglese era l'arcivescovo di York, cardinal-legato pontificio e cancelliere del re Thomas Wolsey (1473-1530). I primi scontri sopravvennero, come dicevamo, per la questione del divorzio fra Enrico VIII e sua cognata Caterina d'Aragona, che era rimasta vedova del fratello del re, Arturo. Enrico si innamorò di Anna Bolena e, preoccupato di non avere avuto un erede maschio da Caterina, iniziò a pensare a possibilità legali di far dichiarare nullo il matrimonio dalla Chiesa Cattolica; si cercò di interpretare a suo favore un passo del Levitico, nell’Antico Testamento (XX, 21: Chi prende la moglie di suo fratello fa cosa illecita, disonorando il proprio fratello; saranno senza figlioli). La Chiesa di Roma si mosse con cautela per risolvere la questione, cercando di trovare delle misure moderate in grado di non spazientire il re che sarebbe potuto giungere a drastiche rotture con la Chiesa (già lacerata dal Sacco di Roma e dalle lotte confessionali); così fu inviato il cardinal-legato Lorenzo Campeggio (già presente alla dieta di Augusta del 1530; par.3) per costituire il tribunale apposito a prendere la decisione sulla nullità del matrimonio. Tale tribunale fu convocato per il maggio 1529. Intanto era stato convocato il parlamento (che si sarebbe riunito fino al 1536), composto per la grande maggior parte (per quanto riguarda la Camera dei Comuni) da quella Borghesia cittadina che aspirava ad acquisire le proprietà ecclesiastiche; vittima principale di questa volontà fu, ovviamente, il cancelliere Wolsey che venne accusato di tradimento, spogliato di tutti i suoi beni, e condannato a morte. Al suo posto, Enrico nominò erasmiano Thomas More, il quale non si era mai dichiarato favorevole ad annullare il suo matrimonio. Continuava così l'opera di smantellamento delle proprietà e dei privilegi fiscali della Chiesa Cattolica: Thomas Cranmer, filo-luterano e filomonarchico, venne nominato arcivescovo di Canterbury. Nel 1532 Enrico VIII emanò l’Atto di sottomissione con cui la Chiesa Inglese fu privata della potestà legislativa in campo religioso spirituale; fu ridotto il pagamento delle esazioni fiscali di annate a favore di Roma; e nel gennaio 1533 Enrico VIII sposava segretamente Anna Bolena, mentre un accomodante tribunale ecclesiastico presieduto dal Cranmer dichiarava nullo il matrimonio. Il Papa rispose disconoscendo e annullando il matrimonio con la Bolena e scomunicando il Re. Ciò impresse una svolta drastica ai rapporti fra Re e Papato: Enrico vietò il pagamento dell'Obolo di San Pietro, regolò la successione dinastica con l'Atto di successione (rendeva illegittima la figlia avuta da Caterina, Maria, e rendeva legittima la figlia di Anna Bolena, Elisabetta, futura regina) e infine, il 3 novembre 1534 promulgò l'Atto di Supremazia, con cui Enrico VIII diventava il capo supremo della Chiesa d'Inghilterra nasceva così la Chiesa Anglicana. Per poter organizzare e incamerare correttamente tutti i beni ecclesiastici sequestrati alla Chiesa Romana (azione legittimata dall'emanazione dell'Atto di dissoluzione) si venne a costituire un apposito tribunale. Questa decisione non fu priva di conseguenze: scoppiarono rivolte (1536) tra i ceti locali per la chiusura dei luoghi di culto cattolici, ma essere vennero domate all'inizio del 1537. Intanto Anna Bolena veniva fatta giustiziare dal re, accusata di non aver dato il tanto agognato erede maschio ad Enrico. Alla fine del 1538 inoltre, con l'emanazione di un 2° Atto di dissoluzione si poneva fine alla millenaria presenza del monachesimo cattolico e alla vita degli ordini religiosi in Inghilterra. Capitolo 6 - L’Europa dei conflitti 1 L’Impero ottomano e gli Asburgo L’Impero Ottomano, alla pari dell’Impero di Carlo V, era portatore di una pretesa universalistica sulla religione islamica: quest’ultima costituiva un forte fattore di coesione sociale giacché permeava ogni ambito della società turca, ponendosi non solo come un sistema di culto, ma anche come un complesso di norme che investivano tanto l’esistenza spirituale quanto quella civile, giuridica e politica. Una caratteristica in particolare differenziava l’Islam dal cristianesimo, e cioè il concetto di gihàd (“sforzo”). Con esso si faceva riferimento al precetto della guerra santa prescritto da Maometto, consistente nel dovere di diffondere con l’uso delle armi il credo musulmano, per il quale chi combatteva in nome di Allah era un martire destinato al paradiso. Tuttavia, sebbene un precetto simile possa far pensare ad un atteggiamento poco tollerante nei confronti di altri credo religiosi, al contrario della maggior parte dei cristiani, i musulmani rispettavano le confessioni cristiane ed ebree, in quanto considerate religioni portatrici di una verità autentica, ormai, però, superate dalla verità avvalorata dall'Islam. È chiaro alla luce del precetto della guerra santa come il perseguimento di questo obiettivo accentuasse l'impegno militare, favorisse il grande espansionismo militare musulmano e influenzasse l’intera struttura economico-sociale e politica musulmana. La struttura economica-sociale era incentrata sulla potenza militare, pertanto sull’esercito e sulla marina. Vigeva un duplice sistema di reclutamento: 1. con il primo si reclutavano corpi di cavalleria (sipahi): in base alle loro prestazioni militari, a ciascun cavaliere veniva assegnato un feudo vitalizio (Timar), e l'assegnazione dello stesso rappresentava un incentivo a guerreggiare e ad espandere il territorio; 2. con il 2° metodo di reclutamento (devshirme) si diede vita al formidabile corpo dei giannizzeri: essi erano schiavi e/o prigionieri di guerra provenienti da famiglie non turche (solitamente cristiane) che venivano acquistati e indottrinati all'islamismo. Questa solida struttura sociale-militare consentì la progressiva espansione militare ottomana fra tardo Medioevo e l'inizio dell'era moderna. Un’espansione che si compì lungo tre direttrici principali: penisola balcanica, Mar Nero e Mar Mediterraneo, e confini orientali dell'Impero: · Balcani: tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo gli ottomani sottomisero progressivamente i territori della Bulgaria (1393), della Serbia (1459), della Bosnia (1463) e dell 'Albania (1468), venendo così a contatto con gli avamposti orientali di Venezia e dell'Impero Asburgico; In un contesto in così rapida evoluzione, i successi asburgici contro i turchi a Tunisi e nei Balcani e i progressi della corona nei domini imperiali altro non potevano apparire che provvisori. In Spagna il potere monarchico si era definitivamente consolidato, tuttavia, a seguito della morte di Gattinara (1530), le divergenze politiche tra i membri della cancelleria imperiale si accentuarono e si delinearono i primi segni di quella che era una scarsa vitalità economica. Carlo V, privo del suo consigliere Gattinara, poté però conseguire importanti annessioni territoriali nell'area dei Paesi Bassi e del Mar Baltico: annessione di Tournai (1521); conquista della Frisia (1524) e di Utrecht (1527) e la definitiva conferma delle Fiandre e dell'Artois (con il Trattato di Madrid del 1526; vedi Cap3, par.6). Questa politica di consolidamento delle frontiere settentrionali si tradusse in maggiori problemi di gestione per Carlo V in quanto si inscenarono una serie di travagliate questioni nei paesi dell’Europa mari ttima del nord. Uno stato di incertezza si perpetuò in particolar modo in Danimarca, dove il re Federico I dovette difendersi dai tentativi di rientro in patria del decaduto re Cristiano II. Sebbene Carlo V avesse a cuore la difesa dei diritti dinastici familiari, gli interessi economici nei Paesi Bassi nel Baltico impedirono consistenti aiuti a Cristiano II che, pur di riconquistare il proprio trono, rinunciò alle sue iniziali simpatie per il luteranesimo, ritornando nel 1530 alla religione cattolica e che con il Trattato di Lierre, promise in caso di riconquista del suo regno incondizionata fedeltà agli Asburgo e assoluta libertà di traffici ai sudditi dell’Impero nei mari del Nord. Una volta ottenuti i tanto agognati aiuti da Carlo V, tuttavia, Cristiano II fallì miseramente nella sua impresa, aprendo delle trattative con Federico I, il quale, raggirandolo e attirandolo in Danimarca, lo imprigionò per 27 lunghi anni. Alla morte di Federico I (1533) e alla conseguente vacanza del trono, rifiorirono gli antagonismi fra danesi e città anseatiche, in particolare Lubecca. Le guerre dinastiche ripresero: da un lato, Lubecca, la quale cercò di legarsi nel 1534 alla ribellione sociale e religiosa che infiammava la Danimarca dopo la morte di Federico I; dall’altro una lega, nata a seguito di tale azione della città anseatica, tra il governo danese, la Svezia e la Norvegia. Con il fine di contrastare la concorrenza anseatica, i Paesi Bassi favorirono contro Lubecca la successione al trono del figlio di Federico I, Cristiano III, nonostante le sue simpatie luterane. Alla fine, la fiammata di scontri e guerre civili si concluse con la successione al trono proprio di Cristiano III in Danimarca, nel 1536. Quest’ultimo si rese da allora protagonista di una continua lotta contro Carlo V, dell’imposizione del luteranesimo e di una nuova guerra con l’Hansa, che si concluse nel 1544 con la Pace di Spira, la quale riconobbe definitivamente ai danesi il diritto di esigere il pedaggio alle navi che attraversavano il Sund. Problemi più urgenti erano quelli da risolvere in Germania, dove la disputa religiosa interferiva sia sulla questione della riforma costituzionale tedesca, sia sulle scelte politiche internazionali: in seguito alla repressione della rivolta dei cavalieri e dei contadini e alla loro adesione al luteranesimo, i prìncipi tedeschi acquisirono un maggior potere interno, conseguentemente all'incameramento dei beni e delle proprietà della Chiesa Cattolica, mentre il consiglio di Reggenza previsto a Worms nel 1521 per la cooperazione fra i ceti venne abbandonato alla fine degli anni 20, a dimostrazione dell’impraticabilità di una rivitalizzazione per via costituzionale dell’autorità imperiale . A tutto ciò si aggiungevano le difficoltà strumentalmente frapposte dai prìncipi alle continue richieste di finanziamento necessarie agli Asburgo per finanziare la guerra antiturca e anti-Smalcalda: per ottenere il denaro, Carlo V e Ferdinando dovettero convenire a delle concessioni ai principi luterani, come fatto con la tregua di Norimberga del 1532 (vedi cap5, par3). Questa tregua era apparsa come il frutto di un compromesso artificioso, religiosamente insoddisfacente e tale da risvegliare le parti in lotta molto presto. Non fece altro che rafforzare la stessa Lega di Smalcalda, alleata oltre che con la Francia, anche con la Danimarca e con l'Inghilterra anglicana di Enrico VIII (1535). Per fronteggiare al meglio la situazione tedesca, Carlo V, sin dal 1522 e poi formalmente dal 1531, aveva ottenuto l'elezione di suo fratello Ferdinando a re dei romani, dividendo di fatto i domini imperiali asburgici in 2 aree, quella spagnola e quella tedesca. Un’ulteriore variabile intervenne nel 1534 a modificare il composito scenario politico europeo: venne eletto al soglio pontificio Alessandro Farnese col nome di Paolo III (1534-1549), il quale si adoperò sin da subito a cercare una pace tra la Francia e l'Impero. Le ragioni di tale indirizzo politico sono le seguenti: 1. frenare il pericoloso espansionismo turco nei Balcani, unendo le forze cattoliche francesi e imperiali; 2. dirimere le controversie religiose esplose nel nucleo dell'Impero Asburgico, la Germania; 3. far sì che l'Italia non venisse egemonizzata da nessuna delle 2 potenze continentali. L'idea di convocare un concilio universale non era caldamente sostenuta dal nuovo Pontefice, in quanto aveva il timore che la partecipazione dei protestanti allo stesso avrebbe fatto emergere la contestazione all'autorità del Papato messa in discussione da Lutero. L'obiettivo di sconfiggere i musulmani venne ridimensionato dalle scelte di politica estera effettuate da Venezia e dalla Francia: la prima non voleva perdere le fruttuose relazioni commerciali con l'Islam che l'arricchivano attraverso gli scambi via mare, la seconda cercò volutamente un’alleanza col nemico islamico (raggiunta nel 1536) per accerchiare l'Impero Asburgico e poterlo attaccare da 2 fronti. Per quanto riguarda il 2° obiettivo della politica pontificia, Paolo III cercò di riaprire il dialogo con le forze protestanti, dapprima in terra inglese (ma la tanto attesa nascita dell'erede maschio del re Enrico VIII, il futuro Edoardo VI, grazie alla relazione con Jane Seymour, stroncarono le possibilità di un nascituro accordo con Roma) e poi appoggiando il progetto di Francesco I di costruire un'alleanza con le forze luterane tedesche, in funzione anti-imperiale (scelta però criticata dalle stesso Papa). Si rivelarono fondati quindi i sospetti di Carlo V riguardo una malcelata volontà pontificia che, dietro la maschera di un'intrapresa neutralità, voleva in realtà perseguire una politica religiosa svincolata o addirittura ostile all'Impero. 3 Il nuovo conflitto franco-asburgico La morte del Duca di Milano (1° novembre 1535), Francesco II Sforza, privo di erede, riaccese la miccia del precario quadro politico europeo, destabilizzando una situazione di apparente tregua fra il Regno francese e l’Impero asburgico: in ballo nuovamente la questione della successione dinastica nel ducato milanese, da sempre rivendicata dalla Francia di Francesco I. Tentativi di trattativa per porre a capo del ducato Carlo d’Orléans risultarono vani e fallimentari. Anzi, la crisi degenerò non appena Carlo V decise di assumere il controllo militare della Lombardia, provocando l'intervento francese nel febbraio 1536, con l'invasione della Savoia e del Piemonte. Quest'offensiva - sebbene Francesco I godesse dell’appoggio dell’Inghilterra, oltre che dei turchi - non sortì gli effetti sperati, traducendosi in una disfatta per Francesco I, il quale dovette subire l'invasione della Provenza. La Santa Sede – per la quale la ripresa delle ostilità rappresentò un grave colpo - si affrettò a convocare il Concilio universale a Mantova per l'anno seguente (1537), in modo da esaudire il desiderio iniziale di Carlo V. Quest’ultimo, però, era ormai poco convinto di tale iniziativa pontificia, tant’è che decise di indire un concilio alternativo in Germania senza la partecipazione dei Francesi e dei funzionari pontifici. La decisione dell’imperatore non si avverò concretamente, incontrando le resistenze degli Stati protestanti, alle quali, Carlo V rispose istituendo una Lega Cattolica (1538), includente ora anche la Baviera, da contrapporre alla Lega smalcaldica. Come ipotizzato da Carlo V, la decisione pontificia di indire il Concilio fu un insuccesso, diretto a rilanciare gli sforzi diplomatici per la pace: nel 1537 la Lega di Smalcalda di fatto rigettò la proposta pontificia. Un analogo rifiuto venne anche da Francesco I, e frattempo, si ebbe un ulteriore fallimento – altrettanto prevedibile – della convocazione conciliare a Vicenza (1538). A favorire la politica pontificia di pacificazione franco-asburgica l'armistizio di Bomy, che pose fine agli inutili scontri militari nei Paesi Bassi (giugno 1537), e il crescente consenso europeo alla formazione di una lega antimusulmana - consenso scaturito dal timore del sopraggiungere della flotta turca in aiuto ai francesi nel conflitto con l'Impero. All'inizio, tuttavia, la formazione della lega fu minata da alcuni ostacoli. Primo fra tutti il diniego della Repubblica Veneta a farne parte, in quanto fermamente intenzionata a salvaguardare gli interessi commerciali dell'oligarchia cittadina e a preservare la neutralità nei confronti dell'entroterra italiano. Paradossalmente, tale atteggiamento neutrale portò la Repubblica veneta alla guerra: il mancato intervento a sostegno dei francesi nella guerra per il ducato di Milano provocò attacchi navali anti-veneziani della flotta turca. Non a caso, viste le circostanze critiche, la potenza marinara veneta fu inevitabilmente costretta ad abbandonare la linea di prudente amicizia con il sultanato e si decise ad accettare la lega anti-ottomana (e quindi antifrancese) nel settembre 1537. La politica di alleanza con gli Ottomani costò pertanto alla Francia l'isolamento diplomatico in Europa – tale indirizzo politico produsse infatti il riavvicinamento dei veneziani e dello stesso Paolo III a Carlo V. Dunque, fu inevitabile per Francesco I intavolare una serie di trattative di pace: dall'armistizio franco-asburgico di Monçon (novembre 1537) alla Tregua di Nizza (aprile 1538), sponsorizzata da Paolo III (emarginato a Monçon). La tregua congelava la situazione attuale (con la Savoia alla Francia e Milano alla Spagna), stabilendo un armistizio di 10 anni e non la pace generale, tanto auspicata dal Papa ma ben lungi dal concretizzarsi. Infatti, di lì a poco, l'imperatore decise unilateralmente di assegnare al figlio Filippo il dominio sul ducato di Milano (1540), distruggendo la speranza francese di guadagnare il milanese mediante accordi dinastici. Si era intanto concretizzata la sottoscrizione della coalizione antimusulmana (Lega santa), costituitasi nel febbraio 1538 tra Venezia, Santa Sede, la Persia e l'Impero di Carlo V e Ferdinando d'Asburgo. Sebbene Carlo V volesse rinviare di un anno la spedizione antiturca, Venezia intraprese fin da subito iniziative militari nel Mar Egeo – in quanto intimorita dalla pressione ottomana in quella zona. Iniziative che però si rivelarono fallimentari: già nel 1540 i veneti firmarono una pace separata con il Sultano Solimano il Magnifico perdendo alcuni possedimenti nell'Egeo. Questo insieme di ragioni politico-religiose spinse definitivamente Carlo V a muovere guerra alla Lega di Smalcalda. L’operazione, inizialmente, fu favorita dalla capacità dell’imperatore di acuire le divisioni interne al fronte smalcaldico: fu semplice così ottenere la promessa di neutralità di Federico il Saggio e del duca protestante Maurizio di Sassonia. Successivamente Carlo V si preoccupò di organizzare un esercito: dapprima provvisto di contingenti pontifici, comandati da Alessandro Farnese e poi ritirati poiché Paolo III temeva che una vittoria troppo netta degli imperiali avrebbe compromesso lo stesso potere temporale della Santa sede. Malgrado il ritiro delle truppe pontificie, l'Imperatore inflisse una memorabile sconfitta agli smalcaldici a Mulhberg, nell'aprile del 1547, disperdendo il fronte antiasburgico. La vittoria imperiale, tuttavia, si rivelò soltanto una battuta di arresto per il fronte protestante tedesco, in quanto essa era maturata dal “tradimento” e dalla defezione di alcuni prìncipi protestanti, e non si rivelò così utile ad un concreto rafforzamento del potere imperiale. Carlo V indisse quindi una Dieta ad Augusta (1547-48) con la quale cercò di raggiungere un compromesso religioso quantomeno solido, riuscendovi parzialmente, ma lontano dal risolvere definitivamente le ferite sociali e spirituali aperte dalla Riforma: si giunse all’elaborazione del c.d. Interim di Augusta (1548), il quale elargì concessioni sia ai cattolici – rispetto dei sacramenti, restaurazione dell’autorità vescovile e rispetto della dottrina cattolica della giustificazione – sia ai protestanti – approvazione del matrimonio dei sacerdoti e della comunione sub utraque specie – . 5 Carlo V e l’Italia: un’egemonia difficile Mentre otteneva i suoi più importanti successi in Germania, Carlo V dovette subire l’iniziativa francese in Italia, la quale metteva nuovamente in discussione l’egemonia spagnola sancita dalle paci del biennio 1529-1530 – Pace delle due dame; Pace di Bologna (vedere cap. 3 par.6) – ed era favorita dalla conflittualità che divideva e attraversava dall’interno gli Stati italiani. Oltre che dalla scena politica internazionale, il predominio asburgico venne messo a repentaglio anche dal contemporaneo mutamento in corso nella stessa società italiana, attraversata da profonde trasformazioni sociali e politiche. Nella penisola italiana si assisteva ad un consolidamento dei processi di oligarchizzazione già avviati nel XV secolo. Si costituirono dei primitivi apparati governativi centrali, composti dagli appena consolidati patriziati cittadini, ceti non necessariamente omogenei per provenienza sociale, ma unificati dalla detenzione di un potere politico che, seppur delimitato, rappresentò un termine di confronto ineluttabile per gli apparati governativi centrali della Spagna e degli Stati della penisola stessa. Questi ultimi si dedicarono al consolidamento dell'amministrazione e del dominio nelle campagne e sulle città minori. Un quadro simile difficilmente poté andare esente da profondi contrasti e crisi politiche che, nel nuovo contesto dell’egemonia spagnola, segmentarono internamente le classi dirigenti italiane fra filoimperiali e francofili, facendo di Carlo V l’arbitro della situazione italiana e riconsegnando inattese possibilità di azione politica alla Francia. Serenissima Repubblica di Venezia La repubblica veneta aveva da tempo stabilizzato il potere del patriziato e salvaguardato la propria indipendenza, al costo di una forzata neutralità e alla rinuncia ad ogni ambizione espansionistica in terraferma. Uscita sostanzialmente ridimensionata dalle paci del 1529-30, la repubblica era attraversata dal desiderio di pacificazione statale e di rinnovamento culturale ben rappresentati dalle volontà espresse del nuovo doge veneziano, Andrea Gritti (1523-1538), sotto il cui governo si distinse l'opera dell'umanista Pietro Bembo, che redasse una storia della Repubblica. Ducato di Milano La realtà milanese, dove l’avvento spagnolo e la pace che seguì produssero una graduale ripresa economica, inizialmente rallentata dal fiscalismo della corona ma pienamente avvertita dalla metà del secolo. La Spagna, nel quadro delle funzione di baluardo strategico antifrancese affidata alla Lombardia, dovette affrontare problemi di riordinamento legislativo - nel 1541 venne emanata la prima e organica raccolta di leggi e decreti, le Novae Constitutiones - e di riassetto politico-istituzionale al fine di legare a sé i patriziati cittadini, in particolare quello del capoluogo: da un lato, venne garantito un margine di autonomia all'oligarchia cittadina, mantenendo in vita un Senato composto per 2/3 da patrizi milanesi, e dotato di ampie competenze giudiziarie, amministrative e legislative; dall'altro, al fine di controbilanciare suddetta autonomia, si assistette ad un rafforzamento dei poteri del governatore spagnolo, al vertice dell'apparato militare e amministrativo del ducato. Ducato di Savoia Sebbene sembrò inizialmente trarre qualche beneficio dall’egemonia imperiale in quanto dalla pace di Cambrai (1529) guadagnò la contea di Asti, il Ducato di Savoia di Carlo III – passato dalla subordinazione alla Francia alla neutralità – perse i possedimenti in Svizzera e, soprattutto, non ottenne il desiderato Monferrato, il quale, invece, finì nelle mani del duca di Mantova, Federico Gonzaga, su ordine di Carlo V – dettato dalla volontà di avere un fedele alleato verso quel Piemonte che, per di più, a seguito sia della Tregua di Nizza (1538) che della pace di Crepy (1544) pagava la propria neutralità con l’occupazione francese e la perdita dell’indipendenza per vent’anni -. Nella prima metà del Cinquecento quello monferrino fu l’unico ampliamento territoriale per i Gonzaga, impegnati prevalentemente a consolidare il loro assolutismo e ad integrare nella corte la nobiltà mantovana. Una situazione analoga a quella di Ferrara, ove però furono le difficoltà finanziarie e le lotte della feudalità reggiana e modenese, divisa tra filopontifici e filoferraresi, a spingere Alfonso I d’Este a disimpegnarsi dalla politica estera cercando di mantenere una sorta di neutralità tra Asburgo e Valois. Repubblica di Genova L’ammiraglio Andrea Doria impresse alla politica della Repubblica genovese, fin dal suo avvento – avvenuto nel 1528 -, una improvvisa svolta filoasburgica, consona alla vocazione finanziaria e mercantile della città, il cui porto intratteneva circa l'80% dei suoi scambi con la Spagna, la quale mantenne strettamente l'alleanza con la Repubblica, in quanto consentiva alla sua flotta di operare in tutta tranquillità nel Mediterraneo occidentale e in quanto il controllo su Genova era ritenuto indispensabile per la difesa del Tirreno. In politica interna, la svolta filoasburgica produsse una forzata riappacificazione della classe dominante genovese, da tempo lacerata dai dissidi e contrasti fra le antiche famiglie dei “nobili” e le famiglie, di più recente ricchezza commerciale, dei c.d. “mercanti e artefici”, sui quali si sovrapponevano le lotte fra i francofili e i filospagnoli. La volontà di superamento di queste divisioni fu rappresentata dall’istituzione dei cosiddetti “Alberghi” – quartieri di residenza da cui si estraevano i candidati alle magistrature cittadine – un sistema che diede alla Repubblica una sostanziale stabilità. Repubblica di Siena Se nella Repubblica di Lucca l’intervento di Carlo V in qualità di arbitro ordinatore fu determinante nella risoluzione dei contrasti sociali e nel superamento dei momenti più acuti di crisi, ma diede comunque luogo ad esiti drammatici, nella Repubblica di Siena portò ad esiti ancor più drammatici. Qui, dopo aver riordinato la politica cittadina, scossa dagli scontri fra le fazioni filofrancesi e filoasburgiche, Carlo V ottenne il controllo del territorio nel 1530: Raffaele Petrucci morto nel 1522, fu succeduto dal diciassettenne Fabio Petrucci, portando la Repubblica di Siena nell’orbita medicea e dell’alleanza con la Francia, voluta da Clemente VII alla vigilia della Lega di Cognac. L’opposizione interna filoimperiale ed antimedicea cacciò Fabio nel 1524 riaprendo uno scenario critico, che nel 1525 condusse Siena a schierarsi con la Spagna e ad esiliare i seguaci della Francia. Gli esuli senesi cercarono di accattivarsi le simpatie asburgiche e consentirono proprio così a Carlo V di imporre un presidio militare e una riforma dell’ordinamento cittadino, nella speranza di pacificare le fazioni e di insediare al governo il duca d’Amalfi, che però lasciò la città preda delle sue stesse lotte interne e delle mire espansionistiche della Firenze medicea e dello Stato pontificio. La repubblica fu poi oggetto dal 1537 di un duraturo contrasto tra Cosimo I de' Medici, impegnato a proseguire la tradizionale politica fiorentina di assoggettamento della Toscana, e Paolo III, intenzionato ad annetterlo ai possedimenti dei Farnese nel Lazio e in Abruzzo, costituendo così uno stato antimediceo ed autonomo rispetto a Carlo V e al suo Impero. L'Imperatore cercò di raggiungere un compromesso tra la famiglia de' Medici (filoasburgica) e gli esuli repubblicani (fedeli invece al regno di Francia) per evitare pericolosi ritorni transalpini . Ma quando questo tentativo naufragò, Carlo V, allora, decise di perpetuare il governo mediceo: ne nacque una reazione antiasburgica concentrata nel fallimentare tentativo di colpo di stato militare di Filippo Strozzi nell'agosto 1537 (a capo degli esuli fiorentini repubblicani e di esponenti pontifici). Soffocato il colpo di mano, come precedentemente pattuito, Carlo concesse a Cosimo I il titolo ducale di Firenze, ottenendo in cambio la cessione delle piazzeforti di Livorno e Pisa indispensabili alla Spagna per il controllo del Mediterraneo (il c.d. Stato dei Presidi). Stato della Chiesa Indebolito dagli alterni contrasti con la Spagna e l'Impero, lo Stato pontificio non riusciva a completare il processo di riordinamento politico e amministrativo iniziato all'inizio del XVI secolo. Una iniziale sconfitta politica dovette subirla per la questione dei domini ferraresi, andati in mano agli Este (con Ercole II) per ordine dell'Imperatore. Successivamente Paolo III dovette far fronte allo scoppio di una ribellione a Perugia – causata dalla crescente pressione fiscale incombente e dovuta agli impegni internazionali del papato – riuscendo successivamente a reprimerla. A ciò si aggiunse l’inizio del conflitto, poi vinto dal pontefice, con una delle famiglie baronali romane più importanti, i Colonna – la cosiddetta “guerra del sale”, così chiamata poiché correlata all’aumento della tassa Il tanto ambito sogno universalistico di dominio europeo di Carlo V si sgretolò dinanzi all'evidenza della sconfitta tra il 1551 e il 1555: non a caso, la pace di Augusta del settembre 1555 assunse il carattere di pacificazione generale, sia dal punto politico che religioso, fra cattolici e luterani - dall'accordo venivano esclusi lo Zwinglianesimo, il Calvinismo e l'Anabattismo -. Venne sancito il principio del cuius regio, eius religio, per il quale ai singoli stati e alle città libere dell'Impero fu consentita la scelta fra una delle due confessioni, imponendole ai sudditi mentre i dissidenti avrebbero potuto emigrare (beneficium emigrandi). Inoltre, venne anche stabilito il principio del riservato ecclesiastico (reservatum ecclesiasticum), che poneva termine alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici, cioè il passaggio di proprietà dei benefici e dei terreni ecclesiastici al patrimonio personale del vescovo o abate che passava al luteranesimo. Con il reservatum ecclesiasticum chi deteneva un beneficio ecclesiastico vi doveva rinunciare se passato dalla fede cattolica a quella protestante dopo il 1552. Con la pace di Augusta a tramontare non fu solo il sogno di un’unica monarchia universale, ma anche l’ideale luterano di una Riforma universale che coinvolgesse tutta la Chiesa, in quanto si affermò invece il principio della divisione e del particolarismo tipico dell’età moderna. Il riconoscimento del particolarismo si realizzò nel quadro di una più moderna concezione della funzione del Sacro Romano Impero, il quale abbandonò definitivamente gli schemi universalistici medievali: la pace Augustana diede ai prìncipi larga autonomia politica, riconoscendoli come autentici rappresentanti della sovranità statale, e conferì un assetto federale all'Impero, in quanto esso continuò ad esistere come unitaria realtà sovrastatale preposta alla salvaguardia della difesa verso l'esterno e della pace interna. In definitiva, dopo Augusta tramontò per sempre l'idea di una Monarchia Universale estesa sull'intera Cristianità. E la si può considerare come prima tappa del processo di formazione della Germania moderna, proseguito e definito successivamente dalla pace di Westfalia del 1648. Questi sviluppi determinarono una presa di coscienza di Carlo V, il quale decise di abdicare da tutte le sue corone e di sistemare definitivamente il conflitto con la Francia: rinunciò in favore del figlio Filippo - ormai Filippo II - alla corona di Spagna, con le relative dipendenze americane e italiane (gennaio 1556). Stipulò a Vaucelles con Enrico II una tregua quinquennale che sostanzialmente lasciava immutata la situazione dei rispettivi domini e zone di influenza (febbraio 1556) e infine rinunciò alla corona imperiale, la quale passò al fratello Ferdinando, già re dei Romani, che divenne anche re di Boemia e Ungheria. Le due parti degli immensi domini di Carlo V non si sarebbero mai più riunite e tutte queste decisioni sanzionarono la fine della sua ambiziosa politica imperiale, fallita nel tentativo di sanare la scissione religiosa tedesca e di instaurare quella monarchia universale di cui abbiamo ampiamente discusso. Ritiratosi, egli morì il 21 settembre del 1558. Nelle convulse vicende europee della metà degli anni 50 del '500, non bisogna tuttavia trascurare l'elezione del nuovo pontefice Paolo IV (1555-59), personalità intransigente e autoritaria, promotrice dell'istituzione dell'Inquisizione Romana. Sin dai primi tentativi di conciliazione fra l'Impero cattolico e i prìncipi protestanti, si era sempre opposto ad essi (e quindi all'Impero), considerandoli piuttosto tentativi di incoraggiamento al protestantesimo. Il nuovo pontefice poté far leva – prima della pacificazione di Augusta e della tregua di Vaucelles e con la guerra di Siena ancora in corso – sulla volontà di Enrico II di mutare a suo favore la situazione italiana e di riconquistarvi il Regno di Napoli per realizzare i progetti antispagnoli, stipulando un'alleanza nel dicembre 1555. Intanto, Paolo IV restituì il ducato di Parma ad Ottavio Farnese, e attaccò la famiglia Colonna - fedele alleata della Spagna - nello stato Pontificio, privandola dei suoi possedimenti. A tale affronto dovette rispondere il nuovo sovrano spagnolo Filippo II (sposatosi nel 1554 con la regina inglese Maria Tudor), il quale decise di inviare una spedizione (al comando del Duca d'Alba e viceré di Napoli) dal Regno di Napoli per recuperare i domini colonnesi. Ottavio Farnese passò dalla parte spagnola, recuperando così Piacenza, e costringendo il Papa a firmare la temporanea tregua di Ostia (novembre 1556), subito interrotta (1557) dall'arrivo delle attese truppe francesi. Intanto il confronto si spostò nei Paesi Bassi: i francesi subirono una grande sconfitta nell'Artois (agosto 1557) e, a fronte dell'appoggio militare dei Tudor agli Asburgo (poi svanito nel 1558, alla morte della regina), non aspettavano altro che la stipulazione della Pace, e così anche Filippo II, il quale dovette fare i conti con le prime bancarotte. Per di più, Enrico II ottenne la separazione dei domini asburgici e dovette iniziare a fare i conti con gli sviluppi del Calvinismo in Patria - precursori delle future guerre di religione -. Si giunse così alla pace di Cateau-Cambresis dell'aprile 1559 con la quale si stabilirono i rispettivi domini della Spagna e della Francia in Europa e in Italia: la trattativa sancì l’annessione della città di Calais alla Francia, i vescovati di Metz e Verdun. La Francia perse però il ducato di Savoia con il Piemonte che passò ad Emanuele Filiberto e la Corsica. Sempre la Francia rinunciò alle proprie pretese sul Ducato di Milano e sul Napoletano. Per quando riguarda la Spagna, quest’ultima annetté alcune piazzeforti senesi sul litorale tirrenico, le quali congiuntamente costituirono il cosiddetto Stato dei presidi, mentre a Cosimo I de’ Medici venne riconosciuto il possesso della città di Siena. Capitolo 7 - Eterodossia e Controriforma in Italia 1 Vecchie e nuove eresie Al congresso di Worms del 1521 Lutero e i suoi seguaci vennero accusati di essere diffusori un'eresia che si era ramificata nel corso del Medioevo, il begardismo. Stessa accusa, anch'essa priva di fondamento dottrinale come per Lutero, venne precedentemente rivolta a Savonarola per mandarlo al rogo. Questo stratagemma utilizzato dalle autorità ecclesiastiche per giungere più rapidamente alla condanna è da connettere al fatto che, nonostante il begardismo fosse stato già condannato nel 1311, al concilio di Vienne, esso sia sopravvissuto puntando sul forte accento mistico e sulle verità dottrinali difficilmente assimilabili che lo contraddistinguevano, e che gli hanno consentito di rimanere ai margini dei conflitti spirituali. Il begardismo, poi trasformatosi nel Movimento del Libero Spirito, era sorto e si era diffuso principalmente nelle aree fiamminghe e della Germania settentrionale, intorno al XIII secolo, in particolare nella componente fiamminga. Esso era caratterizzato da un tratto fortemente ascetico e penitenziale, basandosi le sue pratiche sulla mortificazione del corpo: questo percorso penitenziale avrebbe poi riportato l'anima del fedele a ricongiungersi con Dio, nel c.d. Processo di Indiamento o di annihilamento in Dio. Una volta ricongiuntosi con l'entità divina, il corpo del fedele poteva tornare a godere di qualsiasi forma di appagamento sessuale ed edonistico e, poiché l'individuo esisteva direttamente in Dio, egli poteva d'ora in poi fare a meno di interpretare la Bibbia come fonte di verità rivelata. Il testo cardine di questa eresia era Lo specchio delle anime semplici della “beghina” (eretica) Margherita Porete, la quale morì al rogo dopo esser stata condannata al concilio di Vienne. Le figure femminili assunsero un rilievo particolare nel corso del XV e nella prima parte del XVI secolo, in quanto divennero protettrici dei contadini e dei ceti urbani più impoveriti dalle vicende belliche, i quali erano diventati estremamente sensibili nei confronti delle profezie catastrofiche, delle predizioni di rovine e dei calcoli astrologici che popolarono il comune sostrato di idee collettive di quel periodo. A contribuire ad amplificare questo clima di incertezza che contraddistingueva i confini fra eresia e ortodossia vi erano le poche certezze dogmatiche che soltanto dopo il Concilio di Trento poterono dirsi nettamente e rigidamente stabilite. Altra corrente eretica particolarmente florida risultò essere quella nata in Spagna negli anni 20' del 500 sotto il nome di Alumbradismo. Caratteristica principale di questa dottrina era l'idea che solo una particolare illuminazione divina (alumbramiento) potesse garantire una giusta lettura ed interpretazione delle Sacre Scritture e (garantire) la convinzione che il totale abbandono in Dio permetteva una libertà interiore tale da svincolarsi dall'osservanza di obblighi cerimoniali e rituali. La centralità dell'esperienza interiore di fede come unico criterio di verità della rivelazione, favoriva lo sviluppo di un soggettivismo religioso tale da depotenziare profondamente il ruolo delle autorità e delle istituzioni ecclesiastiche (come il Papa) nell'interpretazione Sacre scritture. Per gli alumbrados un simile itinerario era percorribile soltanto da ristretti gruppi di iniziati, presso cui si doveva essere introdotti per gradi e per gradi giungere a quelle consapevolezze esoteriche riservate a pochi perfetti, fino alla scoperta di quei “segreti” divini che, come tali, non dovevano né potevano essere comunicati ad altri se non tramite la individuale ripetizione del percorso mistico-spirituale. Trovò vita facile il predicatore Juan de Valdes, quando, iniziò a catechizzare e ad introdurre i principi dell'Alumbrandismo in Italia, nel clima di incertezza dogmatica e di sentimenti spiritualistici di cui godeva la Penisola. E ancora più efficace fu la sua predicazione in seguito al Sacco di Roma del 1527 presso il quale trovarono spiegazioni tutto quell'insieme di inquietudini religiose, attese profetiche e predizioni rovinose che contrassegnavano il clima religioso culturale italiano. 2 Istanze di riforma e Ordini religiosi Invocata da più fronti, agli inizi del '500 la Riforma religiosa della Chiesa non appariva più rimandabile, data la deplorevole condizione in cui versava l'intera struttura ecclesiastica: i vescovi erano sempre più distaccati dalle diocesi a cui venivano assegnati; gli Ordini religiosi godevano di anarchia nella predicazione popolana, in quanto amministrando i sacramenti, e sfuggendo al controllo delle gerarchie ecclesiastiche, si erano ormai sostituiti al Clero. Quest'ultimo conduceva una vita immorale, violando il divieto di sposarsi, mercificando e abusando delle confessioni e vendendo i propri titoli religiosi. Gli stessi cardinali conducevano una vita sfrenata e costosissima, erano sostenuti da vere e proprie corti e utilizzavano le rendite ecclesiastiche vitalizie di cui godevano per aumentare il proprio potere e la propria ricchezza. Spesso la carriera ecclesiastica era solo un dall'attuale Papa Paolo III, il quale voleva dimostrare che non era necessaria la convocazione del Concilio tanto temuto (in quanto i protestanti riuniti avrebbero messo in discussione l'autorità papale) per procedere alla riforma della Chiesa cattolica. Riferimento della riforma “moderata” nel Regno di Napoli, era l'esule spagnolo Juan de Valdés, il quale, come Ignazio di Loyola, era stato accusato in patria di essere un fautore della dottrina Alubrandista. Rifugiatosi nella capitale del regno fino alla morte, avvenuta nel 1541, condivideva la dottrina luterana della giustificazione ex sola fide e l'idea pessimistica della peccato mortale, connessa alla svalutazione delle opere umane. Tuttavia, non screditava la lettura delle Sacre scritture e l'esperienza individuale di fede, sottolineava come vigesse una sorta di gradualismo esoterico in base al quale si distinguevano diversi livelli di appartenenza alla Chiesa, strutturata gerarchicamente. Valdés era divenuto a Napoli un riferimento per chi, pur non aderendo intimamente, in tutto o in parte, a dottrine non ortodosse, non voleva o non poteva abbandonare la Chiesa cattolica. A raccogliere la sua eredità spirituale dopo la morte e a diffonderne ulteriormente il messaggio fu il cardinal Pole, il quale perpetuò l'opera di approfondimento teologico e di cauta propaganda diretta a incanalare un dissenso religioso italiano assai radicale e a ricomporre la scissione religiosa europea recependo i punti dottrinali essenziali della Riforma senza provocare però irrimediabili rotture dottrinali. 4 L’inquisizione romana Il fallimento dei colloqui religiosi di Ratisbona del 1541 aveva provocato il declino della figura del Contarini, accusato al ritorno in Italia addirittura di essere passato “dall'altro lato della barricata”, e di essere luterano lui stesso – accuse chiaramente non veritiere. Le preoccupazioni degli intransigenti ortodossi quindi si rivolgevano , da un lato, alla propaganda riformistica moderata operata dagli eredi di Valdés a Napoli, ossia Pole, Marcantonio Flaminio, Pietro Carnesecchi e Giovanni Morone. Dall'altro lato, queste preoccupazione si concentravano sulla pericolosa diffusione sociale del protestantesimo in ampi strati della popolazione, soprattutto nelle regioni di confine della Penisola, che si attuava attraverso la distribuzione di pamphlets satirici, illustrazioni e giornali propagandistici che incentivavano la discussione su questi temi religiosi. Ora gli strati più umili della società potevano leggere le traduzioni in volgare della Sacra Scrittura postillate dal commento e comprensibile di carattere protestante. Due fra i più celebri predicatori popolari del '500 furono Pietro Vermigli e Bernardino Ochino, vicario generale dei cappuccini. Entrambi abbracciarono il valdesianesimo, diffondendolo in tutta Italia. Nonostante la moderazione della dottrina, essa non faceva cenno all'apparato devozionale e ai culti (culto di Maria, dei Sant i ecc.) che costituivano una parte essenziale dell'insegnamento e delle pratiche della Chiesa Romana, per cui arrivarono le prime condanne (anche da parte dei Teatini del Carafa). Così nel 1542 le ultime resistenze moderate vennero superate e Paolo III si decise a istituire il Tribunale romano del Sant'ufficio, ripristinando e riorganizzando, con la bolla Licet ab initio del 1542, l'Inquisizione medievale (da non confondere con l'Inquisizione Spagnola) che venne affidata a sei cardinali c.d. inquisitori, fra cui vi erano il Carafa, Juan Alvarez de Toledo e il maestro del Sacro Palazzo Tommaso Badia. Vennero poi costruiti tribunali periferici e creata una fitta rete di informatori che avevano il compito di comunicare ai cardinali le persone “sospette”. Concretamente, l'Inquisizione romana agì efficacemente nella sola Italia, in quanto negli altri stati dovette fare i conti con le resistenze giurisdizionali delle burocrazie episcopali e con la presenza di simili istituzioni (es: Spagna e Inquisizione spagnola – anche se nei domini spagnoli in Italia, l’Inquisizione spagnola operò solo nei viceregni di Sicilia e Sardegna, mentre nel viceregno di Napoli e nello Stato di Milano operò quella romana). I procedimenti di accusa del sospettato potevano avere inizio d'ufficio, oppure tramite denuncia non anonima. I tribunali periferici dovevano annotare l'avvio dell'iter processuale e rinviarlo in Giudizio a Roma, se ritenuto necessario. La prima volta che l'imputato veniva condannato la pena era perlopiù ammonitoria o patrimoniale; la seconda volta, trattandosi di relapso, ricaduta in errore dopo l'ammonizione, le pene erano più gravi e potevano arrivare alla condanna a morte del sospettato eretico. Infine, alla condanna dell'imputato seguiva l'esproprio dei suoi beni. 5 Concilio, dissenso radicale, nicodemismo La conclusione fallimentare dei colloqui di religione di Ratisbona determinò la fase operativa della Convocazione del Concilio. Un concilio che secondo le volontà dei cattolici in seno al Vaticano avrebbe dovuto concludersi con la sanzione definitiva del Protestantesimo. Paolo III lo indisse a Trento (assecondando in questo caso il volere di Carlo V) il 22 maggio 1542 con la bolla Initio nostri huius pontificatus. In ottobre nominava legati conciliari tre cardinali: Paolo Parisio, Reginald Pole (nonostante le voce e i sospetti che lo reputavano colpevole di eterodossia valdesiana) e Giovanni Morone. Da questo gruppo partì un robusto programma editoriale, che comprendeva spiegazioni, commenti e note riguardo i punti fondamentali di contrasto fra cattolici e protestanti. Tuttavia, il clima religioso si era notevolmente deteriorato con la riorganizzazione dell'Inquisizione romana e la morte dei due più grandi esponenti dei “moderati” cattolici, Contarini e Giberti, morti nel 1542-43. La prima riunione ufficiale del Concilio si ebbe nel maggio 1543, alla quale però presenziarono solo una decina di vescovi. Esso fu poi sospeso diverse volte, in occasione della guerra tra Francia e Impero (risoltasi poi con la pace di Crépy del settembre 1544), e fu poi inaugurato solennemente nel dicembre 1545. Dopo aver definito le prime questioni organizzative, e sul diritto di voto, alla IV sessione del Concilio (febbraio-marzo '46) iniziarono i dibattiti teologici veri e propri: i cattolici respinsero e condannarono la tesi luterana, affermando che fonte di verità rivelata fosse solo la Sacra scrittura e non la tradizione. Nella V sessione fu condannata l'idea del peccato originale come corruzione radicale della natura umana e nella VI sessione si arrivò a discutere della giustificazione ex sola fide: esso rappresentava il punto di maggior frattura tra le due confessioni. Infine, nella VII sessione si ribadì la dottrina generale dei sacramenti, ritenuti inviolabili e irriducibili, in quanto istituiti da Gesù Cristo stesso. Il concilio divenne un luogo di incontri per un numero considerevoli di monaci, visionari, mistici ecc., ognuno con la propria idea da proporre, unendo tutti questi individui all'interno di un idealismo radicale, che gradualmente pervase tutto il Concilio. A questo fenomeno se ne aggiunse un altro che concerneva le fughe, dell’esilio “religionis causa” più o meno volontariamente scelto, per andare in terre protestanti e confessarvi manifestamente e liberamente la nuova religione. L'alternativa alla fuga era la testimonianza pubblica della nuova fede, che avveniva continuando a sostenere e a commentare gli scritti di Lutero, Melantone, Erasmo, Ochino, il che la maggior parte delle volte portava alla condanna a morte. Un'altra via d'uscita a questa drammatica alternativa era la pratica nicodemitica, che si espletava nella simulazione e dissimulazione religiosa tesa a nascondere la propria vera confessione di fede attraverso l'adesione puramente formale ed esteriore al cattolicesimo. Il termine derivava da Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, che secondo quanto narrato dal Vangelo di Giovanni, andava nascostamente da Gesù di notte, per istruirsi sul regno di Dio e sulle condizioni per accedervi. Sull’argomento e sulla liceità o meno della dissimulazione si discusse a partire dall' intervento dell'apostolo Paolo che giudicò scandaloso il comportamento di Pietro che aveva simulato la fede ebraica per giustificare poi il passaggio al Cristianesimo (Lettera ai Galati). Calvino invece occupò una posizione intransigente per quanto riguarda il nicodemismo: egli aveva già attaccato chi viveva la propria fede solo nel segreto della coscienza e chi accettava il sacerdozio nella Chiesa cattolica col fine di propagare il “vero” Vangelo, individuando la radice di questi atteggiamenti simulatori nella ricerca di una impossibile conciliazione interconfessionale. Individuò tre generi di simulatori: 1) Nicodemiti veri e propri , o c.d. Cripto-riformati, i quali erano i più pavidi e volevano sfuggire alle persecuzioni dell’Inquisizione Romana; 2) Libertini, essi al contrario dei primi attuavano una simulazione religiosa non tanto per sfuggire alle persecuzioni (come i primi), ma perché convinti della propria superiorità spirituale interiore; 3) Epicurei, i più pericolosi in quanto non rinnegavano una confessione per praticarne un'altra nascosto, bensì nell'intimità erano profondamente atei, prescindendo totalmente dalla religione. Questa severa disamina calvinista sull'argomento ovviamente mise in difficoltà tutti i filo-protestanti italiani che non optarono per la fuga, speranzosi ancora di poter realizzare la conciliazione interconfessionale tanto auspicata dallo stesso imperatore Carlo V. Tuttavia, sorse una nuova spiegazione e sistematizzazione dottrinale che, in un certo senso, scongiurava il pericolo nicodemitico: l'idea, tipicamente Alumbrandista, che vi siano due livelli di verità accessibili dai fedeli: il 1° livello, quello costituito dalle più alte verità esoteriche e di difficile interpretazione, accessibile soltanto dagli eletti della fede, gli illuminati o perfetti; il 2° livello, invece, costituito da una verità accessibile dalla maggior parte dei fedeli. Cadeva così la stessa accusa di Nicodemismo, poiché non si poteva parlare di simulazione, in quanto le esoteriche consapevolezze raggiunte dai perfetti non potevano essere neppure comunicate alla massa dei fedeli che non le avrebbero comprese in quanto non illuminati dalla pura verità. Da ciò se ne deduceva che coloro che erano considerati eletti potessero continuamente interpretare i testi delle Sacre Scritture, in base ai progressi dell'illuminazione divina (essa costituiva una posizione valdesiana in netto contrasto con l'affermazione luterana dell'unicità dei testi sacri come fonte di verità e con l'accusa stessa di nicodemismo, avanzata da Calvino). La strategia nicodemitica era intensamente messa in atto in Italia per sfuggire dagli attacchi degli inquisitori romani, rispetto agli emigrati d'oltralpe che si distinsero invece per aver continuato a cercare quel compromesso religioso scontrandosi con l'intransigenza delle chiese calviniste. Intanto il Concilio era stato nuovamente sospeso a seguito dei contrasti fra l'Imperatore e Paolo III. Quest'ultimo morì nel novembre 1549 e sembrava che prossimo eletto al trono di San Pietro sarebbe stato il tanto odiato (dall'Inquisizione) Reginald Pole: tuttavia la documentazione accusatoria portata in Concilio dal Cardinal Carafa ne bloccò l'elezione: venne eletto Giulio III e i lavori vennero ripresi nel maggio 1551. Sorsero peraltro dei contrasti fra l'Inquisizione e il nuovo Papa, il quale non faceva parte dei fautori della sua riorganizzazione, e soprattutto aveva impedito il processo ai danni, prima del Vescovo di Bergamo, Vittore Soranzo e poi del Cardinal Morone. L'opera dell'Inquisizione mostra come ormai essa si fosse assunta il compito di filtrare e formare la nuova classe dirigente ecclesiastica, dopo decenni di lassismo dottrinale e morale. 6 Riforme con e senza Concilio Nonostante i conflitti con l'Inquisizione, come abbiamo visto, i lavori del concilio ripartirono nel maggio 1551, con Giulio III. Ai problemi interni ai lavori conciliari s’erano d’improvviso aggiunti quelli tra Santa Sede e Impero all’indomani di un vescovo a Trento: si sospetta un’epidemia. A Giulio III, nonostante il dissenso dell’Imperatore toccò spostare il Concilio da Trento a Bologna. Nella XIII sessione (settembre 1551) gli esponenti delle due fedi si scontrarono sul tema dell'eucarestia. Fu distribuito un elenco degli articoli di Lutero in proposito, si ascoltarono i primi interventi di grande spessore teologico dei gesuiti, e infine venne riaffermata la dottrina tradizionale della presenza reale e corporea di Cristo nelle specie eucaristiche e loro relativa trasformazione (“transustanziazione”) con approvazione del culto e bassi; tutto concorreva quindi a indirizzarsi verso una centralizzazione di un vero e proprio sistema di assistenza sociale dell'Età moderna. Capitolo 8 - Le nuove potenze protestanti e la Spagna cattolica 1 L’Inghilterra dei Tudor: progressi dell’assolutismo e scelte religiose L’Inghilterra ai primi del ‘500 divenne una realtà di secondo ordine. Sconfitto il feudalesimo, i Tudor avevano condotto una politica di unificazione nazionale. L’aristocrazia inglese non costituì un ostacolo ai processi di consolidamento dell’assolutismo tudoriano. I suoi strati più alti, colpiti nel ‘500 dall’inflazione, dipesero sempre di più dal sovrano a causa della politica regia di attirarli a corte mediante la concessione di incarichi prestigiosi. Ma il vero sostegno all’assolutismo monarchico venne, almeno fino agli anni ’40, dal ceto in ascesa dei proprietari fondiari (la gentry), che comprendeva strati sociali di condizione assai diversa. Al di sotto della gentry si collocavano i grandi mercanti altrettanto interessati a sostenere lo sviluppo dell’assolutismo dei Tudor, nel quale vedevano un fattore di stabilizzazione dell’ordine interno. A considerare la monarchia come protettrice stava anche una vasta classe media composta dai piccoli mercanti e dai contadini indipendenti. La monarchia fu costretta ad appoggiarsi in particolare alla gentry. Soprattutto Enrico VIII divenne un alleato della piccola nobiltà di campagna. In genere appannaggio dei lords, fu invece l’amministrazione centrale dello Stato, di cui il settore più consistente era lo Scacchiere (da iniziali competenze giudiziarie a competenze di esazione e verifica fiscale). Accanto allo Scacchiere si collocava la Cancelleria (presieduta da Lord Cancelliere e con funzioni giudiziarie). L’amministrazione della giustizia era esercitata attraverso la Common Law (diritto consuetudinario fondato sulle sentenze dei giudici). Al vertice del sistema giudiziario si collocava la Star Chamber (Camera Stellata), ossia la sezione del Consiglio privato del re incaricata di giudicare i reati contro le prerogative regie. Anche la Star Chamber non seguiva le norme della Common Law. Il consiglio privato (Privy Council) rivestiva un ruolo di assoluto rilievo politico poiché i suoi membri (Lord Cancelliere, Lord tesoriere e pochi altri aristocratici) coadiuvavano il re nell’attività di governo. Il crescente potere della corona trovò tuttavia un contrappeso nel Parlamento. I lords e soprattutto la gentry si contrapposero ai Tudor ogniqualvolta si trattava di salvaguardare i propri interessi; né il re poteva ignorare le istanze politiche dei ceti presenti in parlamento, né questi potevano e volevano fare a meno delle garanzie offerte dal potere regio. Diviso in due camere – quella del lord, composta da lords ecclesiastici (arcivescovi, vescovi e abati) e laici tra i membri delle famiglie aristocratiche, e quella dei Comuni, che comprendeva i deputati eletti nelle contee e nelle città, il parlamento aveva ottenuto vantaggi dallo scisma anglicano: riuscì allora a radunarsi consecutivamente per sette anni, mutando la composizione a vantaggio dei membri laici e aumentando il numero dei deputati della Camera dei Comuni. D’altronde le convocazioni parlamentari erano obbligatorie ogniqualvolta il sovrano doveva fissare nuove imposte. Questo era anche il vincolo maggiore per il sovrano. Le entrate statali derivavano dal reddito delle terre della corona, ma l’ascesa dei prezzi rese sempre meno remunerativi questi cespiti. Si fece quindi leva sui dazi doganali. Le finanze regie erano poi rimpinguate dalla cosiddetta “fiscalità feudale” infatti il feudalesimo aveva lasciato a crico dei signori una serie di obblighi giuridici che la corona aveva trasformato in obblighi fiscali. Enrico VIII aveva tratto notevoli vantaggi dall’introduzione dello scisma anglicano, soprattutto grazie agli introiti derivanti dalla riscossione delle decime ecclesiastiche. Realizzata da Thomas Cromwell, la riforma dell’amministrazione centrale segnò un ulteriore rinvigorimento dell'assolutismo monarchico. Un momento rilevante di questa politica fu nel 1536 l’assoggettamento forzato del Galles alle istituzioni e al diritto inglese. Altrettanto si fece in Irlanda, dove radicata era l’ostilità antinglese. Fondando i loro diritti su una bolla papale del 1169, i sovrani inglesi avevano suddiviso dal 1366 l’isola in una parte orientale sotto il diretto controllo (“la terra inglese” o Pale) ed una occidentale lasciata alle antiche famiglie gaeliche o normanne, dove si riuniva un Parlamento irlandese e dove risiedeva un governatore (Lord Deputy) nominato dal re d’Inghilterra. I problemi che gli inglesi ebbero col regno di Scozia furono complessi. Qui le grandi famiglie feudali avevano condizionato il potere tramite rivolte e congiure guidate dai clan di origine celtica. Faceva tuttavia da contrappeso la solida organizzazione della chiesa scozzese. Tuttavia questa funzione della chiesa cominciò ad incrinarsi in seguito alla diffusione delle idee protestanti. Sicché, quando venne meno l’unità religiosa, la Scozia entrò in una fase di disordini. Alla morte di Giacomo V, gli successo la figlia minorenne Maria Stuart. La reggenza quindi venne presa dalla madre Maria di Lorena, che vedeva negli inglesi nemici i nuovi eretici. Tuttavia, alla morte sul rogo del riformatore calvinista George Wishart, l’aristocrazia chiamò a predicare il futuro artefice della riforma scozzese, John Knox. Tuttavia la vittoria del partito francofilo scozzese permise a Maria di Lorena di concludere il matrimonio della figlia con il delfino del re francese, un anno dopo che in Inghilterra era salito al trono il minorenne Edoardo VI (frutto del matrimonio tra Enrico VIII e Jane Seymour). Fu allora che s’innestò una politica religiosa che mutò radicalmente gli equilibri raggiunti nella Chiesa anglicana al tempo di Enrico VIII. Convinto sostenitore di un protestantesimo moderato infatti, il Somerset introdusse riforme religiose di vasta portata: effetto di queste prime misure fu l’arrivo in Inghilterra di un gran numero di protestanti perseguitati nei loro paesi d’origine. A tutto questo si era aggiunto il fenomeno inglese delle enclosures. Queste sono autorizzazioni concesse ai proprietari terrieri per recintare i campi per destinarli all’allevamento ovino, facendo così perdere ai lavoratori giornalieri e ai cosiddetti cottagers (braccianti in possesso soltanto delle loro abitazioni) i diritti di pascolo e di uso delle terre comuni. Nel 1552, l’approvazione di un nuovo Prayer Book, cui avevano lavorato Bucero e Vermigli, edulcorò tutto ciò che poteva ricordare la dottrina cattolica ed anche quella luterana del sacrificio eucaristico. Lo stesso anno Cranmer, aiutato da Vermigli e John Knox, fu in grado di presentare i 42 articoli, una serie di principi teologici che univano insieme reminiscenze cattoliche, luterane e Zwingliano-calviniste. Questa trasformazione dell’originario anglicanesimo in una forma riforma dottrinale di stampo dichiaratamente protestante, coagulò per la prima volta una consistente opposizione cattolica attorno all’erede al trono Maria Tudor, rimasta fedele alla Chiesa di Roma. E quando nel 1553 EdoardoVI morì, sull’onda di un entusiasmo popolare Maria mosse su Londra, dove veniva acclamata regina d’Inghilterra. Per questa accoglienza popolare si convinse che una restaurazione del cattolicesimo fosse possibile. Ai primi provvedimenti da lei adottati, in effetti, non seguì alcuna reazione del Parlamento, che anzi tra novembre e dicembre 1553 abrogava le leggi religiose emanate sotto Edoardo VI e ristabiliva la messa cattolica. La restaurazione tuttavia avrebbe dovuto esser completata dalla riunificazione con la Chiesa di Roma e della restituzione dei beni ecclesiastici. Fu su questo punto che si ebbe la resistenza della Camera dei Comuni. Più estesa si fece l’opposizione alla regina in relazione al problema del matrimonio. Fin dal 1553 si avviarono infatti le trattative per il matrimonio con il futuro Re di Spagna, Filippo II, volute da Carlo V per contrappore un’unione anglospagnola all’asse francoscozzese. Quando nel 1554 Maria si accordò per sposare l’Asburgo, venne alla luce una congiura per portare sul trono Elisabetta, sorellastra di Maria Tudor, ed esplosero una serie di ribellioni preparate dagli oppositori. La convinzione che una regina cattolica stesse per asservire l’Inghilterra alla Spagna favorì l’anglicanesimo. Il 1554 segnò per la corona il passaggio a una politica repressiva: Maria ottenne dal Parlamento l’approvazione dell’accordo nuziale e di severe leggi antiereticali. Intanto la restaurazione cattolica procedeva anche grazie all’azione del legato pontificio Reginald Pole, il quale arrivava in Inghilterra proprio mentre il parlamento deliberava per la riunione con la Chiesa di Roma in cambio dell’intangibilità delle proprietà ecclesiastiche già acquisite dai privati. Il severo clima repressivo accrebbe le simpatie della popolazione per i protestanti, nonostante la fuga di molti dei loro esponenti. Una caratteristica degli esuli inglesi e scozzesi fu quella di adottare simili teorie alla polemica contro le due regine cattoliche che governavano i loro paesi. Knox pubblicò contro Maria Tudor e Stuart il suo “First Blast of the Trumpet against the Mostruos Regiment of Women”, per dimostrare che Dio aveva proibito il governo delle donne e che pertanto le due regine potevano essere deposte. Scomparsa nel 1558 Maria Tudor, designò come erede la sorellastra Elisabetta, alla quale spettò il compito di portare l’Inghilterra verso una maggiore compattezza interna. 2 La metamorfosi della Spagna cattolica e la politica antiottomana Castigliano per nascita ed educazione, il re di Spagna Filippo II è passato alla storia come “el rey prudente” a denunciare i meccanismi di un governo centralistico e burocratico. Filippo II non modificò l’organizzazione governativa ereditata dal padre, strutturata sui Consigli territoriali e specializzati, sui vicerè e sui governatori. Questa complessa macchina governativa appariva inadeguata a controllare una realtà multinazionale ancora vastissima. Lo Stato spagnolo divenne con Filippo II ancor più centralizzato e distante dalle realtà locali: egli infatti non si spostò mai dalla Spagna per presiedere assemblee e parlamenti locali. Egli esaminava le relazioni che gli provenivano dai vari Stati, trasmetteva le relative pratiche alla sua segreteria, le sottoponeva poi ai suoi vari consiglieri e ai vari Consigli e infine prendeva la sua decisione, che doveva essere comunicata ai vicerè e ai governatori e da questi resa esecutiva. In Europa si trovò di fronte a una situazione complessa. La pace di Cateau Cambrésis aveva solo provvisoriamente risolto il confronto tra le due grandi monarchie cattoliche francese e spagnola. Di fronte a ciò Filippo II legittimò il proprio potere identificandolo sempre più con la difesa del cattolicesimo e della Chiesa romana. Le divisioni confessionali agirono nei Paesi Bassi, incisero sulla politica estera spagnola e lambirono la stessa penisola iberica. Dopo la repressione dell’alumbradismo, era seguito il soffocamento della cultura erasmiana. La tecnica di identificare gli erasmiani con gli alumbrados e con i luterani favorì il rafforzamento dell’Inquisizione. I tribunali inquisitoriali, oltre che contro le eresie cristiane, i conversos (gli ebrei convertiti) e i moriscos (di religione avita), operavano per controllare i comportamenti morali devianti. Le procedure inquisitoriali rimanevano per lo più segrete e soggette a tempi lunghissimi; le sentenze prevedevano la confisca dei beni, con la conseguenza di favorire denunce motivate da interessi economici e vendette. Ciò era incoraggiato dalla prassi di leggere alla popolazione un elenco di pratiche eretiche o sospette, il cosiddetto “Editto alla fede”, cui seguiva l’invito agli ascoltatori a denunciare i casi di cui erano a conoscenza. All’imposizione dell’ortodossia, si accompagnò un movimento teso a garantire la cosiddetta “limpieza de sangre” (purezza di sangue), ossia la tendenza a riservare le cariche politiche e i pubblici uffici a coloro che potevano dimostrare la loro discendenza dai “vecchi cristiani”, non contaminati con i conversos o con i musulmani convertiti. La Spagna di Filippo II non andò tuttavia esente da iniziali contrasti con la Chiesa di Roma, con Pio V. lo scontro sul caso dell’arcivescovo di Toledo, Carranza, annodò conflitti giurisdizionali e che derivavano dalla stretta identificazione operata da Filippo II tra il proprio potere e l’Inquisizione spagnola tanto che i decreti del Concilio di Trento furono pubblicati in Spagna solo nel 1565. d’Olanda, Zelanda e di Utrecht, riuniti a Dortrecht, invitarono Guglielmo d'Orange a tornare come stathouder, ossia come governatore militare. A Madrid, l’insuccesso del duca d’Alba portò in auge a corte la linea aragonese del principe d’Eboli, fautore di una politica di accordo con i ribelli. Eboli però morì e spettò allora al nuovo capo della fazione. Antonio Perez, delineare il programma alternativo: abolire la tassa del 10% e il Consiglio dei Torbidi. Tuttavia gli avvenimenti erano ormai sfuggiti al controllo spagnolo. Gli Stati a maggioranza cattolica (Barbante, Artois, Namur, Hainaut, Fiandra) convocarono infatti un’assemblea degli Stati generali di tutte le province, senza tener conto dell’autorità sovrana, e l’8 novembre 1576 conclusero la “Pacificazione di Gand”, stabilendo la tolleranza religiosa tra province cattoliche e protestanti sulla base del comune obiettivo di allontanare le truppe spagnole. A questo punto il compromesso ottenuto nell’Editto Perpetuo del 12 febbraio 1577, per cui l’evacuazione dell’esercito spagnolo era accordata in cambio della restaurazione del cattolicesimo in tutte le province, fu rifiutato da Guglielmo d’Orange. I rapporti tra protestanti e cattolici tornarono così a farsi critici. La persecuzione anticattolica messa in atto dai calvinisti e la loro offensiva innescò la risentita reazione della nobiltà cattolica delle province meridionali che nel 1579, con il trattato di Arras, finiva per riconciliarsi con Filippo II, accettandone la piena autorità e la volontà di restaurare senza eccezioni il cattolicesimo in cambio del riconoscimento degli antichi privilegi provinciali. Il fronte delle province calviniste invece costituiva l’Unione di Utrecht, con cui nascevano le Province Unite (Olanda, Zelanda, Frisia, Utrecht, Cheldria, Groninga e Overijssel), sorta di confederazione retta da un Consiglio di Stato, una burocrazia e un capo comune: Giovanni di Nassau, fratello di Guglielmo d’Orange. A favorire questa divisione era stato il nuovo governatore Alessandro Farnese, figlio dell’ex governatrice Margherita. Il Farnese spezzò i legami politici antispagnoli, iniziando a riconquistare metodicamente le province ribelli. Intanto gli Stati Generali, ormai autonoma rappresentanza del popolo, cercavano di dare una forma costituzionale alle Province Unite: dapprima con una monarchia costituzionale, investendo Guglielmo d’Orange il quale ottenne dagli Stati la nomina a signore dei Paesi Bassi settentrionali del duca d’Angiò Francesco di Valois. Tuttavia furono gli stessi Stati Generali a dar vita di fatto ad una Repubblica, arrogandosi il diritto di deporre Filippo II. Sul piano politico e militare però, la rapida azione di riconquista condotta dal Farnese rendeva la situazione talmente preoccupante che neppure l’assassinio di Guglielmo d’Orange del 10 luglio 1584 sembrò poterla peggiorare. 4 L’Inghilterra elisabettiana e gli sviluppi del protestantesimo Elisabetta era salita al trono nel 1558 senza contestazioni, nonostante le rivendicazioni della regina di Scozia, la Cattolica Maria Stuart. Contro una simile eventualità si schierarono sia i protestanti inglesi, che lo stesso Filippo II, consapevole che l’avvento della Stuart, a causa del suo matrimonio con il delfino di Francia, avrebbe determinato un blocco antispagnolo tra Inghilterra, Scozia e Francia. Dunque Elisabetta trovò un appoggio nella cattolicissima Spagna. Richiamato in patria Knox, un’armata calvinista era riuscita a conquistare Edimburgo, dove si giunse alla firma di un trattato (1560) che impose la partenza ai francesi. Knox redasse e il parlamento approvò nel 1560 una “Confessione di fede”, di ispirazione calvinista. Tuttavia l’assenza di Maria Stuart (allora in Francia dal marito Francesco II) permise alla nuova Chiesa scozzese di assumere una struttura organizzativa presbiteriana -ossia fondata sui presbiteri composti da pastori e laici- che affidava la scelta dei pastori al suffragio popolare. Su questa base nasceva la Kirk, la Chiesa scozzese, retta localmente da un Concistoro, per distretti più ampi da sinodi provinciali e al vertice dall’assemblea generale dei delegati dei sinodi provinciali. Tornata in patria, Maria Stuart dovette tollerare la Kirk. Elisabetta cercò di escludere soprattutto la Camera dei comuni dal trattare una serie di argomenti che riteneva prerogative della monarchia, tra cui le questioni religiose e i problemi internazionali. Benché le 13 convocazioni del Parlamento non superassero in totale la durata di 3 anni, il tentativo di ridimensionamento della funzione parlamentare andò a vuoto. Mentre un indubbio successo lo incontrò nella sua politica di depotenziamento dell’aristocrazia. La necessità di fronteggiare la minaccia cattolica obbligò Elisabetta ad una scelta filoprotestante con la restituzione alla corona delle decime derivanti dai beni ecclesiastici che Maria Tudor aveva riconsegnato alla Chiesa romana. Sollevatisi contro questa decisione, l’opposizione dei vescovi cattolici si fece più acuta quando il Parlamento accordò alla regina il titolo di "governatore supremo” della Chiesa d’Inghilterra con un Atto di supremazia (1563). Nel 1559, con lo stesso Atto di Supremazia, venne istituito un tribunale ecclesiastico i cui giudici erano designati dalla corona. Lo stesso Parlamento (con un Atto di uniformità) reintrodusse il Prayer Book in una versione intermedia (tra quella del 1549 e del 1552). Nel 1563 una Convocation dei vescovi anglicani a Canterbury compilò un testo dottrinale, i Trentanove articoli, in cui si ribadivano i punti fondamentali del protestantesimo con ascendenze calviniste: superiorità delle sacre scritture, incapacità dell’uomo di giungere da solo alla salvezza, dottrina della predestinazione, ammissione di due soli sacramenti (battesimo ed eucarestia), carattere spirituale e simbolico dell’eucarestia, rifiuto della transustanziazione, del purgatorio, del culto delle immagini, delle reliquie, del celibato ecclesiastico. Il protestantesimo inglese si irrigidì in vere e proprie correnti contrapposte: ● La tendenza episcopalista: rappresentata dagli arcivescovi di Canterbury, accentuava il carattere gerarchico della Chiesa anglicana e la sua dipendenza dal potere politico. ● Puritanesimo: convinti che l’opera di purificazione della Chiesa d’Inghilterra fosse ancora incompiuta, i puritani videro con crescente simpatia la forma presbiteriana assunta dalla Kirk, mentre dottrinalmente la loro insistenza sulla predestinazione produsse effetti sociali analoghi a quelli dei Paesi Bassi. Rispetto ai Paesi Bassi, la regina preferì inizialmente mantenere un atteggiamento prudente. Più gravi e immediate le ripercussioni delle guerre religiose francesi, a causa dei legami che univano i Guisa a Maria Stuart. Nel 1562 Elisabetta era intervenuta nei conflitti religiosi francesi in appoggio agli ugonotti, puntando al recupero di Calais. Questo intervento (fallimentare) mostrò quanto la regina fosse interessata ad una sconfitta dei cattolici in Francia. La regina scozzese, risposatasi nel 1565 con il cattolico Enrico Darnley, poteva l’anno seguente avere un erede, Giacomo, prospettando una continuità della dinastia che minacciava la sicurezza dei protestanti scozzesi e consolidava le aspirazioni degli Stuart alla corona inglese. Tuttavia, screditata dal sospetto di aver partecipato all’assassinio del marito e di averne sposato l’assassino, la Stuart fu costretta ad abdicare il 23 luglio 1567 e a rifugiarsi proprio a Londra da Elisabetta. Qui, pur se in semiprigionia, continuò a rappresentare una minaccia. Elisabetta doveva ormai affrontare un’offensiva cattolica antinglese. Nel 1570 la scomunica lanciata contro di lei dal Pontefice Pio V pose infatti i cattolici inglesi di fronte alla secca alternativa di schierarsi con Roma o con la regina, spinta perciò a maggiori concessioni ai protestanti: così mentre i cattolici recusants (che si rifiutavano di partecipare alla liturgia anglicana) venivano esclusi dal parlamento e dalle Università, un anno dopo i Trentanove articoli, precedentemente non pubblicati, furono ufficialmente accettati come professione di fede della Chiesa anglicana. 5 Dal Mediterraneo all’Atlantico Tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 il realizzato consolidamento politicoreligioso in Spagna, il progressivo disimpegno sul fronte antiottomano (nel 1580 Filippo II firmava un armistizio con il sultano), le vittorie sui ribelli dei Paesi Bassi e permisero al sovrano spagnolo di mutare atteggiamento e di lanciarsi in una politica imperialistica grazie all’annessione del Portogallo. I conflitti dinastici avevano indebolito il potere regio portoghese, parallelamente si era andata realizzando l’unificazione religiosa del paese, con la conversione forzata o l’espulsione degli ebrei. Sopravvivevano i tentativi di antica data di unire la corona portoghese a quella spagnola. Da questa volontà era scaturito infatti il matrimonio tra Carlo V e Isabella di Portogallo (figlia del re Emanuele I) da cui era nato Filippo II. Sebastiano I era re dal 1557. Il Portogallo all’epoca andava manifestando i primi segni di crisi. A frustrare ulteriormente il paese sopravvenne, nel 1578, la morte di Sebastiano I nella battaglia di Alcazarquivir in Marocco. Scomparso senza figli, a Sebastiano I successe l’anziano cardinale Enrico. Fu allora che Filippo II decise di agire per annettersi il regno portoghese, riuscendo a guadagnarsi le simpatie del cardinale Enrico che dichiarò legittima la successione del sovrano spagnolo in quanto figlio di Isabella del Portogallo e vedovo di Maria del Portogallo. Contro questa soluzione si erano però subito mobilitate Inghilterra e Francia. Filippo II fu perciò costretto a richiamare il duca d’Alba per invadere il portogallo e grazie all’appoggio dell’alta nobiltà, del clero e dei ceti mercantili, fu riconosciuto legittimo re dalle Cortes riunite nel 1581, in cambio concesse di preservare la più completa autonomia del regno. Nel frattempo Filippo II si era schierato contro il protestante Enrico di Navarra al fianco dei Guisa. Elisabetta voleva impedire che questi ultimi salissero sul trono francese rafforzando le pretese dalla Stuart. Di qui perciò la necessità di eliminarla. Nel 1585 la scoperta di una congiura allo scopo di assassinare la regina, portare sul trono Maria e appellarsi a Filippo II per garantirle il potere, fornì il pretesto per l’arresto dell’ex regina scozzese, poi processata e giustiziata nel febbraio 1587. L’eliminazione della Stuart ruppe il precario equilibrio europeo. La politica inglese si fece più aggressiva contro la Spagna, sostenendo apertamente la vera e propria guerra corsara intrapresa sulle rotte transoceaniche contro le navi commerciali spagnole dai navigatori inglesi, in particolare da Francis Drake. Deciso a stroncare la crescente potenza di Elisabetta, Filippo II si risolse a uno sbarco in forza sul suolo inglese. Dai pulpiti i predicatori eccitavano la popolazione contro l’”eretica” regina inglese. Una flotta di 130 navi, la celebre “Invencible Armada”, venne radunata nel porto di Lisbona per raggiungere la manica, con annesso un corpo di spedizione di 17 000 uomini. Uscita dal porto, la flotta dovette ripararsi nella rada della Carogne a causa di una tempesta, mentre Elisabetta radunava le sue truppe di terra a Tilbury. L’”Armada” entrò nella manica otto giorni dopo, ma una nuova tempesta e l’attacco dei vascelli inglesi più mobili, obbligarono la flotta di Filippo II ad allontanarsi di nuovo e, dopo aver circumnavigato le isole britanniche semre incalzata dalla marina elisabettiana e dai corsari inglesi, a rientrare in portogallo il 15 settembre 1588, decimata nelle navi e negli uomini. Questa disfatta consegnò all’Inghilterra elisabettiana il ruolo di grande potenza europea. La cosiddetta “tregua dei dodici anni” fu conclusa nel 1609 ad Anversa tra lo Spinola e Maurizio di Nassau. L’intesa significò per la Spagna l’accettazione di fatto dell’indipendenza delle Sette Province ma anche del ruolo di potenza economica internazionale da esse assunto. Filippo II era già scomparso da tempo a questo punto, lasciando in eredità al figlio Filippo II uno Stato con un assolutismo di stampo controriformista che maturava già i segni di una crisi. In particolare fu l’Aragona che trasse presto il pretesto per ribellarsi provocando la crisi nel 1596. Elisabetta accentuò la sua politica anticattolica. Non fu casuale se proprio negli anni ’80 i cattolici rimasti nel regno elaborarono l’idea di una netta distinzione tra potere spirituale e potere temporale, per poter sopravvivere e rimanere così fedeli al pontefice romano pur accettando l’autorità politica della corona. Elisabetta non aveva nessun interesse a sopportare il disordinato clima di discussioni e divisioni religiose introdotto da radicalismi. Neppure le ripetute rivolte della cattolica Irlanda mutarono questa politica. Alle rivolte seguiva un durissimo programma di inglesizzazione e imposizione dell’anglicanesimo, con la confisca di grandi estensioni di terre distribuite ad inglesi di sicura fede. comunità religiose della Provenza fino a quando il villaggio di Mérindol non si sollevò al completo, provocando, nel novembre 1540, la condanna alla distruzione di ogni edificio del paese da parte del Parlamento di Aix. Questa sentenza fu oggetto di un lungo processo di esecuzione, fatto di dilazioni, condizioni, suppliche ecc. Ad ogni modo, fu la pace di Crepy tra Francia e Impero (vedere cap. 6, par. 3) del 1544 a permettere a Francesco I di riportare ordine e imprimere concretezza alla sentenza in questione: nella primavera del 1545 colonne militari francesi occuparono e devastarono i villaggi valdesi in Provenza. Successivamente non mutarono le condizioni del protestantesimo francese con l’avvento al trono del nuovo sovrano Enrico II – succeduto al padre nel marzo 1547 -, il quale, anzi, inasprì i metodi repressivi in un crescendo di decisioni determinanti e sempre più estreme: in primo luogo, nell’ottobre 1547, venne istituita presso i Parlamenti del Regno una Camera speciale, adempiente la funzione di Tribunale speciale con competenza giurisdizionale sugli eretici. In secondo luogo, nel luglio 1551, venne emanato un editto regio, il quale stabilì la composizione di natura regia delle giurie dei Tribunali speciali, nonché l’inappellabilità delle sentenze. In ultimo, tra il luglio 1556 e l’aprile 1557, venne istituita l’Inquisizione religiosa, delegando la competenza giurisdizionale ad un organo esterno allo Stato transalpino. Il pontefice Paolo IV Caraga nominò grandi inquisitori i cardinali Carlo di Borbone, Carlo di Guisa e Odet di Chatillon. Contro quest’ultima misura protestò il Parlamento parigino in quanto svuotò di potere sia i parlamenti che il clero francese. Ancora una volta, però, le ben più pressanti e drammatiche esigenze internazionali della politica estera francese – impegnata nell’ultima fase dello scontro con la Spagna di Filippo II - costituirono lo scudo per ridurre l’incisività della repressione antiprotestante. Una repressione che tornò ad esser aspra dopo la pace di Cateau-Cambrésis nell’aprile del 1559, quando Enrico II proclamò a più riprese la sua intenzione di sterminare i protestanti francesi. Si capisce allora come la morte di Enrico II – occorsa nel luglio 1559 – in seguito alle ferite riportare a causa del torneo cavalleresco in occasione del matrimonio della figlia, Elisabetta, con Filippo II, fosse considerata dai protestanti francesi il classico “giudizio di Dio”. 2 Dalle violenze alle guerre Già negli ultimi anni del regno di Enrico II – colui che aveva instaurato in Francia un cattolicesimo rigido e repressivo – si manifestò una frattura religiosa all’interno della società francese. I tre stati della società – aristocrazia, clero e borghesia – si divisero al loro interno fra cattolici e protestanti (occorre specificare che i protestanti francesi erano i cosiddetti Ugonotti). Se da un lato, nel caso specifico del basso clero, era prevedibile e comprensibile che tale frattura si generasse in quanto quest’ultimo operava soprattutto nelle regioni di Ginevra, Strasburgo e Basilea, conquistate dal protestantesimo; dall’altro non era altrettanto comprensibile che la frattura religiosa interessasse l’alto clero e l’alta nobiltà per il fatto che vi era una forte struttura ecclesiastica in grado di soffocare prontamente gli abusi. Tra le fila dell’aristocrazia serpeggiava una forte instabilità. All’interno dell’aristocrazia si contrapponevano diverse famiglie dinastiche che cercarono di influenzare in modo incisivo l’operato del sovrano: dapprima la famiglia dei Guisa (della Lorena) – famiglia cattolica illustre, la quale andò progressivamente accrescendo e radicando la propria influenza dopo che Francesco di Guisa strappò agli inglesi Calais nel 1558 -; la famiglia cattolica dei Montmorency; la famiglia protestante degli Chatillon – tra cui il cardinale inquisitore Odet e il comandante Francesco – ed infine, la famiglia protestante dei Borbone – tra cui Antonio di Borbone -. Il tentativo di contenere l’influenza della famiglia dei Guisa presso la corte, riequilibrare le competenze e riguadagnare l’attenzione del re ecc. fu la molla che fece scattare l’adesione delle altre famiglie aristocratiche al calvinismo. Ne derivarono delle manifestazioni pubbliche da parte della stessa aristocrazia: Francesco di Chatillon venne di lì a poco arrestato – nella primavera del 1558 – ed imprigionato dal sovrano per le proprie simpatie luterane e successivamente – solo dopo aver giurato fedeltà al cattolicesimo – venne rimesso in libertà. L’arresto oltre a fare scalpore, provocò reazioni inattese e tipiche degli intrecci sociali che avrebbero caratterizzato i successivi scontri tra le parti: essendo comandante della fanteria francese, si ebbero dei momenti di tensione nelle truppe, nonché minacce di ammutinamento e solidarietà dei commilitoni cattolici. Quando fu rimesso in libertà, dopo poche settimane, provocò scandalo fra i calvinisti. Il primo sinodo nazionale a Parigi – organizzato dai calvinisti e previsto per il 26 maggio 1559 – fu un importante segno di frattura in seno alla struttura ecclesiastica francese. Al sinodo vennero discussi due testi di firma calvinista. Rispettivamente “Confessione di fede” – una guida dottrinale calvinista” - e “Disciplina ecclesiastica” – in quest’ultima in particolare, si trattava l’organizzazione delle chiese sul modello ginevrino. Ciascuna chiesa sarebbe stata retta da un concistoro ed ogni gruppo di chiese tra loro limitrofe sarebbe stato raggruppano in un Colloquio. Più colloqui avrebbero formato una provincia e nessuna chiesa sarebbe stata preminente rispetto e sulle altre (sistema detto sinodale, consistente nel delegare a ciascuna comunità l’autogestione) -. Si sostanziò – anche grazie a tale radicata organizzazione calvinista – uno scontro in seno al Consiglio di reggenza – sorto alla morte di Enrico II per amministrare il regno al posto del successore designato, ancora minorenne, Francesco II – tra le famiglie ugonotte e i cattolici di Guisa. Questi ultimi si resero colpevoli agli occhi degli ugonotti di aver preso il controllo delle cariche politiche a corte alla morte del re e di esser stati coinvolti nella durissima repressione antiprotestante perseguita dal defunto Enrico II. La protesta degli aristocratici ostili ai Guisa, convocati a Vendome, e affidata ad Antonio di Borbone, giunse alla reggente del regno, Caterina de’ Medici – vedova di Enrico II e madre di Francesco II -, la quale cercò di portare ad un compromesso le due parti in lotta senza però rilevanti successi. Il fallimento della protesta congiunta dei nobili ugonotti presso la reggente innescò il passo successivo: gli ugonotti, infatti, prepararono la congiura di Amboise – diretta da Luigi di Borbone, principe di Condé – volta ad eliminare gran parte dei Guisa. Tuttavia, a causa della delazione di uno dei congiurati, la congiura si risolse in un fallimento. Ma, c’è da dirlo, da allora il ricorso a congiure o trame segrete non ebbe più limite. Caterina de’ Medici dette un diverso segnale politico, nominando alla carica di cancelliere, Michel de l’Hospital – già consigliere del Parlamento di Parigi – il quale tentò di avviare una politica di equilibrio tra le due fazioni contendenti, basata sulla tolleranza e sulla separazione tra sfera religiosa e politica. Frutto di tale indirizzo perseguito dal cancelliere fu la convocazione degli Stati generali a Orléans, inaugurati nel dicembre 1560. Frattempo, pochi giorni prima, era venuto a mancare Francesco II, cui succedette il fratello minorenne, Carlo IX. Non per questo la situazione interna registrò un raffreddamento della temperatura: violenze nelle città, bande militari addette alla repressione anti-ugonotta per intere regioni del regno, timori degli aristocratici calvinisti di recarsi ad Orléans nel timore di restavi intrappolati e prigionieri. Alla convocazione degli Stati generali, le tre componenti della società francese non raggiunsero alcun accordo. Ciononostante, si deliberò la cessazione delle persecuzioni ugonotte, la liberazione dei protestanti prigionieri e la nomina di Antonio di Borbone a luogotenente generale. Gli ugonotti avvertirono le relative ordinanze come una sorta di tacita possibilità di praticare liberamente il proprio culto. La reggente allora convocò nuovamente gli Stati generali nel 1561, a Pontoise, nel tentativo di definire i termini di una possibile, ancorché tacita, tolleranza reciproca tra le parti. In questa occasione, qualche speranza fu offerta dalla fase di declino politico dei Guisa a seguito della morte di Filippo II e dell’abbraccio tra Condé e Francesco di Guisa. Tuttavia, il triumvirato – tra Anne de Montmorency, Francesco di Guisa e Jacques d’Albon (maresciallo di Saint André) – e le conversioni al calvinismo di Odet de Chatillon e di Jeanne d’Albret (figlia di Margherita di Navarra) riaprirono le ostilità e portarono ad una rivincita cattolica: l’Editto di luglio proibì agli ugonotti di professare un culto diverso da quello cattolico, e vietava il diritto di riunione/associazione in assemblea. Ai colloqui di religione di Poissy si tentò invano e per l’ennesima volta la mediazione: invano a causa della polemica attorno al sacramento dell’eucarestia. Nel dicembre del 1561, un gruppo di ugonotti saccheggiò la Chiesa di San Medardo - ove vi erano cattolici riuniti in preghiera – in quanto convinti che questi ultimi stessero tramando contro di loro -. Il cancelliere De l’Hospital altro non poté fare se non convocare nuovamente gli Stati generali. Venne emanato l’Editto di Saint-Germaine, nel gennaio del 1562, il quale costrinse gli ugonotti a restituire i beni ecclesiastici rubati; vietava loro di propagandare il loro credo e di arruolare truppe ed infine, consentiva loro (almeno) di riunirsi in assemblea – seppur fuori dalle mura cittadine – e di convocare sinodi – seppur col previo assenso del Re -. L’Editto di Saint-Germaine, malgrado le restrizioni, permise ai protestanti di professare liberamente il loro culto. Ragione per cui i cattolici protestarono e, per di più, guadagnarono alla loro causa l’ex protestante, Antonio di Borbone. Gli eventi precipitarono: il 1° marzo 1562 a Vassy – sia che accadde per un incidente, sia che accadde per volontà dei cattolici – si compì una strage di ugonotti riuniti in assemblea. Ne fu coinvolto Francesco di Guida – il quale si era da poco congedato da un colloquio con Antonio di Borbone -. Giunta la notizia a Orléans, gli ugonotti, al seguito del Principe di Condé, si armarono: era ormai la vigilia della prima delle otto guerre di religione che avrebbero sconvolto la Francia fino al 1598. 3 Guerre civili e politica estera 1.1. |Prima guerra civile (autunno 1562- primavera 1563) | Il massacro di Vassy e la conseguente prima guerra civile fra cattolici ed ugonotti innescarono delle reazioni di politica estera facilmente prevedibili e peraltro già invocate da entrambe le parti: da un lato, a favore degli ugonotti si schierarono Inghilterra, Stati tedeschi protestanti e gli insorti olandesi – la vicinanza di queste tre regioni favorì il concentramento di armi e rifornimenti di vario tipo; dall’altro, a favore dei cattolici si schierarono la Spagna di Filippo II Asburgo e lo Stato Pontificio di Pio IV – il quale contribuì con aiuti finanziari, in cambio 1.3. |Terza guerra civile (marzo 1569-agosto 1570) | La terza guerra civile fu più feroce e cruenta rispetto alle prime in quanto, prima dei due maggiori scontri – rispettivamente a Jarnac nel marzo 1569 e a Moncontour nell’ottobre 1569 (emerse la figura di Enrico di Valois, duca d’Angiò e fratello del sovrano) -, entrambi favorevoli alle truppe cattoliche, si disperse in scontri episodici locali in cui la fazione più forte massacrava quella avversaria e in nella pratica delle rappresaglie contro un borgo, un paese o una città dove poco prima una delle due parti aveva subito perdite militari. La corte francese, spaventata dalle truppe del Coligny, ormai giunte alle porte di Parigi, concesse la pace di Saint- Germaine nell’agosto 1570, la quale decretò l’assegnazione delle roccaforti di Cognac, Montauban, Charité e la Rochelle agli ugonotti, decretandone una parziale vittoria. Queste concessioni destarono forti timori in Filippo II e Pio V. Per di più, la forza dimostrata dai soldati ugonotti influenzò pesantemente la politica perseguita fino ad allora dalla corte: il progetto matrimoniale previsto dalla reggente Caterina de’ Medici per i suoi figli sembrava configurare una prossima dislocazione della Francia come Stato protestante. Il progetto matrimoniale prevedeva da un lato che Enrico d’Angiò Valois, fratello di Carlo IX, avrebbe sposato Elisabetta d’Inghilterra; dall’altro che Margherita di Valois, nata dal matrimonio fra la reggente e il defunto Enrico II, avrebbe sposato Enrico di Borbone, figlio ugonotto della Regina di Navarra. Il papato cercò in tutti i modi di scongiurare quello che appariva un vero e proprio tradimento politico da parte di Caterina de’ Medici, sia inviando diplomatici e cardinale al fine di far desistere la reggente da propositi giudicati folli, sia mandando in predicazione un gran numero di frati cappuccini e gesuiti, i quali, almeno provvisoriamente, riuscirono a ricompattare il fronte cattolico, con una efficace opera di proselitismo e controversistica. Tuttavia, il fronte cattolico, di lì a poco, subì il voltafaccia di Carlo IX, il quale – finito sotto l’influenza dell’ammiraglio ugonotto Coligny (vedere par. 2) –, nell’aprile del 1572, pattuì il matrimonio fra Margherita ed Enrico di Borbone, nonché un’alleanza con Elisabetta Tudor. La Francia sembrava esser diventata una nuova potenza protestante. La stessa Caterina – ricordando che il papa riuscì a convincerla della follia di quanto previsto dal suo progetto matrimoniale – rimase interdetta da una svolta politica così radicale da sembrare un vero e proprio azzardo: temeva che l’Inghilterra non avrebbe mai aiutato i francesi per davvero, intimorita dall’idea che questi ultimi potessero affacciarsi sullo stretto della Manica minacciando lo Stato inglese. A preoccupare la reggente vi era anche il fatto che i protestanti tedeschi, gelosi delle vittorie “calviniste”, non avrebbero chissà quanto sostenuto la Francia. Frattempo, le nozze “ugonotte” tra Margherita ed Enrico furono più volte rinviate – morì la regina di Navarra e venne eletto pontefice Gregorio XIII (1572-85) – ma, infine celebrate il 13 agosto 1572, a Parigi, roccaforte cattolica per eccellenza…Alla cerimonia si riversarono circa quattromila ugonotti francesi: Caterina non aspettava altro per sferrare un attacco tale da distruggere il progetto di una prossima Francia protestante. Il 22 agosto organizzò l’attentato a Coligny, il quale però ne uscì solamente ferito. Non soddisfatta, il 23 agosto, ingannando Carlo IX, convincendolo del fatto che gli ugonotti stessero tramando contro la sua persona, diede inizio alla strage della Notte di San Bartolomeo – furono risparmiati Enrico di Borbone e il principe di Condé -: quella notte venne assassinato Coligny e tra i duemila e i tremila ugonotti vennero uccisi per mano dei sicari cattolici in tutta la Francia (Lione, Tolosa, Orléans ecc.) Le cancellerie spagnola e pontificia, giunta la notizia dell’accaduto, esultarono, convinte che la Francia fosse tornata nel novero delle potenze cattoliche. Tuttavia, Carlo IX non aveva alcuna intenzione di troncare i rapporti con Inghilterra e con l’Impero degli Stati protestanti: il cardinal legato Orsini – inviato dal Papa a Parigi per restaurare i vincoli di amicizia fra le due potenze – venne bruscamente congedato e rispedito a Roma. Sebbene avesse avuto un alto valore simbolico, la notte di San Bartolomeo non deviò il corso della politica estera francese. 4 Tre Enrichi fra “politiques” e monarcomachi 1.1. |Quarta guerra civile (fine agosto 1572-giugno/luglio 1573) | Con la notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572) si giunse alla quarta guerra civile francese. Le truppe cattoliche, infervorate dai risultati della strage, assediarono la roccaforte della Rochelle per diversi mesi, ma senza ottenere grandi risultati. Nel giugno 1573, il comandante delle forze assedianti, nonché fratello di Carlo IX, Enrico d’Angiò Valois, ricevette la notizia della sua elezione a Re di Polonia, ove si estinse la dinastia degli Jagelloni. Un’elezione che può ad un primo sguardo sembrare sorprendente, visti i fugaci e labili rapporti intercorrenti fra i due regni, Francia e Polonia. Anche questa volta fu la reggente ad intervenire: la Dieta polacca – assemblea delle aristocrazie del regno – impose il ritorno alla monarchia elettiva e tra i tanti successori della dinastia Jagellone – le linee austriaca e russa – si impose la linea francese in quanto Caterina de’ Medici inviò il vescovo di Valence, Jean de Montluc, al fine di contrattare in qualità di ambasciatore straordinario con i nobili polacchi per sostenere l’elezione al trono del figlio. L’elezione di Enrico d’Angiò al trono polacco risultò miracolosa per gli assediati della Rochelle poiché il governo francese – per non urtare la sensibilità ugonotta dei nuovi alleati polacchi – decise di smobilitare le proprie truppe dalla roccaforte in questione. Un nuovo accordo di pace concretizzò quanto detto: i protestanti avrebbero mantenuto la fortezza di Rochelle, nonché quelle non assediate di Nimes e Montauban, e chiesero la garanzia del riconoscimento della libertà di culto in tutto il regno. Tali accordi non mutarono lo scenario di guerra nelle regioni del sud della Francia, dove si costituì un ‘organizzazione politico-militare ugonotta: l’Unione dei protestanti del Midi. Ciononostante, si cercò nuovamente di favorire la politica di equilibrio, promossa in passato da de l’Hospital, incoraggiata, ora, da impavidi segni di moderazione da entrambe le parti: Enrico di Borbone – divenuto Re di Navarra alla morte della madre – sembrò riavvicinarsi al cattolicesimo e Carlo IX – sebbene rimanesse una personalità ambigua ed indecifrabile sul piano religioso – era prossimo alla morte. Per di più, una parte dei fedeli cattolici e protestanti – messe da parte le vessazioni finora subite – decisero di unirsi nel cosiddetto partito dei Politiques, il quale radunava tutti quegli ugonotti moderati che chiedevano solo tutela e rispetto nello Stato, e tutti quei cattolici – di fatto definiti “scontenti” dall’ala radicale – che volevano ricondurre la monarchia alla sua posizione super partes di pacificazione e riunificazione nazionale nelle dispute religiose. I Politiques diedero sviluppo ad una folta libellistica, per la maggior parte tesa a criticare la posizione – giudicata autoritaria e malvagia – rivestita dalla reggente Caterina de’ Medici durante il corso delle guerre civili. Veniva accusata di aver introdotto la cultura del “machiavellismo italiano”, fatta di tradimenti e di inganni, nel regno francese – basti pensare all’ordine che la reggente diede per inaugurare la notte di San Bartolomeo -. I politiques, assieme a Francesco d’Alençon, Enrico di Borbone-Navarra e Luigi di Borbone Condé, tentarono invano di ribellarsi alla reggente: vennero infatti arrestati Enrico e Francesco, mentre Luigi di Borbone Condé riuscì a fuggire. Intanto, il 20 maggio 1574, moriva Carlo IX 1.2. |Quinta guerra civile (giugno 1575-maggio 1576) | Mentre ritornava dalla Polonia, Enrico d’Angiò Valois, figlio di Caterina de’ Medici (*), il quale, il 13 febbraio 1575 divenne sovrano di Francia col nome di Enrico III d’Angiò Valois, nel giugno 1575 ripresero le iniziative militari ugonotte. (*) (N.B. Ricapitolando, Caterina de’ Medici ebbe 4 figli: Francesco II, sovrano successore di Francesco I, morto nel 1560; Carlo IX, successore di Francesco II, morto nel 1574; Enrico III d'Angiò-Valois, successore di Carlo IX e morto nel 1589; Francesco d'Alençon, morto nel 1584). Il nuovo sovrano trovò la patria in condizioni disastrose – sia dal punto di vista sociale che economico – e, in quanto inerte e vigliacco caratterialmente, non si dimostrò capace di porre fine alle tensioni ed ai conflitti: la guerra dilagò nel Midi, passando alla guerriglia popolare. Gli ugonotti avanzarono delle proposte di tregua al sovrano, e cioè chiesero la liberazione dei prigionieri e la professione di fede libera in tutto il regno. Tuttavia, Enrico III le respinse. La situazione precipitò, portando alla formazione di una coalizione anticattolica nel marzo-aprile 1576, costituita da Francesco d’Alençon – fuggito dalla corte e passato dalla parte dei protestanti -, Enrico di Borbone-Navarra, Luigi di Borbone-Condé e Giovanni Casimiro del Palatinato, con le sue truppe al seguito. Venne avviata l’invasione dalla regione della Lorena (nord-est) in tutta la Francia. Nel giro di due mesi, le truppe ugonotte raggiunsero e assediarono Parigi. Il 6 maggio 1576 venne stipulata la Pace di Beaulie, la quale fu un vero e proprio trionfo ugonotto che impose dure condizioni di pace ad Enrico III: a partire dalla convocazione degli Stati generali, venne imposta la libertà di culto in tutto il regno, esclusa Parigi; venne prevista l’istituzione di tribunali misti per le cause religiose, nonché la restituzione dei beni confiscati agli ugonotti, in cambio della promessa di questi ultimi di ricominciare a pagare le decime ecclesiastiche ed infine venne stabilito che Condé divenisse governatore della Piccardia e responsabile delle roccaforti dell’Unione protestante. Lo sdegno del pontefice per questa pace “draconiana” fu ovviamente massimo. A Parigi il fervore religioso anti- ugonotto si concretizzò nella formazione della Lega Cattolica, capeggiata da Enrico di Guisa, eroe e idolo delle folle cattoliche. Ancora una volta la capitale vide la diffusione a macchia d’olio di opuscol i, giornali, pamphlet, in cui si osannava al cattolicesimo e alla restaurazione dell’unità monarchica. A tal proposito, intervenne uno degli appartenenti al gruppo dei Politiques, il giurista francese, Jean Bordini, secondo il quale la società francese, al momento, aveva bisogno di un ritorno ad uno Stato centralizzato ed assolutista, in grado di imporsi sul caos e sul disordine in cui versava il tessuto sociale. Questo nuovo Stato avrebbe dovuto avere come guida un sovrano adeguato, autoritario ma anche rispettoso dei diritti del popolo e dei diritti divini. di Borbone –. Alla notizia, Parigi e le maggiori città dello Stato insorsero: una rivolta generale si accanì contro il sovrano. I due Enrichi vollero, di comune accordo, porre fine alla rivolta parigina, ma il 1° agosto 1589, un frate domenicano, Jacques Clement, assassinò Enrico III. Si dissolse la dinastia dei Valois e la Francia perse il proprio sovrano. 5 Enrico IV: il contrastato avvio della ricostruzione La questione dinastica prodotta dall’estinzione dei Valois si presentò più complicata del previsto poiché, da una parte, Enrico di Borbone-Navarra non avrebbe potuto cingere la corona sul capo se Sisto V non avesse ritirato la bolla che lo interdiceva dalla successione; dall’altra i cattolici aveva già acclamato il cardinale Carlo di Borbone come legittimo sovrano, ma quest’ultimo, nel maggio 1590, morì. La situazione mutuò a favore del pretendente ugonotto: Enrico circondò la capitale – piena di cattolici – e ne tagliò i rifornimenti, successivamente, a Tours, venne riconosciuto per la prima volta come nuovo sovrano francese dall’ambasceria veneziana. Divenne, allora, Enrico IV di Francia. Filippo II si affrettò ad inviare truppe in aiuto ai cattolici nella capitale e alla Lega Santa – ora capeggiata da Carlo di Guisa, duca di Mayenne nonché fratello del defunto Enrico di Guisa -. I due schieramenti si scontrarono, nel marzo 1590, a Ivry, dove ebbe la meglio Enrico IV. Frattempo, a Parigi, si era creato un governo provvisorio, composto da 16 dirigenti leghisti (ligueurs), 4 per ogni quartiere della città. Il destino della Capitale sembrava segnato. Tuttavia, il popolo parigino si compattò ancor di più: l’assedio che coinvolse la città a partire dall’aprile 1590 provocò la morte di molti, stremati dalla fame e dalle malattie. I dirigenti leghisti giunsero all’elaborazione del diritto di deposizione e all’esaltazione del diritto di elezione rispetto alla trasmissione ereditaria della sovranità. Nazionalismo e radicalismo democratico si unirono dando vita ad un crogiolo rivoluzionario: nel novembre del 1591, i 16 dirigenti diedero vita al comitato rivoluzionario e prepararono l’insurrezione generale contro gli invasori. Dal nord, dalle regioni olandesi discese Alessandro Farnese – richiamato da Filippo II – a dar man forte ai cattolici assediati. Riuscì a smobilitare l’assedio di Enrico IV. Si assistette ad una serie scontri di ogni tipo e tra ogni corrente – leghisti, cattolici moderati, ugonotti, truppe straniere ecc. –: la guerra civile fu totale. Ormai straziato da 30 anni di guerra, lo Stato francese non poteva far altro che stringersi attorno all’unico sovrano riconosciuto legittimo per ricostituire la pace: Enrico IV di Francia, il quale sconfiggendo Farnese, recuperò la fiducia della borghesia e della nobiltà, entrambe stremate da anni di conflitti infruttuosi sia sul piano economico sia sul piano della sicurezza. Carlo di Guisa, anch’egli sconfitto ed isolato, decise di scendere a patti col sovrano, chiedendogli la conversione al cattolicesimo. Enrico IV, tuttavia, rifiutò la richiesta e convocò gli Stati Generali per gennaio (1593) a Parigi. In queste circostanze, iniziò a diffondersi la voce dell’abiura protestante e della conversione al cattolicesimo del sovrano. La diceria divenne realtà quando venne annunciata dall’arcivescovo di Bourges, nel luglio 1593. Nel febbraio 1594 si procedette alla consacrazione di Enrico IV. Per bloccare sul nascere ogni eventuale velleità anticattolica, il sovrano concesse agli ugonotti il ripristino delle clausole della pace di Bergerac del novembre 1577. Finalmente, il 22 marzo 1594, Enrico IV entrò trionfalmente a Parigi. Tuttavia, ereditò una Francia disastrata e difficilmente recuperabile, anche perché Spagna e Santa Sede non erano rimaste a guardare Enrico IV riacquistare la propria influenza e la propria autorità. In sequenza, Urbano VI – cui pontificato durò appena 12 giorni (settembre 1590) –; Gregorio XIV (1590-91), Innocenzo XI – cui pontificato durò appena due mesi (ottobre-dicembre 1591) – confermarono la scomunica di Enrico IV, aizzati dal “partito spagnolo” presente presso la corte pontificia. Solo con Papa Clemente VIII (1592-1605) venne adottata una nuova politica di equilibrio che però, nel momento in cui un gruppo di gesuiti attentò la vita del re (probabilmente su invito del partito spagnolo), sembrò incrinarsi. Ad ogni modo, le trattative si conclusero nell’agosto 1595: venne annullata l’assoluzione episcopale avuta dal re a Saint-Denis (luglio1593) dall’arcivescovo di Bourges e al suo posto prevalse l’assoluzione papale; inoltre, Enrico IV prese l’impegno di applicare i decreti tridentini e di educare il figlio al cattolicesimo, nonché di mantenere in vita il concordato del 1516 e di nominare i vescovi, escludendo gli ugonotti. Intanto, anche gli ultimi focolai della guerra si spensero. I partigiani dei Guisa e una minoranza di ligueurs vennero fatti prigionieri in Borgogna e con essi anche lo stesso Carlo di Guisa – il quale però venne rimesso in libertà quando venne ufficialmente sciolta la Lega cattolica (gennaio 1596). Al nord, le truppe spagnole erano riuscite a conquistare Cambrai e Calais, il sovrano allora accettò anche l’aiuto ugonotto per abbattere le ultime resistenze spagnole. I protestanti non si accontentarono del mantenimento delle clausole della pace di Bergerac, chiedendo di più: Enrico IV non poté far altro che accontentare suddette richieste – anche per scongiurare la possibilità di eventuali e nuove guerre di religione – e quindi, sconfessò in parte gli accordi intrapresi con pontefice nell’agosto del 1595. Il 15 aprile 1598 venne emanato l’Editto di Nantes, il quale sancì quanto segue: 1. Venne ristabilito, laddove fosse stato dismesso, con la restituzione dei beni ecclesiastici espropriati ai protestanti; 2. Venne consentito il culto calvinista, ad esclusione di Parigi e laddove alloggiasse la Corte; 3. Venne concesso ai protestanti di accedere alle cariche pubbliche, alle università e venne anche concessa loro la gestione dei luoghi di istruzione; 4. In ultimo, fu concesso ai protestanti di occupare circa 80 roccaforti per 8 anni, addossando le spese di mantenimento sull’erario pubblico. Clero gallicano e Parlamento parigino protestarono contro le disposizioni di tale Editto, pertanto, il re concesse loro la non-applicazione dei decreti tridentini. Infine – una volta risolte le questioni rimaste in sospeso con la Spagna con la Pace di Vervins del 2 maggio 1598, la quale riconfermò semplicemente quanto stabilito da Cateau- Cambrésis nel 1559 (vedere cap. 6, par. 6) aggiungendo solo la conquista di Calais – le guerre civili francesi volsero finalmente al termine. Capitolo 10 - Dai contrasti confessionali alla guerra dei Trent’anni 1 Due destini opposti: la Spagna e le Province Unite Il sistema internazionale europeo sembrava essersi stabilizzato alla fine del XVI secolo, dopo decenni di guerre intestine, religiose e territoriali: si era giunti alla pace di Vervins (Spagna e Francia, 1598), pace di Somerset House (Spagna e Inghilterra, 1604) e alla Tregua dei 12 anni (Spagna e Provincie Unite, 1609). Tuttavia, la stabilizzazione politica si rivelò ben presto effimera: esagerata era la precarietà delle relazioni diplomatiche tra le potenze protestanti e cattoliche, in quanto le prime accentuarono i processi di chiusura dogmatica e istituzionale già tracciati con fra il luteranesimo ortodosso e i settarismi estremi; le seconde abbandonarono le residue posizioni moderate ed erasmiane per affidarsi definitivamente ai rigorosi ideali della Controriforma. Inoltre, altro elemento di contrasto tra gli Stati europei divenne l'affermazione degli interessi economici, i quali si intrecciarono con i contrasti confessionali. Spagna La Spagna controriformista di Filippo III, appena ventenne quando salì al trono, era ancora potentissima grazie alla robustezza del suo esercito, il più numeroso d'Europa; alla sua marina, ricostituitasi dopo la disfatta dell'Invincibile Armada e ai suoi possedimenti coloniali, dai quali continuarono a provenire rilevanti quantità di metalli preziosi. Tuttavia, l'economia era tutt'altro che florida: la bancarotta del 1607 confermò le difficoltà ispaniche di far fronte alla crescente concorrenza anglo-olandese negli oceani. La società spagnola in questo ambito non fornì molta assistenza: sedotta dai valori dell'onore, della purezza di sangue, del cattolicesimo rigoroso e controriformistico, la comunità sociale serrò i ranghi e accolse con gioia l'espulsione dei Moriscos dalla penisola iberica (1609-14), la quale coinvolse circa 300.000 persone e depresse ancor di più l'economia spagnola, ora priva delle migliori attività mercantili e manifatturiere. I mori, infatti, rappresentavano ormai uno degli strati economicamente più dinamici. All’urgenza di realizzare ampie riforme economiche, politiche ed amministrative del resto non mancarono di dar corpo una quantità, persino eccessiva, di scrittori di politica ed economia, i cosiddetti arbitristas (“suggeritori di proposte”), che per tutto il secolo tempestarono il governo di suggerimenti tesi a superare lo stato di endemica crisi della corona e della società spagnola. In alcuni casi prospettarono soluzioni teoricamente efficaci, come il taglio delle spese pubbliche. In altri, avanzarono idee palesemente assurde, che non permettevano alcuna evoluzione del sistema politico-istituzionale spagnolo, che, anzi, rimaneva ancorato al vetusto e pachidermico sistema dei Consigli di Governo, governati da personalità corrotte e insensibili ai concreti problemi sociali. Si cercò di riformarlo, attraverso l'impostazione di comitati ministeriali più ristretti (Juntas) addetti alle questioni amministrative, ma anch'essi si rivelarono corrotti e suscettibili di clientelismo. La svalutazione della moneta (introduzione del Biglione), la ripartizione dei tributi fiscali e la vendita degli uffici burocratici e giurisdizionali furono tutte mosse ispirate dal consigliere personale del Re, il duca di Lerma, uomo corrotte con intenti antitetici, ma si rivelarono inefficaci: il duca venne ucciso in una congiura da suo figlio, il duca di Uceda. Filippo III morì nel 1621 e gli successe suo figlio Filippo IV (1621-65), il quale però non ebbe mai un carattere così deciso da non lasciarsi influenzare dall'aristocrazia e, in particolare, dal duca di Olivares, Gaspar de Guzman: egli cercò di riportare lo Stato spagnolo al vertice delle gerarchie europee, tentando di rendere operative le riforme proposte dal Duca di Lerma ma mai attuate. L'impegno bellico internazionale e le riforme interne costituirono dunque per il duca due facce di un unico progetto di mobilitazione delle risorse nazionali, nel quadro di un nuovo equilibrio tra autorità centrale e realtà particolaristiche dei regni. In parole povere, si cercò di intensificare l'assolutismo centralistico della corona, compensandolo però con la salvaguardia dei singoli regni nei limiti ed in funzione dell'interesse generale e collettivo. Tuttavia, questo nuovo equilibrio non Il potere della Dieta assembleare era quindi molto forte: essa deteneva il diritto di eleggere i sovrani e un esteso potere legislativo. Con Sigismondo e Sigismondo II il potere nobiliare si acuì ancora di più nel momento in cui s'introdusse, negli anni 60 del '500, la prassi che le deliberazioni assembleari potessero essere prese soltanto all'unanimità. Nel 1572 la morte dell'ultimo erede della dinastia Jagellonica comportò la decisione di ripristinare il trono elettivo e venne incoronato Enrico di Valois-Angio, impegnato nelle sanguinose guerre civili in Francia, ma pochi mesi dopo l'incoronazione, nel giugno del '74 tornò in Francia per cingere la corona transalpina, lasciando quella polacca preda del potere nobiliare. Sicché nuovo re divenne Stefano I Bathory di Transilvania (1575-86) che tuttavia non modificò la preponderanza nobiliare nel regno. Fu in questo contesto che giunse lo svedese Sigismondo III Vasa ad assumersi la responsabilità monarchica. Sullo sfondo di questo disordine interno, proprio nell'arco di anni compreso tra l'incoronazione di Sigismondo II e la fine del suo regno segnò l'apogeo della potenza polacca e insieme l'inizio del suo declino. Proprio in quegli anni infatti la Polonia raggiunse il vertice della sua vitalità economica e della sua forza politica. Essa era considerata il “granaio d'Europa” e la maggior parte dei traffici internazionali agricoli passavano per esso. Ormai Stato divenuto smisurato con l'Unione di Lublino del 1569 (Confederazione Polacco-Lituana) e che proprio in quegli anni estendeva i privilegi economici giuridici e politici alla nobiltà polacca-lituana. In quanto compagine molto estesa, era doveroso per i sovrani polacchi assumere un atteggiamento di tolleranza rivolta a tutte le religioni minori, quali l'ebraismo e il protestantesimo. La tolleranza tuttavia, rimase strettamente intrecciata ai privilegi nobiliari, come dimostrano la Pacta conventa e la pax dissidentium stipulate a Varsavia nel 1573, con cui la nobiltà si garantiva una libertà di culto che però veniva negata ai contadini. Fu in questo scenario di libertà di culto e privilegio nobiliare che Sigismundo III cercò di avviare un svolta assolutistica e controriformista, favorita dalla duplice circostanza che il culto cattolico era rimasto la religione ufficiale dello Stato e che i cattolici erano convinti sostenitori dell’autorità regia in contrapposizione ai protestanti, in genere difensori dell’autonomia dei ceti nobiliari. Durante questi regni si sviluppò l'azione di evangelizzazione promossa da Gregorio XIII, affidata al gesuita Antonio Possevino. L'azione era tesa a ricomporre le divergenze polacco-svedesi sul Baltico per riconsegnare quest'area al blocco asburgico e cementare così un nuova unità cristiana, volta a bloccare l'espansionismo turco a est. Nondimeno, l'unificazione delle corone polacca e svedese produsse i primi problemi di carattere religioso nell'area baltica, in quanto i nobili svedesi luterani rifiutarono sin da subito l'idea di un sovrano cattolico che li governasse, e l'ostilità si riunì nella persona di Carlo di Sodermanland Vasa, ultimo figlio di re Gustavo I: nel 1600 il Riksdag deponeva Sigismondo III e 4 anni dopo saliva al trono svedese Carlo IX Vasa. Dunque non si formò lo schieramento cattolico auspicato da Gregorio XIII dalla Scandinavia all'Italia. Ma a questo parziale fallimento tentò di rimediare la cattolica Danimarca di Cristiano IV, con l'attacco agli svedesi in Lapponia e nel Mar Baltico (la Guerra di Kalmar, terminata nel 1613 con la pace di Knared che sanciva la cessione di alcuni territori norvegesi ai danesi). Russia L'Impero Moscovita alla fine del XVI secolo aveva iniziato a premere sulle coste dell'Estonia e della Livonia, mentre lo Stato si andava sviluppando sotto il primo Zar di Russia Ivan IV il terribile (1533-1584), succeduto a Ivan III e Basilio. Plasmato anch'esso da pretese di dominio universalistico, così come l'impero asburgico e quello ottomano, nominata Mosca come Terza Roma, l'Impero zarista si era rafforzato sia a sud che a ovest, dove aveva ripreso a spingere per ottenere uno sbocco sul Baltico. Riorganizzati l'esercito e le finanze, Ivan il terribile avviò una politica assolutistica nei confronti dell'aristocrazia boiarda, detentrice di molti feudi ereditari e da sempre ribelle nei confronti dell'autoritarismo russo: divise il territorio russo in due parti, una comprendente le terre pertinenti allo Zar, da cui furono espulsi tutti i boiari, e le loro terre furono confiscate e consegnate alla piccola nobiltà, che divenne una fedele alleata della corona. La seconda parte del territorio era destinata proprio ai Boiari, trapiantatisi con la forza militare. Fu ribadita l'imposizione della servitù della gleba sui contadini. Cosicché Ivan poté dedicarsi all'espansionismo in Occidente (idealmente giustificato dalla tesi che tedeschi e lituani non fossero cristiani), che però venne bloccato da una coalizione formata da svedesi, danesi e polacchi, con i quali lo Zar arrivò a patti nel 1583, con la pace di Yam Zapolski (la Svezia otteneva l'Estonia e la Polonia la Livonia). I fallimentari risultati di questa guerra per il Baltico si sommarono all’esplodere di una grave cris i economica dovuta alle devastazioni provocate nelle campagne dalla deportazione dei Boiari, per l'inasprimento fiscale e per le frequenti carestie che misero in ginocchio migliaia di contadini. Alla morte di Ivan IV gli successe Teodoro I (1584-1598) con il quale si limitò l'espansionismo a occidente. Al termine del suo regno l'Impero fu segnato da una crisi dinastica innescata dalla nomina a successore di Teodoro di un potente boiaro imparentato con la zarina, Boris I Godunov (1598-1605), il quale venne accusato subito di aver assassinato il fratello di Teodoro, Dimitri (accusa probabilmente falsa). In seguito, un impostore sotto il falso nome di Dimitri, sostenendo di essere proprio il legittimo erede al trono, cercò di spodestare Godunov il quale venne assassinato nel 1605 insieme al figlio. Lo stesso Dimitri rimase ucciso in una congiura di boiari ribelli e nel 1606 venne incoronato Zar Basilio Sujkij, il quale venne poi sfiduciato e dichiarato decaduto nel 1610 da Sigismondo III. Un’assemblea designava nuovo Zar di Russia suo figlio Ladislao. Si andava così configurando l'incredibile unione della corona polacca con quella russa, ma la presenza di un re straniero suscitò la nascita di un forte sentimento di riscossa nazionale che portò alla cacciata delle truppe polacche dai territori russi e alla designazione a nuovo Zar di Russia Michele I Romanov, imparentato con Ivan il Terribile. Primo intervento in politica estera del nuovo Zar fu la stipulazione dei trattato di Stolbovo (1617), con cui la Russia cedeva alla Svezia di Gustavo II Adolfo Vasa la Carelia e confermava il possesso dell'Estonia. Seguì poi la stipulazione del Trattato di Devlin con la Polonia, che rinunciava alle pretese di rivalsa sulla corona zarista. Tuttavia rimanevano aperte le tensioni fra Svezia e Polonia, con Sigismondo deciso a far valere i suoi diritti sulla corona svedese. Sul piano internazionale, il contrasto con la potenza svedese, sostenuto dalle potenze cattoliche, proseguì fino al 1629. 3 La crisi dell’Impero asburgico e la guerra europea Nell'Impero, dopo la pace di Augusta del 1555 e il fallimento del modello centralistico tentato da Carlo V, il governo effettivo alla fine del XVI secolo era nelle mani degli stati territoriali i quali contribuivano proporzionalmente alla formazione dell'esercito. Un ventennio di relativa stabilità, garantita soprattutto grazie al compromesso di Augusta, consentì di avviare un processo di modernizzazione. Tuttavia, non mancavano forti elementi di squilibrio e di debolezza. Tali rimanevano, anzitutto, le diversità dei diritti vantati dagli Asburgo sui paesi che formavano i loro domini: i diritti dinastici negli Stati ereditari (Austria, Stiria, Carinzia, Carniola e Tirolo), diritti elettorali per le corone di Boemia e di Ungheria e per quella imperiale. Per superare questa situazione e garantirsi la continuità della dinastia, l’imperatore Ferdinando I (fratello minore di Carlo V) nominò il figlio Massimiliano re di Boemia e di Ungheria e re de Romani. Quando questi divenne Kaiser dell'Impero col nome di Massimiliano II, egli terminò l'opera di riordinamento territoriale avviata dal padre: 1) concesse i territori della Stiria, Carinzia e Carniola al fratello Carlo II; 2) all'altro fratello, Ferdinando, assegnò la regione del Tirolo e lo rese arciduca d'Austria; 3) al figlio primogenito, Rodolfo, concesse il titolo di Re di Boemia-Ungheria. Inoltre si cercò di seguire la linea della tolleranza religiosa tracciata da Augusta, sviluppatasi con la pubblicazione della Declaratio Ferdinandea, un provvedimento imperiale che aveva accompagnato la pace di Augusta e con il quale si autorizzavano città e feudatari dei principati ecclesiastici cattolici a praticare il culto luterano. Ma ormai la linea di netta divisione dei fronti religiosi appariva inevitabile, anche perché in tutto l’Impero il consolidamento interno dei singoli Stati si andava realizzando in larga parte proprio in virtù di quel principio del cuius regio, eius religio fissato ad Augusta e che aveva sancito la territorializzazione e confessionalizzazione delle fedi religiose, favorendo l’irrigidimento delle chiese protestanti, sempre più legate al potere dei principi e sempre meno disposte ad affrontare dibattiti religiosi. Gli stati cattolici non rimasero a guardare: l'azione controriformistica dei Gesuiti proseguiva sotto la protezione degli Asburgo. Cuore della cultura cattolica fu la Baviera della dinastia Wittelsbach, che assumendo la funzione di baluardo della Controriforma tedesca, riuscì ad acquistare un peso politico alternativo a quello degli Asburgo con i quali era da sempre in concorrenza. Il Duca Alberto V inaugurò così un corso aspramente controriformistico, ordinando l’espulsione dei dissidenti. Questa politica fu proseguita dai successori. Fu proprio in concomitanza con lo sviluppo di questi processi di rafforzamento interno degli Stati e di creazione di un rigido sistema confessionale che maturarono, tra la metà del XVI e l'inizio del XVII secolo, le condizioni per la nascita di nuovi schieramenti politici e ideologici da cui sarebbe scaturita una crisi generale poi esplosa con la guerra dei Trent’anni. Infatti, diverse cause avrebbero poi aiutato a infiammare la guerra: il mancato riconoscimento del Calvinismo come religione ufficiale nella pace di Augusta; la necessità del Luteranesimo di riaggiustare i propri fondamenti dottrinali dinanzi alla diffusione del Calvinismo; e la volontà dei cattolici di ribadire la loro superiorità confessionale. Le polemiche ideologiche in seno allo schieramento protestante non frenarono. Dopo la morte di Lutero, la guida del luteranesimo fu assunta dal suo braccio destro, Filippo Melantone. A seguito della morte di anche quest’ultimo (1560) i seguaci di Melantone formarono un nuovo gruppo dottrinario, i c.d. Filippisti; mentre gli altri si unirono nel gruppo dei c.d. Gnesioluterani, poiché si ritenevano gli unici luterani legittimi, in quanto discepoli di Lutero stesso. L'ortodossia luterana venne poi ricomposta nel 1580, con la pubblicazione del Libro di Concordia nel quale si raccolsero tutti i testi attorno ai quali si riconoscevano le chiese luterane. Con questo testo il luteranesimo, seppur al prezzo di una chiusura istituzionale, ritrovò la sua omogeneità, sconfessando ogni possibile compromesso con le sette estreme e il calvinismo. Quest'ultimo intanto fece nuovi proseliti in alcune regioni tedesche, quali il Palatinato (con il conte Giovanni Casimiro, 1611-52), l'Assia-Kassel (sotto il margravio Maurizio, 1572-1632) e il Brandeburgo, di Giovanni Sigismondo Hohenzollern (1608-19). I processi di confessionalizzazione e burocratizzazione attuati negli Stati tedeschi aiutarono le irrobustite istituzioni politico-amministrative a soggiogare le città e i ceti più dinamici e autonomi. Negli Stati protestanti ciò avvenne con il connubio delle autorità religiose e con la secolarizzazione dei beni ecclesiastici. In quel li cattolici invece l'azione dei burocrati indirizzata ad acquisire il monopolio di ogni settore della vita sociale dello Stato (istruzione, sanità, assistenza sociale, giustizia, ecc.) era profondamente influenzata dalla Chiesa Romana. Eppure, la confessionalizzazione tedesca non risultò soltanto un processo positivo: determinò squilibri tali da causare alla fine la crisi di un sistema il cui punto criticò stava nella sproporzione tra frammentazione ● Ferdinando di Stiria, diventando Ferdinando II Imperatore del Sacro Romano Impero (1619-37) alla morte di Mattia, avrebbe governato sulle terre ereditarie asburgiche e avrebbe ottenuto anche la corona boemo-ungherese. Oltre al già menzionato titolo imperiale; la corona boema venne “indossata” da Ferdinando nel giugno 1617; ● Filippo III di Spagna avrebbe rinunciato definitivamente ai suoi diritti sulla monarchia austriaca, ottenendo però diritti imperiali sull'Alsazia e sull'Ortenau e in Italia settentrionale. Filippo III avrebbe beneficiato di questi territori in quanto collegavano la Lombardia spagnola attraverso le Alpi. In Boemia Ferdinando (ancora Ferdinando III di Stiria), cattolico intransigente, sconfessò la Lettera di Maestà concessa da Rodolfo ai protestanti, impedendo le riunioni ai Difensori della fede (mentre intanto aveva trasferito la capitale a Vienna, lasciando a Praga un consiglio di reggenza prevalentemente cattolico): i Difensori protestanti inviarono a Praga due luogotenenti con una lettera di protesta da consegnare al sovrano, ma essi non vennero nemmeno ascoltati e lanciati dalla finestra ( Defenestrazione di Praga, 23 maggio 1618). Questo scabroso evento, la “scintilla” della Guerra dei 30 anni, provocò l’arruolamento di un esercito e la rivolta immediata dei protestanti boemi - che si riunirono in una Dieta -. Un anno dopo, la morte di Mattia consentì finalmente il compimento del progetto politico asburgico: Ferdinando venne eletto Imperatore (agosto 1619) e riunì tutti i domini asburgici fin allora separati dalle divisioni ereditari, così come pattuito nel marzo 1617. Il conseguente rifiuto dei boemi di riconoscere il nuovo imperatore consentì al principe elettore calvinista Federico V del Palatinato di assumere finalmente il ruolo di aperto antagonista della corona asburgica, accettando l’elezione da parte della Dieta ceca a re di Boemia. Vi erano due re di Boemia, Ferdinando e Federico V): così si concretizzarono le alleanze tra i 2 schieramenti politico-religiosi europei, protestanti e cattolici ed ebbe inizio la famosa Guerra dei 30 anni . Questa non fu una guerra unitaria e continua, ma piuttosto è da considerare come un insieme di conflitti separati e inframezzati da paci e tregue. Un dato comune di questa guerra fu il rinnovato confronto franco- asburgico iniziato dai primi anni del '500. L'Unione evangelica protestante intanto stava perdendo i primi pezzi: il Brandeburgo se ne staccò e la Sassonia addirittura passò dalla parte opposta, con l'Imperatore, in cambio della Lusazia. Le prime vittorie militari furono riportate dai Leghisti cattolici i quali costrinsero i protestanti alla Pace di Ulm del luglio 1620. Grazie a questa prima vittoria, nonostante i rifornimenti provenienti dalla Transilvania per le truppe protestanti boeme, quest'ultime vennero nuovamente sconfitte nella grande battaglia della Montagna Bianca (novembre 1620), vicino Praga, dalle truppe cattoliche del conte di Tilly. Le conseguenze furono disastrose per i protestanti: l'Unione evangelica si dissolse nel 1621, il Palatinato venne invaso dalle truppe spagnole di Ambrogio Spinola e lo stato diviso fra Ferdinando II e Massimiliano II di Baviera, il quale assunse anche l'onore di principe elettore. L'ordine venne riportato in Boemia, che perse l'indipendenza insieme alla sua Dieta, con una violenta repressione e lo stesso accadeva in Ungheria: in entrambi gli stati veniva ristabilito il cattolicesimo come religione ufficiale. 4 La guerra dei Trent’anni: dall’Italia al Baltico Come in passato, la lotta egemonica franco-spagnola ritrovava uno dei suoi baricentri nell’Italia settentrionale. Lo scontro si infervorò nel 1615, quando scoppiò un primo conflitto tra Repubblica Veneta e Asburgo d'Austria, per il controllo del mare Adriatico, conflitto poi conclusosi nel 1617 con la pace di Madrid, la quale non comportò modifiche territoriali. In funzione anti-asburgica, e quindi indirettamente legati alla Francia, vi erano 1) il Granducato di Toscana, dal momento in cui la nipote del granduca Ferdinando I, Maria de' Medici, era andata in sposa al re francese Enrico IV; e poi 2) il Ducato di Savoia, che era uscito da quella condizione di Stato cuscinetto tra Francia e Spagna (nell'Italia settentrionale) che le era stata data con la pace di Cateau-Cambresis (1559): con il nuovo duca Carlo Emanuele I, il Ducato si ampliò territorialmente (annessione di diversi territori), privilegiando definitivamente i territori italiani rispetto a quelli d'oltralpe. Fu proprio questo il motivo che li condusse a scontrarsi con gli spagnoli di Milano e ad avvicinarsi ai francesi. Inoltre lo scontro si approfondì nel momento in cui si scatenò la disputa riguardo il controllo del Monferrato (dal 1536 in mano ai Gonzaga), riaperta con la morte di Francesco IV Gonzaga: il conflitto (1614-17) venne portato vittoriosamente a termine dagli spagnoli. Altro motivo di scontro fu l’occupazione della Valtellina da parte del governatore spagnolo di Milano, con il pretesto di una rivolta cattolica contro il predominio calvinista. Immediata fu la reazione della Francia, che tuttavia preferì agire solo sul piano diplomatico, riuscendo alla fine a far riconsegnare la Valtellina ai Grigione (pace di Monçon, 1626). Qual era il vero motivo che si celava dietro il pretesto di occupare la Valtellina solo per liberare i cattolici sottomessi alla religione calvinista? Il fatto che quella regione, collocata tra il Tirolo austriaco e la Lombardia spagnola, avrebbe funto da cinghia di trasmissione fra la Spagna, gli Asburgo d'Austria e i Paesi Bassi. Altra area essenziale per le sorti della guerra, sta volta in funzione anti-asburgica e anticattolica, sarebbe risultata l'area baltica: negli anni 20 del '600, efficace era stata l'offensiva svedese contro la potenza cattolica polacco-lituana, che perse molti possedimenti (Livonia, Curlandia e parte della Prussia orientale) fino alla tregua di Altmark del '29. Alla metà degli anni 20 del XVII secolo si contrapponevano dunque 2 diversi progetti di strutturazione del continente europeo: - il disegno ispanico-imperiale di un blocco contro gli Stati protestanti tedeschi e l'Olanda, che: ad est si estendesse dalla Polonia, con il suo sbocco sul Baltico, fino all'Ungheria, alla Transilvania e ad ovest si riunisse con la Spagna e i Paesi bassi attraverso l'indispensabile collegamento dei passi alpini della Valtellina e della Lombardia; - il disegno franco-olandese, ideato dal Cardinale Richelieu, che avrebbe configurato un Europa comprendente gli Stati protestanti tedeschi, insieme agli Stati che controllavano il Baltico, ossia la Danimarca e la Svezia. L’ago della bilancia divenne la Danimarca, ancora non schieratasi e rimasta nel limbo, in attesa di valutare le mosse a lei più congeniali: il re Cristiano IV stimò che l'Impero Asburgico avrebbe, prima o poi, attaccato il suo Stato, per guadagnarsi nuove sponde sul mar Baltico, in proiezione di un futuro scontro tra Svezia protestante e Impero cattolico. Inoltre il re danese era interessato ad alcuni vescovati tedeschi, tra cui quello di Brema, amministrato da suo figlio Federico. Così alla fine del 1625, stipulata l'alleanza con le Provincie Unite, l'Inghilterra e il principe del Palatinato Federico V, Cristiano invase la Germania l'anno dopo, ma venne sconfitto dalle truppe del nobile boemo Wallenstein prima a Dessau (aprile 1626) poi a Lutter ad opera del conte Tilly. In seguito all'occupazione dell'Holstein e della Pomerania, Cristiano firmò la pace di Lubecca (1629) con cui la Danimarca si estraniava dalla guerra. La guerra dunque sembrava volgere tutta a favore degli Asburgo, il controllo del Mare del Nord era infatti lì ad un passo. Ma la storia non va mai come deve andare. L’imperatore Ferdinando II prese 2 decisioni che piegarono gli eventi in direzione opposta: 1) l'emanazione dell'editto di restituzione (1629), il quale ristabilì l'operatività del reservatum ecclesiasticum, vietando le secolarizzazioni dei beni cattolici e ordinando quindi il ritorno alla Chiesa cattolica del patrimonio confiscato dai protestanti; 2) il generale Wallenstein venne nominato Principe del Mecleburgo e ottenne il potere di stipulare trattati. Entrambe queste scelte, prese dall'imperatore senza neanche consultare gli altri prìncipi tedeschi né la Dieta imperiale, comportarono la destabilizzazione della già precaria situazione interna tedesca: venne riunita, senza l'assenso imperiale, la Dieta di Ratisbona (1630), fomentata dalla diplomazia francese. La reazione dei principi non si fece attendere, respinsero la richiesta dell’imperatore di designare suo figlio Ferdinando al titolo successorio di Re dei Romani. Inoltre, ottennero la sospensione dell'editto di restituzione e lo scioglimento dell'esercito di Wallenstein, la “guardia armata” dell'Imperatore. In politica estera gli Stati tedeschi ostacolarono la lotta asburgica contro le Province Unite, che tra la fine degli anni 20 e l'inizio del 1630 conquistarono alcune aree strategiche (tra cui Venloo e Maastricht) grazie al loro comandante Federico Enrico d'Orange-Nassau. Mentre la Francia, sistemata definitivamente la questione religiosa con la caduta dell'ultima fortezza ugonotta (la Rochelle) nel '29, poteva ora dare vita al quadro anti- asburgico tanto desiderato stipulando un'alleanza con la Baviera cattolica. Sul fronte italiano: nel 1626 alla morte del duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga, seguì immediatamente quella del suo successore, Vincenzo II, che aveva designato come suo erede Carlo di Gonzaga-Nevers, del ramo francese della famiglia. Il duca di Savoia Carlo Emanuele I, però, voleva rivendicare per sé il Monferrato e si alleò con la Spagna per spartirsi con questa quel territorio e gli Stati gonzagheschi. Tuttavia, l’attacco si dissolse quando intervenne lo stesso re francese Luigi XIII, insieme a Venezia, sconfiggendo le truppe ispano-sabaude a Susa e imponendo la pace franco-asburgica di Ratisbona nel 1630, con la quale si risolse la questione gonzaghesca a favore dei Gonzaga-Nevers, riconosciuti duchi da Savoia e Spagna. Carlo Emanuele morì di febbre nel luglio di quell'anno, lasciando il difficile compito di gestire la sua fallimentare politica militare al figlio Vittorio Amedeo I. L'imperatore dovette richiamare le sue truppe italiane nel nord Europa, per fronteggiare l'offensiva svedese di Gustavo II Adolfo Vasa che, grazie agli accordi stretti con la Franca di Richelieu e alcuni Stati tedeschi ostili all'imperatore, ottenne una serie di vittorie militari importantissime grazie all’appoggio della Sassonia e di Brandeburgo, sul Tilly a Breitenfeld e sullo stesso generale Wallenstein a Lutzen nel novembre 1632. La vittoria sul Wallenstein però costò a Gustavo stesso la vita. Tramontava, inoltre, anche la stella del Wellenstein, che, forte dei poteri ricevuti, fra cui quello di stipulare trattati, concluse un armistizio con la Sassonia e prese contatti con la Francia e la stessa Svezia alle spalle dell’imperatore. Per questo motivo fu assassinato nel 1634. La Svezia, ora governata dal reggente cancelliere Oxestierna, riunì le forze tedesche rimanenti con il patto di Heilbronn (aprile 1633), ma venne sconfitto nel settembre 1634 dalle rinnovate truppe tedesche. Si costituì così una terza forza in Germania, composta dai principi protestanti tedeschi, tra cui il principe Giorgio di Sassonia e il principe di Brandeburgo, che firmò la pace di Praga con l'imperatore (30 maggio '35), con la quale si approvava l'inviolabilità territoriale dell'Impero, il ripristino dell'autorità della Dieta e l'abolizione dell'editto di restituzione, dando in cambio a Ferdinando II il riconoscimento dell'ereditarietà della corona boema. 5 L’intervento francese e la pace di Westfalia L’equilibrio raggiunto in Germania fu però ben presto rimesso in discussione. Anzitutto la pace di Praga aveva ancora una volta evitato di riconoscere il calvinismo come confessione autonoma. D’altra parte il fatto che fosse una pace prettamente tedesca era impensabile in un conflitto che ormai era diventato di dimensioni europee. La Francia, rimasta finora ai margini della guerra rispetto alle altre concorrenti a causa delle questioni interne relative agli ugonotti, poteva ora dispiegare il suo potenziale bellico in tutta la sua portata e mettere in ginocchio la resistenza asburgica. Dichiarata guerra agli spagnoli (19 maggio '35), Richelieu poteva ora unire tutte le potenze anti-asburgiche in una sola coalizione, comprendente Francia, Svezia, Olanda, Savoia, Ducati di Parma e Mantova. La guerra divenne totale: le flotte franco-spagnole si affrontarono nei mari, gli svedesi trionfarono a Wittstock (1636) e poi a Breitenfeld ('42) , gli olandesi distrussero la flotta spagnola a Dover, nella Manica. Pochissimi furono i successi asburgici: la Spagna di Filippo IV, o meglio, del duca di Olivares, visto il rilevante ruolo de facto assunto da quest'ultimo nella politica spagnola, stava ormai capitolando sotto i colpi della sua crisi e la pace generale divenne una necessità, piuttosto che un desiderio: 1. l'inasprimento fiscale in Portogallo e l'intensificarsi della sovranità spagnola negli affari lusitani non si rivelarono scelte che piacquero al popolo di Lisbona, che si ribellò prontamente nel 1637, supportato anche dai rifornimenti di Richelieu; conseguente riconoscimento della pluriconfessionalità religiosa nella storia moderna internazionale → nacquero le basi della grande politica europea come l'unico mezzo di confronto tra gli Stati sovrani, e benché la religione continuasse a rivestire una buona importanza politica, dopo il 1648 fu sostanzialmente rimossa come elemento generatore di conflitti politici e come fattore determinante nelle relazioni internazionali. L'età confessionale si era così definitivamente conclusa, lasciando spazio all'equilibrio politico europeo laicamente inteso, basato sul potere assoluto degli Stati, che ormai andavano sempre più modernizzandosi e burocratizzandosi, e sul diritto internazionale, il quale, d'ora in poi, avrebbe gestito le relazioni internazionali. Capitolo 11 - Francia e Inghilterra: assolutismi, rivolte e rivoluzioni 1 Uno stato da ricostruire: la Francia da Enrico IV a Richelieu Dal 1598, Enrico IV aveva gettato le basi per la ricostruzione dello Stato francese. Punto debole erano le finanze, che versavano nel caos. La moneta dal 1575 era separatamente coniata dalle azioni ligueurs e ugonotte, con conseguente crescita dell’inflazione. Non meno preoccupanti le condizioni dell’agricoltura. Altrettanto i commerci. L’opera di ricostruzione avviata da Enrico IV fu radicale, soprattutto nel settore delle finanze, affidate a Maximilien de Béthune, duca di Sully, che riuscì a riordinare il bilancio statale, introducendo nel 1602 una riforma monetaria che permise di riprendere la coniatura. Il ricorso all’alienazione delle cariche pubbliche rafforzò lo spirito esclusivo della noblesse de robe, cioè della casta dei magistrati e dei consiglieri che considerava l’ufficio rivestito come una proprietà privata. Ma legò anche gli interessi di questo ceto alla monarchia quando nel 1604 fu istituita una tassa regia, la celebre paulette (dal nome del funzionario Charles Paulet), in cambio della quale la corona consentì ai giudici di trasformare in patrimoni privati i loro uffici. Con ciò lo Stato guadagnava un’entrata regolare. Allo stesso modo l’agricoltura fu favorita dall’alleggerimento della taille. Furono inoltre create delle manifatture protette dal governo a carattere monopolistico. La politica industriale fu l’aspetto più rilevante dell’applicazione di un indirizzo economico noto come mercantilismo. Il termine, coniato da Adam Smith nel ‘700, indica un insieme di teorie cinque-seicentesche al centro delle quali si collocava la volontà di accrescere la ricchezza nazionale e la convinzione che questa dipendesse dalla crescita delle riserve monetarie; pertanto si riteneva necessario avere sempre in attivo la bilancia dei pagamenti e di conseguenza la bilancia commerciale. A questo fine si caldeggiava l’incremento delle esportazioni a danno delle importazioni e l’incentivazione della produzione locale. Sotto il nome di mercantilismo passa la stretta relazione tra la potenza di uno Stato e la sua ricchezza materiale. In questo modo, le politiche ispirate dal nazionalismo economico divennero dalla metà di quel secolo più sistematiche. Soprattutto in Inghilterra, presero forma le prime affermazioni mercantilistiche. Nel 1630 Thomas Mun, dirigente della Compagnia delle Indie Orientali, raccolse le teorie mercantiliste nel suo England Treasure by Foreign Trade che ribadiva l’importanza del commercio estero. Di qui l’insistenza su politiche protezionistiche miranti a tenere sotto controllo l’entità delle importazioni e a sostenere le attività mercantili di esportazione e quella manifatturiere necessarie ad avere prodotti da esportare. Tanto che Mun appariva consapevole dei rischi inflattivi. Teorie mercantilistiche con lo scopo dichiarato di assicurarsi cospicue quote del commercio internazionale vennero elaborate in Francia tra la metà del ‘500 e i primi del ‘600 dai tre principali scrittori di economia dell’epoca: Jean Bodin, Barthelemy De Laffemmas e Antoine De Montchrestien. In Francia l’indebolimento del potere monarchico si era riflesso nella semi-indipendenza del clero, degli Stati e dei governatori provinciali, delle corporazioni e dei Parlamenti. Sotto Enrico IV la riguadagnata obbedienza di questi corpi intermedi non era ancora sufficiente a ristabilire l’unità, giacché continuava a rappresentare un problema la presenza degli ugonotti, cui l’Editto di Nantes aveva riconosciuto un’autonoma esistenza. L’autonomia degli ugonotti costituiva ormai un rischio per la stessa sicurezza del paese, esposto alla pericolosa vicinanza delle potenze asburgiche. L’Editto di Nantes, del resto, era considerato solo una tregua provvisoria dai cattolici, artefici di una vasta azione di riconquista del paese e raccolti sotto le bandiere dei devots, entro cui militavano molti ex ligueurs. I devots insistevano sulla necessità di ristabilire l’unità religiosa del paese. La riammissione dei gesuiti in Francia aveva consentito un’intensa attività di propaganda cattolica. La persistenza di profonde fratture politico-religiose si manifestò apertamente in occasione delle scelte antiasburgiche operate in politica estera dal re. Enrico IV infatti, nel 1609, al momento della crisi innescata dalla successione del ducato di Julich-Kleve, era in procinto di intraprendere la guerra contro l’Impero e la Spagna a fianco dello schieramento protestante (Inghilterra + Olanda + Unione evangelica dei principi tedeschi). L’ex frate Francois Ravaillac, che assassinò Enrico IV il 14 maggio 1610, era intervenuto ad interrompere questa linea. La Francia dovette in buona sostanza ritirarsi dal ruolo di protagonista e impegnarsi nella ricostituzione dell'unità politico-religiosa. E ancor più immediate furono le conseguenze in politica estera: l’assunzione della reggenza in nome del minorenne Luigi XIII da parte della regina vedova, Maria de’ Medici, comportò un mutamento di strategia politica, fondato ora sulla ricerca della conciliazione con le corone cattoliche. Una linea sugellata dal trattato di Fointainbleu con la Spagna, che prevedeva un’alleanza difensiva decennale contro le rivolte interne e attacchi esterni e stabiliva un duplice matrimonio tra il nuovo sovrano e l’infanta di Spagna, Anna d’Austria e tra Elisabetta, sorella di Luigi XIII e il futuro Filippo IV. I primi anni della reggenza di Maria de’ Medici furono travagliati. Subito infatti la grande nobiltà era insorta, riunendosi nel 1614 in una lega contro la reggente guidata da Enrico II, principe di Condè, pronto l’anno seguente a richiedere l’aiuto degli ugonotti per cercare di evitare il matrimonio spagnolo e soddisfare le sue mire al trono francese. L’opposizione della nobiltà di sangue era stata momentaneamente tamponata con la cosiddetta “pacificazione di Menehould”, con cui Maria de’ Medici concesse la convocazione degli Stati gnerali che si riunirono a Parigi nel 1614-15. Per questo organismo si trattò dell’ultima convocazione, nel corso della quale si capì che ne sarebbero usciti risultati insignificanti a causa delle accese rivalità tra gli ordini. Gli Stati Generali del 1614-15 non poterono dunque deliberare nulla in merito alle scottanti questioni della riorganizzazione politica del regno. Da ricordare, più che altro, è la comparsa dell’allora vescovo di Lucon e futuro cardinale Armand-Jean du Plessis de Richelieu, con un moderato spirito controriformista vicino ai devots. Nel 1616 il principe di Condè si fece autore di un’altra sollevazione armata. La grande nobiltà era intenzionata a riguadagnare le posizioni perdute, e a contestare la politica filospagnola di Maria de’ Medici, allora largamente influenzata dal suo consigliere fiorentino Concino Concini. Già introdottosi a corte tuttavia, Richelieu seppe adoperarsi per riconciliare la reggente con il Condè, il cui successivo arresto provocò però ulteriori rivolte da parte dei duchi di Guisa, di Vendome, di Nevers e dell’ugonotto duca di Buillion. Ma sedata anche questa rivolta, l’astio maturato contro Concini sfociò nel suo assassinio per ordine dello stesso Luigi XIII, che cominciava a dissociarsi dalla politica materna, mentre Richelieu veniva nel 1618 esiliato ad Avignone con l’accusa di aver partecipato ad una serie di intrighi con Maria de’ Medici contro il sovrano. Nel 1620, un’ennesima ribellione della nobiltà spinsero Luigi XIII ed il Luynes alla decisione di affrontare militarmente i rivoltosi, sconfitti a Ponts-de-Cè. Il successo portò il re a cimentarsi con la restaurazione del cattolicesimo nel Bearn. Gli Stati provinciali del Bearn avevano già nel 1617 ribadito l’immodificabilità della loro costituzione, col sostegno degli ugonotti di La Rochelle. La scelta di Luigi XIII di usare la forza per imporre il cattolicesimo al Bearn ed unificarlo alla corona francese sollevò l’immediata reazione di gran parte delle province protestanti. La guerra che seguì ottenne nel 1622 solo il precario compromesso della pace di Montpellier, con cui la corona era ancora obbligata a mantenere l’autonomia di un’ottantina di piazze ugonotte. Tornò allora in auge il Richelieu, il cardinale nel 1624 prendeva nelle sue mani una situazione quanto mai complessa. Benché vicino alle concezioni controriformiste dei devots, Rochelieu mise al centro la strenua difesa della superiore sovranità statale incarnata dal sovrano. Tuttavia l’assoluta preminenza dei supeiori interessi dello Stato ebbe ragione di questo impianto spirituale e Rochelieu fu decisamente contrario non solo al separatismo religioso e militare degli ugonotti, ma anche a tutti quei movimenti cattolici che costituivano un ostacolo alla superiore unità dello Stato. Sicché, pur convinto della necessità di difendere l’ortodossia cattolica come pilastro dell’autorità regia, Richelieu favorì le spinte disciplinari della Controriforma, subordinando le controversie religiose alle ragioni della politica. Poté trovare sostegno nel partito dei “bons francais”, formatosi negli anni di Luigi XIII, per il quale si trattava di anteporre gli interessi nazionali della corona a quelli internazionali del cattolicesimo. Certo, l’assolutismo del governo fu più teorico che pratico, non andando esente da inevitabili compromessi con i corpi sociali. Quella noblesse de robe i cui interessi Sully aveva legato alla monarchia con l’introduzione della paulette, portarono lo stesso Richelieu a rinunciare all’idea di abolirla, perché il sistema dell’ereditarietà delle cariche favoriva la sicurezza politica del paese, garantendo il consenso di un ceto parassitario ma, grazie ad essa, docile. Richelieu si convinse che l’esistenza separata degli ugonotti doveva essere eliminata e decise di portare l’attacco alla fortezza di La Rochelle. Dal luglio del 1627 iniziò così il lungo assedio delle truppe regie alla città, inutilmente appoggiata dagli inglesi. Il 28 ottobre del 1628 riusciva a farla capitolare e ad obbligarla alla sottomissione al re. Contemporaneamente venivano domate la residua guerra condotta nel sud dal principe di Condè e la resistenza di Montauban, la cui conquista segnò la definitiva resa degli ugonotti. Il 28 giugno 1629 la pace di Alés (o Edit de Grace) metteva la parola fine alle guerre di religione, sopprimendo i diritti degli ugonotti, pur garantendo loro la libertà di culto. Richelieu mirava a guadagnare il leale consenso politico degli ugonotti, al punto da accettare i servigi del principale esponente dei Rohan, il duca Enrico. Proprio la mancata imposizione dell’uniformità di fede finì per rendere esplicita la distanza che lo separava dai devots. Né si attenuò la molesta pretesa dei Parlamenti, come quello di Parigi, di costruire un contrappeso all’autorità della corona, condivisa dalla massa degli officiers (tesorieri di Francia) ogniqualvolta la monarchia sembrava toccare i loro interessi. Il Parlamento della capitale si era anche assicurato la funzione di custode privilegiato dei diritti dei sudditi. Fu proprio negli anni 1629-31, mentre la Francia attraversava una crisi economica senza precedenti, che le opposizioni al Richelieu trovarono motivi di forza. I devots, sentendosi traditi, serrarono le fila di un fronte che raccoglieva tutte le personalità che a corte si opponevano alla politica di Richelieu. L’opposizione fu guidata dal guardasigilli del regno, Michel de Marillac, che delineò un programma alternativo a quello di Richelieu: annientamento degli ugonotti, alleanza con la Spagna e con la Chiesa di Roma, disimpegno sul fronte internazionale antiasburgico. A corte queste tensioni si rispecchiarono nell’opposizione capeggiata da Maria de’ Medici e soprattutto dal fratello del re, Gastone d’Orleans. Fu proprio Luigi XIII che, compendo in quella che è passata alla storia come la journee des dupes (la giornata degli inganni), un inatteso atto d’indipendenza, liquidò ogni linea alternativa a quella del cardinale, convocandolo nel suo padiglione di caccia a Versailles l'11 novembre 1630 per ribadirgli la sua fiducia. Il successivo allontanamento di Maria de’ Medici (preferì andarsene in volontario esilio) e di Gastone d’Orleans, e l’arresto del Marillac, sugellarono una svolta politica che ebbe immediate ripercussioni, giacché consentì alla Francia di intervenire direttamente nelle vicende belliche europee. Il diffuso clima di agitazione sociale si aggravò quando, nel 1653, la Francia si assunse l’oneroso compito di entrare in guerra contro Vienna e Madrid. L’inasprimento sociale fu tanto violento da porre intere province nella condizione di non poter più versare le somme richieste a da obbligare la monarchia a ricorrere all’esazione coatta e all’indebitamento con i finanzieri, cui venne concessa in pegno la riscossione delle tasse indirette (o aides). Il risultato fu di esasperare l’opinione popolare e di convincerla che le imposte fossero percepite ad esclusivo vantaggio dei traitants o partisans, ossia appunto degli appaltatori. Ad aggravare la situazione intervenne il tentativo, per riequilibrare la distribuzione della tassazione, di eliminare le sacche di esenzione e privilegio fiscale. L’insostenibile pressione del fisco fece da detonatore ad una serie di rivolte popolari e di vere e proprie jacquieries. A dimostrarlo sta la circostanza che le rivolte furono innescate da nobili e dagli appelli dei Parlamenti locali. Tuttavia, finché erano controllate dai Parlamenti, le rivolte a carattere urbano furono meno pericolose, giacché quasi sempre le borghesie provinciali riuscivano a trovare un accordo con il governo. Diversa era la situazione allorché i contadini prendevano la guida delle sollevazioni. Benché esteso, però, il movimento insurrezionale rimase privo si un coordinamento in grado di collegare le diverse province. Un’organizzazione efficiente trovò solo nel Perigord, dove la grande sollevazione dei Croquants del 1637, la più pericoloso per il governo, fu guidata da un oscuro gentiluomo, La Mothe-la Foret, capace di radunare un esercito rigidamente disciplinato. Anche qui, però, la promessa dell’abolizione delle odiate gabelle sul vino, per le quali la rivolta era scoppiata e deputati. Fu allora che cominciarono ad imporsi le teorie dell’”antica costituzione”, tese a dimostrare l’inalterata continuità storica del regime costituzionale inglese, a partire almeno dalla Magna Charta e a sottolineare l’impossibilità per ciascuna componente dell’ordinamento di prevalere sull’altra. L’impossibilità di ricorrere al Parlamento per chiedere ulteriori sussidi, spinse allora Giacomo I a rendere efficiente l’esazione dei dazi mediante l’estensione del sistema di appalti: il Great Farm (Grande Appalto) del 1604 per la riscossione dei dazi servì questo e fu concesso a tre uomini d’affari per 7 anni, e permise un gettito fisso di denaro. A fronte di un debito pubblico crescente, le decisioni del re non fecero che alimentare una tensione crescente, tanto che il nuovo Parlamento riunito nel 1610 respinse la proposta del governo, detta “Grande Contratto”, di votare una concessione annua al re, che in cambio avrebbe ritirato le imposizioni fiscali più impopolari. Né successive e provvisorie misure, quali la creazione di nuovi titoli nobiliari (es. baronetto), risollevarono le sorti delle finanze. Mentre il Parlamento, di nuovo convocato nel 1614 e rimasto in vita solo alcune settimane, non approvava alcun provvedimento, guadagnandosi il titolo di Addled Parliament (parlamento sterile). Una svolta si ebbe nel 1615, con l’avvento alla direzione del governo di George Villiers, duca di Buckingham. Subito però si dovette affrontare la complessa situazione della guerra dei Trent’anni, rinnovando lo scontro con il Parlamento per i crediti militari necessari. Nel 1618 l’intera Europa si attendeva un intervento militare antiasburgico dell’Inghilterra, per i legami dinastici che univano gli Stuart all’elettore palatino Federico, marito della figlia di Giacomo I, sia per i sentimenti di solidarietà confessionale con i protestanti tedeschi e boemi. Quell’intervento però non ci fu soprattutto perché il sovrano non volle affossare la politica di amicizia con la Spagna iniziata nel 1604 e da lui considerata l’architrave della pacificazione europea. Così, alla proposta di una mediazione, Giacomo I fece seguire l’iniziativa di unire in matrimonio il figlio Carlo con una principessa spagnola. Andato però in fumo questo progetto, l’incerta politica estera del sovrano inglese tornò ad orientarsi in senso antiasburgico. Ma a questo punto, ad ostacolare una guerra stava la necessità di richiedere i relativi fondi al Parlamento, con il quale la tensione toccò livelli preoccupanti nel 1621, quando il re, subito dopo averle convocate, sciolse le camere e arrestò alcuni membri di quella dei Comuni (come John Pym ed Edward Coke). Riunito nel 1624, il Parlamento non negò i sussidi richiesti, ma riuscì in cambio a mettere in stato d’accusa il Lord tesoriere Lionel Cranfield, introducendo il principio della responsabilità dei rappresentanti del governo davanti all’assemblea. Le prove di forza non vennero meno nemmeno dopo l’ascesa al trono di Carlo I. Non scemarono i contrasti finanziari, e maturarono i dissidi in tema di politica religiosa, acutizzati dall’affermarsi delle posizioni arminiane. Sotto Carlo I, l’arminianesimo cominciò a godere di consensi sempre più larghi tra i vescovi, grazie soprattutto al sostegno del Buckingham, dietro cui agiva il vescovo di Bath, William Laud. Conquistando progressivamente posizioni di potere nella Chiesa e nel paese, gli arminiani chiesero ed ottennero provvedimenti per vietare pubbliche dispute in tema di predestinazione, rispristinarono formule ritualistiche e di controllo gerarchico bollate dai puritani come “papismo senza papa”. Questi mutamenti dottrinali ed ecclesiastici allarmarono la rappresentanza puritana nella Camera dei Comuni. Già sciolto nel marzo 1625 e quindi riconvocato l’anno seguente, il Parlamento attaccò l’operato del Buckingham. Pronto a difendere il suo ministro, Carlo I sciolse di nuovo l’assemblea. Ricorse ad un prestito forzoso, arrestando i parlamentari che si rifiutavano di sottoscriverlo, e quando nel 1628, al momento di intervenire in difesa degli ugonotti assediati a la Rochelle, il re dovette ancora una volta riunire le camere, i membri di quella dei Comuni presentarono nella primavera una Petition of Right in cui chiesero formalmente al sovrano di rispettare le leggi, respingendo come illegali i metodi di tassazione non autorizzati e gli arresti arbitrari. Accettata da Carlo I il 7 giugno, in cambio dell’approvazione dei sussidi, la Petition fu la vittoria del Parlamento. Ma Carlo i proseguì negli arresti e nel sequestro delle merci di chi si rifiutava di pagare i tributi; nel 1629 si verificarono tumulti in Parlamento, che il re sciolse di nuovo, pur facendo seguire alla eliminazione del Buckingham la chiamata al governo, come membro del Consiglio privato, di uno degli esponenti più in vista della Camera Bassa, Thomas Wentworth, deciso a ristabilire l’unità tra Parlamento e corona. Da questo momento però, i problemi religiosi interferirono direttamente con quelli finanziari: il re, per ottenere ulteriori sovvenzioni dai parlamentari, avrebbe dovuto guadagnarne il consenso sospendendo il suo sostegno a quell’arminianesimo che invece, utile al controllo assolutistico sulla Chiesa, negli anni 30 fece progressi rilevanti. Riesplosero allora le dispute sui sacramenti. Per sostenere questa politica religiosa la corona doveva trovare fonti di reddito indipendenti dal consenso parlamentare: nel 1634 Carlo I decise l’introduzione della Ship Money, obbligando i porti inglesi ad equipaggiare navi per la guerra o versare il corrispettivo in denaro, estesa poi a tutto il regno senza l’approvazione delle Camere, non più convocate dal ’29. La Scozia reagì all’emarginazione dal governo inglese e contro i tentativi del re di assoggettare il regno all’anglicanesimo. Anche qui Carlo I dovette affrontare il dissenso del Parlamento. Tentò nel 1634, indottovi da Laud, di restaurare l’ordine episcopale anglicano e ppi nel 1637 d’imporre l’uso del Prayer Book inglese. Nel febbraio dell’anno seguente l’opposizione scozzese formulava uno Scottish National Covenant, ossia un patto comune per contrastare ogni innovazione religiosa. Nonostante il ritiro del Prayer Book, la monarchia rispose alla sollevazione inviando nel ’39 un esercito e chiamando dall’Irlanda, dove era da quell’anno Lord Deputy, Thomas Wentworth. Per risolvere la crisi scozzese, Carlo I fu costretto nel 1640, dopo undici anni, a convocare di nuovo il Parlamento. 4 Guerra civile, rivoluzione e regicidio Riunito nel 1640, il “Parlamento Corto” (Short Parliament) era già sciolto dal sovrano dopo un mese. Così, mentre si verificavano a Londra tumulti, provocati dalla decisione di imporre l’arminianesimo come unica forma ammessa nella Chiesa d’Inghilterra, Carlo I, inviso alla gentry, poté raccogliere truppe poco efficienti per muover guerra agli scozzesi, che dopo una breve tregua a Berwick, le mettevano in rotta, entravano nel territorio inglese, occupando Newcastle, e obbligavano il re a concludere un trattato (di Ripon, del 21 ottobre 1640) con cui si impegnava a pagare l’esercito scozzese. Pressato dalle urgenze finanziarie, lo Stuart decise la convocazione di un altro parlamento, noto come “Parlamento lungo” (Long Parliament) perché riunito dal 3 novembre 1640 al 20 aprile 1653. La Camera dei Comuni, modificata ella composizione in favore dei gentiluomini di campagna e di agguerriti giuristi, trovò una maggiore solidarietà antistuardista anche in quella dei lord (salita a 244 membri). I parlamentari si sentirono protetti dalla presenza militare degli scozzesi, con i quali si affrettarono ad allearsi. Il parlamento ottenne la testa di Thomas Wentworth ed avviò un’azione legislativa a vasto raggio, rimuovendo dalla camera alta i vescovi con un provvedimento del 1642 e la cui applicazione portò all’epurazione di circa 3000 ecclesiastici. Fu stabilito inoltre che il parlamento dovesse essere convocato ogni tre anni e non potesse essere sciolto nei primi cinquanta giorni di attività, mentre il re venne privato del diritto di sciogliere le Camere. Un’altra serie di provvedimenti parlamentari sopprimeva la Star Chamber, l’High Commission ecclesiastica, abrogava la Ship Money, liberalizzava la stampa e aboliva il potere sovrano di elevare dazi senza assenso parlamentare. Un programma che si radicalizzò nella pretesa di partecipare anche al potere esecutivo. Infatti la camera bassa approvava un documento, la “Grande Rimostranza” che invalidava la prerogativa regia di nominare ministri e consiglieri al di fuori della preventiva approvazione parlamentare. Incapace tuttavia di delineare progetti più precisi, il parlamento si vide battuto dall’iniziativa del redi recarsi personalmente in Scozia e concludere qui un accordo. Nonostante ottenesse in questo modo il ritiro dell’esercito scozzese, Carlo I non riuscì a sottomettere i parlamentari, anche perché stava maturando un’altra grave crisi: quella in Irlanda. Infiammata nel ’41 da una rivolta cattolica e indipendentistica. Neppure stavolta i parlamentari vollero concedere i sussidi necessari per soffocare questa ribellione. Ad aggravare tutto, Carlo I accusò di alto tradimento cinque deputati, tra cui leaders dell’opposizione, come John Pym e John Hampden, e persino un membro della Camera dei Lords. E quando il re cercò di arrestarli, il parlamento fu protetto dalla popolazione londinese e il re costretto ad abbandonare la città nel ’42 per organizzare militarmente le sue forze. Il Parlamento a sua volta decideva di controllare l’esercito (Militia Ordinance). Cominciava in questo modo una guerra civile che non rispecchiò tuttavia nei suoi schieramenti divisioni sociali nette. La prima rivoluzione inglese vide solo parzialmente emergere un conflitto di classe. Solo schematicamente s i può dire che il parlamento fu sostenuto dai centri portuali e dai ceti mercantili, per lo più puritani, mentre Carlo I dai territori più poveri, a tradizione cattolica e feudale dell’Ovest e del nord, dominati da un’aristocrazia in genere legata all’anglicanesimo episcopalista o fedele al cattolicesimo. Il parlamento era convinto di combattere per ricondurre la corona ad un corretto rapporto con l’assemblea legislativa. Per questi motivi il Parlamento fu trascinato in guerra dalle ali più radicali del puritanesimo. Il crescente timore dei puritani moderati che le forze stuardiste potessero alla fine rivelarsi più deleterie della stessa monarchia finì per provocare divisioni in seno al parlamento, anche in questo caso solo schematicamente registrabili come divisioni religiose tra “presbiteriani” e “indipendenti”. I primi guardavano al modello della Chiesa nazionale scozzese, i secondi miravano al congregazionalismo radicale che affidava il governo ecclesiastico a tutti i fedeli riuniti in comunità locali. A mediare tra i due gruppi fu un minoritario assembramento di centro guidato da Pym, che condivideva i timori dei moderati ma riteneva indispensabile portare fino in fondo la guerra. Quando i primi scontri dimostrarono la forza delle forze realiste, fu appunto il gruppo di Pym a far passare l’idea di richiamare gli scozzesi, coi quali il 25 settembre 1643 fu firmato ad Edimburgo un accordo (Solemn League and Covenant) che prevedeva la riforma in senso scozzese (presbiteriano) della Chiesa inglese, suscitando la reazione degli “indipendenti” e del comandante dell’esercito parlamentare, il conte di Essex, Robert Devereux. Allo stesso tempo avvenne un armistizio tra Carlo I e i ribelli irlandesi e la morte di Pym e Hampden. Di conseguenza, la Camera dei Comuni fu sempre più divisa e fluttuante tra maggioranze diverse, tuttavia le sorti della guerra si rovesciarono in favore del Parlamento: le truppe scozzesi e parlamentari riuscirono a sconfiggere quelle regie a Marston Moore (2 luglio 1644), nel corso di una battaglia che mise in luce un gentiluomo puritano, Oliver Cromwell, eletto parlamentare nel 1628 e poi nel 1640, vicino alle posizioni di Pym. Un’assemblea religiosa riunita a Westminster dal 1 luglio 1643 al 22 febbraio 1648 e composta da 121 ecclesiastici, 10 Lord e 20 deputati della Camera dei Comuni, provvedeva ad emanare una nuova confessione di fede, terminata il 4 dicembre 1646. Rivedendo i Trentanove articoli, la confessione del ’46 assunse toni calvinisti, regolando l’organizzazione ecclesiastica in senso anti episcopalista e presbiteriano, ma senza riconoscere autonomia alle chiese locali. Dal 1643 agli anni ’50, in un clima di libertà e di non conformismo religioso, si registrò una grande effervescenza di sette estremistiche: i più moderati battisti (dottrina del battesimo ai soli adulti e chiesa come comunità di “santi”) si affiancarono gruppi come i Ranters (predicatori esaltati) che giunsero a sostenere l’inesistenza dei peccati della carne. In questo clima ebbero possibilità di proliferare gruppi di ispirazione millenaristica, che interpretavano profeticamente lo svolgersi degli eventi in termini di storia sacra. Tra questi si distinse il gruppo dei quinto-monarchisti (Fifth Monatrchy Men, fine anni ’40), guidato dal predicatore Christopher Feake e da thoma Harrison, convinti di scorgere i segni dell’imminente instaurazione della “Quina Monarchia”, ossia, dopo i regni dell’Assiria, di persia, di Alessandro e di Roma, dell’età (annunciata nel libro biblico di Daniele) in cui i santi avrebbero regnato per mille anni. Anche più pericolose si rivelarono le dottrine professate dal movimento dei quaccheri fondato da George Fox, che guidato da una “Luce interiore”, ritenuta fonte di Fede superiore alle Sacre Scritture, avversò qualsiasi istituzionalizzazione ecclesiastica, i riti liturgici e ogni gerarchia clericale. I radicali e i millenaristi trassero la conclusione che lo stesso accesso al potere politico doveva fondarsi sulla “santità” e che, pertanto, gli esponenti della gentry non avevano maggiori titoli di tutti gli altri per governare il paese. Il cuore delle truppe dell’esercito parlamentare era divenuto lo squadrone di cavalleria comandato da Cromwell, trasformato in un esercito con 11 reggimenti di fanteria e 6.500 cavalieri, gli ironsides (fianchi di ferro) dal 1644-45 organizzato in maniera innovativa e nel quale i soldati erano oggetto di un indottrinamento politico e religioso che li rendeva disciplinati e motivati. Il New Model Army, come venne chiamato, diede prova di sé nella battaglia di Naseby (14 giugno 1645), durante la quale inferse una sconfitta alle forze di Carlo I, che allora cercò l’aiuto degli scozzesi rimastigli fedeli, battuti però a Philiphaugh (13 settembre 1645) dalle truppe scozzesi antistuardiste, che lo fecero prigioniero e lo consegnarono al parlamento inglese. Cromwell stesso, intriso di dottrine puritane, era convinto di essere egli stesso uno strumento di Dio, e fu accusato di promuovere al grado di ufficiale persone non appartenenti alla gentry e persino un anabattista. In seno alle sue truppe cominciarono a trovare larga eco i programmi dei levellers (Livellatori), ispirati dalle idee
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