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Riassunto Cricco di Teodoro 3, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto Cricco di Teodoro vol.3 (versione gialla)

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Alice.Falzea
Alice.Falzea 🇮🇹

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Scarica Riassunto Cricco di Teodoro 3 e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! DAL GOTICO INTERNAZIONALE AL MANIERISMO Capitolo 14 ITINERARIO NELLA STORIA Le vicende italiane del Quattrocento si inquadrano in un teatro internazionale che vede numerosi e radicali cambiamenti. Le grandi monarchie europee, iniziano un lento ma progressivo percorso di stabilizzazione politica. Il papato viene scosso dal forte vento dello scisma e, alla metà del secolo, la conquista ottomana porrà tragicamente fine anche all’impero romano d’Oriente. La Guerra dei cent’anni, combattuta fra il 1337 e il 1453 tra Francia e Inghilterra, ebbe come risultato l’abbandono delle terre francesi da parte degli Inglesi, il rafforzamento della monarchia di Carlo VII di Valois (1422-1461) e l’elaborazione, di un forte sentimento nazionale francese. L’Inghilterra, abituata da secoli a solidi rapporti con l’Europa continentale, si trovò ridotta a rango di potenza insulare, condizione che rafforzò l’identità nazionale, soprattutto dopo la conclusione della Guerra delle due rose (1455-1485), cosiddetta per gli emblemi dei Lancaster (rosa rossa) e degli York (rosa bianca), famiglie che si disputavano il diritto al trono d’Inghilterra. Le due fazioni giunsero al compromesso di incoronare re Enrico VII Tudor (1485-1509), imparentato con entrambe. Nel 1469 i due più importanti regni della penisola iberica, quelli di Castiglia e d’Aragona, furono uniti dal matrimonio dei loro sovrani, Isabella e Ferdinando, questa fusione, inizialmente solo nominale, divenne di fatto tale nel 1520, ponendo le premesse della formazione del Regno di Spagna. Il sentimento di identità nazionale delle popolazioni spagnole, si fortificò con gli sforzi bellici per cacciare definitivamente gli Arabi dal Paese, il che avvenne nel 1492 con la sconfitta del Regno di Granada. Quanto alla Chiesa, nel 1377 papa Gregorio XI (1370-1378) aveva riportato la sede apostolica a Roma dopo i quasi 70 anni di “cattività avignonese”. Tale scelta non fu condivisa dal clero francese che negò l’obbedienza ai successivi papi “romani” ed elesse un antipapa, Clemente VII (1378-1394), antagonista di quello legittimo e che stabilì la propria sede ad Avignone. Iniziò il cosiddetto Grande scisma o Scisma d’Occidente. I papi scismatici furono riconosciuti dalla Francia, dal Regno angioino di Napoli e dal Regno d’Aragona. Lo scisma ebbe fine solo a conclusione del Concilio di Costanza (1414-1418) che elesse un nuovo, legittimo pontefice, Martino V Colonna (1417-1431). A lui e ai suoi successori si deve non solo la riorganizzazione dello Stato Pontificio, ma la rinascita stessa di Roma per la protezione da essi accordata a umanisti e artisti, e per aver promosso una notevole attività edilizia. La situazione italiana, aveva visto inizialmente l’affermarsi di liberi Comuni e quindi quello delle Signorie, le quali, ponendo fine alle lotte per la conquista del potere, procurarono alla popolazione tranquillità e un relativo benessere annientando però, con un governo tirannico la libertà. Dalle Signorie si passò ai Principati, nei quali il riconoscimento del potere del Signore avveniva da parte del papa o dell’imperatore. Le lotte fra le varie Signorie italiane condussero all’eliminazione di quelle militarmente più deboli e si arrivò a degli Stati più o meno a base regionale che per quasi tutto il Quattrocento e il Cinquecento continuarono a combattere fra di loro, impedendo la formazione di uno Stato unitario. Nel 1454 la Pace di Lodi condusse a una politica di equilibrio che durò fino alla morte di Lorenzo de’ Medici (1492). Gli Stati italiani, evitarono per un quarantennio grosse dispute, nella consapevolezza che la Francia e la Spagna ne avrebbero approfittato per estendere le loro aree di influenza. Nel XV secolo i più importanti Stati italiani furono il Regno di Napoli (dal 1442 conquistato dagli Aragonesi), lo Stato Pontificio, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze (che sin dal 1434 era ormai sottoposta alla famiglia dei Medici), il Ducato di Milano (tenuto dapprima dai Visconti, quindi dagli Sforza). Accanto a questi, altri piccoli Stati fecero da cuscinetto o furono loro subordinati. Fra essi la Repubblica di Genova, la Repubblica di Siena, la Signoria dei Gonzaga a Mantova, quella degli Este a Ferrara. Anche all’interno dello Stato Pontificio, si formarono piccole entità autonome quali la Signoria dei Malatesta a Rimini e quella dei Montefeltro a Urbino, caratterizzate da una forte tendenza al mecenatismo. Il Quattrocento è segnato in modo doloroso dalla fine dell’impero romano d’Oriente. Ridotto da tempo a pochi territori, nonostante gli inascoltati appelli d’aiuto contro la minaccia turca rivolti all’Occidente cristiano, l’impero finisce con la caduta della capitale nelle mani del sultano Mehmed II il 29 maggio 1453. L’ultimo imperatore, Costantino XI, muore nella difesa della città. Nello stesso giorno il sultano entrò in Santa Sofia, fece prigionieri tutti coloro che vi avevano cercato rifugio e chiamò i suoi alla preghiera pomeridiana. La Megàle Ekklèsia («Grande Chiesa»), depredata dei suoi tesori, svuotata delle reliquie e delle sante icone, fu trasformata in moschea e a Costantinopoli Mehmed II fissò la propria capitale. L’insegna dell’aquila imperiale, precedentemente passata da Roma a Costantinopoli, fu assunta, infine, da Ivan III (1462-1505), granduca di Mosca e di tutta la Russia, dopo il suo matrimonio (1467) con Zoe (poi cambiato in Sofia), figlia di Tommaso Paleologo, fratello dell’ultimo imperatore, Costantino XI. Ivan introdusse in Russia costumi bizantini, mentre si ritenne erede politico, religioso e culturale di Costantinopoli. Mosca divenne così la «Terza Roma» e Ivan IV, detto «Il Terribile» (1533-1584) assunse, il titolo di Zar (cioè di Cesare). IL GOTICO INTERNAZIONALE Con l’espressione gotico internazionale, gotico cortese (oppure gotico flamboyant per l’architettura) si indica la fase tarda dell’arte gotica che va dagli ultimi decenni del XIV secolo alla metà del secolo successivo. L’aggettivo “internazionale” ha un duplice significato: allude a un’esperienza artistica che non ha un'unica radice, ma deriva dalla somma di più esperienze; e ne sottolinea la sua vasta e omogenea diffusione in tutt’Europa. Nasce e si diffonde negli ambienti di corte, influenzando ogni attività artistica e dando luogo alla prima forma d’arte medioevale laica. Questo fenomeno artistico coinvolge soprattutto la pittura e le «arti minori», ma determina un mutamento del gusto con anche sulla scultura e architettura. In Italia il Gotico Internazionale ha, soprattutto in campo pittorico, una diffusione temporalmente più limitata perché allo svilupparsi (dal XV secolo) di nuove forme espressive che, partendo da Giotto, rinnegheranno l’astratto decorativismo in nome di una ritrovata volontà di realismo e concretezza. Due sono comunque i nomi dei massimi esponenti italiani del Gotico Internazionale: Gentile da Fabriano e il Pisanello. LA PITTURA La pittura è l’arte che meglio rivela il nuovo gusto tardo-gotico. Le miniature avevano raggiunto un’estrema diffusione, grazie ad esse le raffinate elaborazioni dei vari artisti potevano fare il giro delle corti d’Europa per essere ammirate, discusse, collezionate e, spesso, anche copiate. Il Gotico Internazionale tende a portare alle estreme conseguenze l’uso decorativo della linea di contorno; il colore viene impiegato con analoghi intenti e finisce per non avere più alcun rapporto con i soggetti rappresentati, motivo delle sgargianti campiture piatte e della profusione dei raffinatissimi fondi oro. Arazzi dell’Apocalisse (1373-1382) Gli Arazzi dell’Apocalisse di Angers, pur non rientrando pienamente nel Gotico Internazionale, sono già caratterizzati dal gusto per la linea, dal colore prezioso e realizzati per una committenza laica. I 140 metri di arazzo (oggi circa 100), il più vasto in Europa, furono commissionati nel 1373 da Luigi I d’Anjou, fratello del re di Francia Carlo V il Saggio, e vennero conclusi nel 1382. Tessuti in modo tale che sia il dritto sia il rovescio, un recente restauro ha rivelato come il rovescio ha mantenuto i colori originali, mentre le tinte del dritto hanno subito degli abbassamenti di tono e una L’ARCHITETTURA In architettura si tende a enfatizzare lo slancio delle volte a crociera e il significato strutturale degli archi rampanti e dei costoloni. Per fare ciò se ne costruiscono allora di sempre più alti e complessi, fino al punto da perdere di vista la loro reale funzione costruttiva a favore di un’astratta ed esagerata esigenza decorativa. Ecco allora spiegarsi il sempre più ardito svettare delle nuove cattedrali francesi, inglesi e tedesche. Tali edifici, infatti, si configurano come veri e propri intrichi di costoloni, archi rampanti, pinnacoli e trafori innalzati quasi a sfidare la forza di gravità. Non a caso, e assai appropriatamente, per le esperienze francesi posteriori agli anni Ottanta del XIV secolo è stata coniata la definizione di Gotico flamboyant (cioè fiammeggiante, o fiammante). Con ciò si allude all’utilizzo, nei trafori decorativi, di elementi a doppia curva con cuspidi affilate e somiglianti a vere e proprie lingue di fuoco. Sainte-Chapelle di Riom (1395-1403) Uno dei primi esempi di Gotico flamboyant è costituito dalla Sainte-Chapelle di Riom. Edificata tra 1395 e 1403 per volontà del duca Jean de Berry, essa si compone di una sola aula di quattro campate seguite da un’abside poligonale (tre lati di un esagono). Esternamente è dotata di soli contrafforti ai quali corrispondono internamente delle paraste senza capitello formate dalle nervature che calano dalle volte archiacute. Le grandi vetrate hanno ornamenti a doppia curvatura. Facciata della Cattedrale di Rouen I lavori per la Cattedrale di Rouen (Normandia), iniziata a costruire nel 1200, si protrassero sino agli inizi del XVI secolo. Fu, però, in un breve spazio di tempo che la sua facciata si dotò di preziosissimi elementi flamboyant. Nel 1370 era già in costruzione il grande rosone sul portale centrale, su progetto di Jean Périer, e prima del 1398 l’architetto Jean de Bayeux realizzò il primo pannello con sculture e trafori a merletto tra la facciata e la torre di sinistra. Tra il 1406 e il 1421 Jenson Salvart costruì anche i due pannelli che sovrastano il portale laterale di sinistra, mentre il tardo intervento di Guillaume Pontifs dette vita, tra il 1487 e il 1507, alla torre di destra, totalmente in stile gotico flamboyant e detta Tour de beurre (Torre di burro) per l’impressione che dà di essere stata modellata con un elemento candido e morbido. Come lingue di fuoco e intrecci di fili i pannelli affiancano e sovrastano la facciata creando suggestivi effetti atmosferici, stagliandosi contro le ornate pareti delle guglie retrostanti e contro l’azzurro del cielo fra una guglia e l’altra: mai più l’architettura gotica avrebbe creato una facciata di una delicatezza e di una leggerezza simili. Cappella di Enrico VII a Londra (1502-1509) Analogamente, già a partire dalla seconda metà del Trecento, in Inghilterra si sviluppa il cosiddetto Perpendicular Style (o Gotico perpendicolare), con riferimento, anche in questo caso, alla prepotente volontà di raggiungere quote sempre maggiori, senza alcun altro scopo che non fosse quello di sbalordire. Ciò è reso possibile dall’utilizzo di una struttura basata sulla ripetizione di pannelli rettangolari irrigiditi internamente da uno o più archi a sesto acuto.Tale soluzione consente anche l’apertura di vetrate mai prima realizzate e la possibilità di sorreggere coperture di complessità inaudita.Ne è il massimo e più incredibile esempio, assai tardo e già culturalmente lontano dalle motivazioni che avevano originato il Perpendicular Style, in quanto risale addirittura ai primi anni del Cinquecento, la Cappella di Enrico VII realizzata oltre l’abside dell’abbazia londinese di Westminster. In essa sia le pareti interne sia quelle esterne sono percorse da sottili e fitti montanti chiusi da archetti che ne ritmano le superfici, mentre la volta è del tipo a ventaglio. Tale soluzione, messa a punto fin dalla metà del XIV secolo, trova qui la sua applicazione più spettacolare. Si tratta, infatti, della prosecuzione – anche nella copertura – del sistema a pannelli traforati, solo che in questo caso viene applicato a dei coni rovesciati che terminano con un pendente. Dai vertici del cono si espande un insieme di nervature a circonferenze concentriche attraversate da altre in senso radiale originando, così, un incredibile intrico di raffinati elementi che rendono quasi irriconoscibili gli spazi stessi delle campate. GENTILE DA FABRIANO (1370-1427) Gentile di Nicolò di Giovanni nasce a Fabriano (Ancona) intorno al 1370. La sua formazione artistica, da quel che si può ricavare dalle scarne notizie biografiche, avviene in ambiente lombardo, dove entra in contatto con la cultura gotica internazionale della quale diventa, uno dei più sensibili e qualificati esponenti. La fama delle sue straordinarie capacità pittoriche si diffonde così velocemente che tutte le principali corti d’Italia se lo contendono a suon di denari e di privilegi. Egli ha dunque modo di soggiornare a Milano, Venezia, Brescia, Firenze, Siena, Foligno (Perugia), Orvieto e Roma. In ciascuna di queste città lascia tracce profonde della propria raffinata personalità.La grande popolarità dell’artista, del resto, ci è confermata soprattutto dai molti seguaci che a lui continueranno a far riferimento, anche a Quattrocento inoltrato, quando il rapido diffondersi delle prime esperienze rinascimentali comincerà a soppiantare – almeno in Italia – la grande tradizione del Gotico Internazionale. La morte lo coglie nel 1427 a Roma, mentre – ormai al culmine della sua maturità artistica – ha appena iniziato ad affrescare, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, quella che avrebbe dovuto essere la sua opera più grandiosa e della quale, purtroppo, non ci è rimasto che qualche controverso frammento. L’ASTRONOMIA (1411-1412) Durante un soggiorno a Foligno (1411-1412) Gentile affresca alcune sale di rappresentanza di Palazzo Trinci, la fastosa residenza dei signori della città. Per la realizzazione dell’opera si avvale di molti aiuti di provenienza settentrionale, fra i quali vi era forse anche il giovane allievo Pisanello.Nel complesso ciclo di figure allegoriche della grande Sala delle Arti Liberali, al secondo piano dell’edificio, spicca la rappresentazione simbolica dell’Astronomia. Essa è rappresentata da una dama biancovestita seduta all’interno di un trono in marmi colorati di gusto gotico, ornato di pinnacoli e di ghimberghe e culminante con un tiburio finestrato a pianta poligonale. La struttura, che è allo stesso tempo un elemento di arredo e un’architettura, è definita con un incastro di volumi geometrici elementari che, partendo dalla predella cruciforme e proseguendo con i seggi, le spalliere e le volticciole carenate a cassettoni di copertura, termina con il tiburio centrale, come in un piccolo ma preziosissimo e ben proporzionato tempietto. Il personaggio dell’Astronomia, che tiene il segno con l’indice destro su un libro aperto, appoggiato su un cuscino a sua volta appoggiato sulle ginocchia. Questo, stante la posizione del trono, significa che, in realtà, la testa deve essere ruotata verso sinistra, in direzione dell’astrolabio, posto al lato della predella, a simboleggiare i pianeti e le loro orbite. L’uso di un disegno nitido e preciso, anche se al di fuori delle regole della prospettiva, unitamente all’impiego di colori vivaci e decisi, sullo sfondo di un cielo blu profondo. ADORAZIONE DEI MAGI (1423) La più importante e significativa testimonianza pittorica di Gentile, vera e propria pietra miliare del Gotico Internazionale, è comunque l’Adorazione dei Magi, oggi alla Galleria degli Uffizi. Si tratta di una tempera e oro su tavola commissionatagli da Palla Strozzi, uno dei più ricchi mercanti fiorentini del tempo, per la cappella di famiglia nella Chiesa di Santa Trìnita. Il dipinto, firmato e datato 1423, è incorniciato entro tre archi a tutto sesto sormontati da elaboratissime cuspidi in legno dorato. Al loro interno sono inseriti altrettanti medaglioni con, al centro, il Cristo giudice e ai lati, l’Angelo nunziante (sinistra) e la Vergine annunziata (destra). In basso, sulla predella, sono infine raffigurate, da sinistra a destra, le scene della Natività, della Fuga in Egitto e della Presentazione al Tempio. L’originale di quest’ultima, trafugato dalle truppe napoleoniche, è oggi conservato al Museo del Louvre. La narrazione avviene secondo il gusto descrittivo e sfarzoso tipico della pittura gotica di corte. I tre Magi, sono rappresentati quattro volte, ma il racconto evangelico del loro viaggio non pare che un semplice pretesto al quale Gentile ricorre per poter conseguire il vero scopo narrativo. Questo, consiste nel dipingere tutti i personaggi con una straordinaria minuzia di particolari, in modo che ogni figura, ogni animale, ogni pianta, ogni architettura arrivi a costituire un’opera d’arte a sé stante, perfettamente autonoma rispetto all’intero dipinto. Alla visione d’insieme, sembra preferire la somma di viste parziali, nelle quali linee e colori, si trasformano in elaboratissimi e fantasiosi elementi decorativi. Significativi appaiono i sontuosi abiti dei Magi, in prezioso broccato trapunto d’oro e gli stravaganti copricapo dei cavalieri e dei falconieri, adorni di sete e ricami variopinti. La stessa meticolosa attenzione è riservata anche alla descrizione del paesaggio, tanto da dipingere gli alberi di melograno e le siepi dello sfondo con la cura analitica del botanico. L’esotico corteo, nonostante lo snodarsi attraverso campi coltivati, poderi, corsi d’acqua e chiare città turrite, non riesce, di fatto, a darci alcun senso di effettiva profondità spaziale. La minor dimensione delle figure in lontananza, è l’espediente per poter contenere nel dipinto un numero ancora maggiore di personaggi. Gentile da Fabriano, da uomo colto e aggiornato qual era, deve necessariamente aver avvertito i nuovi fermenti rinascimentali che nei primi anni del Quattrocento potevano già cogliersi negli ambienti artistici e culturali fiorentini. Egli, da parte sua, ne comprende forse anche la straordinaria carica innovativa ma non li accetta che marginalmente, come nella rappresentazione prospettica del cavallo visto da dietro, al limite destro della tavola. Anche in esso, però, il naturalismo della posa è comunque mitigato dalla studiata geometria del collo, che ne risolve la figura in un susseguirsi di armoniose linee curve.La grandezza e l’importanza di Gentile vanno pertanto ricercate in questa sua coerente adesione a quel Gotico Internazionale del quale lui stesso ha probabilmente intuito la prossima fine ma di cui, nonostante questo, non ha comunque mai cessato di essere l’espressione più sincera e ispirata. PISANELLO Antonio Pisano nasce a Pisa, anteriormente al 1395, prima data in cui si hanno sue notizie certe. A seguito dell’improvvisa morte del padre, la madre del piccolo Antonio fa ritorno alla natia Verona dove il figlioletto riceve il soprannome di Pisanello, con il quale continuerà a essere chiamato fino in età adulta. La sua prima formazione è dunque veneta e, più in generale, legata alla tradizione pittorica del Gotico Internazionale. Dal 1415 al 1422 Pisanello è a Venezia, prima come allievo e poi come collaboratore del già affermato Gentile da Fabriano. Alla morte del maestro egli è quindi l’unico che può degnamente succedergli nell’impegnativo ciclo di affreschi romani di San Giovanni in Laterano. Come e, forse, anche più di Gentile, Pisanello frequenta le maggiori corti italiane del tempo (Verona, Milano, Pavia, Mantova, Ferrara, Rimini, Firenze, Roma, solo per citarne alcune) e nel 1448 il suo febbrile girovagare artistico lo conduce anche a Napoli, dove re Alfonso V d’Aragona gli riserva accoglienze e onori principeschi. Napoli diviene così la sua nuova, ultima patria. Qui, infatti, muore intorno al 1455. I DISEGNI La pittura del Pisanello è estremamente colta. Ogni tavola e ogni affresco che egli realizza sono infatti preceduti da decine di raffinatissimi disegni preparatori nei quali l’artista studia con attenzione quasi scientifica ogni singolo dettaglio. si tratta di rappresentazioni così accurate e realistiche da costituire esse stesse delle opere d’arte già perfettamente concluse e definite. La maggior parte di questi disegni, eseguiti di schematica, quasi a fil di ferro, anche lì dove vorrebbe sembrare più definito, come per quel che concerne i capitelli e le basi dei pilastri. Il disegno, in proiezione ortogonale, raffigura sia la pianta sia la sezione trasversale, quest’ultima è costruita sulla pianta di riferimento, servendosi, cioè, delle stesse dimensioni. Si tratta, allora, di un disegno in doppia proiezione ortogonale, cioè quello in cui la pianta e la sezione sono tracciate nello stesso rapporto di scala. Tuttavia l’architetto ha inteso anche suggerire un effetto tridimensionale degli elementi dell’alzato (ad esempio le basi e i capitelli a edicola dei pilastri che appaiono stondati) mischiando, allora, proiezioni ortogonali e disegno approssimativamente prospettico. È nel 1391, con la convocazione dell’architetto e matematico piacentino Gabriele Stornalòco (ma Scovalòca secondo recenti ricerche), che la fabbrica inizia ad assumere una forma simile a quella definitiva, partendo da uno schema basato sulla combinazione di vari triangoli equilateri. L’organismo che ne risulta, pertanto, mostra necessariamente il segno delle varie fasi realizzative e dei diversi indirizzi progettuali. Il risultato complessivo è quello di una costruzione estremamente eclèttica, che poco o nulla ha a che fare, ad esempio, con la semplicità della pianta talentiana di Santa Maria del Fiore o delle altre grandi fabbriche toscane. I riferimenti tipologici, se mai, sono da ricercare nella tradizione del tardo-Gotico dell’Europa centro-settentrionale, alla quale Milano era più vicina sia geograficamente sia culturalmente. La pianta, a cinque ampie navate, è scompartita da una selva di poderosi pilastri polistili ai quali corrisponde, all’esterno, un complicatissimo gioco di archi rampanti, guglie e contrafforti. Le pareti della grande abside poligonale sono praticamente sostituite da immense vetrate policrome, secondo la tradizione transalpina. All’intersezione tra le navate e il corto transetto, infine, a opera di Gian Giacomo Dolcebuono e di Giovanni Antonio Amadeo, verrà costruito, tra il 1490 e il 1500, un ardito tiburio culminante con una guglia alta 108 metri, ultimata nel XVIII secolo. IL RINASCIMENTO Con il termine «Rinascimento» si è soliti indicare quella straordinaria stagione letteraria, artistica, filosofica e scientifica fiorita in Italia tra Quattrocento e Cinquecento.Giorgio Vasari è tra i primi a impiegare il termine «Rinascita» già per indicare il rinnovamento della pittura introdotta da Cimabue e Giotto. La diffusione moderna del termine Rinascimento, invece, usato in Francia nella prima metà dell’Ottocento dallo storico Jules Michelet (1798-1874), è connessa alla pubblicazione, nel 1860, di La civiltà del Rinascimento in Italia, un fondamentale saggio di Jacob Burckhardt (1818-1897), un grande studioso svizzero innamorato dell’arte e della civiltà dell’Italia. Gli uomini di cultura italiani del XV e del XVI secolo si sentivano legati con un filo diretto alla grande civiltà classica di cui si ritenevano eredi, mentre consideravano il Medioevo un periodo di barbarie e decadenza. Rinascimento è, quindi, anche il ritorno in vita del mondo classico e la riproposizione di molti suoi modelli. È certamente vero che il Quattrocento e il Cinquecento videro una prodigiosa produzione artistica e letteraria come mai prima c’era stata, ma il senso positivo del termine Rinascimento può essere impiegato proprio e solo se ci riferiamo alla cultura. Gli eventi storici di quei due secoli, infatti, furono decisamente negativi per l’Italia e l’esistenza di numerosi Stati costituì, politicamente, un grave danno e fu fonte di molti problemi. Tuttavia, la loro diffusione sull’intero territorio peninsulare fece sì che non uno, ma numerosi fossero i centri di cultura e di propagazione delle conquiste rinascimentali. I caratteri distintivi del Rinascimento furono l’amore e l’interesse per ogni manifestazione culturale del mondo antico e la consapevolezza della centralità e del valore dell’uomo, capace, con la propria intelligenza, di creare e promuovere il proprio destino.È con il cosiddetto Umanesimo che incomincia il Rinascimento, cioè con lo studio dei testi letterari ai quali si attribuiva la capacità di formare l’interiorità dell’essere umano. La lingua latina riprende vigore, come pure lo studio di quella greca. Quest’ultimo, iniziato con l’insegnamento del bizantino Manuele Crisolòra (ca 1350-1415), al quale il governo fiorentino affida la prima cattedra di greco in Europa, viene facilitato anche dalla presenza in Italia di quei dotti greci che nel 1438-1439 parteciparono al Concilio di Firenze-Ferrara. Un ulteriore apporto venne, successivamente, da quei Bizantini che nel 1453 si trasferirono nella penisola dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi.Per le arti figurative guardare al mondo classico («classicismo») non fu semplice imitazione, ma un modo per creare qualcosa di assolutamente nuovo e diverso. E, anzi, gli artisti rinascimentali si sentirono di dover competere con gli antichi, di raggiungerli nella grandezza e, se possibile, anche di superarli. È questa fiducia che viene espressa da Leon Battista Alberti nella lettera con cui, nel 1435, dedicava a Filippo Brunelleschi il suo trattato sulla pittura.Egli scrive, infatti, che la fama dei suoi contemporanei è necessariamente superiore a quella degli antichi poiché senza maestri sono riusciti a trovare «arti e scienze non udite e mai vedute». La bella espressione dell’Alberti si riferisce alle novità artistiche e scientifiche dei primi anni del Quattrocento, sconosciute sino ad allora e ignote anche agli antichi. Dallo studio della civiltà classica si deduce che l’arte dei Greci e dei Romani è naturalistica. Da ciò consegue che lo scopo dell’arte è l’imitazione della natura o mìmesi (dal greco mnèomai, imitare). Una natura che gli uomini del Rinascimento indagheranno scientificamente al fine di poterne carpire ogni segreto. Principale strumento per tale indagine sarà la prospettiva. È Firenze la città in cui inizialmente la nuova arte rinascimentale si manifesta e i suoi artisti ne sono i primi fondatori. Dopo aver visitato la città toscana per la prima volta, in seguito alla revoca del bando che nel 1401 aveva colpito tutti i membri maschi di più di 16 anni della sua famiglia, avendola trovata come un grande, operosissimo cantiere, egli poté scrivere:«Ma poi che io dal lungo Esilio. La famiglia degli Alberti era stata esiliata (cioè cacciata) da Firenze e Leon Battista era nato a Genova.essìlio in quale siamo noi Alberti Termine usato per indicare la lunga durata dell’esilio.invecchiati, qui fui in questa nostra sopra l’altre ornatissima patria Giunto, arrivato.ridutto, compresi in molti ma prima in te, Filippo Brunelleschi.Filippo, e in quel nostro amicissimo Donatello. Donato scultore e in quegli altri Lorenzo Ghiberti.Nencio e Della Robbia.Luca e Masaccio, essere a ogni lodata cosa ingegno da non posporli a Qualunque artista antico.qual si sia stato antiquo e famoso in queste arti». Con queste parole l’Alberti individua immediatamente anche coloro che furono gli iniziatori del Rinascimento, talmente pieni di capacità («ingegno») in ogni lodevole attività da non essere secondi a nessuno dei famosi artisti dell’antichità. LA PROSPETTIVA fino agli inizi del Quattrocento, si trattava di una prospettiva intuitiva e, certamente, non scientifica, quindi non basata su precise regole geometriche e matematiche. Con prospettiva, termine che deriva dal latino perspìcere, cioè «vedere distintamente», si indica comunque un insieme di proiezioni di oggetti su un piano, tale che quanto è stato disegnato corrisponda agli oggetti reali come noi li vediamo nello spazio. Il piano, però, ha due dimensioni (lunghezza e altezza), ma gli oggetti ne hanno tre (lunghezza, altezza e profondità). Questo vuol dire allora, che, tramite un procedimento grafico, è possibile rappresentare qualunque oggetto o insieme di oggetti su un foglio, in modo che l’immagine disegnata sia quanto più simile a ciò che noi vediamo realmente. Per far questo è necessario che si verifichino le seguenti condizioni: che esista un qualcosa da rappresentare (l’oggetto); che qualcuno lo stia guardando (l’osservatore); che si conosca la posizione esatta dell’osservatore rispetto all’oggetto (ci si accorge, infatti, che cambiando posizione quello che vediamo ci appare in modo diverso, per aspetto o per dimensione); che ci sia un supporto su cui disegnare. Il foglio di carta (o la tavola o il muro) – cioè il supporto – deve essere immaginato come una pellicola trasparente posta fra l’oggetto da rappresentare e chi guarda. Si suppone, allora, che dall’occhio dell’osservatore partano dei raggi che vanno a circondare l’oggetto (piramide visiva). Tali raggi intèrsecano la pellicola trasparente (quadro prospèttico) e questa intersezione, che individua un’immagine simile, ma più piccola dell’oggetto, ne costituisce appunto la rappresentazione prospettica. Per avere una prova concreta che ciò sia vero basta mettersi davanti a una finestra muniti di pennarello. Il collo va tenuto ben rigido, si chiude un occhio e non si muove quello aperto. Successivamente si ripassano sul vetro i contorni di ciò che si vede attraverso la finestra. Conclusa tale operazione si riapre l’occhio e si guarda il disegno realizzato: è una prospettiva, in tutto e per tutto rappresentativa della realtà che c’è al di là del vetro. È ovvio che non sempre è possibile disporre di una superficie trasparente. Sono, infatti, le regole geometriche della prospettiva che ci permettono di disegnare su una superficie opaca, consentendoci inoltre di rappresentare anche figure create dalla nostra fantasia. In questo modo città, palazzi, piazze, interni di edifici, paesaggi che non esistono nella realtà (o che non esistono ancora) possono già essere rappresentati e cominciare così a prendere vita. Per disegnare sul vetro della nostra ipotetica finestra abbiamo detto che un occhio dev’essere tenuto chiuso; questo ci suggerisce che la prospettiva si serve di un solo centro di proiezione (l’occhio aperto, appunto). Per tale motivo si dice che la visione è monoculàre. Se ne deduce che la prospettiva non consente di realizzare una visione stereoscòpica dovuta cioè all’esistenza di due occhi e, pertanto, a due centri di proiezione, la qual cosa corrisponde, invece, al nostro vero modo di vedere. Disegnando sul vetro la testa è stata tenuta rigida evitando, peraltro, di ruotare l’occhio aperto. Queste condizioni si traducono in un’ulteriore limitazione della rappresentazione prospettica che non permette di raffigurare le cose tenendo conto dell’estrema mobilità dei nostri occhi. In una prospettiva: • l’occhio dell’osservatore si chiama punto di vista; • la posizione dell’osservatore rispetto all’oggetto si dice punto di stazione [V1], rispetto al quadro prospettico essa definisce la distanza dal quadro; • tutte le linee perpendicolari al quadro prospettico convergono convenzionalmente in un unico punto detto punto di fuga [P] (corrispondente alla proiezione sul quadro del punto di vista); • per questo punto passa la linea dell’orizzonte [LO], parallela alla linea di terra [LT] (intersezione fra il piano terra e il piano prospettico); • tutte le linee orizzontali parallele al quadro e fra loro equidistanti restano fra loro parallele, ma la loro distanza reciproca diminuisce all’aumentare della loro distanza dal quadro (scorciatura); • tutte le linee verticali parallele al quadro restano verticali, fra loro parallele e mantengono invariate le loro distanze reciproche se giacciono su un piano parallelo al quadro. Se invece giacciono su un piano perpendicolare o obliquo rispetto al quadro diminuiscono la loro distanza reciproca e si avvicinano con progressione al loro punto di fuga. Fu Filippo Brunelleschi, agli inizi del secondo decennio del Quattrocento (1413 circa), a scoprire le regole geometriche della rappresentazione prospettica. Egli dette prova delle sue scoperte realizzando due celebri tavolette prospettiche, purtroppo perdute. In una di esse era rappresentato il Battistero di Firenze come visto dal portale centrale della Cattedrale di Santa Maria del Fiore; nell’altra, invece, erano raffigurati Palazzo Vecchio e la vicina Loggia de’ Lanzi visti da un punto situato lì dove l’attuale via dei Calzaiuoli si immette in piazza della Signoria. Nel primo caso il Battistero era raffigurato in controparte (come se fosse visto in uno specchio) su una tavola di legno contro uno sfondo a foglia d’argento lucida, capace di riflettere il cielo e aumentando la parvenza di verosimiglianza della pittura. La tavola era dotata di un forellino sul davanti che si allargava nello spessore del legno determinando un incavo nella parte posteriore. Contro tale incavo si accostava l’occhio e l’immagine del Battistero la si vedeva riflessa su uno specchio che le era posto di fronte a una certa distanza. In tal modo l’immagine si raddrizzava diventando uguale esprimere le proprie intenzioni di progetto. Ne è un esempio il piccolo disegno, quasi uno schizzo, con cui Leonardo da Vinci propone un edificio a pianta centrale. Esso, inoltre, alla sezione prospettica somma anche la metà della pianta. Anche in questi casi, inoltre, la prospettiva lineare (cioè geometrica, fatta con le linee, quella brunelleschiana) non fa che conferire una sorta di linguaggio comune unitario fondendo modi di rappresentazione che hanno la loro origine nelle sezioni operate dagli architetti gotici e nelle vedute di interni abbastanza frequenti nella pittura italiana della metà del Trecento. È evidente, ad esempio, come lo stratagemma impiegato da Pietro Lorenzetti nel mostrare l’interno dell’abitazione di San Gioacchino e Sant’Anna, consistente nell’eliminazione, con una sorta di taglio, della parte anteriore dell’edificio, altro non sia che una sezione prospettica ante litteram. Ciò pur se in assenza di precise regole geometriche e senza che vi sia, da parte dell’autore, nessuna volontà di proporre una vera sezione architettonica. LE PROPORZIONI La riscoperta del mondo classico e lo studio del trattato di architettura di Vitruvio fornirono le basi per una nuova certezza rinascimentale, derivante dalla teoria delle proporzioni. Proporzione viene dal latino pro portione, che vuol dire «secondo la porzione» e indica la corrispondenza di misure fra due o più parti in stretta relazione fra loro. La disciplina a cui le proporzioni sono applicate con maggior frequenza è l’architettura. Con esse gli architetti del Rinascimento ritenevano di poter rendere le loro opere non solo armoniose e belle, ma anche resistenti. Mentre oggi il tecnico (architetto o ingegnere) può disporre di un procedimento analitico (basato cioè su calcoli matematici che hanno riscontro con il comportamento fisico dei materiali impiegati) per avere la certezza che l’opera che si appresta a realizzare non crollerà e, anzi, sarà forte e resistente persino alle scosse dei terremoti, per tutta l’Antichità, il Medioevo e il Rinascimento ci si è affidati alle proporzioni e all’esperienza costruttiva. Nel Medioevo, in particolare, le proporzioni derivavano direttamente dalla geometria, nel senso che ogni costruzione era regolata da schemi geometrici sia in alzato sia in pianta. Nel Rinascimento, invece, le proporzioni sono quasi essenzialmente numeriche. Ma non solo, prevalentemente i rapporti numerici rispecchiano quelli esistenti fra le varie note musicali. Per primi i Greci avevano notato che se si fanno vibrare due corde tese, una delle quali è lunga il doppio dell’altra, il suono di quella più corta sarà di un’ottava più alto di quella più lunga. Tale rapporto numerico, detto in greco diàpason, si scrive 1:2 (e si legge «uno a due»). Le proporzioni, allora, fanno in modo che l’armonia udibile generata da un insieme di note ben congegnato si trasformi, in un edificio, nell’armonia visibile. I rapporti numerici più usati sono l’unìsono (1:1), il diapason (1:2), il diapènte (2:3), il diatèssaron (3:4). Ciò vuol dire, ad esempio, che disegnando o realizzando la facciata di un edificio in modo che la sua altezza sia doppia della sua larghezza si sarà dato vita a una costruzione armoniosa che rende visibile l’armonia musicale del diapason.Furono le proporzioni musicali che Filippo Brunelleschi, secondo quanto si legge nella sua biografia, volle ritrovare negli edifici antichi studiati a Roma («fece pensiero di ritrovare […] le loro proporzioni musicali […]»). Ma cosa avrebbe dovuto rispecchiare un edificio sacro una volta che le sue parti fossero state dimensionate armoniosamente? Il corpo umano, era stata la risposta suggerita dal De architectura di Vitruvio. Secondo l’antico scrittore latino, infatti, la natura stessa aveva fatto sì che il corpo dell’uomo fosse ben proporzionato. Era logico, pertanto, che anche nella progettazione architettonica ci si attenesse alle simmetrie e ai rapporti esistenti fra le varie parti del corpo umano. Vitruvio così scrive nel primo capitolo del Terzo Libro del suo trattato, introducendo la progettazione dei templi:«Il centro del corpo umano è naturalmente l’ombelico. Se infatti un uomo si disponesse supino con mani e piedi distesi, puntando il compasso sull’ombelico, si potrebbe descrivere una circonferenza che toccherebbe esattamente le punte delle dita di entrambe le mani e dei piedi. Inoltre, misurando la distanza dall’estremo dei piedi al sommo della testa e confrontandola con quella fra l’una e l’altra mano aperta, si troverebbe che altezza e larghezza coincidono, come in un’area quadrata. Se dunque la natura ha creato il corpo umano in modo che le singole membra rispondano proporzionalmente all’insieme della figura, sembra che giustamente gli antichi abbiano stabilito che anche le loro opere dovessero avere una esatta corrispondenza fra le misure delle parti e quelle dell’insieme». Tale brano colpì profondamente la fantasia degli architetti del Quattrocento e del Cinquecento e in molti provarono a darne una rappresentazione grafica e un’interpretazione: da Francesco di Giorgio Martini a Fra Giocondo (al quale si deve la prima edizione a stampa illustrata del De architectura, pubblicata a Venezia nel 1511) a Cesare Cesariano (che per primo pubblicò la traduzione in italiano dell’opera del trattatista latino nel 1521 a Como). Il disegno interpretativo che ne dette Leonardo è senza dubbio il più rispondente al testo. Allo stesso tempo è facile trovare nei disegni che corredano i trattati d’architettura quattrocenteschi l’applicazione del principio vitruviano delle proporzioni derivanti da quelle di un corpo umano. Nei disegni di Francesco di Giorgio Martini, ad esempio, si vede bene come la figura umana (con le braccia portate dietro la schiena) abbia determinato non solo la pianta di una chiesa, ma anche (con le braccia aperte) l’altezza, la forma e la distinzione delle varie parti della facciata e come il capitello composito derivi nei suoi elementi dalla struttura di una testa. L’ANTICO Uno dei caratteri più significativi del Rinascimento italiano fu, sin dalle origini, la curiosità e la passione per l’Antico. Le rovine e le vestigia dell’Antichità, in particolare quelle di Roma, che da sempre avevano riempito di meraviglia i pellegrini che da tutta la cristianità si recavano nella Città Eterna e avevano infiammato gli animi dei letterati più sensibili, sono ora guardate con occhi nuovi. Esse, infatti, non stupiscono più solo per la loro magnificenza, ma costituiscono motivo di studio, di ricerca, di ispirazione e di confronto.. I primi cercano di riconoscere e individuare in quel che resta della città antica gli edifici e i luoghi di cui si legge negli scritti di Livio, Tacito, Varrone, Ovidio, Plinio il Vecchio. I secondi, e in particolare gli architetti, mettono a confronto le strutture monumentali con i passi del De architectura di Vitruvio, testo da poco riscoperto e subito diventato la bibbia dei progettisti.La convinzione di tutti è la stessa che negli anni Quaranta del XV secolo avrebbe condotto l’umanista forlivese Flavio Biondo (1392-1463) a scrivere all’indirizzo di papa Eugenio IV nella sua Roma instaurata, che la città degli imperatori e dei papi era stata«Madre.matre de i belli ingegni, e d’ogni bella virtù, et un specchio d’ogni eccellentia, e quasi un Semenzaio.seminario, e radice di tutte le belle cose, che per tutto il mondo erano».Nelle parole del mantovano Castiglione i resti della Roma classica sono «sacre ruine» così come per il più anziano umanista e architetto veronese Fra Giovanni Giocondo sono «sanctae vetustates» (sante antichità), tanto è il rispetto che essi incutono.Il soggiorno a Roma (intrapreso spontaneamente o conseguente a un motivo di lavoro) diventa un momento importante nella formazione degli artisti che, tra l’altro, disegnano brani di città da cui traspare l’indissolubile connessione tra antico e nuovo e dove i monumenti d’età repubblicana e imperiale emergono dall’intrico del tessuto medioevale. Gli architetti scavano e scrutano tra la folta vegetazione, che per l’abbandono di secoli aveva ricoperto i muri, le colonne, i capitelli, i templi e le basiliche, e disegnano quello che viene alla luce. Essi annotano le misure, precisando tecniche costruttive e copiando motivi decorativi, in modo da avere un repertorio di eccellente architettura da recuperare e a cui ispirarsi nel progetto del contemporaneo. A volte il gusto per la “rovina” prende il sopravvento sulla necessità di documentare; altre volte, soprattutto quando ci si avvicina allo scadere del Quattrocento e ci si inoltra nel Cinquecento, il dato metrico e una maggiore precisione guidano il disegnatore. Il tema delle rovine e un certo interesse archeologico, comunque, entrano di prepotenza in molta pittura quattrocentesca (e poi in quella del Cinquecento), divenendone parte non secondaria. I pittori e gli scultori, affascinati dall’equilibrio e dalla tridimensionalità delle sculture antiche, annotano pose complesse, muscoli tesi e attitudini le più svariate. In questo modo apprendono le regole della rappresentazione naturalistica delle figure da parte degli artisti antichi, addentrandosi sempre più in una ricerca pienamente rinascimentale dello studio del corpo umano.Un disegno di Benozzo Gòzzoli (Pisa, 1420-Pistoia, 1497), risalente al 1447/1449, raffigurante una delle statue dei Dioscuri del Quirinale è, forse, il più rappresentativo di tale atteggiamento indagatore. In esso, eseguito a punta di metallo e a piccole pennellate di biacca su carta preparata azzurra, l’artista persegue la ricerca delle giuste proporzioni e la delineazione dei muscoli che emergono dal fondo come colpiti dalla luce (in un leggero grigio, invece, sono rese tornite le parti in ombra). Lo stesso è per il cavallo impennato che il giovane trattiene facendo perno sulle gambe divaricate, spostando il baricentro del corpo, tendendo il braccio sinistro e allontanando dal corpo il destro. Le attitudini complesse delle statue classiche, rese famose dalla tradizione o dal luogo significativo che le ospita, colpiscono talmente gli artisti che anche nella copia dal vivo, in bottega, fanno addirittura assumere ai giovani modelli le loro posizioni. È ancora un disegno della scuola del Gozzoli a rivelarci questa pratica. Eseguito a punta di metallo e a biacca su carta preparata rosso-porpora, esso mostra, infatti, un modello che si ispira alla posa del celebre Spinario del Palazzo dei Conservatori. FILIPPO BRUNELLESCHI (1377-1446) Filippo Brunelleschi diede inizio alla nuova architettura del Rinascimento. Figlio del notaio Brunellesco Lippi, Filippo dovette avere una formazione che comprendeva anche lo studio della lingua latina. Appassionato delle scienze esatte e in modo particolare la matematica, ma soprattutto prediligeva il disegno, la pittura, la scultura e l’architettura. Dopo aver iniziato la propria attività artistica di orafo ed essersi poi affermato pubblicamente nel 1401 al concorso per la Porta Nord del battistero fiorentino, Brunelleschi dedicò tutta la sua vita all’architettura. Alcuni soggiorni di studio a Roma – i primi da collocarsi, verosimilmente, attorno al 1404-1409, assieme al giovane amico Donatello, e un successivo nel 1417-1418 – permisero a Filippo di avere una profonda conoscenza dell’architettura degli antichi. CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE (1420-1436) Filippo, che già era stato consultato dall’Opera di Santa Maria del Fiore per questioni inerenti al completamento delle tre tribune (1404) e alla sopraelevazione del tamburo (1410) della cattedrale fiorentina, partecipò al concorso (bandito nel 1418 dalla potente Arte della Lana) per la realizzazione della cupola, che ancora mancava per la conclusione della fabbrica. In quegli anni la cattedrale della città toscana era ancora senza copertura nella zona del coro e l’immane spazio ottagonale su cui era stata prevista una cupola aveva il considerevole diametro di ben 78 braccia fiorentine, cioè circa 46 metri. Se mettiamo in conto anche lo spessore del tamburo arriviamo a 92 braccia (pari a circa 54 metri). Brunelleschi propose di costruire una cupola che noi oggi chiamiamo autoportante, cioè capace di sostenersi da sé durante la costruzione, senza richiedere l’aiuto delle armature di legno (visto che la loro realizzazione sarebbe stata improponibile per l’altezza dell’imposta della cupola, circa 50 metri da terra, per la quantità di materiale necessario e per l’incapacità di una qualunque armatura lignea a sostenere il peso della struttura). La proposta sembrò folle: Filippo fu oggetto di scherno e per ben due volte fu portato via di peso dalla sala dove maestri toscani, italiani e stranieri presentavano le loro proposte e discutevano su come voltare la cupola fiorentina. Alla fine il suo progetto ebbe la meglio su quelli degli altri concorrenti. Nel 1420 poté iniziare la costruzione della «grande macchina». A Filippo venne dato per compagno nell’impresa Lorenzo Ghiberti ma questi, già dal 1425, non ebbe più una parte di rilievo nella costruzione. Iniziato a partire dal 1419 nei pressi della Chiesa dei Servi di Maria, lo Spedale degli Innocenti pose le premesse per la creazione della piazza porticata della Santissima Annunziata. L’edificio, al quale Brunelleschi si dedicò con continuità fino al 1423 e che fu concluso da altri, si articola attorno a un chiostro centrale che è affiancato da due grandi ambienti: la chiesa e il dormitorio per gli orfani. Esso si innalza su un ripiano – quasi come sullo stilobate di un antico tempio – a cui si sale per mezzo di nove gradini. Nove sono anche le arcate del porticato, nella porzione inferiore dell’edificio, e altrettante sono le campate coperte da volte a vela. E nove, infine, sono le finestre di forma classica che ricordano quelle del battistero fiorentino di San Giovanni. Sormontate da un timpano, esse poggiano direttamente sulla cornice dell’alta trabeazione, che, tangente al cervello degli archi, è sostenuta da un ordine maggiore di paraste situate alle estremità della fabbrica. Tali paraste sono a loro volta affiancate da colonne libere, che ispireranno poi Masaccio nell’affresco della Trinità. Nei timpani Filippo aveva progettato dei tondi concavi, a scodella, tangenti a due archi contigui e al sovrastante architrave (dello stesso tipo di quelli presenti nella Trinità). Solo nel 1487 essi furono sostituiti da ceramiche invetriate di Andrea Della Robbia. L’architrave a tre fasce di uguale altezza – contrariamente all’uso classico – gira alle estremità, piegandosi ad angolo retto e volgendo verso il basso: secondo il biografo Manetti si tratterebbe di un errore dei continuatori di Brunelleschi; tuttavia è una derivazione diretta dall’architrave dell’attico del Battistero fiorentino, quindi da considerarsi «all’antica». Il fregio, inoltre, al pari della pala centrale del Polittico del Carmine di Pisa di Masaccio, presenta un motivo strigilato derivato da sarcofagi romani. Per quanto tale motivo si riscontri solo in una piccola porzione di fregio all’estremità destra, occorre considerarlo esteso all’intero elemento della trabeazione. La sintassi di ordine e archi, invece, dipende certamente dall’esempio romanico della navata centrale della Basilica di San Miniato nella quale, visivamente, le fasce di marmo verde e bianco, all’altezza dei capitelli delle alte semicolonne, simulano una trabeazione che corre ininterrottamente al di sopra sia degli archi sostenuti dalle colonne che dividono le navate, sia al di sopra degli archi sostenuti dalle semicolonne dell’abside. Dai capitelli di San Miniato, infine, Filippo riprende il pulvino modanato a gola dritta che pone al di sopra degli abachi dei capitelli corinzi dalle grandi volute dello Spedale. L’intercolumnio è pari all’altezza delle colonne e alla profondità del porticato. La campata, allora, risulta di forma cubica. Lo spazio del loggiato, quindi, può definirsi modulare. Ciò significa che nella sua realizzazione Brunelleschi utilizza ripetutamente la stessa misura al fine di meglio scandire lo spazio.Inoltre, la distanza fra il pavimento e l’estradosso della cornice della trabeazione equivale al doppio dell’altezza della colonna. A tale altezza è pari anche la distanza fra l’estradosso dell’architrave e l’intradosso della cornice di sottogronda, mentre metà altezza della colonna costituisce la dimensione complessiva delle finestre, dal davanzale al vertice del timpano triangolare. Nel progetto brunelleschiano il loggiato avrebbe dovuto essere delimitato, alle estremità, da due campate chiuse. Esse si sarebbero presentate come superfici racchiuse entro alte paraste, sormontate dalla trabeazione. Altre paraste più piccole, in corrispondenza di quelle maggiori, avrebbero segnalato il diverso valore assunto dal muro del secondo ordine. Diverso perché muro pieno su muro pieno, al contrario della grande porzione centrale che si qualificava, invece, come muro pieno sul vuoto del loggiato sottostante. SAGRESTIA VECCHIA DI SAN LORENZO La composizione modulare diventa oggetto di ulteriore studio e approfondimento anche nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo (1422-1428), così detta per distinguerla dalla Nuova, edificata nel secolo successivo da Michelangelo. L’incarico a Brunelleschi venne dato da Giovanni di Averàrdo de’ Medici (detto Giovanni di Bicci), padre di Cosimo il Vecchio, il creatore della fortuna medìcea, forse nel 1419, anche se i lavori iniziarono solo attorno al 1422. Negli intendimenti del committente il nuovo edificio avrebbe dovuto servire anche da cappella funeraria di famiglia.La Sagrestia Vecchia è un ambiente al quale si accede dal braccio sinistro del transetto della Basilica di San Lorenzo ed è composto da uno spazio pressoché cubico al quale è sovrapposta una cupola emisferica ombrelliforme. Tale cupola, raccordata da quattro pennacchi sferici alle murature sottostanti, ha all’imposta dodici finestre circolari ed è rafforzata da altrettante nervature che le conferiscono, appunto, l’aspetto di un ombrello aperto. Le nervature sono solo la parte in vista di lame murarie dall’intradosso ad arco di circonferenza e l’estradosso rettilineo e inclinato, al pari di un arco rampante. Tra due lame murarie contigue si impostano, infine delle volte unghiate che seguono una doppia curvatura: quella delle nervature e quelle dei muri verticali del tamburo a terminazione ad arco (dove sono ospitate le dodici finestre circolari).Esternamente la cupola è coperta da una superficie tronco-conica, protetta da squame di laterizio. La sormonta una lanterna su sei colonnine coronata a sua volta da un cupolino convesso-concavo percorso da scanalature che si avvolgono a elica. Tale motivo decorativo è un’evidente suggestione derivante dalle eliche delle spinapesce della cupola di Santa Maria del Fiore.Sul lato opposto all’ingresso si apre la scarsèlla, un piccolo ambiente anch’esso a pianta quadrata, ma composto, in alzato, dal sovrapporsi di due cubi uguali coperti da una cupoletta emisferica su pennacchi con ornamentazione a conchiglia. La cupoletta è affrescata a imitazione di un cielo stellato recante le figurazioni dello zodiaco. Non a caso la cornice alla base della cupoletta imita un velario arrotolato e legato: la cupola, allora è come se perdesse illusoriamente di consistenza e attraverso un’apertura circolare, allontanando una vela di stoffa, si potesse vedere il cielo. Tutte le pareti della Sagrestia sono scandite dalle paraste, dalla trabeazione e dagli archi in pietra serena che risaltano contro il bianco dell’intonaco nudo (non decorato). Le paraste assumono diverse forme in base alla collocazione. Le quattro degli angoli del vano maggiore sono piegate simmetricamente ad angolo retto, allo stesso modo di quelle nelle nicchie del Pantheon. Nei due angoli di fondo della scarsella, invece, esse sono filiformi: si presentano, cioè, come se fossero lo spigolo sporgente di un pilastro quasi completamente affogato nella muratura. Infine, quelle che introducono alla scarsella costituiscono le due facce visibili di una «colonna quadrangolare», avvolgendo lo spigolo «convesso».La trabeazione, con la cornice decorata da cherubini rossi e blu (ripresi da quelli del Battistero di San Giovanni), corre senza interruzione in ambedue gli ambienti – dal piano di calpestio e dall’altezza diversi – dando in tal modo la sensazione di un’assoluta unità spaziale. CAPPELLA DE’ PAZZI Costruita all’interno del chiostro della Basilica di Santa Croce, su commissione di Andrea de’ Pazzi, la Cappella de’ Pazzi rivela una ricerca spaziale e planimetrica interpretabile come meditazione sulla Sagrestia Vecchia, sulla quale si modella complicandone la geometria. Tradizionalmente attribuito a Filippo Brunelleschi – ma senza alcun appoggio documentario – l’edificio dovette essere iniziato attorno ai primi degli anni Trenta del Quattrocento. La cappella, solo in piccola parte realizzata nel 1443, ai tempi del soggiorno fiorentino di papa Eugenio IV, ebbe la copertura maggiore conclusa nel 1459/1460 e la cupoletta del portico chiusa nel 1461. Evidentemente essa fu costruita in gran parte dopo la morte del Brunelleschi, ma, forse, su un progetto risalente agli anni Venti. Tale ultima considerazione giustificherebbe l’iscrizione della piccola architettura fra le opere del maestro, collocandosi prima della svolta degli anni Trenta, quando la progettazione brunelleschiana mutò orientamento e la linea curva soppiantò la linea retta negli interessi compositivi di Filippo. L’ambiente principale, basato sulla forma quadrata, si dilata in un rettangolo la cui copertura comprende una cupoletta emisferica centrale affiancata da due volte a botte. La scarsella ripete lo schema della Sagrestia Vecchia, mentre la copertura del porticato antistante la cappella replica quello del vano interno di maggiori dimensioni.Il problema delle paraste di diversa altezza, ma gravate dalla medesima trabeazione – soluzione poco corretta secondo la sintassi architettonica – presente nella Sagrestia Vecchia, viene risolto nella Cappella de’ Pazzi con una panca in muratura che, correndo tutt’attorno al perimetro dell’ambiente maggiore alla stessa quota del pavimento della scarsella, consente alle paraste di avere un’altezza costante.Tuttavia, su tutte le pareti, benché ridotto a semplice motivo decorativo, viene comunque ripetuto il tema delle quattro paraste sormontate dalla trabeazione sulla quale poggiano due archi concentrici, che nella Sagrestia Vecchia costituiva la complessa organizzazione geometrica della sola parete con l’accesso alla scarsella. A tale parete erano subordinate le altre tre pareti lasciate nude.La facciata, non conclusa e difficile da inquadrare all’interno del linguaggio architettonico e strutturale del Brunelleschi – che mai ricorre alle colonne architravate –, è divisa in due parti. Quella inferiore comprende un portico con colonne corinzie trabeate. Quella superiore, invece, è costituita da una parete piena, ornata a riquadri, scandita da coppie di parastine che sostengono una trabeazione con un fregio strigilato. Nel suo complesso la facciata si esprime secondo i modi dell’architettura fiorentina del secondo Quattrocento. Sulla fabbrica spicca la copertura della cupola centrale che segue la stessa tecnica costruttiva di quella della Sagrestia Vecchia, della quale ripropone anche la soluzione esterna costituita da una superficie conica sormontata da una piccola lanterna. La scarsa accuratezza nell’esecuzione dei particolari, le soluzioni distributive e il linguaggio architettonico degli interni, a volte ingegnosi, a volte ripetitivi, così come la mancanza di certezze quanto a datazione e a commissione, hanno portato a dubitare della paternità brunelleschiana della fabbrica e a proporre un diverso progettista: l’architetto Michelozzo di Bartolomeo. BASILICA DI SAN LORENZO Il progetto per la Basilica di San Lorenzo risale a circa il 1418, ma Filippo viene coinvolto nella costruzione forse solo nel 1421. Il Brunelleschi aveva progettato un edificio a tre navate con cappelle laterali, ma, a motivo dei costi, fu costretto a ripiegare su una soluzione che escludeva le cappelle. Queste, infatti, sarebbero state realizzate solo in corrispondenza del transetto e ai fianchi dell’abside, seguendo uno schema già sperimentato a Firenze nel Trecento nelle chiese di Santa Croce, Santa Maria Novella e Santa Trìnita. I lavori iniziati nel 1425, furono ripresi solo nel 1442 e poi conclusi da Antonio Manetti Ciàccheri dopo la morte di Brunelleschi, ma solo negli anni Settanta del Quattrocento vennero aggiunte le cappelle delle navate laterali. L’esterno dell’edificio mostra, con molta chiarezza, il compenetrarsi di solidi geometrici puri. Benché con molte incongruenze – soprattutto nel transetto – in San Lorenzo è chiara la concatenazione dei vari elementi architettonici. L’arco che introduce alle cappelle laterali, infatti, è inquadrato dall’ordine costituito da paraste sulle quali corre una trabeazione. Quest’ultima si specchia nel segmento (o porzione) di trabeazione che sovrasta i capitelli delle colonne che dividono la navata centrale (con copertura piana) dalle laterali (con una successione di volte a vela) e che diventa anche il sostegno per gli archi gettati tra una colonna e l’altra. Questi archi, a loro volta, sono tangenti alla trabeazione dell’ordine maggiore su pilastri che inquadrano il sistema delle arcate. Infine, al di sopra di questa seconda trabeazione si collocano gli arconi che sostengono la cupola, che si innalza all’incrocio del transetto con la navata centrale. Filippo seguì certamente i lavori delle cappelle che affiancano l’abside e di quelle delle due fra loro comunicanti e adiacenti alla Sagrestia Vecchia (cappelle anch’esse sotto il patronato della famiglia Medici). In tal modo entrambe le testate dei bracci del transetto si presentano con grandi arcate su due pilastri, affiancati da paraste, definendo, con la trabeazione che corre sugli elementi verticali vicini, il primo schema rinascimentale cosiddetto a «serliana». Dopo la scomparsa di Filippo e senza la sua supervisione il proseguimento della costruzione si rese difficile. Particolarmente problematico risultò l’inserimento del transetto nel corpo longitudinale, dove un sistema di pilastri cruciformi, definiti da un insieme di paraste, di cui due maggiori e due minori, doveva reggere i quattro grandi arconi per il sostegno della cupola. Sulle paraste minori si Progettato forse nel 1422 e realizzato nel 1423-1425 insieme a Donatello – che dovette eseguirne i dettagli decorativi – il Tabernacolo della Mercanzìa è fra le prime opere rinascimentali a proporre colonne ioniche complete di trabeazione (nel quasi coevo affresco della Trinità di Masaccio, ad esempio, le colonne ioniche non sono trabeate). Su di esse un arco a tutto sesto introduce a una nicchia dotata di un catino a conchiglia, sulla cui superficie semicilindrica prosegue la trabeazione stessa. Secondo il moderno linguaggio brunelleschiano le colonne, a scanalature spiraliformi, sono inquadrate da un ordine di paraste scanalate e rudentate sormontate dalla trabeazione e coronate da un timpano. Traendo spunto dal Battistero, Michelozzo e Donatello hanno voluto fondere in un solo elemento le due tipologie di finestra del secondo ordine dell’edificio romanico fiorentino, quella rettangolare timpanata e quella ad arco su colonne. Di straordinaria verosimiglianza è la rappresentazione di una stuoia di paglia (o di corda). Questa, scolpita, si piega e si avvalla in corrispondenza delle mensole sulle quali l’intero complesso sembra semplicemente appoggiato e miracolosamente in equilibrio. MONUMENTO BRANCACCI Un linguaggio più personale, ma ancora ispirato dal rovesciamento della sintassi classica operato dal Brunelleschi appare nel Monumento funebre del cardinale Rainaldo Brancacci. Eseguito, in collaborazione con Donatello, nel 1425-1427, per la chiesa di Sant’Angelo a Nilo, fondata dallo stesso cardinale, il monumento è un’elaborazione della tomba trecentesca. Anche qui, infatti, due angeli scostano le cortine, come già, per esempio, nella Tomba del cardinal de Braye di Arnolfo di Cambio. Il sarcofago, sorretto da cariatidi e sormontato dalla statua giacente dello stesso cardinale, è inserito all’interno di un’architettura. Questa si presenta con il fronte sostenuto da due colonne composite, dal fusto scanalato e rudentato. Su di esse una trabeazione, costituisce l’appoggio per due coppie di lesene che stringono fra loro un arco a tutto sesto. Sulla parete di fondo, infine, le colonne si trasformano in paraste. La struttura è coronata da un timpano mistilineo, Al suo interno, entro una ghirlanda di foglie, è rappresentato l’Eterno in atto di benedire. PALAZZO MEDICI Capolavoro di Michelozzo resta il Palazzo Medici (1444-1464), il capostipite dei palazzi fiorentini «alla moderna». Fu Cosimo il Vecchio a volerlo e ad affidargliene la costruzione. Fondamentale e strategica è la posizione del palazzo all’interno del tessuto urbano di Firenze. Situato all’incrocio di due strade, lì dove l’attuale via Martelli piega verso Nord-Ovest restringendosi a formare la via Larga (oggi via Cavour), l’edificio sporge verso la superficie stradale con il suo angolo Sud-Est. In tal modo esso si impone alla vista di chi proviene dalla cattedrale o dal battistero, rivelando, così, la sua collocazione nei piani più alti della gerarchia politico-architettonica della città toscana. Il grandioso palazzo aveva una forma originariamente cubica. Come in una domus romana i vari ambienti si articolano attorno a un cortile centrale al quale si perviene attraverso un vestibolo coperto da una volta a botte. Alla sinistra il portico introduceva alle scale che conducevano ai piani superiori e alla cappella di famiglia (Cappella dei Magi). Oltre il cortile, infine, si apriva un giardino chiuso da alti muri. Esternamente l’edificio si presentava con un bugnato rustico assai pronunciato al piano terreno, meno accentuato e molto più regolare al piano primo e con conci appena rilevati al piano secondo.Tale differenziazione di trattamento si accompagna alla progressiva diminuzione d’altezza dei piani e all’imponente cornicione all’antica (con modiglioni preceduti nella sottocornice da motivi a dentelli e a ovoli e dardi), che sostiene il forte aggetto del tetto e chiude, superiormente, il blocco compatto del palazzo. In luogo degli attuali finestroni michelangioleschi, in origine l’angolo sinistro dell’edificio presentava due grandi arcate che consentivano l’accesso a un’imponente loggia aperta. La differenziazione dei bugnati che Michelozzo applica qui per la prima volta sarà destinata a diventare il riferimento d’obbligo per l’esecuzione del paramento murario esterno di ogni successivo palazzo rinascimentale fiorentino. Anche il cortile centrale, porticato con archi e colonne al piano terreno, chiuso con finestre a bifora al piano primo e coronato da una loggia architravata al piano secondo, diventerà uno degli elementi più ricorrenti e caratterizzanti della nuova tipologia edilizia privata tra Quattro e Cinquecento. In esso la scelta delle sole colonne (con capitello sormontato da una cimasa a gola), l’architrave tangente alle ghiere degli archi, l’alto fregio, la cornice su cui poggiano direttamente le bifore rivelano la dipendenza dal brunelleschiano Spedale degli Innocenti. La colonna d’angolo, vera cerniera della fabbrica, dà luogo alla poco felice posizione delle finestre del primo piano, più vicine all’angolo stesso. Esse sono estremamente ravvicinate, rompendo, così, il ritmo dimensionale del cortile. Vedremo come, in seguito, il Palazzo Ducale di Urbino e il Palazzo di Raffaele Riàrio (o della Cancelleria) a Roma proporranno sistemi maggiormente articolati e soluzioni d’angolo più convincenti. LORENZO GHIBERTI (1378-1455) Lorenzo di Cione Ghiberti nasce a Firenze nel 1378 e la maggior parte della propria attività nella città natale dove muore, nel 1455.La sua formazione avviene presso la bottega orafa del padre dove apprende sia l’arte del disegno sia, soprattutto, quelle della fusione e del cesello, specie su lamine preziose d’oro e d’argento. IL CONCORSO DEL 1401 La prima importante occasione che si offre al Ghiberti per verificare la propria maturità artistica risale al 1401, quando l’Arte dei Mercanti, una delle più ricche e potenti di Firenze, decide di bandire un concorso per la realizzazione della seconda porta (Porta Nord) del Battistero di San Giovanni. Il fatto che per assegnare questo prestigioso incarico (il Battistero è il monumento al quale i Fiorentini sono stati, da sempre, più legati) venga bandito un apposito concorso è un sintomo significativo di come i tempi stiano cambiando. I mercanti, punta emergente della nuova borghesia imprenditoriale cittadina, comprendono subito che la concorrenza fra più artisti è garanzia di risultati qualitativamente migliori. Il ragionamento sorprende per la sua modernità e concretezza. In tal modo, infatti, si sarebbe accresciuto il decoro della città che, a sua volta, avrebbe ulteriormente consolidato l’immagine e il prestigio dei suoi mercanti rispetto a quelli di tutte le altre città commercialmente concorrenti. Al concorso prendono parte i migliori artisti del tempo, ma fra tutti spiccano in particolar modo i nomi, allora ancora poco conosciuti, di Jacopo della Quercia, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti. Il tema consiste nel realizzare una formella in bronzo dorato raffigurante la scena biblica del Sacrificio di Isacco. Le prescrizioni dell’Arte dei Mercanti sono, a tale riguardo, quanto mai precise e restrittive. La cornice, infatti, deve essere mistilìnea (cioè formata dal succedersi di profili retti e curvi) e quadrilobàta. Tale complessa sagomatura era imposta dalla necessità di uniformarsi alla preesistente Porta Sud, realizzata da Andrea Pisano tra il 1330 e il 1336. Il tempo di esecuzione, infine, non poteva essere superiore a un anno e la quantità dei materiali da impiegare doveva limitarsi al minimo possibile. Solo le formelle di Ghiberti e Brunelleschi (già allora giudicate le migliori) sono giunte fino a noi e sono oggi conservate al Museo Nazionale del Bargello di Firenze. Dopo varie vicissitudini e molte polemiche la vittoria definitiva (e quindi la commissione per l’intera porta) viene comunque affidata al Ghiberti. LA FORMELLA DI GHIBERTI Nella composizione del Ghiberti, perfettamente inscrivibile nella figura di un quadrato, il gruppo dei personaggi di sinistra (nella parte bassa della formella), controbilancia quello di destra (raccolto nella parte alta), secondo una tradizione di equilibrio e compostezza di ispirazione classica. La roccia che divide geometricamente la scena sottolinea con efficacia i due diversi momenti della narrazione. A sinistra gli ignari servitori, in atto di parlottare tranquillamente fra loro, e – sul lato opposto – Abramo e Isacco. Le figure dei due protagonisti sono realizzate con grande perizia tecnica e abbondanza di particolari, sicuramente derivanti dall’esperienza di orafo alla bottega del padre. Dai loro gesti armoniosi e lenti, però, non traspare la drammaticità del momento. Il perfetto nudo di Isacco, infatti, è un’ulteriore citazione classica, così come la decorazione a girali dell’altare. L’angelo, infine, che si materializza dal nulla inarcandosi in senso inverso rispetto a quello del lobo che lo contiene, costituisce una presenza puramente simbolica. Egualmente simbolico, del resto, è anche il gesto con il quale egli ingiunge al vecchio patriarca di fermare la mano omicida. Significativa è l’arditezza prospettica con la quale l’angelo fuoriesce dal piano della formella, creando un forte effetto di profondità spaziale. Alla figura angelica fanno riscontro, nel lobo diametralmente opposto, uno sperone roccioso e un asino che bruca l’erba, quasi a sottolineare la contrapposizione fra la dimensione terrena (la roccia e l’animale) e quella divina (l’angelo e il cielo). L’attenzione naturalistica, del resto, raggiunge sempre livelli raffinatissimi, come nella rappresentazione della piccola lucertola, sulla roccia in basso, ai piedi di Abramo. LA FORMELLA DI BRUNELLESCHI Nella formella del Brunelleschi la scena, racchiusa nel perimetro di un triangolo isoscele orientato verso l’alto si anima di accenti più drammatici. Isacco, al centro della composizione e ruotato su se stesso, cerca infatti di svincolarsi dalla presa del padre che gli si avventa contro con la forza della disperazione. Questa volta l’intervento dell’angelo, le cui forme assecondano quelle del lobo superiore sinistro, è tutt’altro che simbolico. Egli è rappresentato nell’atto di bloccare fisicamente il braccio di Abramo, afferrandolo con una mano per impedire lo spargimento di sangue. Divino e umano, entrano drammaticamente in contatto, con un intervento assolutamente deciso e risolutore. Significative, nella loro marginalità, appaiono infine le figure dei servi, nei due lobi inferiori, che risultano quasi simmetriche a quelle della metà superiore della formella. Entrambi i personaggi, uno dei quali si ispira al modello classico del cosiddetto Spinario, forse visto durante il soggiorno romano, sono intenti alle proprie faccende. La loro descrizione è estremamente naturalistica, tanto che Brunelleschi, pur incurvandoli per assecondare la forma della cornice, li fa addirittura fuoriuscire da essa. La sensazione che si ricava osservando la formella è, nel suo complesso, di grande vivezza e drammaticità. L’uomo si mostra ormai insofferente agli schemi nei quali l’arte gotica l’aveva costretto e cerca pertanto di eluderli, allo stesso modo dei due servi che balzano fuori dall’angusto spazio nel quale la forma gotica della formella li costringe. Alle novità brunelleschiane la giuria dei mercanti preferisce comprensibilmente le maggiori garanzie di equilibrio compositivo, di perizia tecnica e di affidabilità organizzativa offerte da Ghiberti. E per questo lo proclama vincitore. PORTA NORD DEL BATTISTERO DI FIRENZE Per realizzare l’opera il ventitreenne Ghiberti attrezza, a partire dal 1403, un’apposita bottega che, in breve, diverrà uno dei principali punti di riferimento artistico e culturale di Firenze. Da essa, infatti, passeranno – in qualità di apprendisti o collaboratori – i maggiori artisti del secolo. Personaggi quali Donatello, Michelozzo, Masolino da Panicale e Paolo Uccello, dunque, devono al Ghiberti non solo una parte importante della loro prima formazione, ma anche l’opportunità di essersi frequentati e di essere cresciuti artisticamente insieme.Nel 1424, dopo ben ventuno anni di lavoro, la porta è finalmente conclusa. Essa si compone di 28 formelle con cornice quadrilobata mistilinea rappresentanti scene della Vita e della Passione di Cristo e, nei due registri inferiori di entrambe le ante, ritratti degli Evangelisti e di quattro Dottori della Chiesa. I due battenti sono incorniciati da decorazioni a motivi floreali con, a ogni JACOPO DELLA QUERCIA (1371-1438) Jacopo di Pietro d’Agnolo di Guarnieri, detto Jacopo della Quercia, nasce tra il 1371 e il 1374 a Quercegrossa (da cui, forse, il soprannome), piccolo borgo nelle immediate vicinanze di Siena. La sua formazione tardo-gotica si riallaccia alla grande tradizione scultorea toscana dei Pisano, ma a Firenze, dove partecipa senza successo al concorso del 1401, entra in stimolante contatto anche con la nuova generazione di artisti che gravita intorno alla bottega del Ghiberti. Animo estroso e inquieto, Jacopo conduce una vita sregolata e turbolenta, segnata anche da denunce e condanne di vario genere, in una delle quali è descritto in modo molto denigratorio come «ladroncello senese picchiapietre». Nonostante queste sue intemperanze di carattere, che lo mettono spesso in contrasto con i suoi stessi committenti, l’artista lavora a Lucca, Firenze, Bologna e Siena, dove arriva anche a ricoprire l’importante carica di Operaio del Duomo (una sorta di soprintendente alla costruzione) e dove muore, forse a causa della peste, intorno al 1438. MONUMENTO FUNERARIO DI ILARIA DEL CARRETTO L’opera più celebre di Jacopo della Quercia è il Monumento funerario di Ilaria del Carretto, la giovane moglie di Paolo Guinìgi, signore di Lucca, morta di parto nel 1405. Realizzato all’incirca tra il 1406 e il 1408 su commissione dello stesso Guinigi, esso è diventato uno dei simboli più lirici della delicata fase di transizione tra il gusto gotico e quello rinascimentale. Il sarcofago, più volte disfatto e arbitrariamente ricomposto nel corso dei secoli, è diviso in due parti: l’arca, che si riallaccia alla tradizione delle sepolture romane (sarcofago costituito da cassa e coperchio), e la lastra di copertura, che riprende l’uso medioevale delle cosiddette tombe terràgne, le cui lapidi, cioè, erano poste al livello del terreno, in modo da inserirsi nella pavimentazione stessa delle chiese. La cassa, a forma di parallelepipedo, è costituita da quattro lastre marmoree realizzate con la probabile collaborazione di aiuti. Nella ricostruzione attuale le due lastre maggiori sono decorate da dieci puttini danzanti che reggono rigogliosi festoni di fiori e di frutta. In quelle minori, invece, sono rappresentati a bassorilievo rispettivamente lo stemma di famiglia (nel lato presso la testa, convenzionalmente denominato orientale). e, in corrispondenza dei piedi, una croce stilizzata formata da un intreccio di foglie d’acanto.La lastra di copertura, ricavata da un unico blocco di marmo bianco di Carrara, reca scolpita in rilievo molto alto, a grandezza pressoché reale, la composta e dolcissima figura di Ilaria. La veste della giovane donna, ancora poco più che adolescente, risente ancora dei canoni compositivi della scultura gotica. Il panneggio, infatti, accuratissimo nelle sue geometriche simmetrie, mira più a effetti decorativi che naturalistici. Lo stesso può dirsi anche per il cagnolino posto ai piedi della defunta quale simbolo di fedeltà coniugale. L’innaturale arricciolarsi della coda ne evidenzia subito il carattere simbolico.Vista dall’alto la figura giacente di Ilaria dimostra un rigore compositivo assoluto e quasi astratto. Essa, infatti, sembra generata dalla sovrapposizione di tre ellissi. La prima e più grande è formata dalle mani incrociate sul ventre e dalle pieghe morbidamente accomodate dell’ampia ciòppa. La seconda, mediana, è compresa tra la dolce piegatura delle braccia e l’alto colletto abbottonato. La terza e più piccola, infine, si estende tra il colletto e il tondeggiante cércine intrecciato di fiori che raccoglie le chiome ondulate dietro la nuca. Il volto della giovane donna, invece, contraddice ogni convenzionalità tardo- gotica e ci si presenta come uno dei primi ritratti di sensibilità già pienamente rinascimentale. I lineamenti distesi, ma non idealizzati, come di una fanciulla addormentata, trovano perfetto riscontro nella realistica acconciatura dei capelli e in quel lieve infossarsi dei due cuscini di marmo, quasi cedessero morbidamente sotto la testa. ALTARE TRENTA La presenza, di alcuni tentativi di rappresentare la verosimiglianza dei personaggi è evidente anche in un’altra opera lucchese che Jacopo esegue, tra varie vicissitudini, dal 1412 al 1422. Si tratta dell’altare marmoreo commissionatogli dal mercante e mecenate Lorenzo Trenta per la cappella di famiglia dedicata a San Riccardo, posta nella Basilica di San Frediano. La parte superiore dell’altare (una Madonna con Bambino circondata da quattro santi) presenta un’impostazione generale ancora gotica. Le figure, stilizzate e scarsamente espressive nonostante la straordinaria armonia del modellato e le teste quasi a tutto tondo, sono inserite all’interno di complesse archeggiature terminanti in pinnacoli di gusto fiammeggiante sormontati a loro volta da quattro busti di profeti. Nei bassorilievi della predella, invece, l’intento rappresentativo è assai più realistico. La formella centrale, in particolar modo, sembra addirittura opera di un altro artista. Essa, infatti, rappresenta un intenso Compianto sul Cristo morto. Maria, a sinistra, protende drammaticamente le mani verso il corpo martoriato di Gesù, mentre San Giovanni le raccoglie vicino al volto, quasi a proteggersi da quella tragica visione. La scena assume pertanto espressioni di grande intensità emotiva, facendo trasparire gli influssi della nascente scultura rinascimentale fiorentina. Nella natia Siena Jacopo realizza anche la Fonte Gaia (1408-1419), una vasca monumentale sul margine più alto di piazza del Campo, oggi in gran parte perduta e sostituita da una copia ottocentesca, e partecipa, insieme a Ghiberti e Donatello, alla decorazione del fonte battesimale nel Battistero di San Giovanni (1417-1429). ANGELO E ANNUNZIATA (1421-1426) Le due statue in legno a grandezza naturale dell’Angelo annunziante e della Vergine annunziata (firmate e datate da Jacopo nel piedistallo dell’angelo), testimoniano, infine, come l’artista avesse piena padronanza, oltre che della tecnica della scultura in marmo, anche di quella dell’intaglio, allora molto diffusa soprattutto in area settentrionale (dall’Italia del Nord alla Germania, fino alle Fiandre). La figura slanciata dell’angelo, raffigurato come un giovinetto dallo sguardo intenso e dalle grandi mani affusolate, si anima grazie al complicato panneggio del mantello. Questo, infatti, gli rigira sulle spalle e intorno alla vita, esaltandone la volumetria, come per sottolineare la fisicità dell’uomo, più che la spiritualità dell’essere divino.La Vergine, per parte sua, viene rappresentata come un’esile fanciulla percorsa da un moto naturale di sorpresa e d’inquietudine, con la mano destra che si alza a protezione istintiva del cuore. In questo caso il panneggio, che – secondo la moda del tempo – solca longitudinalmente la veste da sotto le ascelle fino ai piedi, con morbide onde parallele, asseconda la virginale delicatezza del corpo di Maria, che si inarca dolcemente, come un giovane virgulto carezzato dal vento. Nonostante si tratti di due sculture distinte, esse colloquiano comunque fra loro, volgendo le teste al fine di incrociare gli sguardi, in modo silenzioso ma intenso. La sgargiante vivacità dei colori originali e la raffinata brillantezza degli ori, tipica del gusto gotico internazionale, è dovuta al pittore e doratore senese Martino di Bartolomeo, che si firma a sua volta nel piedistallo della Vergine, a testimonianza di quanto anche questa rifinitura fosse ritenuta importante e tutt’altro che secondaria. DONATELLO (1386-1466) Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, nasce a Firenze nel 1386. Di modestissime origini, inizia il suo apprendistato artistico presso la bottega del già affermato Ghiberti, dal quale acquisisce sia le tecniche della fusione in bronzo sia l’amore per l’arte classica. Con l’amico Brunelleschi compie un primo viaggio a Roma agli inizi del Quattrocento e questo soggiorno si rivela fondamentale per la sua formazione, in quanto ha l’opportunità di ammirare direttamente opere scultoree della tradizione classica (soprattutto ellenistica e romana) delle quali in ambiente fiorentino aveva solo sentito parlare. In seguito tornerà a Roma almeno un’altra volta (1432/1433), forse in compagnia di Michelozzo, avendo così modo di approfondire gli aspetti più decorativi e trionfali della scultura tardo-antica. Molta dell’attività di Donatello si svolge a Firenze, alla cui crescita rinascimentale egli contribuisce forse più di ogni altro artista del tempo. Questo non gli impedisce, naturalmente, anche numerosi spostamenti. Intorno al 1416, ad esempio, lo troviamo a Pisa, dove insieme a Masaccio può ammirare le opere di Nicola e Giovanni Pisano. In seguito ha modo di esprimersi anche a Prato, con il pulpito marmoreo del Duomo (1428-1438) e a Siena. Qui egli lavora, in tempi successivi, alla decorazione del Battistero e del Duomo, finendo anche per soggiornarvi stabilmente almeno dal 1457 al 1461. Straordinario rilievo, infine, assume anche il decennio padovano (1443-1454) nel corso del quale, sulle orme di Giotto, lo scultore fiorentino si trasferisce nella città veneta, allora centro economico e culturale tra i più progrediti, gettando le basi della diffusione del Rinascimento anche nell’Italia settentrionale. Nel 1466 muore, ottantenne, nella sua piccola casa fiorentina nei pressi del Duomo. Con Donatello la scultura giunge a risultati irripetibili non solo perché, come scrive il Vasari, è stato il primo a sapersi riallacciare alla tradizione scultorea greco-romana, ma anche perché per primo ha saputo superarla, infondendo ai suoi personaggi un’umanità e un’introspezione psicologica che rimarranno a lungo uniche nella storia dell’arte. Nel corso di oltre un sessantennio di intensa attività Donatello sperimenta tutte le possibili tecniche (tuttotondo, altorilievo, bassorilievo, stiacciato) e tutti i possibili materiali (marmo, bronzo, terracotta, legno), riuscendo ogni volta a dare alle proprie opere un’impronta sempre assolutamente riconoscibile e innovativa. LE STATUE DI ORSANMICHELE La differenza e l’unicità della scultura di Donatello emergono con chiarezza osservando le statue che nel primo ventennio del Quattrocento le Arti di Firenze commissionano per decorare i tabernacoli esterni della Chiesa di Orsanmichele, loro antica sede storica e prestigiosa vetrina sulla città, stante anche la sua strategica collocazione a metà strada fra la cattedrale e il Palazzo della Signoria. Se mettiamo a confronto tre opere di Lorenzo Ghiberti, Nanni di Banco e Niccolò di Pietro Lamberti, ritenuti al tempo fra i massimi scultori di Firenze, ci rendiamo subito conto di quanto esse, pur nella loro diversità di fattura e di materiali, siano ancora sostanzialmente omogenee al gusto tardo-gotico allora corrente. In esse, infatti, si prediligono lo sviluppo diagonale sottolineato anche dall’andamento sinuoso delle pieghe degli abiti, ora più ora meno accentuato, e il minuto decorativismo, a scapito del realismo che vedremo, invece, molto più accentuato già nel primo Donatello. Con il San Giovanni Battista (1412-1416), realizzato per l’Arte della Seta, di cui il Santo era il protettore, il Ghiberti si cimenta per la prima volta con la fusione di una statua a tutto tondo di grandi dimensioni. La figura affusolata, il panneggio drappeggiato a larghe campiture, la gamba sinistra portante e la destra lievemente avanzata, in modo da conferire alla figura una postura morbida e armoniosa, sono tutte caratteristiche ancora riconducibili ai modi della ornata scultura trecentesca. I bordi del mantello e i calzari originariamente dorati, così come gli occhi in lamina d’argento, infine, si rifanno con evidenza ai modelli classici. Il Sant’Eligio (1417-1421) in marmo che l’Arte dei Fabbri commissiona pochi anni dopo a Nanni di Banco attinge con maggior forza anche alla tradizione romana del ritratto. Il personaggio, in nobili abiti vescovili, ha una postura severa ed equilibrata, con un andamento leggermente arcuato e la testa appena ruotata. Lo spesso panneggio si diparte a ventaglio dal fianco destro verso il basso, generando fra le pieghe l’alternarsi di profonde zone d’ombra. Anche in questo caso i bordi del mantello recano tracce di doratura, così come la mitria, i capelli e la barba, mentre alcune permanenze di un pigmento azzurro ci fanno immaginare che anche il mantello fosse vivacemente colorato. Più o meno allo stesso periodo risale anche il San Giacomo Maggiore (1420) in marmo che Niccolò di Pietro Lamberti realizza per l’Arte dei Vaiai e Pellicciai, dei quali il Santo marmo sul quale salivano i coristi per accompagnare le celebrazioni liturgiche. La Cantoria di Donatello è gemella di quella alla quale Luca Della Robbia stava lavorando già da un paio d’anni e che era collocata nella parete di fronte. Il tema di entrambe le opere è il gioioso Salmo 150 dell’Antico Testamento, nel quale tutti sono invitati a lodare Dio con canti, musiche e danze. L’impostazione che l’artista conferisce al proprio manufatto è personalissima. Partendo da uno spunto di chiara derivazione classica (il fregio continuo di età ellenistica), egli inventa uno spazio prospettico nuovo entro il quale muovere i vari personaggi. Tale spazio è delimitato anteriormente da un’agile serie di colonnette rivestite di mosaici policromi e, posteriormente, dal piano di fondo del bassorilievo, anch’esso variamente punteggiato di tessere dorate. Entro questi due precisi limiti spaziali si svolge lo sfrenato corteo dei putti danzanti, la gioiosa vivacità dei quali non trova riscontro in nessun’altra rappresentazione scultorea precedente.La scena, alla cui realizzazione ha contribuito anche qualche aiuto del maestro, ha, nel suo complesso, poco di religioso e le ali, che dovrebbero qualificare i putti come cherubìni, sono di fatto il particolare meno appariscente, avendo scelto Donatelo di avvicinare quanto più possibile la gioia celeste a quella di bimbi innocenti e festosi. Quel che emerge dal convulso agitarsi dei personaggi è una prorompente e quasi ossessiva voglia di movimento. Questa è resa ancor più credibile da Donatello grazie all’artificio tecnico di lasciare alcune figure più in stiacciato o appena sbozzate, in modo che, viste da lontano, appaiano sfuocate, quasi come se stessero veramente danzando. Donatello, infine, aggiunge artificio ad artificio. Le coppie di colonnine, infatti, non separano le scene l’una dall’altra, in quanto sono poste su un piano anteriore rispetto a esse. In questo modo ora coprono e ora scoprono parti del fregio a seconda di come si sposta chi guarda. Ecco allora che la percezione visiva dei fanciulli danzanti varia in continuazione e al loro movimento si deve aggiungere anche quello di chi, per avere un’idea complessiva di ciò che guarda, è costretto a spostarsi, non potendo cogliere l’intero fregio con un solo sguardo né da una sola posizione. DAVID (1440) Nel David in bronzo che Donatello realizzò per Cosimo de’ Medici intorno al 1440 l’intenso realismo del Banchetto di Erode cede il posto a una narrazione più serena. La scultura, perfettamente tornita e rifinita a tuttotondo, è stata pensata per la vista privilegiata anche dal basso e dal retro. Essa presenta alcuni tratti singolari, come lo strano copricapo, tanto che alcuni studiosi hanno proposto di identificarla con il giovane Ermes della mitologia greca. In questo caso il dio sarebbe colto nell’atto di osservare con pacato distacco la testa mozzata di Argo, da lui ucciso per ordine di Zeus. Partendo da uno spunto classico (questa è la prima statua, dopo oltre un millennio, che raffiguri un nudo virile) Donatello conferisce al suo personaggio, chiunque esso rappresenti, un’espressione di naturale pensosità, in vivace contrasto con l’innaturale postura del corpo, attinta con ogni probabilità dalla statuaria di derivazione policletea.Tutto il peso del giovane corpo grava sulla gamba destra, imponendo un corrispondente abbassamento del bacino a sinistra. In opposizione a questo la spalla sinistra è lievemente rialzata, mentre la mano destra impugna una lunga spada e il piede sinistro poggia, in segno di vittoria, sulla testa del nemico ucciso.La luce, ancora una volta, è impiegata come strumento di modellazione delle masse e, scivolando dolcemente sulle membra adolescenti del David-Ermes, finisce per addensarsi ai suoi piedi, ove crea ombre profonde sulla testa di Golia-Argo, ancora racchiusa dall’elmo ornato di ali, una delle quali si distende lungo l’interno della gamba destra del giovane. MONUMENTO AL GATTAMELATA Il periodo padovano, forse il più maturo della produzione artistica di Donatello, si caratterizza per la realizzazione del Monumento equestre al Gattamelàta e dell’Altare del Santo, rispettivamente collocati sulla piazza antistante alla Basilica di Sant’Antonio e all’interno della basilica stessa.La prima delle due opere consiste in un grandioso monumento celebrativo in onore del capitano di ventura Eràsmo da Narni (1370-1443), soprannominato Gattamelata che, combattendo al servizio di Venezia, ne estese i possedimenti in terraferma fino alla Lombardia. Il gruppo bronzeo e il suo alto basamento, vennero realizzati tra il 1445 e il 1453. Si ispira alla statuaria romana e, in modo particolare, al Marco Aurelio, del quale imita la collocazione: come il Marco Aurelio si trovava, allora, nel Campus Lateranensis, di fianco alla basilica romana di San Giovanni in Laterano, il Gattamelata è posto sul sagrato antistante la Basilica del Santo. Egli volge la testa verso la propria sinistra, al pari del cavallo. La mano sinistra regge saldamente le redini, mentre la destra impugna il bastone del comando, che risulta orientato in modo tale da proseguire nella direzione della retta ideale passante per lo spadone che gli pende dal fianco. In pratica, se immaginiamo il cavallo e il cavaliere su un piano, il bastone e la spada descrivono un’unica retta che taglia diagonalmente la composizione, contraddicendone lo sviluppo secondo le tre fasce orizzontali corrispondenti alle zampe del cavallo, al suo corpo e al busto del cavaliere. I tratti severi del volto, le ampie stempiature della fronte, lo sguardo risoluto, ma mai sprezzante, ne fanno uno dei ritratti più naturali e psicologicamente profondi del Quattrocento.Anche lo straordinario «naturalismo integrale» del cavallo, con la zampa anteriore sinistra appena sollevata e, per motivi statici, la punta dello zoccolo che poggia su una simbolica palla di cannone, contribuisce alla credibilità complessiva del cavaliere. Nonostante i riferimenti alla statuaria classica, infatti, esso è frutto di un indubbio studio dal vero. La tecnica di fusione, in più pezzi assemblati successivamente assieme, è tanto perfezionata da eguagliare quella degli antichi e da destare la meraviglia, come scrive il Vasari, di «ogni persona che al presente lo vede». ALTARE DEL SANTO Non inferiore per novità d’invenzione, grandiosità di progetto e dispiego di mezzi, d’altra parte, fu la realizzazione dell’Altare del Santo (1447-1450). La sistemazione attuale, frutto di un’arbitraria ricostruzione ottocentesca, nulla ci dice dell’originale assetto dell’opera, certo la più impegnativa e completa alla quale il maestro fiorentino si fosse mai applicato. Il grandioso altare, infatti, si componeva di ben 29 elementi scultorei fra statue bronzee a tutto tondo e bassorilievi in bronzo (dorato e argentato) e in pietra. L’apparato scultoreo, inoltre, era collocato in uno scenografico insieme architettonico che lo stesso Donatello aveva ideato, a imitazione di una sorta di tempietto sopraelevato, adorno di colonnine, balaustre e marmi policromi. Nel 1447 Donatello fa fondere le quattro formelle bronzee che rappresentano altrettanti miracoli di Sant’Antonio. Nel corso dell’anno successivo, poi, l’artista si dedica a «rinettàre» tutte le formelle, cioè a ripulirle con il cesello da ogni imperfezione dei residui di fusione e a lucidarle preparandole per la successiva doratura.Nella formella con il Miracolo della mula, originariamente collocata nella parte posteriore dell’altare, Donatello organizza lo spazio prospettico all’interno di tre grandiose volte a botte di ispirazione classicheggiante. Una serie di doppie inferriate a maglia quadrata divide ciascuna volta circa a metà della propria lunghezza, facendo appena intravedere una minuta decorazione a cassettoni realizzata in stiacciato. In questo modo l’effetto illusorio dello sfondamento prospettico risulta ulteriormente accentuato. Per accrescere ulteriormente l’effetto di imponenza dell’architettura l’artista abbassa la linea dell’orizzonte fino a farla coincidere con la base stessa della formella, in modo da conferire alla scena una suggestiva visuale da sotto in su. I vari personaggi si accalcano animatamente intorno all’asina affamata che, inginocchiatasi davanti al Santo, rifiuta l’avena che le viene offerta preferendo rimanere miracolosamente in adorazione dell’ostia consacrata. Nei volti, cesellati con minuzia e vigore, Donatello riesce a infondere espressioni di stupore e di incredulità. Ciò è straordinariamente evidente nella vivace figuretta che, salita su un basamento, si protende in avanti per osservare l’evento prodigioso, portandosi la mano sinistra davanti alla bocca in segno di stupore e meraviglia. MADDALENA Nell’ultimo decennio della sua vita Donatello ha ormai maturato una concezione artistica che va al di là degli stessi ideali rinascimentali, diventando spesso incomprensibile anche per i più acuti tra gli intellettuali del tempo. A quest’ultimo periodo appartiene, ad esempio, la celebre Maddalena lignea (ca 1455/1456), scolpita per essere collocata all’interno del battistero fiorentino di San Giovanni e oggi conservata al Museo dell’Opera del Duomo. Riallacciandosi ai concetti giovanili già espressi nei Profeti Geremia e Abacuc, Donatello abolisce ogni riferimento alla statuaria classica e concentra le proprie energie nella direzione di una profonda e partecipata analisi psicologica del personaggio. La Maddalena, rappresentata dopo il digiuno nel deserto, ci appare pertanto non solo consumata nel fisico, ma anche dilaniata nell’animo. Il volto ossuto e sofferente, le mani dalle dita lunghe e nodose, il corpo mortificato da un’informe cascata di capelli che la ricopre come un lungo saio, i piedi scheletrici modellati sul terreno come delle vecchie radici esprimono tutta la grandezza interiore della prostituta convertita a una vita santificata dalla penitenza. Anche la scelta di utilizzare il legno non appare casuale. Si tratta, infatti, di un materiale umile e al tempo stesso vivo, nel quale lo scalpello sembra scavare ombre e luci, come drammatiche ferite di un corpo. Il testamento artistico di Donatello sta, dunque, proprio qui, nella rivoluzionaria volontà di trasgredire ogni schema precostituito per arrivare a comprendere e a rappresentare, attraverso la scultura, i valori più profondi della dignità umana. ORAZIONE NELL’ORTO DEGLI ULIVI Le ultime opere alle quali Donatello lavora, ormai vecchio e infermo, avvalendosi molto dell’aiuto di allievi e collaboratori, sono i due grandi pulpiti per la Basilica di San Lorenzo, a Firenze: quello della Passione, a sinistra della navata centrale, e quello della Resurrezione, a destra. Variamente assemblati e ricomposti nel corso dei secoli, i pulpiti, a semplice base rettangolare, sono decorati sui fianchi con formelle di bronzo a rilievo recanti storie della Passione e Resurrezione di Cristo e, in quello di destra, anche la scena del martirio di San Lorenzo, santo al quale la basilica stessa è dedicata. La data di realizzazione è ancora molto dibattuta, ma sembra potersi attendibilmente stabilire fra il 1461 e il 1465.La formella con l’Orazione nell’Orto degli ulivi, oggi collocata sul retro del Pulpito della Passione è fra quelle nelle quali risalta in modo più evidente l’intervento diretto dell’artista, anche se il lavoro di fusione e rinettatura fu condotto soprattutto da Bartolomeo Bellano. La scena, inquadrata tra due paraste scanalate con capitelli decorati da putti che reggono un festone, rappresenta Gesù in ginocchio (al centro, in alto), in atto di pregare rivolgendosi a un angelo (al centro, a destra), mentre gli undici Apostoli (tutto intorno) siedono o giacciono addormentati. Il senso della profondità prospettica è data dai diversi piani del rilievo e dal contemporaneo rimpicciolirsi delle figure più lontane (Gesù compreso). Anche in quest’opera i personaggi sono colti in atteggiamenti di impressionante naturalezza, come nel caso dell’Apostolo in primo piano (a sinistra) che, sopraffatto da un sonno profondissimo, dorme con la bocca semiaperta, la testa reclinata di lato, il braccio sinistro abbandonato in grembo e le gambe scompostamente divaricate. La novità più grande, comunque, sta nell’interpretare le paraste e il fregio inferiore (che delimitano la scena rispettivamente ai lati e in basso) come elementi della scena stessa, sui quali i personaggi siedono o si appoggiano. In tal modo Donatello forza i limiti fisici della formella, facendone quasi fuoriuscire gli occupanti, alla ricerca di quella libertà espressiva di cui ha saputo essere il primo e più forte interprete del Quattrocento. MASACCIO (1401-1428) in un solido disco metallico. In tal modo essa ci appare, per la prima volta, di forma ellittica. Anche in questo caso la prospettiva del massiccio trono marmoreo è tracciata con grande rigore. Ne consegue che la linea d’orizzonte, sulla quale convergono tutte le rette di fuga degli spigoli idealmente perpendicolari al piano della tavola, coincide con la superficie della seduta. In questo modo Masaccio presuppone che, qualora il polittico venga posto dietro a un altare, il punto di vista possa cadere all’incirca all’altezza degli occhi di un osservatore che vi si ponga di fronte. La struttura stessa del trono è, del resto, assolutamente innovativa e dimostra l’interesse che Masaccio nutriva nei riguardi dell’architettura e dell’Antico. Il grandioso seggio, infatti, ha quasi la conformazione di un edificio monumentale e anticipa, addirittura, temi che saranno di grande attualità solo alla metà del secolo. La predella su cui la Vergine poggia i piedi, ad esempio, ricorda i sarcofagi strigilati romani, forse in relazione a dei reperti rinvenuti in area fiorentina o, meglio ancora, è riferibile al fronte di sarcofago – rilavorato – incastonato nella facciata del Duomo di Pisa (un raffinato omaggio, dunque, alla città che avrebbe dovuto ospitare il polittico stesso). I rosoni della parte inferiore del trono, sono anch’essi di derivazione classica. Del tutto originale, inoltre, è l’impiego delle colonnine di diversi ordini. Esso denuncia un’acuta curiosità per il rinnovamento architettonico che, proprio con il ritorno degli ordini antichi, Filippo Brunelleschi andava facendo attraverso le sue più recenti architetture. Nei fianchi del trono, infatti, Masaccio ricorre a colonnine composite inalveolàte, a loro volta sormontate da coppie di colonnine composite. Rare colonnine ioniche, infine, ornano la spalliera e, forse, rinviano a quelle del secondo ordine interno del Battistero fiorentino.Nella Crocifissione, posta nella parte superiore della pala, i quattro personaggi si stagliano contro un irreale fondo oro, che ne esalta ulteriormente le volumetrie. Essi sono composti in modo geometricamente rigoroso. Maria, a sinistra, di profilo, piange di dolore, immobile e severa, avvolta nel pesante mantello al quale il realistico chiaroscuro riesce a conferire una monumentalità di tipo scultoreo. A destra, San Giovanni, frontale e rivolto verso l’esterno del dipinto, ha un’espressione sconfortata e attonita, mentre appoggia la testa, tenuta piegata verso sinistra, sulle proprie mani giunte e intrecciate. Al centro, alto sulla croce del martirio, il Cristo è rappresentato nella dolorosa immobilità della morte. La vista dal basso in alto gli scorcia innaturalmente il collo, insaccandoglielo nelle spalle. Le braccia tese nello spasimo, il corpo pesante e le gambe tozze ci ricordano continuamente che il personaggio crocifisso è un uomo, non Dio. In basso, di spalle e di tre quarti, ecco infine la Maddalena, della quale non vediamo che una cascata di biondi capelli e due mani disperatamente protese verso quelle del Cristo, quasi a formare un ideale triangolo rovesciato. Di lei Masaccio riesce a farci intuire lo straziante dolore anche senza mostrarcene il volto. È Giovanni, infatti, l’unico a guardarla in viso, così che l’espressione dell’apostolo prediletto diventa anche specchio psicologico dello sgomento della donna. CAPPELLA BRANCACCI Nel grandioso ciclo di affreschi della Cappella Brancacci, nella Chiesa di Santa Maria del Carmine di Firenze, Masaccio si rifà a quelli di Giotto. Voluti da Felice di Michele Brancacci, ricco mercante e potente uomo politico, essi vengono eseguiti a partire dal 1424 in collaborazione con Masolino, per essere poi ultimati da Filippino Lippi tra il 1481 e il 1483. Il tema è quello della Vita di San Pietro, forse suggerito dallo stesso committente e dalla sua cerchia di colti umanisti, al quale si aggiungono anche scene tratte dalla Genesi. Nel ciclo di affreschi, successivo all’ipotizzato viaggio a Roma del 1423, la centralità della figura di Pietro allude a quella della Chiesa, prosecutrice dell’opera di salvezza dell’umanità iniziata da Cristo. La monumentalità con cui il Santo è raffigurato richiama quella della statua bronzea, ancora oggi nella Basilica Vaticana, alla quale i pellegrini toccavano per devozione il piede. Nell’affresco del Tributo, il primo in alto della parete di sinistra, Masaccio illustra un episodio del Vangelo di Matteo nel quale è descritto l’ingresso di Cristo e dei suoi Apostoli nella città di Cafàrnao. Come di consuetudine il gabelliere pretende da loro un tributo per il Tempio di Gerusalemme. Gesù, non vuole trasgredire le leggi e incarica Pietro di pescare un pesce nella cui bocca troverà una moneta d’argento per pagare la tassa dovuta. L’artista concentra nello stesso dipinto quattro momenti temporalmente diversi. Il primo, al centro, corrisponde a quando il gabelliere, rappresentato di spalle, esige il tributo. Si tratta di una rappresentazione di grande intensità in quanto in essa Masaccio mette bene in evidenza lo stupore nei volti degli Apostoli che si guardano increduli fra loro, incerti sul da farsi, poiché nessuno di essi possiede il denaro necessario. In questa scena vi è già il preannuncio della successiva, posta in secondo piano. Cristo, infatti, comanda a Pietro di recarsi a pescare e questi indica a sua volta il mare, quasi a chiedere conferma di un ordine che, in quel momento, gli sembra un po’ singolare. Sulla riva, a sinistra, è quindi raffigurato Pietro da solo, intento alla pesca prodigiosa. A destra, infine, nuovamente in primo piano, Pietro ricompare nel momento in cui, con un gesto estremamente deciso, consegna il denaro all’esattore. Tutti i personaggi hanno un rilievo quasi scultore. Masaccio definisce con il chiaroscuro i loro possenti volumi e i realistici panneggi, ricorrendo a pochi colori essenziali, approfondendo e portando alle estreme conseguenze la lezione giottesca della cappella padovana degli Scrovegni. Nonostante l’artificio di rappresentare contemporaneamente quattro azioni successive, la prospettiva adottata da Masaccio è sempre la stessa. Essa unifica pertanto sia lo spazio sia il tempo in una visione unitaria della realtà. Il paesaggio appare brullo e desolato, con le montagne che – per accentuare il senso dello sfondamento prospettico – sono disposte in successione cromatica: verdi quelle più vicine e grigio-azzurrognole quelle in lontananza, con le vette imbiancate di neve all’estremo limite dell’orizzonte. Anche le architetture sulla destra, infine, fantasiosamente ispirate all’edilizia fiorentina del tempo, contribuiscono a una chiara determinazione spaziale della scena, creando un insieme di volumi puri e geometricamente ben definiti. Poiché le ombre proiettate dai vari personaggi hanno tutte una stessa direzione, la fonte luminosa che Masaccio utilizza è evidentemente unica e puntiforme (il sole). Essa viene immaginata proveniente dal lato destro, in alto, fuori dai limiti dell’affresco, come se entrasse dalla bifora che illumina l’intera cappella. In tal modo la luce reale interagisce con quella dipinta, accrescendo ulteriormente quella che Vasari definisce la «similitudine del vero». Analoga per intensità e provenienza è anche la luce che illumina la scena della Cacciata dal Paradiso Terrestre, dipinta da Masaccio nel secondo registro del pilastro di sinistra dell’arco di accesso alla cappella, appena prima del Tributo. In questo affresco sono rappresentati Adamo ed Eva nel momento in cui l’angelo di Dio li caccia dall’Eden. Le due figure sono nude e l’ultimo restauro, condotto tra il 1984 e il 1990, ha giustamente eliminato le foglie che nella seconda metà del XVII secolo erano state aggiunte a tempera per mascherare il sesso dei personaggi. Masaccio descrive i Progenitori con volumetrie massicce, quasi sgraziate, modellandone realisticamente i corpi con grande uso di chiaroscuro. Adamo, il cui piede destro sta ancora varcando la porta del Paradiso Terrestre (una torre merlata), singhiozza disperato coprendosi il volto per la vergogna. Eva, che solo dopo il peccato originale può per la prima volta accorgersi della propria nudità e, conseguentemente, provarne vergogna, cerca di coprirsi i seni e il pube. Il suo volto, sfigurato da un dolore infinito, rappresenta uno dei vertici più alti e drammatici della pittura masaccesca. In esso vi è un intenso gioco di luci e di ombre con netta predominanza di queste ultime, come appare evidente nella bocca, spalancata in un urlo straziante, e negli occhi, contratti nella smorfia del pianto. La drammaticità della scena non è mitigata da alcun altro elemento. Il paesaggio del mondo al di fuori dell’Eden, infatti, si riduce a una roccia e, dietro a essa, a un cielo profondo e senza nuvole, quasi irreale nel suo azzurro troppo intenso. Il mondo, in altre parole, è brullo per meglio esprimere la sua origine di non «dissodato», ma anche in contrapposizione a ciò che i due sventurati si sono lasciati dietro: un paradiso di bellezza privo di necessità. Di tutt’altro tenore, invece, è la scena che Masolino dipinge all’inizio del secondo registro del pilastro di destra dell’arco di accesso alla cappella, dunque perfettamente di fronte alla Cacciata. In essa l’artista rappresenta la Tentazione di Adamo ed Eva, cioè l’azione che precede e giustifica il castigo divino. La pianta frondosa, qui rappresentata come un fico, allude al biblico albero del bene e del male, lungo il cui fusto si attorciglia, sfiorando anche il braccio e il fianco sinistri di Eva, il demonio in forma di serpente. Quest’ultimo, dotato di un’insinuante testa femminile, presenta un’iconografia che si riallaccia alla tradizione della pittura cortese tardo-gotica. I due personaggi, dal canto loro, ci appaiono di una compostezza severa, quasi classica. Eva, con la gamba sinistra avanzata di un passo, tiene delicatamente il frutto proibito con la mano destra, il cui braccio è piegato ad arco all’altezza della spalla. Il suo corpo, chiaro e levigato, presenta due seni appena accennati e comunque troppo alti, di modo che il petto risulta molto simile a quello di Adamo, alludendo con ciò a un’età dell’innocenza nella quale la differenza di genere non aveva ancora assunto alcuna importanza. La donna è colta mentre si accinge a offrire il frutto del peccato al compagno, che – a sua volta – sta per protendere la mano destra per accettarlo. Nonostante i due Progenitori siano disposti lievemente di tre quarti, dunque rivolti uno verso l’altro, gli occhi sembrano guardare lontano, alludendo con ciò a una realtà sospesa e fuori dal tempo. Eva, in particolare, ha un volto perfettamente ovale, incorniciato dalla gran massa dei capelli, ricci e biondi, elegantemente raccolti sul dietro in una treccia. Il volto di Adamo, invece, riecheggia – nella sua squadrata regolarità – le nobili fattezze di alcuni ritratti tardo-antichi, con barba appena accennata, capelli corti, labbra sottili e naso deciso. La placida nudità (praticamente inconsapevole) e la grazia pacata dei gesti riscontrabili in entrambe le figure, del resto, corrispondono a un’interpretazione assai puntuale delle scritture, nelle quali il giardino dell’Eden è descritto come un luogo di delizie e di innocenza. Il forte realismo masaccesco torna prepotentemente in evidenza nell’affresco con la Distribuzione dei beni e morte di Ananìa, realizzato nel primo registro della parete di fondo, alla destra dell’altare. L’episodio è tratto dagli Atti degli Apostoli, nei quali si narra che molti dei nuovi convertiti al cristianesimo vendevano i loro beni portando il ricavato agli Apostoli che, a loro volta, lo ridistribuivano a tutti secondo il bisogno di ciascuno. Uno di questi possidenti, di nome Anania, nascose parte del ricavato dalla vendita dei propri beni e, per punizione divina, cadde morto ai piedi di San Pietro. La rigorosa costruzione prospettica ha il proprio punto di fuga spostato sulla sinistra, fuori dall’area del dipinto, ma quasi al centro della parete di fondo. In questo modo la linea dell’orizzonte si colloca poco sopra la teste di San Pietro e di San Giovanni, ponendo così l’osservatore nel pieno della scena, come se la stesse vedendo leggermente dall’alto. Anche in questo affresco le architetture dello sfondo fanno riferimento a Firenze e, pur non essendo riconoscibile un luogo preciso, vengono comunque rappresentate alcune caratteristiche ricorrenti nell’edilizia cittadina del tempo. È il caso, ad esempio, della casa di sinistra, con ancora il tipico sporto medioevale sorretto da travi di legno; del palazzotto signorile al centro, con sette finestre centinate in forte scorcio, o, ancora, della casa-torre di destra, con due bifore sovrapposte. La campagna retrostante, che si perde nel succedersi di vari piani di colline rese con tonalità di azzurro progressivamente più chiare, al fine di suggerire il senso della profondità prospettica, è caratterizzata dalla realistica presenza di alcuni alberi di alto fusto e di un bianco castello merlato. I personaggi, quasi scultorei nella loro massiccia e volumetrica imponenza, prendono ancora una volta in prestito i volti e gli atteggiamenti dalla realtà quotidiana, al fine di conferire alla scena un senso profondo di verità. Così è per Pietro, ad esempio, con la lunga barba bianca e il mantello di un giallo sgargiante, colto nel momento in cui sta facendo dell’elemosina alla donna bisognosa con il bambino in braccio. Quest’ultimo, che indossa una corta Il tema dell’Annunciazione, per la ricchezza dei suoi valori simbolici, è stato sempre particolarmente caro all’Angelico, che lo ripropone in varie opere. Il prototipo lo possiamo comunque riscontrare nell’Annunciazione oggi conservata al Museo del Prado di Madrid, nella quale sono ancora evidenti forti legami con i modi espressivi del Gotico Internazionale. La tavola principale è occupata quasi per intero dalla parte inferiore di un edificio messo in prospettiva. Tale parte è composta da un ambiente chiuso (la camera della Vergine) e da un’ampia loggia colonnata sul davanti, aperta da due lati. La camera è arredata con una semplice panca, appoggiata alla parete di destra, e un cassone, appena visibile dietro l’esile colonnetta centrale del loggiato. Il capitello composito nasconde in parte anche una finestra che si affaccia sul rigoglioso giardino retrostante e dalla quale entra la luce che si proietta sulla parete di destra, rischiarandola, e generando l’ombra della panca sul pavimento.La loggia è coperta con volte a crociera su capitelli e peducci di marmo. Le vele sono dipinte d’un azzurro intenso punteggiato da stelline d’oro, a imitazione della volta celeste, mentre il pavimento è lastricato con marmi dalle venature variopinte. Il fronte esterno appare decorato con una fascia a girali in pietra, due patere laterali e una nicchia centrale con busto del Redentore. L’angelo, dalle ali dorate e irradiate di luce, si inchina verso Maria con le mani conserte sul davanti in segno di rispetto e devozione. La Vergine, a sua volta, si protende verso di lui mentre un fascio di luce dorata, proveniente direttamente dalle mani di Dio (nell’angolo in alto a sinistra), accompagna il volo della candida colomba dello Spirito Santo verso il seno di Maria. A sinistra del loggiato, in un’ambientazione fantastica che si ricollega all’esperienza di Gentile da Fabriano, si estende il Paradiso Terrestre, ricolmo di piante, fiori e frutti d’ogni genere, con Adamo ed Eva nell’atto di esserne cacciati dall’angelo di Dio. Nel complesso simbolismo del dipinto i Progenitori rappresentano proprio quel peccato originale che, secondo la dottrina cristiana, solo la venuta del Salvatore – di cui l’Annunciazione costituisce il primo atto – riuscirà a cancellare. L’Angelico, che pur organizza lo spazio del loggiato secondo le giuste regole della prospettiva, inserendo anche particolari realistici quali la rondine, sulla catena del primo arco di destra, quando tratta le figure rifiuta di accettare fino in fondo il realismo di Masaccio. I suoi personaggi, infatti, pur se dotati di corpi solidi e ben disegnati, risultano sempre sospesi in un’atmosfera di astratta e dolce spiritualità. I colori, innaturalmente vivaci, e la luce uniforme e perennemente mattutina rimandano, infine, a una visione simbolica della realtà, nella quale fede e ragione riescono a coesistere nel modo più semplice e naturale. DEPOSIZIONE DI CRISTO Il grande trittico della Deposizione di Cristo, iniziato da Lorenzo Monaco (ca 1370-1423) su commissione della facoltosa famiglia Strozzi e originariamente destinato alla sacrestia della chiesa fiorentina di Santa Trìnita (da cui anche il nome di Pala di Santa Trinita), risale circa al 1430/1432. Nonostante la cornice ancora gotica, che forza la scena entro i tre archi dorati a sesto acuto, l’Angelico unifica lo spazio della narrazione dando grandissima profondità prospettica al dipinto. A tal fine, infatti, egli introduce la visione di un paesaggio graduato in infiniti piani successivi, che spaziano dalla città ideale di sinistra (forse Cortona), ricca di case e torri variopinte, fino al castello sul colle di destra e poi, ancora, verso la distesa sconfinata dei campi e dei paesi che si perdono nella lontananza azzurrognola dell’orizzonte.A questa straordinaria libertà espressiva dello sfondo, si aggiunge anche la studiata ed equilibratissima composizione dei personaggi in primo piano, i quali, nonostante la solida volumetria che li contraddistingue, sembrano appartenere più a una dimensione spirituale che alla realtà quotidiana.Qui come in tutti i suoi dipinti, del resto, l’Angelico mostra già di conoscere assai approfonditamente la nuova cultura prospettica quattrocentesca, che offriva la possibilità tecnica di misurare e rappresentare la realtà come appariva alla vista. Il corpo obliquo di Cristo che viene deposto dalla croce, in particolare, spezza con violento risalto l’andamento verticale del dipinto, individuando una direzione diagonale che si prolunga nella figura genuflessa della Maddalena (in basso a sinistra) per collegarsi poi idealmente con i tre angeli piangenti (in alto, nell’arco di destra), quasi a simboleggiare l’universalità di un dolore che sconvolge e accomuna sia la terra sia il cielo. INCONORAZIONE DELLA VERGINE Nella grandiosa Incoronazione della Vergine, una pala databile intorno al 1430/1432, l’Angelico dispiega tutta la sua intelligenza compositiva, realizzando una straordinaria visione dal sotto in su, come se l’osservatore fosse anch’esso inginocchiato fra le sante e i santi che assistono devotamente all’evento.Il dipinto, originariamente destinato all’altare di sinistra della Chiesa di San Domenico a Fiesole, si compone di un grande scomparto centrale cuspidato e di una sottostante predella con scene della Vita di San Domenico. In effetti l’arte dell’Angelico mostra qui di essere giunta alla piena maturazione. La linea dell’orizzonte, posta alla base del quinto scalino del sontuoso trono in marmo policromo, colloca la scena dell’incoronazione in una prospettiva mai prima vista, conferendo alla narrazione una solennità e un valore straordinari.La parte terminale del trono, costituita da un’edicola marmorea di chiaro gusto gotico, è internamente agghindata da preziose stoffe d’oro, la cui brillantezza mette in ulteriore rilievo la potente figura di Cristo e quella, delicatissima, della Vergine. Il primo, seduto fra cuscini trapunti d’oro, indossa una sgargiante veste rosacea con sopra un mantello, bordato d’oro, d’un intenso color azzurro. Maria, con un velo trasparente sulla testa, veste anch’essa un abito azzurro, con una stola di un celeste più chiaro che cade in morbide pieghe oltre il bordo del penultimo scalino del trono. Tutt’intorno, in un tripudio d’oro e di colori che richiama ancora la tradizione del Gotico Internazionale, una folta schiera di angeli musicanti, santi e beati presenzia al miracoloso evento, ma le loro proporzioni rispettano la distanza prospettica, e l’effetto che ne deriva, di conseguenza, non è più quello astratto dei fondi oro medioevali, ma quello di una più realistica macchina teatrale. In questo difficile e raffinato equilibrio tra passato gotico e presente rinascimentale sta, dunque, la straordinarietà della sua arte, alla quale tutti gli altri maestri del secolo non potranno fare a meno di riferirsi con rispetto e ammirazione. CRISTO DERISO Il più importante ciclo pittorico che l’Angelico realizza a Firenze è all’interno del convento domenicano di San Marco, dove affresca tutte le 44 celle del dormitorio al primo piano e alcuni degli altri locali comuni più importanti. Tale intervento, condotto in due riprese insieme ai suoi aiuti, primo fra tutti Benozzo Gozzoli, fra il 1437 e il 1447 e tra il 1450 e il 1453, costituisce una delle testimonianze più coerenti e significative di tutta la pittura del Quattrocento, in quanto si integra in modo esemplare sia con l’architettura di Michelozzo sia con gli alti ideali spirituali e dottrinali della predicazione domenicana.Poiché i singoli affreschi del dormitorio (uno per cella) sono dedicati esclusivamente ai frati, la loro realizzazione è semplice ed essenziale, secondo quanto si conviene a uomini di fede. I soggetti, tratti quasi esclusivamente dal Nuovo Testamento, con particolare insistenza sui temi della Passione e della Crocifissione, costituiscono una sorta di spunto mistico per la preghiera e la meditazione quotidiane.Nel Cristo deriso della cella numero 7 è rappresentato Gesù, al centro, seduto su uno scranno rosso posto sopra un’alta predella improvvisata per scherno dai suoi carnefici. In basso, ai due lati, San Domenico (a destra) e la Vergine (a sinistra) siedono assorti in meditazione. La scena ha un’ambientazione notturna, come si deduce dal nero profondo che appare dietro la parete di fondo, ma una luce fortissima la inonda provenendo da destra e riflettendosi sulla tunica bianchissima di Cristo, simbolo di purezza ed innocenza. Intorno alla figura del Salvatore, sullo sfondo d’un pannello verde, l’Angelico compie un gesto di grandissima astrazione, evitando di rappresentare i soldati che deridono e insultano Gesù, ma limitandosi a indicare i loro gesti: lo sputo del personaggio di sinistra e le mani che lo tormentano, con schiaffi o percuotendolo con una verga (a destra).Da sotto la benda bianca si intravedono gli occhi mesti ma dignitosi di Cristo, che sopporta con pazienza e fermezza di spirito le ingiurie inflittegli. La solida volumetria dei corpi (quello di Maria è forse opera di Benozzo Gozzoli) si stempera nella dolcezza trasognata degli atteggiamenti che, anche nelle situazioni di più intenso realismo, appaiono comunque far riferimento a un ordine superiore ed eterno. La straordinaria irripetibilità dell’esperienza dell’Angelico sta dunque tutta in questa sua consapevole volontà di prolungare fino a Quattrocento inoltrato alcuni temi simbolici della tradizione medioevale, riuscendo a far sopravvivere, in una realtà già prospetticamente definita, tensioni, ideali e insegnamenti di pura spiritualità. I DELLA ROBBIA LUCA DELLA ROBBIA (1400-1482) Lo scultore e ceramista fiorentino Luca Della Robbia è il capostipite di una famiglia di raffinati artigiani che per oltre un secolo si dedicheranno soprattutto alla produzione di statue, rilievi e decorazioni in terracotta invetriata, un materiale che possiede caratteristiche di grande lavorabilità, ottima resistenza e costo relativamente contenuto. La formazione artistica di Luca, ultimo di tre fratelli, avviene – come già per Brunelleschi e Ghiberti – in una bottega di orafo, dove impara soprattutto la tecnica del cesello, della quale diventa molto esperto. CantoriaLa prima opera della quale abbiamo notizie certe è la Cantoria in marmo della Cattedrale di Firenze, scolpita tra il 1431 e il 1438, contemporaneamente a quella – gemella – che anche Donatello stava proprio allora realizzando. L’impostazione delle due opere appare subito diversissima. Se nella realizzazione donatelliana prevaleva la ricerca di effetti di movimento, l’opera di Luca Della Robbia si caratterizza per una composizione più statica e classicheggiante.La grande struttura consiste in un balcone retto da cinque sottostanti mensoloni decorati con delicati motivi di foglie d’acanto. I quattro pannelli frontali in altorilievo con gli angeli che cantano, suonano e danzano in lode del Signore, sono inquadrati da cinque coppie di lesene, allo stesso modo di come le metope degli antichi templi erano tra loro separate dai triglifi. Le stesse lesene binate, del resto, rinviano al linguaggio brunelleschiano, mentre anche l’impostazione delle figure è direttamente riconducibile agli originali scultorei greco-romani che nella prima metà del Quattrocento incominciavano a circolare nelle principali botteghe fiorentine. I festosi putti della Cantoria mostrano già di possedere quella grazia compositiva e quella serena dolcezza di espressione che contrassegneranno tutta la successiva produzione robbiana, contribuendo a diffondere presso il grande pubblico le nuove conquiste dell’arte rinascimentale. E anche il Vasari nota con meraviglia, a questo proposito, come l’artista «mise tanto studio e così bene gli riuscì quel lavoro, che Nonostante.ancora sia alto da terra sedici braccia, si scorge il gonfiar della gola di chi canta, il battere delle mani da chi regge la musica in sulle spalle de’ minori, ed in somma diverse maniere di suoni, canti, balli ed altre azioni piacevoli che porge il diletto della musica». Madonna del Roseto La straordinaria intuizione di Luca Della Robbia, però, è quella di abbandonare i materiali tradizionali, quali pietra o legno, per dedicarsi soprattutto alla realizzazione di opere in terracotta invetriata, cioè ricoperta di un sottile strato di smalto vetroso che la preserva dalle intemperie. Uno dei soggetti più ricorrenti di questa produzione è quello della Madonna con il Bambino, che Luca replica decine di volte, secondo schemi che verranno poi riproposti per anni anche dai suoi continuatori.Nella Madonna del Roseto (ca 1460/1470) egli mostra di aver già acquisito del tutto le novità rinascimentali. In essa, ad esempio, vi è una forte similitudine fra la mano destra della Vergine che tiene la gambina grassoccia del piccolo Gesù con quella della Madonna di Masaccio nel dipinto di Sant’Anna Metterza. Anche la disposizione lievemente divaricata delle gambe di Maria è ripresa da Masaccio, quasi a testimonianza «circonscrizione», cioè, soltanto linea di contorno o, come egli scrive, «la circonscrizione è non altro che disegnamento dell’orlo».Le sue idee riguardo alla pittura si possono esemplificare osservando due dipinti su tavola di Bartolomeo di Giovanni Corradini (detto Fra Carnevale, notizie 1451-1484), un tempo attribuiti allo stesso Alberti. Si tratta della Natività della Vergine del Metropolitan Museum di New York e della Presentazione della Vergine al Tempio del Museum of Fine Arts di Boston. Ambedue le tempere su tavola sono probabili parti di una predella andata perduta. Le solenni prospettive architettoniche (una villa dotata di un loggiato; la facciata e l’interno di un tempio), con la corretta individuazione delle zone in luce e di quelle in ombra, si rifanno all’Antico e ricordano gli edifici realizzati o anche solo descritti dall’Alberti. Le due scene, tratte dai racconti dei Vangeli Apocrifi, sono movimentate e arricchite da un numero elevato di persone, animali e cose. Le dimensioni degli esseri umani, rappresentati nei più diversi atteggiamenti, costituiscono un metro di paragone per rendere conto di quelle degli edifici in cui essi si muovono e in cui sono collocati. Tutto questo rispecchia proprio quanto l’Alberti prescrive per la composizione delle storie: «Quello che prima dà Piacere. voluttà nella istoria viene dalla Abbondanza. copia e varietà delle cose […]. Dirò io quella istoria essere copiosissima in quale a’ suo luogo sieno Mescolati, uniti. permìsti vecchi, giovani, fanciulli, donne, fanciulle, fanciullini, polli, Cardellini. catellìni, uccellini, cavalli, pecore, edifici, Paesi o paesaggi. province, e tutte simili cose: e loderò io qualunque copia quale s’apartenga a quella istoria» (De pictura, II, 40, 14-22). Nelle due tavole anche l’esecuzione del cielo, quasi bianco in basso per l’addensarsi delle nuvole, quasi azzurro in alto per il loro farsi più rade, segue le osservazioni albertiane:«simile in Aria e, per estensione, cielo.aere Vicino.circa all’orizzonte non raro essere vapore bianchiccio, e a poco a poco seguìrsi perdendo». L’Alberti ritiene che scopo della pittura sia, oltre che l’imitazione della natura, la ricerca della bellezza intesa come ciò che dà piacere all’occhio e come qualcosa di riconoscibile in base a una facoltà che ciascun uomo possiede. Tale facoltà è quella che porta tutti a definire belle alcune opere d’arte. Rifacendosi al pensiero degli antichi e, in special modo, agli scritti di Vitruvio, l’architetto-umanista afferma ancora che la bellezza è come«l’armonia tra tutte le membra, nell’unità di cui fan parte, fondata sopra una legge precisa, per modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio» (De re aedificatoria, Libro VI, cap. II). E ancora:«La bellezza è accordo e armonia delle parti in relazione a un tutto al quale esse sono legate secondo un determinato numero, delimitazione e collocazione, così come esige la concìnnitas, cioè la legge fondamentale e più esatta della natura» (De re aedificatoria, Libro IX, cap. V).Secondo l’Alberti, infine, soltanto la bellezza ha la facoltà di preservare le opere d’arte dalla violenza distruttrice degli uomini.Nel De statua l’artista si inoltra in una minuziosa descrizione circa la realizzazione e l’impiego di uno strumento, chiamato finitòrium – composto da un disco (horìzon, orizzonte), un raggio mobile (ràdius, raggio) e un filo a piombo (perpendìculum) – che, usato assieme a un calibro (per gli spessori delle parti tornite del corpo umano) e all’exèmpeda (una sorta di metro specifico a ciascuna scultura in cui l’altezza complessiva dell’opera è divisa, qualunque essa sia, in sei parti, o piedi), sarebbe stato di grande aiuto agli scultori per rilevare i punti caratteristici di una statua al fine, per esempio, di eseguirne una copia perfetta. È però nel De re aedificatoria che le conoscenze tecniche e letterarie di Leon Battista si fondono armoniosamente in una trattazione completa dell’arte di edificare. Alla sua redazione influirono enormemente la presenza dell’Alberti a Roma, la conoscenza profonda delle architetture antiche, puntualmente rilevate dal vero, il loro studio. Il trattato, verosimilmente compiuto nel 1452, prende come esempio quello di Vitruvio, persino nella suddivisione in dieci libri. Vi si discorre del disegno, dei materiali da costruzione, dei procedimenti costruttivi, degli edifici pubblici e privati, di strade, ponti, fortezze, dell’organizzazione della città, delle acque e della loro canalizzazione, dell’ornamento e, quindi, degli ordini architettonici. Vengono infine trattate, e per la prima volta, le cause delle rotture dei muri e le opere di prevenzione e di restauro degli edifici.È nel De re aedificatoria che si precisano le differenze tra l’operare di Brunelleschi e le concezioni dell’Alberti in relazione agli ordini architettonici. Leon Battista, infatti, con maggiore aderenza all’architettura antica, ritiene che la colonna debba essere sovrastata dalla trabeazione, mentre l’arco debba essere costruito al di sopra di pilastri. Inoltre alla colonna egli attribuisce anche la funzione di sommo ornamento per le fabbriche. L’importanza del trattato e, conseguentemente, la grandezza dell’autore, sono ricordate anche da Àgnolo Poliziano nella lettera dedicatòria a Lorenzo il Magnifico, che precede il testo della prima edizione fiorentina del 1485:«A questo libro, o Lorenzo, ti consiglierei di dare un posto preminente nella tua biblioteca, e inoltre di leggerlo tu stesso attentamente e di farne diffondere la lettura presso il pubblico. Poiché esso merita di correre sulle bocche dei dotti». TEMPIO MALATESTIANO Il primo intervento architettonico attuato dall’Alberti, ormai più che quarantenne, è costituito dal rifacimento della chiesa gotica di San Francesco a Rimini.Nota anche come Tempio Malatestiano, secondo la volontà del committente, Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore della città, essa avrebbe dovuto trasformarsi in un monumento celebrativo della memoria di lui, dell’amante (poi moglie), Isotta degli Atti (ca 1432-1474), nonché di quella dei più importanti umanisti della corte riminese.I lavori di rifacimento cominciarono nel 1447, quando Isotta fece decorare la Cappella degli Angeli (ora di San Michele Arcangelo). L’anno successivo Sigismondo si occupò della Cappella di San Sigismondo, ma il completo mutamento dell’interno dovette iniziare solo attorno al 1450. I lavori all’esterno, invece, presero l’avvio circa nel 1453, mentre un cambiamento di progetto intervenne nel 1454. La trasformazione dell’interno, tradizionalmente riferita a Matteo de’ Pasti (?-1486), viene considerata, da qualche tempo, come possibile intervento dovuto allo stesso Alberti.Infatti, l’unica navata, affiancata da cappelle introdotte da grandi arcate a sesto acuto, presenta una soluzione ornamentale che ben corrisponde alle concezioni albertiane. un doppio ordine di paraste su piedistalli inquadra gli archi acuti e dove il secondo ordine, su mensole, prosegue lungo le pareti formandone il coronamento. Il linguaggio classico, aiuta l’interno gotico ad avvicinarsi all’innovativa lingua che caratterizza l’esterno, senza che questo debba essere in alcun modo influenzato dalla preesistenza architettonica medioevale. L’Alberti, per conseguenza, incapsula l’edificio in un moderno involucro in pietra d’Istria senza curarsi molto di quanto già esisteva. L’Alberti ritiene che l’attività dell’architetto debba essere puramente «mentale», cioè teorica, perciò egli non si occupa personalmente della direzione dei lavori. L’esecuzione del Tempio Malatestiano fu affidata, infatti, al veronese Matteo de’ Pasti. A lui si deve anche l’unica testimonianza visiva del progetto originario dal momento che l’opera rimase incompiuta, prima per il rovesciamento delle fortune di Sigismondo Pandolfo (a partire dal 1462), che non ebbe più i fondi necessari per la prosecuzione dell’opera, poi per la morte dello stesso committente. Dalla medaglia commemorativa per la consacrazione della chiesa che Matteo dovette coniare attorno al 1453, ma che, al pari dell’iscrizione che corre nel fregio esterno, reca la data 1450, possiamo vedere che la parte superiore della facciata avrebbe dovuto essere coronata da un fastigio nella porzione centrale. Dei semitimpani ad andamento curvilineo l’avrebbero raccordata con la cornice sottostante (i semitimpani furono modificati nel 1454 in modo da presentare spioventi rettilinei sormontati da coppie di volute affrontate). Infine, una grande cupola emisferica, a somiglianza di quella del Pantheon, avrebbe completato l’edificio divenendone l’elemento unificante. La medaglia, però, di soli 4 centimetri di diametro, non consente di capire quale forma dovesse avere il tamburo (se cilindrico o a più facce), né quale la cupola (numerose sono le possibilità che consentono un alzato come quello proposto nella medaglia). È probabile, infine, che la crociera dovesse presentare anche un corto transetto. Nel Tempio Malatestiano l’Alberti creò la prima facciata di chiesa rinascimentale e lo fece riferendosi all’antichità romana. Contrariamente a quanto potrebbe apparirci logico egli non imitò le forme del tempio classico, ma – e qui sta la sua non comune capacità inventiva – ebbe come esempi gli archi di trionfo. Primo fra tutti l’Arco di Augusto, che è appunto a Rimini e poi il romano Arco di Costantino. Nei fianchi, invece, le grandi arcate a tutto sesto sorrette da pilastri ricordano gli antichi acquedotti, ma derivano, nel disegno, sia dalle arcate interne del Colosseo sia da quelle della porzione inferiore del Mausoleo di Teodorico della vicina Ravenna.Le diverse fonti di ispirazione trovano un accordo nell’alto basamento che, a somiglianza di un podio o di un crepidoma, sostiene sia i pilastri sia le semicolonne. Queste, dal fusto scanalato, hanno un plinto molto alto, come nelle basiliche ravennati; inoltre sono coronate da capitelli compositi con teste di cherubino (derivanti da non comuni capitelli antichi). Le semicolonne dividono la superficie della porzione inferiore della facciata in tre parti. Quella centrale – più ampia delle laterali – accoglie il portale timpanato, che è all’interno di un’ampia e profonda arcata, circondato da festoni e da un ornamento geometrico di marmi antichi prelevati da edifici di Ravenna. Le laterali ripropongono il motivo delle arcate dei fianchi. Esse, però, sono cieche e poco profonde mentre – come appare nella medaglia di Matteo de’ Pasti – avrebbero dovuto avere la profondità necessaria per poter accogliere i sarcofagi di Isotta e Sigismondo. L’edificio riminese non parla solo il linguaggio dell’architettura, esso dà voce anche alle aspirazioni del suo committente. Il riferimento architettonico e ornamentale all’Arco di Augusto è segno, infatti, della volontà del Malatesta di essere considerato al pari del primo imperatore romano. Ma la chiesa riminese rivela analogie anche con la Colonna Traiana. I due edifici presentano una simile ornamentazione conclusiva del basamento e identiche dimensioni (la facciata del Malatestiano è larga – e sarebbe stata alta, se conclusa – cento piedi romani, la medesima altezza della Colonna). Inoltre entrambe le costruzioni sono caratterizzate dalle stesse funzioni celebrativa e di mausoleo (nella colonna onoraria erano state deposte le ceneri di Traiano e della moglie Plotina, così come nel Malatestiano sarebbero stati custoditi i corpi di Sigismondo e di Isotta). Il signore di Rimini, allora, desiderava essere identificato non solo con Augusto, ma anche con Traiano, l’«Ottimo Principe», il migliore degli imperatori. In tal modo le pietre del Tempio Malatestiano, in eterno, avrebbero ripetuto la formula d’augurio che, a Roma, negli ultimi secoli dell’impero, veniva indirizzata dal Senato ai nuovi imperatori: «Felicior Augusto, melior Traiano!» (Che tu possa essere più felice di Augusto e migliore di Traiano!). PALAZZO RUCELLAI Con la facciata del fiorentino Palazzo Rucellài Leon Battista offrì, invece, lo schema per un rinnovato palazzo urbano basato sulla sovrapposizione degli ordini, caratteristica dell’antica architettura romana. La facciata del palazzo, infatti, è una traduzione, in termini di superficie piana, del fronte curvilineo del Colosseo (ma non è da escludere come possibile fonte anche il Battistero di Firenze, dove è presente una simile soluzione architettonica). La ripresa di motivi desunti dalle fabbriche dell’antica Roma, infine, arricchisce di citazioni dotte e raffinate l’edificio, che si propone, perciò, come un palazzo all’antica.Ristrutturato l’interno tra il 1446 e il 1452, l’architetto Bernardo Rossellino iniziò subito dopo (ma non v’è certezza sulla data e le proposte non sono concordi), su disegno di Leon Battista Alberti, i lavori per la facciata. Per Giovanni Rucellai, uno dei più ricchi mercanti fiorentini del tempo, l’Alberti progetta un fronte di cinque campate, poi esteso a sette a seguito di ampliamenti. Le campate sono tutte uguali, ad eccezione di quelle, più grandi, corrispondenti agli ingressi. In questo caso (e in altri analoghi), proprio per la variazione regolare della scansione metrica, che definisce un ritmo, si parla di «travata ritmica». Al piano terreno si hanno lesene con capitello tuscanico, appena aggettanti rispetto alla facciata, che reggono una trabeazione a fregio continuo, senza metope né triglifi (come nel Colosseo), sulla quale si impostano le lesene del primo piano. Queste sono coronate da ricchi capitelli ionici, di un tipo speciale a volute ricurve verso l’alto, analoghi a quelli antichi del Mausoleo di Adriano (oggi Castel Sant’Angelo). Sull’elaborata trabeazione del primo piano si invece, una bassa trabeazione al di sopra della quale si imposta un timpano. Al di sopra di esso, infine, si erge una struttura coperta a botte (il cosiddetto «ombrellone») che, oltre a convogliare la luce nel grande oculo che illumina l’interno dell’edificio, svolgeva anche le funzioni di “cripta soprelevata”, dal momento che in essa veniva esposta in particolari occasioni la celebre reliquia del Sangue di Cristo, che ancora si conserva nella chiesa.A tale cripta superiore si sarebbe potuto accedere da due scale a chiocciola, ciascuna a doppia rampa (una per la salita, l’altra per la discesa), collocate in posizione arretrata rispetto alla facciata, ma ai suoi fianchi destro e sinistro. Tali rampe, se il progetto fosse stato portato a compimento, avrebbero comportato che la facciata attuale si sarebbe stagliata contro una grande superficie piana arretrata.All’interno un’unica, grandiosa navata – utile ad accogliere le grandi masse di pellegrini che si radunavano in chiesa per venerare la reliquia del Sangue di Cristo – è affiancata da tre grandi cappelle coperte da volte a botte cassettonate su ciascun lato. Fra esse piccole cappelle sono ricavate all’interno dei potenti pilastri che sorreggono la grande volta a botte che copre l’aula. Il motivo dell’apertura sormontata in successione da una nicchia e da una finestra, tipico della facciata, ricorre anche nei pilastri dell’interno (nei quali alla nicchia è sostituita la parete piana racchiusa da una cornice). Se all’esterno l’ispirazione albertiana fonde la facciata di un tempio con un arco trionfale in un sistema a ordini intrecciati (sono presenti infatti sia un ordine maggiore – quello relativo alle grandi paraste lisce su piedistalli – sia un ordine minore – quello inerente alle più piccole paraste scanalate e rudentate), all’interno il ciclo della sperimentazione del grande architetto prosegue e volge al termine. Esso, infatti, si conclude con il riferimento all’imponenza imperiale sia degli edifici termali sia della Basilica di Massenzio. È a questa, infatti, interpretata quale «tempio etrusco» (l’etrùscum sàcrum del De re aedificatoria), che rinvia la grande aula affiancata da tre cappelle per lato. PAOLO UCCELLO (1397-1475) Fra i tanti giudizi pieni di acume e intelligenza che Giorgio Vasari distribuì nelle pagine delle sue Vite, ne riservò uno poco lusinghiero a Paolo di Dono detto Paolo Uccello (Firenze 1397-1475): «Paulo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e Qui nel senso di «ricco di fantasia e originalità». capriccioso ingegno che avesse avuto da Giotto in qua l’arte della pittura, se egli si fusse Esercitato. affaticato tanto nelle figure ed animali, quanto egli si affaticò e perse tempo nelle cose di prospettiva; le quali, ancorché sieno ingegnose e belle, chi le segue troppo fuor di misura, Perde tempo.getta il tempo dietro al tempo, Forza eccessivamente la natura assoggettandola alle rigide regole della prospettiva.affatica la natura, e l’ingegno empie di difficultà». L’artista era poverissimo, tanto da non potersi permettere di tenere neanche degli animali. Al massimo si limitava a dipingerli, con particolare predilezione per gli uccelli, da cui il soprannome con il quale ancor oggi è designato. Stando ai fatti della sua vita, Paolo Uccello sembrò non aver compreso il clima pieno di fervore innovativo della Firenze dei suoi tempi. Educato inizialmente alla bottega del Ghiberti, egli, ancora affascinato dalla pittura del Gotico Internazionale – che proprio a Firenze nel 1423 aveva conosciuto uno dei suoi momenti più alti quando Gentile da Fabriano aveva dipinto l’Adorazione dei Magi per la Chiesa di Santa Trìnita –, nel 1425 lascia la città toscana per recarsi a Venezia. Nella città lagunare, dove la rivoluzione di Masaccio non era stata ancora avvertita, fra gli splendori bizantini rivissuti in chiave gotica, Paolo rimane per qualche tempo lavorando come mosaicista in San Marco. Solo al ritorno da Venezia, nel 1430, finalmente si accorge di Masaccio, che da due anni aveva lasciato il proprio testamento artistico alla Cappella Brancacci, di Brunelleschi, che oltre ogni più ottimistica attesa stava ultimando la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore, e di Donatello, che nel rilievo del Banchetto di Erode per il fonte battesimale di Siena aveva dato una prova elevata delle possibilità espressive che la prospettiva poteva offrire anche a uno scultore. Paolo Uccello inizia allora ad applicarsi a questa nuova scienza. La sua ricerca, tesa a sperimentare le estreme conseguenze delle costruzioni prospettiche, quasi volendo mettere alla prova le stesse leggi geometriche che le regolano, lo coinvolge anima e corpo e quasi lo estrania dalla realtà. Ma non solo la prospettiva stimolava l’interesse di Paolo Uccello; anche la figura era oggetto di studio. IL DISEGNO È particolarmente significativo, a tal fine, un foglio agli Uffizi per un Angelo che corre. In esso, infatti, possiamo notare due distinti disegni: un angelo e la prospettiva di un calice sfaccettato. Probabile studio per una Cacciata dal Paradiso Terrestre, l’angelo, leggiadro e quasi reso geometrico per il ricorso a forme semplici, è mostrato in corsa, con la spada sguainata tenuta nella destra, mentre la mano sinistra stringe il fodero. Il disegno, a cui la biacca conferisce volume, fungendo da luce, è eseguito a punta di metallo su carta preparata in ocra. Esso risulta forato, lungo i contorni della figura, tramite una punta di spillo. Tale pratica consentiva di riportare il disegno stesso su un supporto pittorico (tavola, muro) tamponandolo con polvere di carbone (tecnica dello spolvero). Questa, passando attraverso i forellini, lasciava una traccia puntinata del disegno sulla superficie da dipingere.Un’uguale tecnica si riscontra nello Studio di cavaliere, eseguito su carta preparata in verde. Un cavaliere dall’elaborata armatura monta un cavallo impennato portando in alto il braccio per dar forza di penetrazione alla lancia che tiene con la mano destra. La parte superiore del corpo del cavaliere tende alla resa tridimensionale, grazie a un tratteggio arcuato e ad alcuni tocchi di biacca, mentre la parte rimanente del disegno (gambe del cavaliere e cavallo) resta definita solo tramite una linea di contorno. Il foglio su cui lo studio è stato eseguito è solcato da fitte linee parallele verticali. Esse rinviano, probabilmente, a un procedimento costruttivo avente la funzione di definire una prospettiva a partire da due disegni in proiezione ortogonale del soggetto, solitamente una visione frontale e una laterale. Il cavallo e il cavaliere, infine, sono tipici temi della produzione di Paolo Uccello. In numerose e singolari pose, infatti, essi saranno trattati nella Battaglia di San Romano. MONUMENTOA GIOVANNI ACUTO Nel 1436 l’artista dipinge, sulla parete della navata sinistra della cattedrale di Firenze, il Monumento a Giovanni Acuto, un affresco di notevoli dimensioni. L’opera celebra il condottiero inglese John Hawkwood (nome italianizzato dai Fiorentini in Giovanni Acuto) che nel 1364, alla testa dell’esercito di Firenze, aveva sconfitto i Pisani nella battaglia di Càscina (località nei pressi di Pisa). L’affresco è a monocromo o meglio in «terra verde», come scrive il Vasari e come si legge nei documenti, in modo da dare l’impressione di una scultura di bronzo. Il dipinto finge un gruppo equestre (cioè un cavallo e un cavaliere) eretto al di sopra di un sarcofago che poggia su un basamento sporgente, a propria volta sostenuto da tre mensoloni ornati da lunghe foglie ricurve. Per la prima volta dalla fine dell’età classica l’attenzione di un artista si concentra sul cavallo, che viene dunque trattato con grande sapienza. La parte posteriore dell’animale, quasi un cerchio perfetto, è più alta di quella anteriore. Inoltre, l’attaccatura della testa al collo è sottile, il petto è arrotondato, le narici sono dilatate, gli occhi sono sporgenti e la bocca è socchiusa. Alla conoscenza anatomica del cavallo Paolo Uccello aggiunge la geometria per proporzionare il gruppo. Infatti il cavallo e il cavaliere sono racchiudibili in un quadrato perfetto, mentre le curve principali del cavallo (porzione posteriore, pancia, collo-testa) seguono quelle di circonferenze il cui raggio è pari a ¼ dell’altezza del cavallo nella parte tergale e i cui centri stanno su rette geometricamente significative. Due sono i punti di vista per l’intelaiatura prospettica del dipinto. Il primo, in basso a sinistra, per le mensole, la piattaforma e il sarcofago. Il secondo, frontale, per il cavallo e il cavaliere. In tal modo Paolo dà prova di flessibilità nei confronti dell’applicazione della scienza prospettica. Infatti, se il cavallo e il cavaliere fossero stati messi in prospettiva omogenea a quella della cassa e del piano sostenuto dalle mensole, essi sarebbero stati non solo più piccoli e, quindi, meno maestosi, ma allo stesso tempo sarebbero parsi addirittura innaturali. Infatti il primo piano sarebbe stato occupato dalla pancia del cavallo di cui tre zampe, per giunta, non si sarebbero viste perché arretrate. L’impressione di trovarsi di fronte a una sagoma che si staglia contro il fondo scuro – quale appare dal disegno preparatorio quadrettato agli Uffizi – è superata dall’esistenza della luce tergale che, da sola, costruisce i volumi di Giovanni Acuto e del suo cavallo. BATTAGLIA DI SAN ROMANO L’esecuzione delle tre grandi tavole raffiguranti la Battaglia di San Romano risale circa al 1438. Contrariamente alla tradizione, che le voleva commissionate da Cosimo il Vecchio, recenti ricerche hanno precisato che esse sarebbero state richieste da Lionardo di Bartolomeo Bartolìni Salimbèni per la sua residenza fiorentina di corso degli Strozzi. Tempo dopo, i dipinti furono trasportati nella villa della nobile famiglia, in Santa Maria a Quinto, poco fuori Firenze. Nel 1480-1485 Lorenzo il Magnifico li fece prelevare e condurre a Palazzo Medici in via Larga. In quell’occasione le tavole, private della centinatura superiore, furono rese rettangolari con delle aggiunte nei pressi degli angoli. Si trattava, evidentemente, di un modo per adeguarle alle pareti del salone di Palazzo Medici dove sarebbero state collocate.I tre dipinti – dispersi tra Londra (National Gallery), Firenze (Galleria degli Uffizi e Parigi (Museo del Louvre) – raffigurano la battaglia nella quale le truppe fiorentine, sotto il comando di Niccolò da Tolentìno, sconfissero il forte esercito senese il primo giugno 1432. Mentre le tavole di Londra e di Firenze, attraverso le armi spezzate e sparse a terra, suggeriscono un solo punto di fuga, più d’uno ne ha la tavola di Parigi (li si ricava prolungando le direzioni delle zolle erbose quadrangolari). Essa, inoltre, priva di un paesaggio retrostante, fa gravitare l’intera composizione attorno a Micheletto Attendolo da Cotignola, il personaggio centrale in groppa al cavallo nero che si sta impennando, definendo un momento di sosta nella battaglia che, negli altri due dipinti, ci appare invece concitata e furiosa.Nella tavola londinese, che ha subìto, purtroppo, una drastica pulitura che ne ha ridotto all’osso la superficie pittorica, è mostrato Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini. Il comandante è al centro della composizione su un cavallo bianco. Dietro di lui i cavalieri di Firenze, la cui moltitudine è indicata dalle numerose aste puntate verso il cielo. La scena principale è delimitata, sul fondo, da aranci carichi di frutti – alle estremità destra e sinistra – e da alte siepi di rose in fiore.Al di qua della cortina di piante la profondità è definita da un piano che assume i contorni di un trapezio – prospettiva di un quadrato – dal colore rosato. Su di esso aste spezzate, elmi, scudi e addirittura un cavaliere riverso (sinistra) suggeriscono una griglia, cioè una scacchiera prospettica, che contribuisce a determinare senza equivoci la posizione dei vari corpi nello spazio. Il volume e la pluralità di piani verticali, invece, è stabilita proprio dalle lance levate in alto e dai quattro cavalieri in primo piano, variamente orientati. Oltre la siepe un paesaggio raffigurante colline coltivate si erge improvviso e verticalmente (lo stesso è nella tavola di Firenze), come una barriera, alla stregua di un fondale di scena dipinto. Cavalli impennati, armature dai complessi componenti metallici, elmi e cimieri dalle forme fantastiche e stoffe pregiate catturano lo sguardo facendo dimenticare il clamore di una battaglia e trasfigurando l’evento storico nel clima di un raffinato tornèo cavalleresco. STORIE DI NOE’ Attorno al 1447-1450 Paolo torna a dipingere nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella, dove aveva già affrescato nel 1430, di ritorno da Venezia. Il soggetto dei dipinti è costituito dalle Storie di Noè. Nella lunetta con il Diluvio e Recessione delle acque l’indagine prospettica è spinta fino ai limiti estremi per saggiarne ogni possibilità. L’intera composizione, che comprende due episodi distinti, quello del Diluvio (sinistra) e quello della Recessione delle acque (destra), è contenuta entro i margini della doppia presenza dell’arca di Noè, della quale viene rappresentata la fiancata possente.Il punto di fuga non è unico, ma ognuna delle due scene ne ha uno estaticamente gli occhi verso la Vergine e il Bambino.Due puttini (forse degli angioletti) si appoggiano su una balaustra. A destra, dietro le ali rosso fuoco di un angelo, fa capolino il donatore; gli fa da contrappunto il monaco, sotto l’ala protettrice dell’angelo di sinistra, che guarda verso l’esterno del dipinto: esso rappresenta Fra Filippo stesso che si è autoritratto.Il gruppo numeroso di personaggi è immerso, e quasi assiepato, in uno spazio quadrangolare schermato verso l’esterno da alte pareti a specchiature marmoree, a mo’ di coro. La bassa struttura arcuata, di marmo, alle spalle degli angeli suggerisce, appunto, i sedili (stalli) di un coro. La luce penetra da sinistra e da due finestre aperte nella spalliera dallo stesso lato. La luce costruisce i volumi assieme alle modulazioni di colore e, per la prima volta e contrariamente alla tradizione, la Vergine ha il volto in ombra. Tutti i personaggi, ma in particolare i due angioletti, il Bambino e la Vergine Maria, sia con i volti sia con la loro struttura corporea manifestano le caratteristiche formali delle figure di Filippo Lippi. Queste, infatti, si presentano alquanto schiacciate, come se derivassero non dall’osservazione diretta della realtà, ma da sculture realizzate secondo la tecnica dello stiacciato (si pensi ai putti danzanti della Cantoria di Donatello in Santa Maria del Fiore). A tale effetto contribuisce anche la prospettiva con l’alta linea d’orizzonte, posta a due terzi dell’altezza totale della tavola. Le teste sono compresse entro piani paralleli. Le mani paiono sempre troppo piccole se commisurate alle dimensioni delle figure che, inoltre, sembrano quasi imprigionate in uno spazio che non è mai abbastanza profondo. INCONORAZIONE DELLA VERGINE Commissionata nel 1441 da Francesco Marenghi per la chiesa fiorentina di Sant’Ambrogio, l’Incoronazione della Vergine degli Uffizi costituisce la parte centrale di una pala d’altare conclusa nel 1447. In un ambiente architettonico arioso, ma limitato in profondità dal trattamento dell’ultimo piano (a bande diagonali alternativamente blu e celesti, piuttosto che l’uniforme azzurro del cielo o l’oro del Paradiso) un trono architettonico e maestoso accoglie l’Eterno (e non la tradizionale figura di Cristo) che incorona la Vergine inginocchiata ai suoi piedi. Al trono, schermato sul retro da una spalliera a specchiature di marmo, oltre la quale stanno degli angeli, si arriva tramite una serie di ampi ripiani occupati da angeli e santi. Altri angeli e altri santi ancora sono collocati a destra e a sinistra, separati dal trono e dai ripiani da due transenne sui cui margini anteriori svettano due robusti steli di gigli, fiori che anche molti beati e creature celesti inalberano, quasi fossero vessilli. Il loro candore rinvia alla purezza della Vergine e il loro profumo intenso è quello dei Cieli. Sant’Ambrogio (sinistra) e San Giovanni Battista (destra), monumentali come pilastri, costituiscono il sostegno visivo laterale dell’insieme figurato. A sinistra, come più volte è dato di riscontrare in altre opere, Fra Filippo Lippi si è ritratto mentre guarda verso l’osservatore, appoggiando la testa sulla mano destra. Il donatore, Francesco Maringhi, alla sinistra del Battista, entro un piccolo recinto, contempla la scena e prega a mani giunte. La composizione, che si restringe al centro, andando in profondità, ha il suo maggior momento di impatto visivo proprio nel grande triangolo definito dall’architettura in prospettiva e dalle figure che la popolano. D’altro canto lo spazio e la conformazione delle figure sono giocate sulla visione dall’alto, dal momento che la linea d’orizzonte è molto alta, in corrispondenza della corona che l’Eterno sta per posare sulla testa velata della Vergine Maria. La Madre di Gesù, dal volto dolcissimo e quasi trasparente – invenzione propria di Filippo Lippi che conferisce una tenerezza e una grazia toccanti a tutte le sue figure femminili –, appena di tre quarti ha il dorso che segue docilmente una delle linee di fuga dando sostanza all’impianto prospettico e rinforzando il grande triangolo centrale, mentre il suo manto color del cielo sventaglia sul marmo verde. ANNUNCIAZIONE La forma straordinariamente allungata della Vergine dell’Annunciazione di Monaco di Baviera è dovuta, invece, alla necessità di suggerirne l’incorporeità e, quindi, la verginità. Eseguita attorno al 1443 per le monache benedettine del convento fiorentino delle Murate, la scena si svolge all’interno di uno spazio molto articolato. La Vergine e l’angelo, infatti, si trovano in primo piano in un vano che una transenna architettonica separa da un vestibolo aperto su un giardino. Quest’ultimo ha due recinzioni. La prima, formata da un muretto basso a mo’ di panca, racchiude un piccolo appezzamento di terreno con erbe, fiori e siepi, al cui centro prospera un cipresso (se ne vedono il fusto, al centro, e parte della chioma, tra la cornice della transenna e il grande arco verde che dà sull’esterno). La seconda, realizzata con un alto muro interrotto da un ingresso timpanato, circoscrive un più ampio prato con numerosi alberi disposti con regolarità. La transenna è formata da un muretto con inserti di lastre marmoree a venature colorate sul quale poggiano dei pilastri che inquadrano archi sostenuti da semicolonne ioniche, della stessa forma (ivi compresa la cimasa a gola dritta) di quelle della Trinità di Masaccio. Il tema dell’ordine che inquadra l’arco, al quale l’architrave è tangente, invece, è di invenzione brunelleschiana e quindi, di riflesso, anche masaccesca. L’alto fregio è ornato con conchiglie, ali e gigli che rinviano all’annunciazione, alla verginità e alla maternità di Maria. La prospettiva, con l’unicità del suo punto di fuga, amalgama i vari piani e le figure in essi contenute. L’angelo, vestito con abiti dai colori sgargianti, ha ali con piume di pavone e porta un alto stelo di giglio (che allude alla purezza). La sua testa, dai riccioli biondi è coronata di fiori, gli stessi che sono contenuti nel vaso poggiato ai piedi del leggio. Vitreo, riempito a metà d’acqua, esso ha il corpo panciuto e il collo stretto. Colpito dalla luce la sua ombra leggera e carica di riflessi si allunga verso destra. Il vaso trasparente è allusivo della purezza e limpidezza di Maria che, immobile, per nulla spaventata, con il piccolo, dolce e delicato capo chino, esprime obbedienza alla volontà divina. L’obbedienza è uno dei voti pronunciati dalle monache (comprese quelle delle Murate, committenti dell’opera) e proprio per questo tale qualità è sottolineata da Fra Filippo). Per giunta il rosato della sua veste e l’azzurro del manto sono gli stessi colori di cui è rivestito l’Eterno (sorretto dagli angeli, compare in alto a sinistra). L’uguaglianza dei colori rende visibili le parole dell’Arcangelo Gabriele: «Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te». Il vaso di vetro, il libro sul cuscino trapunto di fili d’oro, poggiante su un lembo azzurro del manto della Vergine, l’oro del cuscino sulla panca, dei raggi che circondano l’Eterno e una suggestiva scia di polvere puntinata che da Dio si dirige verso il seno di Maria sono ulteriori elementi che rendono raffinata e preziosa la composizione. I FUNERALI DI SANTO STEFANO Ispirati a una solenne monumentalità sono gli affreschi della Cappella Maggiore del Duomo di Prato. A essi Fra Filippo Lippi si applicò, con più o meno lunghe interruzioni, dal 1452 al 1466, come è già stato ricordato. I soggetti raffigurati illustrano le Storie del Battista (parete di destra) e le Storie di Santo Stefano, santo a cui la chiesa è intitolata (parete di sinistra). Sia le une sia le altre non presentano divisioni né architettoniche né semplicemente decorative: in altre parole, gli eventi narrati si sviluppano con continuità sulle intere superfici murarie. La scena con I funerali di Santo Stefano è attualizzata e ambientata all’interno di una basilica rinascimentale. Il rito si svolge alla presenza di sacerdoti e dignitari locali. A destra l’architettura è invasa dal paesaggio roccioso dell’episodio vicino, con la lapidazione del Santo. L’architettura è di ispirazione brunelleschiana. Essa presenta una copertura piana e cassettonata in corrispondenza della navata centrale, l’accoppiamento di paraste e semicolonne (le vediamo circondare i pilastri), nonché colonne libere che sostengono archi a tutto sesto le cui imposte sono sui segmenti di trabeazione in prosecuzione dei capitelli. Tuttavia le pareti laterali non sono organizzate tramite membrature architettoniche, ma scandite da semplici finestre rettangolari al di sopra delle quali corre una leggera cornice. Una classica volta a botte cassettonata, infine, immette nell’abside. Il dipinto è regolato dalla prospettiva, con il punto di fuga collocato sulla croce al centro dell’altare. Un rigoroso asse segna verticalmente il dipinto. Esso è sottolineato dalle nervature mediane del cassettonato della copertura piana, da quella della volta a botte, dall’asta verticale della croce e infine dalla fascia centrale del pavimento dell’edificio, realizzato a riquadri di marmi colorati. Il Santo, adagiato su un basso catafalco ricoperto da un prezioso tappeto orientale, taglia trasversalmente la scena. In tal modo egli si pone come elemento di continuità fra i due gruppi di personaggi presenti, collocati su un ripiano rialzato rispetto al pavimento della basilica. In quello di destra Fra Filippo si è ritratto in abiti scuri, assieme al suo allievo e collaboratore, Fra Diamante, proprio dietro l’alto prelato vestito di rosso. Due donne dolenti sono accovacciate in primo piano e, con la loro forma raccolta, attenuano l’effetto del taglio orizzontale netto operato dal corpo disteso di Santo Stefano. Se nei dipinti su tavola Filippo Lippi usa colori squillanti e ricorre ad artifici per rendere preziose le sue opere, in questi affreschi pratesi, caratterizzati da una decisa linea di contorno, egli ritrova non solo la solennità delle figure di Masaccio, ma anche la plastica spazialità loro conferita dall’utilizzo di pochi colori e dal chiaroscuro. PIERO DELLA FRANCESCA (1413-1492) Piero della Francesca nasce a Sansepolcro (Arezzo) nel 1413. Prima ancora che come artista, Piero viene celebrato come trattatista. In verità la sua eredità teorica è davvero consistente: un trattato d’Àbaco in volgare, uno in latino sui poliedri, o corpi regolari, il Libellus de quinque corporibus regularibus (Libro sui cinque corpi regolari), e uno di prospettiva (il De prospectiva pingendi) di cui esistono copie sia in volgare sia in latino. A questi scritti si è aggiunta una traduzione di Archimede, tutta di mano di Piero e da lui completamente illustrata.Mai nessuno prima di Piero della Francesca aveva disegnato i poliedri regolari e semiregolari né studiato le relazioni che intercorrono fra i cinque regolari. Non è un caso che subito dopo di lui tanti artisti abbiano cominciato a rappresentarli. Il nome di Piero della Francesca compare per la prima volta in un documento fiorentino del 1439 relativo a Domenico Veneziano. In quell’anno Piero fu a Firenze e ebbe occasione di conoscere le opere di Masaccio, del Beato Angelico e di Paolo Uccello. Nel 1442 l’artista era già nella sua città natale. Fu poi a Ferrara alla corte degli Este, forse nel 1449, e nel 1451 dipingeva nel Tempio Malatestiano a Rimini, mentre era ad Arezzo l’anno successivo. Nel 1458 parte per Roma, per dipingere nell’appartamento pontificio, ma nel 1459, dopo la morte della madre, ritorna a Sansepolcro. Lavora ancora ad Arezzo fino al 1466, ma sin dal 1440-1450 l’artista era entrato in contatto con la corte urbinate e per essa esegue importanti opere. Fu a Urbino nel 1469 e nel 1482 affitta anche una casa a Rimini, acquistandone una con il fratello a Sansepolcro nel 1485. Nella città natale Piero della Francesca si spegne il 12 ottobre 1492. IL DISEGNO Il disegno di Piero si caratterizza per il tocco leggerissimo e sapiente e per l’estrema sottigliezza del segno operata per mezzo di una penna sempre molto appuntita. Talvolta l’artista ricorre anche allo stilo di metallo per graffire la pergamena o lasciare sulla carta un tracciato invisibile di cui servirsi, successivamente, per il disegno a penna. Ne sono esempi altissimi le figure di ornato o di architettura del De prospectiva pingendi. In realtà non esistono disegni di Piero indipendentemente da quelli tracciati nelle copie dei suoi trattati, né è stato mai possibile individuare un disegno preparatorio per uno dei suoi dipinti. Non è difficile, tuttavia, mettere in relazione determinati dipinti ad alcuni schemi prospettici, a dimostrazione di quanto la pratica pittorica e la teoria fossero davvero l’una conseguenza dell’altra per il grande artista di Sansepolcro. È così che uno dei capitelli compositi dell’Incontro di Salomone con la regina di Saba e la testa di uno dei soldati addormentati della Resurrezione di Cristo alla Pinacoteca Comunale di Sansepolcro hanno il loro precedente grafico nel De prospectiva pingendi. Eva, era stato cacciato dal Paradiso Terrestre. Seth, canuto e coperto parzialmente da un panno bianco dall’elaborato drappeggio, ascolta il padre con il volto serio. Assistono alla scena una giovane donna in posizione eretta, statica e perfetta come una Venere e un giovane ritratto da dietro in totale nudità, in un atteggiamento carico di allusioni al Pothos di Skopas. Secondo recenti ipotesi, la posizione del giovane potrebbe avere riferimento anche con la classica raffigurazione della Morte (Thànatos): un fanciullo con le gambe incrociate e appoggiato a una fiaccola rovesciata (nell’affresco aretino sostituita da un bastone). Si tratterebbe, quindi, di una figura simbolica, rappresentante la condanna del genere umano dopo il peccato di Adamo e di Eva. Quello che Piero ha dipinto è un gruppo solenne e commovente insieme, che sembra riassumere le conoscenze geometriche (la fanciulla dalla treccia bionda e dalla maestosa e pura volumetria) e lo studio sui modelli classici (la statuaria in particolare) che l’artista stava compiendo in quegli anni di metà secolo.Una ferrea geometria divide esattamente in due parti uguali gli spazi dedicati ai distinti episodi della regina di Saba che venera il legno della Croce e di Salomone che incontra la regina, nel riquadro mediano della parete di destra. Il primo episodio, a sinistra, si svolge all’aperto, il secondo, a destra, all’ombra di un portico reso in prospettiva.Venuta da un lontano regno della penisola arabica la regina di Saba riconosce la santità di un legno – quello con cui sarebbe stata realizzata la Croce di Cristo – gettato fra le sponde di un corso d’acqua a mo’ di ponte, si inginocchia e lo venera. Attorniata dalle dame del suo seguito, silenziose e meravigliate, la regina, coperta da un mantello azzurro, è a mani giunte e con la testa leggermente chinata in avanti. Il legame fra la regina e le compagne e la partecipazione di queste al mistero dell’intuizione della loro sovrana sono resi visibili dai gesti delle braccia che quasi si uniscono a formare una sorta di catena protettiva. Una serva poco lontano aspetta e dei nobili giovani parlano fra loro, mentre si occupano dei cavalli al riparo di un albero. Poche notazioni paesaggistiche definiscono l’ambiente esterno: due alberi, un prato verde, delle colline dalle vette tondeggianti, il cielo con qualche nuvola.L’incontro, invece, avviene in un sontuoso portico con colonne scanalate, su basi attiche e dal capitello composito, sulle quali grava il solo architrave a tre fasce. Il soffitto è a grandi lacunari di marmi colorati, che ripetono la pannellatura della parete di fondo. Il centro della composizione in questo caso è costituito da Salomone che stringe nella mano destra la sinistra della regina, inchinatasi al suo cospetto. Un ampio mantello di damasco giallo oro ricade in pieghe regolari dalle spalle del re d’Israele dalla saggezza proverbiale, che indossa un abito azzurro e un copricapo a falde tese. Le donne e gli uomini che accompagnano i due sovrani si dispongono a cerchio attorno a loro e osservano la scena.Piero, che ha fatto ricorso alle sue conoscenze architettoniche nello strutturare il portico (l’artista di Sansepolcro, del resto, ha praticato anche l’architettura e conosce assai bene il trattato di Vitruvio, autore che cita spesso nelle sue opere), tratta i personaggi secondo precisi volumi geometrici. Non è difficile, infatti, riconoscere delle figure ovoidali nelle teste degli uomini e, soprattutto, delle donne; i colli, invece, sono dei piccoli cilindri. Alla geometria è riservato anche il ruolo di “segnalare” la scansione dello spazio: una suddivisione dell’intero riquadro in otto parti uguali, infatti, individua otto elementi significativi (due colline, due alberi, tre figure) che materializzano le verticali divisorie. Allo stesso tempo tutte le figure – salvo alcuni piccoli sforamenti – sono rigorosamente contenute nella metà inferiore del riquadro che occupano per tutta l’altezza. Le donne del seguito all’esterno sono le stesse che si trovano all’interno dell’edificio, perciò Piero, per raffigurarle nelle due occasioni, ha fatto ricorso agli stessi cartoni, che ha semplicemente rovesciato, cambiando poi, in piccola misura, solo alcune pose. L’importanza e la solennità dell’evento, infine, sono enfatizzati dalla prospettiva con una linea d’orizzonte molto bassa che produce l’effetto di conferire monumentalità ai personaggi, in quanto sono visti prevalentemente dal basso. Il sogno di Costantino, nella porzione inferiore della parete dietro l’altare, rappresenta la notte e un angelo in scorcio che venendo a capo all’ingiù a portare il segno della vittoria a Costantino che dorme in un Tenda militare. padiglione, guardato da un cameriere e da alcuni armati oscurati dalle tenebre della notte, con la stessa luce sua illumina il padiglione, descrive gli armati e tutti i dintorni con perfetta discrezione e realismo. Piero è anche fra quelli che, avendo imitato correttamente la realtà, ha gettato le basi per il massimo sviluppo della pittura che Vasari colloca solo ai propri tempi. In base alla descrizione dello scrittore e artista aretino e sulla base dell’affresco non ancora pulito, Il sogno di Costantino è sempre stato interpretato come il primo notturno della pittura italiana (preludio alla Liberazione di San Pietro dal carcere di Raffaello). Uno dei risultati più sorprendenti del restauro che si è concluso nel 2001 è consistito proprio nell’aver svelato che non il buio della notte viene rotto dalla luce dell’angelo, perché il momento scelto da Piero è l’alba. Un chiarore comincia, infatti, a diffondersi, ma le stelle, ancora brillanti, punteggiano il cielo. Un angelo in volo, che tiene nelle braccia tese una piccola croce luminosa e dalla quale la luce si irradia dintorno, porta a Costantino il sogno con la rivelazione che, nel giorno che si apprestava a cominciare, avrebbe vinto la battaglia contro Massenzio se avesse apposto sugli scudi dei soldati la croce di Cristo. La scelta dell’alba è proprio in relazione all’avveramento del sogno ed è un rinvio alla cultura classica: secondo le credenze degli Antichi, infatti, i sogni fatti all’alba erano non solo premonitori, ma anche veritieri.La luce emanata dalla croce rende luminosissime, candide e traslucide le piume dell’ala destra del messaggero divino oltre che il suo volto (di cui poco si vede). Essa illumina la tenda da campo entro la quale, vegliato da un servitore, dorme l’imperatore. Due armati proteggono il sonno di Costantino e ambedue sono portati alla ribalta dalla luce. Di quello a sinistra, che impugna la lancia ed è visto di spalle, si nota l’armatura riflettente, del secondo, a destra, in veduta frontale, si è catturati dai giochi delle ombre, effetto della luce forte e improvvisa. Nei piani arretrati le sagome scure e incolori di altre tende suggeriscono un grande accampamento. È stato dimostrato che le stelle dipinte da Piero non sono solo puntini casuali contro il chiarore del cielo, ma corrispondono alla vera posizione di alcune stelle e costellazioni, però in controparte, perciò non come le si potrebbe vedere dalla terra alzando gli occhi, ma come le si vedrebbe stando loro dietro, dal cielo. Piero, infatti, non smentendo la sua inclinazione verso le scienze esatte e la geometria, non ha lasciato nulla al caso e deve aver fatto ricorso a una delle tante sfere celesti tridimensionali (grandi come un mappamondo) e ha trasferito nel dipinto di Arezzo quello che il suo occhio guardava da “sopra” e da “fuori”, come se Dio stesso stesse guardando attraverso i cieli Costantino addormentato. FLAGELLAZIONE Fra l’interruzione dei dipinti di Arezzo e la loro ripresa dopo il viaggio romano si colloca la piccola Flagellazióne di Urbino. Due scene distinte, ma fra loro connesse, si svolgono una all’aperto e l’altra in un interno. In una strada con edifici antichi e rinascimentali tre uomini colloquiano, mentre a sinistra, in uno spazio perfettamente misurato, è rappresentato il Cristo legato alla colonna e flagellato. La tavola, nonostante le sue dimensioni ridotte, mostra grandi spazi grazie all’applicazione magistrale della prospettiva. Le fasce bianche, la pavimentazione, gli architravi, le linee di gronda degli edifici sembrano voler mostrare una sola verità: l’unicità del punto di fuga, proiezione del punto di vista sul quadro prospettico. L’edificio della flagellazione è costituito da un portico di marmo con colonne d’ordine composito dal fusto scanalato e rudentato che reggono una trabeazione. Per evitare intralci all’interno non vi sono colonne intermedie e, agli incroci degli architravi, sono collocati dei pendentif. La griglia strutturale determina campate quadrate coperte da superfici piane cassettonate e con rosoni. Sulla parete di fondo si aprono due porte, quella di destra è chiusa, l’altra, aperta, lascia intravedere delle scale che conducono a un piano superiore. Un disegno complesso definisce il pavimento delle tre campate in vista: nella prima e nella terza campata una stella centrale in marmo bianco è circondata dall’alternarsi di marmo e porfido rosso; la campata mediana ha un grande cerchio di serpentino verde con angoli di contenimento in marmo rosa. Al centro del cerchio svetta una colonna ionica che sostiene un idolo d’oro: ad essa è legato Gesù; di fianco a lui, seduto, sta Ponzio Pilato. Gli esterni, invece, sono pavimentati con un caldo cotto rosso inquadrato da fasce di marmo bianco.Mentre la porzione destra del piccolo dipinto è illuminata da sinistra, l’altra lo è dalla parte opposta. Non solo, all’interno del portico è ben chiara la presenza di una fonte di luce aggiuntiva che illumina fortemente i cassettoni della campata centrale. Evidentemente, con la doppia direzione della luce, l’artista ha voluto suggerire una qualche separazione fra le due scene rappresentate. Le persone sono immobili – allo stesso modo delle inanimate architetture in mezzo alle quali agiscono – e fermate in un attimo dell’azione in una specie di vitalità sospesa. I fustigatori appaiono irrigiditi con le braccia levate, per colpire Gesù, il cui corpo appare di un colore perlàceo, simbolo della sua purezza incorrotta. La mano sinistra dell’uomo con il turbante sembra che non debba più ricadergli lungo il fianco. Pilato, seduto, guarda fisso dinanzi a sé, come fosse una divinità arcaica. Il colloquio dei tre personaggi sulla destra sembra congelato, come lo è il linguaggio muto della varia gestualità delle loro mani. La presenza della scena evangelica in secondo piano suggerisce che i protagonisti della tavola siano in effetti i due uomini a destra e il giovane che è tra loro. È possibile che essi fossero (da sinistra verso destra): il cardinale Bessarione, Buonconte da Montefeltro, figlio naturale del signore di Urbino – Federico – e Giovanni Giovanni Bacci. La Flagellazione di Cristo, allora, sarebbe un’evocazione, cioè l’argomento di cui sta forse parlando il Bessarione. L’identificazione di Ponzio Pilato con l’imperatore d’Oriente, Giovanni VIII Paleòlogo (1425-1448), svela, inoltre, il probabile significato del dipinto, in quanto l’argomento della discussione verterebbe, in effetti, sull’imperatore stesso che, con la sua politica di condiscendenza nei confronti del clero scismatico di Costantinopoli, aveva fatto sì che la Chiesa greca si staccasse di nuovo da quella latina. Egli inoltre veniva ritenuto responsabile delle sofferenze inflitte dai Turchi (che conquistarono Costantinopoli nel 1453) ai cristiani d’Oriente, tant’è che Piero lo rappresenta come un impassibile Ponzio Pilato che, senza muovere un dito, assiste alla tortura di Cristo. È probabile che la piccola tavola fosse stata inviata in dono a Federico da Montefeltro verosimilmente dal Bacci per convincerlo ad appoggiare la crociata propugnata da papa Pio II Piccolòmini nel 1459 e caldeggiata dallo stesso Bessarione, per liberare Costantinopoli dai Turchi. Ciò spiegherebbe la presenza del giovane Buonconte da Montefeltro il cui pallore lo caratterizza come già morto. Il ragazzo, dal volto enigmatico, amatissimo dal padre e amico del Bessarione, era infatti morto di peste nell’autunno del 1458 a soli 17 anni. Le sue sofferenze vengono quindi paragonate a quelle del Cristo flagellato e pertanto a quelle dei cristiani orientali, mentre il dolore di Federico è assimilato a quello della Chiesa. Una recentissima interpretazione sostituisce Tommaso Paleologo, rifugiatosi in Italia nel 1462, a Buonconte da Montefeltro e Niccolò III d’Este al Bacci. In questo modo la tavola urbinate, idealmente ispirata dal Bessarione, sarebbe stata donata dall’Este proprio al cardinale di origini greche e sarebbe stata realizzata per ricordare sia il Concilio di Firenze-Ferrara del 1438-1439 sia le aspirazioni di Tommaso Paleologo di salire al trono di Bisanzio. POLITTICO DI SANT’ANTONIO Piero esegue un grande dipinto su tavola per le monache del Monastero di Sant’Antonio a Perugia. Il Polittico di Sant’Antonio, forse commissionato nel 1460, era sicuramente concluso nel 1468. Esso si compone di due predelle sovrapposte, di una porzione centrale coronata da cinque archeggiature gotiche e di una cimasa cuspidata con un profilo a linee spezzate. Piero deve essersi attenuto alle richieste delle monache per la parte principale, caratterizzata dalla tradizione formale gotica e dal fondo oro, mentre si è sentito libero da vincoli per la composizione del coronamento. Nella porzione ancora di gusto gotico l’artista ha raffigurato la Vergine con il Bambino seduta su un trono che, a propria volta, poggia su un ripiano di diaspro rosso fuoco. La circondano quattro santi (di cui tre appartenenti all’Ordine francescano): Sant’Antonio e San Giovanni Battista a sinistra, San Francesco e Sant’Elisabetta d’Ungheria a Andrea di Michele di Francesco di Cione detto del Verrocchio nacque a Firenze attorno al 1435, ebbe inizi da orafo e fu, forse, attivo nella bottega dello scultore Desiderio da Settignano (1428-1464) o in quella di Antonio Rossellino (1427-1478/1481). Compì un primo viaggio a Venezia nel 1465, ma vi risiedette più volte tra il 1479 e il 1488, anno della sua morte, avvenuta proprio nella città lagunare. Almeno dal 1461 Andrea è artista indipendente e organizza la propria attività in modo imprenditoriale impiantando una bottega che in breve diverrà una delle più rinomate della città. In essa vengono trattate con pari dignità arte e artigianato. Artista dai molteplici interessi, dalla sua bottega usciranno artisti quali Botticelli, il Perugino e Leonardo da Vinci i quali, al pari degli altri allievi, intervenivano in molte opere del maestro. Per questo motivo è spesso difficile distinguere nei dipinti e nei disegni della bottega la mano del Verrocchio da quella dei suoi allievi migliori. IL DISEGNO Ad Andrea o alla sua bottega, si fa risalire il volto delicatissimo di una fanciulla che emerge dal fondo preparato in rosa-arancio di un foglio di Parigi. La figura risalta per l’uso della biacca, data per filamenti sottilissimi, come se fossero di seta, che seguono la massa vaporosa dei capelli. Rialzi di biacca, inoltre, sono impiegati, in maniera tenue, sugli zigomi e in altre parti del volto che, in questo modo, appare più volumetrico e ben tornito. La punta di metallo, infine, definisce i ciuffi ondulati di capelli a destra, la curva delle palpebre, le lunghe ciglia e il gioiello che campeggia sul collo della giovane donna. Tale gioiello, peraltro, si impone per i contrasti luminosi operati in esso dalla traccia scura della punta di metallo e dalla biacca, richiamando l’attenzione di chi guarda come se fosse un secondo soggetto.Alla metà degli anni Settanta risale il foglio del British Museum con una Testa femminile a carboncino. Inclinata verso sinistra, la testa dalla forma ovale è definita nelle sue proporzioni da una lieve linea orizzontale (all’altezza delle sopracciglia) e da una longitudinale (lungo il naso e la bocca). Rialzi di biacca ammorbidiscono le palpebre. Il carboncino è usato a tratteggio molto rado nella parte di sinistra del volto (nella fronte, ad esempio) per sottolinearne la luce, più fitto, invece, a destra dove viene morbidamente disteso fino ad anticipare lo sfumato che sarebbe stato messo poi a punto da Leonardo. Il segno è molto forte nel definire la complessa acconciatura dei capelli a treccine e dà corpo alle ciocche ondulate contro la cui massa risalta il volto chiaroscurato. MADONNA CON IL BAMBINO Attorno al 1476-1478 il Verrocchio dipinge la Vergine con il Bambino e due angeli, ora alla National Gallery di Londra. Il restauro a cui il dipinto è stato sottoposto dal 2008 al 2010 ha rivelato anche la presenza della mano di Lorenzo di Credi (1459-1537), al tempo allievo del Verrocchio. A Lorenzo spettano il Bambino, l’angelo di destra e le tende scostate. La lunga figura della Vergine – che le spalle strette fanno sembrare ancora più alta e affusolata – occupa gran parte della tavola. Ammantata di celeste e a mani giunte, essa tiene il Bambino fra le ginocchia, accolto come in un guscio protettivo dall’ovale formato dai risvolti verde-oro del mantello e dalle pieghe della veste rossa della madre. La Vergine guarda teneramente il figlio che, con naturalezza, si porta un frutto alla bocca. Il suo volto delicatissimo con trapassi di colore dall’avorio al rosa delle gote è incorniciato dal velo intrecciato ai capelli raccolti. Due angeli l’affiancano. Quello di destra è in posizione più arretrata, quasi con il corpo di profilo, sostiene il Bambino e volge la testa e gli occhi verso l’esterno del dipinto; l’angelo di sinistra, invece, è più avanzato, posto di tre quarti e colto mentre rivolge uno sguardo estatico in alto, verso la Vergine. Alla purezza di Maria allude il lungo stelo di giglio che egli tiene con la mano destra e fa appoggiare alla spalla, mentre porta la mano sinistra delicatamente al petto. L’angelo di destra è stato eseguito più rapidamente del compagno, come denuncia l’approssimazione dell’abito, risolto con un drappo rosso gettato sulla spalla. L’angelo di sinistra, invece, indossa una veste molto più elaborata, impreziosita dai veli e, soprattutto, da un gioiello, identico a quello che ferma sul petto il manto della Vergine, forse ripreso da uno di quelli della ricca produzione orafa della bottega del Verrocchio. Due tende scostate incorniciano il dipinto e svelano il paesaggio retrostante con rocce, colline alberate, montagne azzurrate in lontananza e un fiume che, serpeggiando, scorre nella pianura. Il cielo celeste è una nota di colore tenue che introduce all’ampio mantello, dal tono più forte, che copre le spalle di Maria. TOMBA DI PIERO E GIOVANNI DE’ MEDICI È l’impronta dell’educazione orafa dell’artista quella che emerge dall’orginalissima creazione della Tomba di Piero e Giovanni de’ Medici nella basilica fiorentina di San Lorenzo. Commissionato da Lorenzo il Magnifico, il monumento funebre è dedicato al padre Piero – scomparso nel 1469 – e allo zio Giovanni (morto nel 1463). Non è certa la data in cui l’incarico venne dato, mentre quella tradizionalmente assunta come ultimazione (il 1472 che si legge sulla tomba stessa) potrebbe addirittura corrispondere all’inizio dei lavori. È possibile, tuttavia, che il monumento sepolcrale fosse compiuto entro il 1473. Il Verrocchio realizza un sarcofago che colloca entro un’apertura ad arco posta fra la Sagrestia Vecchia e l’attigua Cappella del Sacramento, ambedue sotto il patronato mediceo. Il sarcofago è una struttura preziosissima, quasi un reliquiario, dalle facce di porfido rosso con incastonati grandi tondi di porfido verde. Il coperchio è costituito da una fascia modanata a gola di marmo bianco embricato, sormontata da un basso tronco di piramide di porfido rosso imprigionato nelle maglie di una rete. L’arca è sostenuta da un basso piedistallo di marmo che, tramite tartarughe bronzee, poggia sulla soglia di pietra serena. I differenti materiali impiegati sono tutti unificati dal bronzo. Gli spigoli della cassa sono fasciati da un elaborato motivo di foglie d’acanto di bronzo le cui volute panciute terminano a zampa di leone che tengono la cassa stessa sollevata rispetto al piedistallo. Di bronzo è anche il folto cespo di foglie d’acanto che si sviluppa al centro del coperchio. Nella sua sommità svetta il diamante, uno dei simboli araldici dei Medici, mentre quattro calici ricadono in basso, diagonalmente, trasformandosi in cornucopie con terminazione a conchiglia. Una rete bronzea imprigiona il sarcofago, come attraversandolo nel mezzo, determinando al tempo stesso anche la sua unione con gli stipiti e l’arco che lo ospitano. Questi, strombati, attraversati da una fascia di marmo ornato a foglie, fiori e candelabre, contribuiscono all’aspetto monumentale dell’opera. La rete a maglie larghe svolge una funzione luministica, con i numerosi riverberi a cui dà luogo. Allo stesso tempo essa costituisce un invalicabile filtro visivo tra i due ambienti che unisce, ma che anche separa. L’impiego del pregiato porfido, materiale «imperiale» per eccellenza, rinvia direttamente alla classicità romana. Il sarcofago della Tomba di Carlo Marsuppini, realizzato nel 1455 da Desiderio da Settignano nella Basilica di Santa Croce, la rete della Tomba di Neri Capponi nella Basilica di Santo Spirito, che Bernardo Rossellino conclude nel 1458, nonché l’ornamentazione della cornice della Porta Nord del Battistero del Ghiberti sono, invece, i suoi precedenti quattrocenteschi e le sue fonti d’ispirazione. Ciononostante la tomba di Piero e Giovanni de’ Medici resta la più straordinaria invenzione della scultura quattrocentesca fiorentina. INCREDULITA’ DI SAN TOMMASO Il Verrocchio, infine, rivela un’elevata conoscenza tecnica nel gruppo scultoreo dell’Incredulità di San Tommaso, posto nel Tabernacolo dell’Arte della Mercanzìa in Orsanmichele e oggi conservato nel Museo di Orsanmichele, a Firenze. Commissionato dall’Università della Mercanzia, il tribunale fiorentino che trattava le leggi sul commercio e sull’economia, l’opera venne inaugurata il 21 giugno 1483. Il gruppo fu realizzato con il metodo della fusione a cera persa con modello salvo.Le due statue raffigurano uno degli eventi successivi alla Resurrezione – narrati nei Vangeli (Giovanni, 20, 26-27) – quando l’Apostolo Tommaso non credette alle parole dei condiscepoli che riferivano di aver visto Gesù e affermò che non avrebbe creduto se non avesse visto e toccato le ferite di Cristo. Questi, apparsogli successivamente, lo invitò a guardare le proprie mani forate dai chiodi dei carnefici e a toccare la ferita inflittagli sul costato. Solo in quel momento Tommaso poté credere, ma Gesù esclamò: «Perché mi hai veduto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto, ed hanno creduto».Il Verrocchio ha scelto di raffigurare proprio il momento successivo alla verifica, quando l’apostolo Tommaso, riconosciuto il Cristo senza possibilità di errore, pieno di timore, stupore e fede si sta scostando da lui. Il suo corpo, infatti, inclinato verso l’esterno e già in parte oltre la nicchia, cerca un solido appoggio sul piede destro. Il Cristo occupa da solo il vano del grande tabernacolo ed è posizionato in modo tale che l’asse di simmetria dell’architettura passi precisamente per la ferita che si apre sul suo costato. Con la mano sinistra scosta un lembo della veste, mentre la destra si leva alta, benedicente, sulla testa di Tommaso.Le due sculture non sono a tutto tondo (fanno eccezione le mani e le teste), ma cave posteriormente. In tal modo esse possono occupare l’esiguo spazio della nicchia che, pertanto, sembra addirittura più grande.Gli abiti ricalano in pieghe ampie e pesanti accompagnando le posture dei busti e degli arti. Il chiaroscuro, a volte forte, altre più morbido (in particolare sui volti sereni e solenni e sulle capigliature inanellate), compie il “miracolo” di dare quasi il movimento ai due corpi.Questi, quasi non accontendandosi dello spazio loro riservato all’interno della nicchia, suggeriscono l’idea di volerne cercare ancora fuori della concavità entro cui sono collocati (San Tommaso, in particolare, sporge per oltre due terzi). In tal modo sembrano voler negare la perfetta e simmetrica geometria dell’architettura che li ospita trasformandosi, così, in sculture che aprono già agli esiti della plastica del Cinquecento. SANDRO BOTTICELLI (1445-1510) Sandro di Mariano di Vanni Filipépi, detto del Botticello o Botticèlli perché da fanciullo – secondo quanto afferma il Vasari – aveva lavorato presso un maestro orafo chiamato Botticello, o meglio, stando ai documenti, perché quello era il soprannome del fratello maggiore Giovanni, fu l’esponente di punta della cultura figurativa fiorentina del tempo di Lorenzo il Magnifico.Nato a Firenze nel 1445, stette a bottega da Filippo Lippi e quindi da Andrea del Verrocchio, dove ebbe per compagno il più giovane Leonardo da Vinci. Dal 1470 fu pittore indipendente, ebbe cioè una sua bottega artistica. Lavorò per i Medici e fu esecutore fedele della loro politica culturale. Dal 1481 al 1482 risiedette a Roma per breve tempo, al fine di dipingere nella Cappella Sistìna. Successivamente, in preda a una profonda crisi mistica, aderì senza riserve al movimento religioso del frate domenicano Gerolamo Savonaròla (1452-1498). Il suo profondo e inquieto sentimento religioso ispirò le opere eseguite fra lo scadere del secolo e il 1510, l’anno della sua morte a Firenze. Nella produzione di quest’ultimo periodo Botticelli si differenzierà in modo notevole dal suo stile abituale, tornando persino a iconografie medioevali e arrivando anche a rinnegare le rappresentazioni mitologiche e prospettiche fino ad allora predilette. Interessato a quanto è in primo piano e alla figura, Botticelli trascura l’indagine del paesaggio. È per questo che Leonardo lo giudica severamente:«Quello non fia Completo. universale che non ama equalmente tutte le cose che si contengono nella pittura; come se uno non li piace li Paesaggi. paesi, esso stima quelli essere cosa di brieve e semplice Indagine. investigazione, come disse il nostro Botticella, che tale studio era vano, perché col solo gittare d’una Spugna. spunga piena di diversi colori in un muro, Riferito al «gittare d’una spunga». esso lasciava in esso muro una macchia, dove si vedeva un bel paese […]. E questo tal pittore fece tristissimi paesi» (Libro di pittura, Parte Seconda, 60). IL DISEGNO È alla metà del Quattrocento che si afferma la convinzione che l’idea sia superiore alla realtà. Di conseguenza il disegno, inteso come materializzazione dell’idea, per la sua immediatezza è più vicino al pensiero, all’ideazione, all’invenzione artistica, di quanto non lo sia l’opera finita. Il disegno assume una propria dignità e autonomia colline, Venere e Marte sono distesi in posizione opposta, l’una verso sinistra, l’altro verso destra. Mentre la prima è sveglia e vestita, il secondo è addormentato e nudo (con un semplice drappo bianco che gli copre appena il sesso e i fianchi). Dei satirelli giocano con la corazza e le armi del dio della guerra: uno indossa scherzosamente l’elmo pesante e smisuratamente grande per la sua testolina cornuta e solleva la lancia del dio aiutato da un compagno di giochi; un terzo, a destra, è addirittura entrato nel busto di ferro, mentre un quarto, accostata una conchiglia a tromba a un orecchio di Marte, vi soffia dentro per svegliarlo di soprassalto. La composizione si basa soprattutto sui due corpi distesi e incurvati delle divinità olimpiche, ma anche sulla contrapposizione tra la morbidezza delle loro pose e l’andamento a spezzata rilevabile seguendo le direzioni di braccia e gambe. Inoltre le mani di Venere e Marte, rivolte verso il basso, sottolineano dei punti significativi nella geometria del dipinto.Nonostante due siano i protagonisti della scena, tutti i movimenti o gli sguardi convergono verso Marte: i puttini sono incurvati e si dirigono verso di lui e la lancia punta verso destra congiungendosi con la conchiglia. Anche gli occhi di Venere si posano sul corpo del suo amante divino. Anche per questo dipinto vi sono state diverse interpretazioni, fra le altre quella neoplatonica che, vedendo Venere come Humanitas, cioè cultura, la considera come forma elevata di umanità capace di vegliare sugli istinti guerreschi e negativi. Altre ancora vi leggono l’armonia degli opposti, quello dell’amore e della guerra o dell’armonia sulla discordia. In quest’ipotesi interpretativa la nudità di Marte addormentato e il tentativo di svegliarlo, sotto lo sguardo vigile di Venere, possono anche essere visti come desiderio di lussuria. MADONNA DEL MAGNIFICAT Botticelli è anche l’erede del modo leggiadro di rappresentare le Vergini messo a punto dal suo maestro Filippo Lippi. Anzi, con il passare degli anni, i Medici e la ricca borghesia fiorentina diventarono i maggiori committenti delle sue richiestissime Madonne, tanto che alcune tra le tipologie più ambìte furono addirittura replicate più volte dagli allievi della sua bottega.È il caso della Madonna del Magnìficat, eseguita attorno al 1483, della quale si conoscono almeno cinque repliche. Il titolo con cui il dipinto è conosciuto deriva dal fatto che, nel libro su cui la Vergine sta scrivendo compaiono, a destra, le prime righe in latino del cantico che ella innalzò in risposta al saluto della cugina Elisabetta, alla quale era andata a far visita. Il dipinto è stato realizzato su una tavola circolare lungo la cui circonferenza è raffigurato il vano di una finestra dalla cornice modanata, oltre la quale si apre un semplice paesaggio con un fiume serpeggiante, alberi e un castello lontano. Il polso sinistro della Vergine, che tiene in mano, contemporaneamente al Bambino, una melagrana, prefigurazione simbolica del sacrificio di Cristo, è piegato in maniera del tutto arbitraria. Ma, osservandolo assieme alla figura arcuata di Maria che, con il ginocchio sinistro, pare spingersi in fuori, oltre i bordi della tavola, suggerisce che Sandro abbia voluto imitare l’effetto di deformazione di uno specchio convesso, tema già trattato dalla pittura fiamminga. La composizione, riesce ad avvalersi degli accenni alla deformazione il cui senso di espansione è accentuato dalla direzione degli sguardi dei personaggi e dalla continuità del tocco delle mani. Il Bambino guarda in alto, verso l’esterno del dipinto, mentre la Madre pone attenzione alla penna; i due angeli che le stanno di fronte si guardano negli occhi, tenuti abbracciati da un terzo che li osserva teneramente. Gli altri due angeli alle estremità, destra e sinistra, volgono lo sguardo alla leggera e delicata corona di piccole stelle che, ulteriormente illuminata dai raggi di un globo (simbolo della presenza di Dio), tengono sospesa sulla testa della Vergine. Le loro braccia sollevate chiudono in alto il gruppo sacro a mo’ di baldacchino. L’oro orna gli abiti, forma le aureole raggiate e lumeggia i capelli che, a ciocche volumetriche, ricadono sulle spalle degli angeli e della stessa Vergine. Sul colore brillante e sull’oro luminoso, però, è ancora la linea a vincere: sinuosa o arcuata, ma sempre nitida, continua e decisa, essa sta a fondamento sia della composizione sia delle figure. ANNUNCIAZIONE DI CESTELLO Nel 1489 Sandro Botticelli riceve il pagamento per una tavola con un’Annunciazione dipinta per la cappella che Benedetto di ser Francesco Guardi si era fatta costruire nella nuova chiesa fiorentina dei Cistercensi (detta anche di Cestello e successivamente intitolata a Santa Maria Maddalena dei Pazzi) opera di Giuliano da Sangallo. L’impianto prospettico ben si confà alla forma quasi quadrata della tavola, fornendole uno slancio verso l’alto (la linea d’orizzonte passa poco al di sotto del volto della Vergine, mentre il punto di fuga sta esattamente sulla mezzeria del dipinto). L’episodio evangelico si svolge all’interno della camera di Maria, aperta verso un esterno caratterizzato da un giardino erboso recintato, con un alberello e un paesaggio nordico idealizzato. La stanza è vuota: l’arreda solamente un alto leggio per il libro che la giovane prescelta da Dio sta leggendo. Il pavimento a riquadri rossi entro fasce bianche definisce in modo rigoroso lo spazio e le reciproche posizioni dell’angelo e della Vergine. Mai prima, come in quest’opera, Sandro aveva inclinato così tanto, secondo un arco di cerchio, la sottile figura della Vergine, che tende delicatamente entrambe le braccia verso l’angelo nell’atto di schermirsi e quasi di tenerlo lontano. Il suo sguardo accompagna il gesto con la modestia degli occhi abbassati. L’angelo, in ginocchio, è vestito di rosso e di veli trasparenti e vaporosi. Esso appare proteso verso la Vergine, portando in avanti il braccio destro e sollevando la mano nell’atto di mostrare il palmo in segno di saluto e di rassicurazione. Contrariamente ai tanti angeli dolci e malinconici dipinti negli anni da Botticelli, questo dell’Annunciazione di Cestello ha uno sguardo carico di inquietudine, esordio di quella tensione religiosa che avrebbe caratterizzato gran parte delle opere successive dell’artista fiorentino, già turbato dai temi apocalittici dei sermoni del domenicano ferrarese fra Gerolamo Savonarola. COMPIANTO SUL CRISTO MORTO La predicazione ispirata da Gerolamo Savonarola, che dal pulpito della Chiesa di San Marco, a Firenze, invitava al pentimento e al rinnovamento dei costumi, profetizzando il castigo della Chiesa, ormai allontanatasi dall’originario spirito evangelico, convinse anche Sandro Botticelli, convertendolo a una più sentita e profonda religiosità. Uno dei frutti più consapevoli di tale cambiamento è costituito dal Compianto sul Cristo morto. Di fronte al cupo antro del sepolcro siede la Vergine Maria con il corpo del Figlio morto sulle ginocchia. Ammantata di nero, le sue braccia ricadono inerti sul Cristo nudo, pallido, appena cinto nei fianchi dal sudario di velo trasparente. La Vergine è abbandonata all’indietro, affranta, con gli occhi chiusi e la testa piegata di lato. San Giovanni la sostiene, carezzandola teneramente e tenendo, allo stesso tempo, un lembo del sudario in modo che Gesù non cada in avanti. Il suo volto dalle labbra chiuse, le narici dilatate e le sopracciglia aggrottate, esprime un dolore trattenuto. Due pie donne, accoccolate, sostengono i piedi (Maria Maddalena) e la testa di Cristo, che bagnano di lacrime. Una terza, in piedi di fianco a Maria, si copre il volto mostrando i tre chiodi che hanno trafitto il corpo del Dio-uomo. Come nell’Adorazione dei Magi di Washington, la Vergine con il Cristo è al centro di un quadrilatero. Tuttavia, in questo caso, alla forma piramidale si sostituisce quella di un prisma a base trapezoidale, la cui faccia superiore, inclinata, partendo dalla base della tavola, si restringe fino alle teste dei due personaggi che affiancano Maria. Più compatto, più tragicamente partecipato e quasi bidimensionale, entro lo spazio della piccola tavola verticale, sarebbe stato il gruppo dei dolenti nel più tardo Compianto del Poldi Pezzoli di Milano. Gli abiti hanno tinte accese (verde-limone, rosso, arancione, giallo), ma si spengono in quelle figure che sono più vicine all’entrata del sepolcro (verde, azzurro, nero), allo stesso modo in cui, al caldo colore della roccia e del fronte del sarcofago, si sostituiscono le ombre e, infine, l’oscurità profonda dell’interno. Il senso cupo dell’evento è sottolineato dalla forma della tavola, lunga e stretta, e dalla greve oppressione dell’accesso all’antro, anch’esso di forma rettangolare. Quest’ultimo è significativamente caratterizzato dal grande e superbo architrave, architettonicamente conformato a piattabanda. Se la presenza di San Pietro (a destra benedicente con in mano la simbolica chiave del Paradiso) può avere una giustificazione cronologica, in quanto davvero assistette all’evento, quella di San Paolo (con la spada) e di San Girolamo penitente (a sinistra) non ne ha alcuna. In realtà nessuno dei tre santi partecipa all’azione, né piange o si abbandona a gesti di dolore. La loro è una meditazione sul tema del compianto, mentre la scena raffigurata al centro del dipinto è un’evocazione, un’apparizione. Essa materializza l’episodio più toccante e più umanamente vero della storia terrena di un Dio crocifisso. FILIPPINO LIPPI (1457-1504) Figlio di Fra Filippo Lippi e di Lucrezia Buti, Filippino nacque a Prato nell’inverno 1457-1458. Visse con il padre, dal quale dovette apprendere i rudimenti della pittura e del disegno, fino alla morte di lui nel 1469. Dal 1472 al 1481 è già attivo nella bottega di Sandro Botticelli. Al principio degli anni Ottanta è chiamato a concludere gli affreschi della Cappella Brancacci iniziati da Masaccio e da Masolino e che tanta parte avevano avuto nella formazione del padre, quand’era giovane monaco nel Convento del Carmine. Nel 1487 Filippino firma un contratto per l’esecuzione degli affreschi nella cappella di Filippo Strozzi nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella. I lavori di progettazione e di esecuzione si protrassero a lungo, concludendosi solo nel 1502, a motivo anche dell’intermezzo romano dell’artista, dal 1488 al 1493 (pur se con più o meno lunghe assenze). Il contatto con le antichità della Città Eterna e l’esplorazione delle sue grandiose rovine furono una linfa eccezionalmente vivificante per l’arte di Filippino, appena trentenne. Nel Cinquecento, Benvenuto Cellini, amico di Giovan Francesco, uno dei figli dell’artista, ricordava di aver visto in casa del Lippi, assieme a numerosissimi disegni «parecchi libri disegnati di sua mano [di Filippino], ritratti dalle belle Antichità. anticaglie di Roma». L’innamoramento per il mondo classico fu per Filippino tale che, come scrive Vasari «non lavorò mai opera alcuna, nella quale delle cose antiche di Roma con gran studio non si servisse […] che grandissimo e Eterno. sempiterno obbligo Gli si deve. se gli debbe, per aver egli in questa parte accresciuta bellezza e ornamenti all’arte». Filippino si spense a Firenze, città nella quale viveva e dove prevalentemente aveva lavorato, il 18 o il 20 aprile 1504. IL DISEGNO La fama di Filippino come disegnatore fu profonda e duratura, tanto che il perduto (ma noto dalle fonti) epitàffio apposto sulla sua tomba nella chiesa fiorentina di San Michele Visdòmini, cominciava con le parole «Morto è il disegno or che Filippo parte da noi».Risale alla fine degli anni Ottanta del Quattrocento il foglio, ora a Malibu (California), con un Nudo maschile visto da dietro e un Cristo alla Colonna, assieme ad altre figurette appena abbozzate. Si tratta di disegni di studio su carta preparata grigia, dove le due figure principali sono viste l’una da dietro, il giovane di sinistra appoggiato a una pertica, l’altra di fronte, il Cristo legato alla colonna della flagellazione. In ambedue i casi le figure sono copie di modelli dal vivo e, stante la giovane età dimostrata, probabilmente l’artista si è servito dei garzoni di bottega che, messi in una determinata posa, sono poi stati ripresi da ben precisi punti di vista. I corpi sono definiti da una linea di contorno scura e nervosa, mentre un tratteggio obliquo (a volte curvo o incrociato) definisce i volumi, aiutato dalla biacca data a pennello che evidenzia i rilievi posti in piena luce.Un secondo foglio con motivi ornamentali, oggi agli Uffizi, è databile invece al periodo romano di Filippino. Si tratta di un disegno a penna e inchiostro bruno tratto da rilievi di fregi antichi raffiguranti girali di foglie d’acanto, motivi fitomorfici, delfini, cornucopie e vasi.La penna dell’artista scorre con velocità e sicurezza sul foglio, senza sbavature né errori (può darsi che stia copiando da un precedente schizzo o dal disegno di un collega). I delicati motivi a rilievo emergono per merito di un tratteggio che scurisce lo sfondo e grazie a sulla sommità dell’esedra. Nella parte inferiore del dipinto Filippino ha dispiegato una notevole varietà di abiti, copricapi, calzature, ornamenti con cui ha rivestito i personaggi. San Filippo è colto nell’atto di sottomettere il drago, mentre indica ai presenti la croce che, sorretta da un angelo, appare in cielo (in alto a destra). Contrariamente a quanto la tradizionale pittura di storia aveva fatto sino ad allora, raggruppando in un’unica composizione più avvenimenti accaduti in momenti diversi e in differenti luoghi (si pensi, ad esempio gli affreschi di Masaccio alla Brancacci), Filippino Lippi limita il numero dei personaggi a quelli strettamente necessari alla comprensione della storia. Questa, infine, viene proposta in un ambiente quanto più possibile storicizzato (benché in modo fantastico, Filippino ha inteso raffigurare il Tempio di Marte in Campo Marzio a Roma) e non vi sono intrusioni di altri momenti narrativi a complicare la raffigurazione. ADORAZIONE DEI MAGI Ai tempi dell’esecuzione degli affreschi della Cappella Strozzi fu compiuta anche l’Adorazione dei Magi per i monaci di San Donato a Scopeto, presso Firenze, opera destinata a sostituire la tavola di uguale soggetto che Leonardo aveva lasciato incompiuta circa quindici anni prima. Così come già il disegno di Filippino si mostrava aggiornato sullo stile del grande di Vinci allo scadere del secolo, con la tavola dell’Adorazione dei Magi l’artista si trovava a dialogare direttamente con Leonardo. La composizione, infatti, ripropone lo schema leonardiano dei personaggi che in circolo si dispongono attorno alla Vergine e al Bambino, come pure la posa di alcuni di essi o i cavalli sullo sfondo. Tuttavia Filippino si serve dell’espediente delle rovine dell’edificio adattato a capanna per mostrare quante più figure intere possibili. Inoltre sceglie con decisione una delle diagonali della tavola – quella che va dal basso a sinistra in alto a destra – quale linea ascendente privilegiata lungo la quale dispone alcuni dei personaggi; fra essi un re Mago inginocchiato, il Bambino, la Vergine Maria, San Giuseppe. Nel fastoso e coloratissimo presepe l’artista ha modo di collocare alcuni degli uomini più in vista della famiglia Medici, quelli del ramo secondario, ma che nel Cinquecento avrebbero governato dando origine al Ducato e poi al Granducato di Firenze. Nelle vesti di un astrologo è raffigurato Pier Francesco de’ Medici, nel giovane re Mago, al quale un paggio toglie la corona, il figlio Lorenzo e nell’uomo che porge a quest’ultimo un vaso con il dono per Gesù, l’altro figlio Giovanni. Lorenzo e Giovanni, che si fecero chiamare «Popolani» perché appoggiarono il Savonarola, la Repubblica e il popolo fiorentino, avversarono il cugino Piero – figlio del Magnifico Lorenzo – che aveva ereditato il governo di Firenze.Il dipinto di Filippino, allora, si pone anche quale controparte di quello, dallo stesso soggetto, in cui Sandro Botticelli, vent’anni prima, aveva raffigurato la famiglia Medici al completo, da Cosimo il Vecchio – fondatore della fortuna medicea – al figlio Piero il Gottoso, ai nipoti Lorenzo e Giuliano, in una fantasmagorica carrellata di personaggi e di colori che esaltava la più potente famiglia di Firenze. L’ARCHITETTURA E L’URBANISTICA DI PIENZA, URBINO E FERRARA PIENZA – Nel 1459 papa Pio II Piccolomini incaricò l’architetto Bernardo Rossellino, collaboratore dell’Alberti, di ristrutturare il piccolo borgo natìo di Corsignàno (a circa 50 kilometri da Siena) in modo che potesse essere una delle residenze della corte pontificia. La cittadina divenne così sede episcopale e mutò, in onore del pontefice, il suo nome in quello di Piènza (cioè Città di Pio). L’intervento si concentra però sull’organizzazione della piazza principale che, fin dal Medioevo, rappresentava il punto nevralgico della città, cioè il luogo attorno a cui spesso sorgevano sia la sede del potere civile sia quella del potere religioso. Qui, in corrispondenza di una lieve curva della strada (l’attuale corso Rossellino) che, con un breve tratto, attraversa l’intera cittadina, vengono progettati e costruiti la nuova Cattedrale, il Palazzo Piccolomini, quello del cardinale Bòrgia (poi vescovile), quello Pretorio, nonché la Canònica. L’opera del Rossellino, però, coinvolge allo stesso tempo l’intero tessuto urbano, dal momento che i cardinali e i maggiori esponenti della corte pontificia vengono invitati a costruire i propri palazzi nella cittadina, ovvero a ristrutturare quelli già esistenti. Viene, così, aperta la piazza del mercato, alle spalle del Palazzo Pretorio, e si costruiscono anche un ostello per i visitatori, oltre a un ospedale e a delle case del tipo a schiera per i cittadini più poveri. L’intervento, dunque, finisce per configurarsi come progettazione della città, di una città ideale e perfetta.La piazza, di forma trapezoidale, è divisa in riquadri pavimentati con mattoni disposti a lisca di pesce tramite fasce bianche di travertino. Cattedrale - Di fronte al lato minore si erge la Cattedrale che ripete forme gotiche, soprattutto nella zona absidale. Nei fianchi, invece, il linguaggio gotico si fa più morbido e dalle trifore archiacute dell’abside, lentamente, si passa a bifore a tutto sesto. Nella facciata tripartita, inoltre, i problemi rimasti irrisolti nel Tempio Malatestiano dell’Alberti (mancanza di corrispondenza fra l’ordine inferiore e quello superiore, organizzazione del coronamento) sono condotti felicemente a soluzione. I due ordini di colonnine, infatti, risultano uniti dalle alte paraste che proseguono anche nel coronamento (e la cornice stessa sporge in corrispondenza dei risalti sia delle paraste interne sia nelle brevi porzioni poste negli angoli). Tale coronamento è costituito da un timpano, la cui porzione centrale è occupata da un tondo a rilievo con le insegne papali.L’interno, diviso in tre navate, ha un’altezza costante a similitudine delle Hallenkirchen (chiese ad aula) tedesche che Pio II aveva conosciuto durante la sua permanenza in Germania. In tal modo l’edificio è inondato di luce.Inoltre, in ossequio alle prescrizioni contenute nel De re aedificatoria dell’Alberti, originate dalla meditazione sui testi di Cicerone, l’interno della chiesa ha le pareti candide poiché solo il bianco si addice alla divinità. Palazzo Piccolomini - Dall’albertiano Palazzo Rucellai il Rossellino deriva le forme del Palazzo Piccolomini, costruito a destra della Cattedrale. Contrariamente all’edificio fiorentino le paraste del piano terreno non sono lisce, bensì bugnate, al pari del paramento di rivestimento dell’intero edificio. In tal modo il piano terreno appare come un blocco compatto, benché ingentilito dalla scansione delle paraste. Queste, inoltre, seguono una regola diversa da quella adottata nel palazzo fiorentino di riferimento. Il Rossellino, infatti, non fece ricorso alla travata ritmica, ma rese progressivamente più larghe le campate centrali, per motivi ottici. Il Palazzo Piccolomini ha un impianto parallelepipedo, isolato rispetto alle altre fabbriche e i suoi vari ambienti si organizzano attorno a un cortile centrale, variante notevole, quest’ultima, rispetto a Palazzo Rucellai. Al cortile si accede sia dal portale principale, in asse con il cortile stesso e collocato lungo il corso, sia da quello laterale che si apre sulla piazza e che immette in uno dei bracci del portico. L’eccezionalità della dimora di Pio II risiede, però, soprattutto nel fronte posteriore, che affaccia sul giardino e risulta composto da un triplice loggiato (con colonne sormontate da archi al piano terreno, con colonne gravate da archi sbarrati di tipo senese al primo piano, con colonnine trabeate al secondo piano). Fu il papa stesso a volerlo così, per poter contemplare il paesaggio. Egli scrive, infatti, nei suoi Commentarii: «Ad occidente, la vista spazia dall’ultimo piano oltre Montalcìno e Siena sino alle Alpi Pistoiési. Volgendo lo sguardo verso nord, per cinque miglia si stendono colline variopinte e l’amabile verde delle foreste. Aguzzando gli occhi, appaiono i lontani Appennini e si delinea al culmine del colle la città di Cortona, non lontana dal lago Trasimèno; l’interposta vallata della Chiana è invece nascosta dalla sua grande profondità. Meno estesa, verso oriente la vista raggiunge solo L’attuale cittadina di Montepulciano, oggi in provincia di Siena. Poliziano […] e le montagne che separano la vallata della Chiana da quella dell’Orcia. A meridione la vista dei tre portici è limitata […] dal Monte Amiàta, sublime e boscoso. Verso il basso appaiono la vallata dell’Orcia, le distese verdi dei prati, le colline coperte d’erba durante la stagione, campi arborati e vigne, città e cittadelle e dirupi precìpiti, e Bagni di Vignoni e Montepescàli, più alto di Radicòfani, portale del sole invernale». È la prima volta, dall’Età classica, che un edificio viene costruito con l’intento dichiarato di compenetrare lo spazio naturale ed è anche la prima volta che l’interesse di un committente si sposta dall’edificio al paesaggio e che, anzi, proprio questo ne condiziona le scelte architettoniche.La morte improvvisa di Pio II e del Rossellino nello stesso anno, il 1464, interruppe il compimento dell’impresa. Questo ne dimostrò anche i limiti, in quanto tutto l’ambizioso progetto era di fatto legato alle aspirazioni e alla cultura di due soli uomini e non, invece, alle reali necessità della comunità. URBINO A Urbino la stabilità del potere politico, assicurata dal lungo governo di Federico da Montefeltro (dal 1444 al 1482), signore della città, e la presenza alla sua corte di grandi artisti quali Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Luciano Lauràna (ca 1420-1479), Francesco di Giorgio Martini (1439-1502), interagiscono nell’esperienza di ristrutturazione urbana che lì si sperimenta.L’intervento interessa peraltro il solo palazzo di Federico, immenso se paragonato alle dimensioni della città marchigiana, tanto che giustamente Baldassar Castiglione scrive nel suo Libro del Cortegiano: «Questo [Federico], tra l’altre cose sue lodevoli, nell’Aspro, scosceso.àspero sito d’Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni Adatta, utile, comoda.oportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva». L’edificio, frutto di aggregazione e trasformazioni di palazzotti preesistenti, nonché di nuove edificazioni, fu iniziato attorno al 1463/1464, ma i lavori subirono una svolta decisiva con l’arrivo a Urbino del dàlmata Luciano Laurana. A lui una patente del conte (duca dal 1474) Federico del 10 giugno 1468 conferì il titolo di «Ingegniero et Capo di tutti li maestri». Laurana lasciò la cittadina marchigiana nel 1472, ma nel 1476 il suo posto fu preso dal senese Francesco di Giorgio Martini, che portò la fabbrica a definitivo compimento.Il palazzo è in laterizi e ha forme articolate che ben si adattano alla conformazione naturale della collina e alla funzione per cui sono state progettate. I fronti tra loro ortogonali che prospettano sulla piazza, all’interno dell’originario tessuto urbano, non si discostano, a prima vista, da quelli del tipico palazzo quattrocentesco, con porte e finestre architravate e bugne in pietra che rivestono (anche se solo parzialmente) parte delle facciate. Il lato sinistro – assieme al lungo blocco che esso chiude e al cortile – è attribuito al Laurana, quello frontale – oltre il quale prospera un giardino pensile – si deve invece al disegno di Francesco di Giorgio. Le differenti concezioni – allo stesso tempo architettoniche e strutturali – dei due architetti sono rese immediatamente evidente dal diverso modo di distribuire le aperture. In maniera del tutto inconsueta, Laurana accosta tre portali sovrastati da quattro finestre, senza che le aperture siano sullo stesso asse. Francesco di Giorgio, invece, ripristina il ritmo della fabbrica con la regola del pieno su pieno e vuoto su vuoto.Il fronte che guarda verso valle, disteso lungo una linea spezzata, ha l’aspetto di mura urbane dominate da due torri: quelle della cosiddetta Facciata dei torricini. Essa sottolinea l’importanza assunta dal nuovo orientamento della città (già gravitante sulla vicina Rimini) verso la via per Roma (Federico, infatti, era anche Capitano Generale delle truppe pontificie). Due torri cilindriche (dotate di beccatelli e terminanti in guglie con copertura conica), prive dell’aspetto severo consueto a quelle medioevali, serrano la facciata, dalla quale sporge un triplice loggiato – sostenuto da un arco dai piedritti scarpati – che contribuisce non poco a ingentilirla e a sottolineare l’aspetto inoffensivo delle torri stesse.Il motivo architettonico delle logge sovrapposte, una sorta di arco di trionfo moltiplicato in verticale, non è ripetitivo, perché ogni livello, in particolare il secondo e il terzo, si differenzia dagli altri nel trattamento degli ordini architettonici e nel cassettonato delle profonde volte a botte. Si dubita che tale facciata possa essere del Laurana (o tutta sua). È forse più probabile pensarla frutto di riflessioni e contributi non solo dell’architetto dalmata, ma anche di Francesco di Giorgio, di Piero della Francesca e, soprattutto, di Leon Battista Alberti. Il grande cortile d’onore – la cui parte inferiore fu costruita durante la permanenza del Laurana a Urbino, ma del quale nell’officina della Porta del Paradiso e, soprattutto, collaborò con il Beato Angelico nella Cappella di San Brizio a Orvieto [Ciclo pittorico, La Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto] e nella Cappella Niccolina in Vaticano. Attivo anche a San Gimignano e al Camposanto di Pisa, Benozzo dimostra una grande felicità inventiva e un gusto raffinato per il particolare decorativo, tanto che è sempre il Vasari a lodarlo giudicandolo «molto copioso negli animali, nelle prospettive, ne’ paesi e negli ornamenti».Nella realizzazione del ciclo per la Cappella dei Magi, Benozzo si riallaccia a una ricca tradizione iconografica, che annoverava fra gli esempi più celebri anche l’Adorazione dei Magi realizzata nel 1423 da Gentile da Fabriano per Palla Strozzi. Allo stesso tempo, però, il ciclo sembra alludere anche alla venuta a Firenze delle delegazioni bizantine in occasione del concilio del 1438/1439, la cui eccezionalità era rimasta ancora nella memoria di tutti, nonostante fossero già passati almeno vent’anni. PARETE EST - Dalla parete orientale, quella a destra dell’originario ingresso della cappella, prende le mosse lo straordinario corteo che accompagna Gaspare, il Mago giovane, forse identificabile con il Despota Demetrio, fratello minore dell’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo. La struttura della narrazione, ricchissima di richiami e allusioni a personaggi e situazioni riconducibili alla corte medicea, avviene sullo sfondo di una natura rigogliosa e fantastica, popolata di volatili e di selvaggina inseguita dai cacciatori. Lo spazio, immerso nella luce chiara di un perenne mattino, è scandito dalle modulazioni plastiche delle rocce, attorno alle quali si snoda un corteo di gentiluomini a cavallo, di servitori e di armati. Nel compatto gruppo di sinistra, tra i ritratti di Cosimo il Vecchio, di Lorenzo il Magnifico ancora fanciullo e di tanti altri personaggi importanti del tempo, quali Galeazzo Maria Sforza, Sigismondo Pandolfo Malatesta o papa Pio II, spicca anche il severo e misurato autoritratto dell’artista, sul bordo della cui berretta rossa si legge in caratteri dorati la firma «opus benotii» (opera di Benozzo). L’atmosfera della grande parata celebrativa dei fasti medicei appare solenne e pacata nel contempo, con un’attenzione prodigiosa anche ai particolari più minuti, ripresi evidentemente dal vero: dalla forma delle vesti ai ricami dei tessuti, fino ai finimenti dei cavalli che, per apparire ancora più sfolgoranti, sono realizzati a tempera e oro sull’affresco già finito. PARETE SUD - La stupefacente cavalcata prosegue poi – sempre da sinistra verso destra, come in un ideale testo scritto, – nella corta parete meridionale, quella di fronte alla scarsella dell’altare. Quasi al centro si staglia la nobile figura di Baldassarre, il Mago in età virile, il cui volto rappresenta l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo. Il personaggio, a cavallo di uno splendido destriero bianco, è scortato da cinque scudieri, due dei quali armati di lancia, e seguito da tre paggi a cavallo con preziosi copricapo piumati e corte vesti trapunte d’oro. Nel complesso si tratta della scena meno affollata, ma nella quale maggiore e più minuziosa è la descrizione del paesaggio retrostante. Questo sprofonda verso le verdi alture lontane, attraversate da un bianco reticolo di strade che per ponti e valli conducono a imponenti castelli fortificati, disseminati per una campagna ordinata, rigogliosa e ben coltivata. PARETE OVEST - Nella parete occidentale, infine, a sinistra dell’attuale ingresso, incede con veneranda dignità Melchiorre, il Mago Anziano, che Benozzo rappresenta con le sembianze di Giuseppe II, il patriarca di Costantinopoli, o – secondo altre interpretazioni – con quelle di Sigismondo di Lussemburgo, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1433 al 1437. Davanti a Melchiorre, che in realtà apre lo sfarzoso corteo, si snoda la lunga fila dei servi e dei portatori, con muli e cammelli da soma, che si inerpica per una stradina tortuosa, fra un paesaggio popolato di animali selvatici e di alberi dalle forme più fantasiose e quasi fiabesche.L’atmosfera che questi affreschi ci restituiscono ha un che di magico e strabiliante. In essa, infatti, Benozzo ha saputo magistralmente infondere proprio quell’ideale di severità e magnificenza con il quale i Medici intendevano meglio accreditarsi agli occhi dei loro contemporanei in vista della definitiva ascesa al potere. Capitolo 16 VINCENZO FOPPA (1427-1516) Alla metà del Quattrocento Milano si apre alle sollecitazioni del Rinascimento fiorentino, soprattutto dopo che gli Sforza sostituirono la dinastia dei Visconti (1450) e a seguito dell’instaurazione di buoni rapporti tra Francesco Sforza (1450-1466) e i Medici.Non si trattò, comunque, di una ripresa acritica perché le novità in campo pittorico, scultoreo e architettonico si amalgamarono con la tradizione locale e furono ben adattate al decorativismo lombardo.Caposcuola indiscusso del rinnovamento della pittura in Lombardia è Vincenzo Fòppa. Nato a Brescia tra il 1427 e il 1430, di lui si hanno notizie certe solo a partire dal 1456. Inizialmente vicino alla tradizione del Gotico Internazionale veronese e veneziano, approdò, in seguito, alla cultura umanistica padovana.Forse tramite Mantegna e Donatello entrò in contatto anche con le prime esperienze del Rinascimento fiorentino, approfondita grazie alla conoscenza dell’attività lombarda di Antonio Averlino detto Il Filarète (ca 1400-ca 1469).La presenza a Milano di Bramante e di Leonardo, a partire dall’ultimo ventennio del Quattrocento, arricchì il bagaglio tecnico e culturale del Foppa. L’artista lavorò soprattutto a Pavia, Monza, Milano, Bergamo e Brescia, ma operò anche in Liguria (a Genova e Savona).Nonostante la formazione eterogenea, il Foppa riuscì a maturare uno stile autonomo e riconoscibile, capace di coniugare il luminismo della tradizione lombarda con il rigore della prospettiva albertiana.Stando alle fonti, alla nuova scienza rappresentativa che caratterizza il Rinascimento il pittore bresciano dedicò un trattato (non pervenuto). L’artista si spense nella città natale tra il 1515 e il 1516. I TRE CROCIFISSI Di rilevante innovazione iconografica è la piccola tavola dei Tre crocifissi, prima opera nota del Foppa. In essa, infatti, firmata e datata 1456, non compaiono né la Vergine né San Giovanni (che i Vangeli indicano ai piedi della croce) e non v’è nessun accenno alla partecipazione di popolo e di soldati. Il Cristo crocifisso, invece, è affiancato dai due ladroni che con lui furono giustiziati sul Golgota. I tre personaggi sono inquadrati da un arco che appoggia su colonne corinzieggianti, sostenute da piedistalli. Questi, a loro volta, delimitano lateralmente uno spazio architettonico disegnato in prospettiva. Il tracciato delle linee incise, impiegate per definire la prospettiva e le architetture, è ancora visibile sulla superficie della tavola. L’architettura in primo piano presenta una tipologia anticheggiante che testimonia del classicismo lombardo di metà secolo. L’arco, infatti, è modanato a fasce e risulta tangente a una cornice dentellata; i timpani, con incrostazioni di marmi rossi e verdi, accolgono, invece, medaglioni con profili di antichi imperatori. Al primo piano prospetticamente definito – anche le croci a «T» dei due ladroni ne seguono le regole – si contrappone il paesaggio alquanto scuro che, però, si apre su un lontano borgo fortificato investito dalla luce. È questa, appunto, che ha la funzione di unificare le varie componenti geometriche e naturalistiche del dipinto. Il Cristo si erge dritto e composto nella morte. Alla sua perfetta centralità corrispondono le due figure ai lati: quella serena del ladrone pentito (la cui testa è circondata da una luminosa aureola raggiata), a sinistra, e quella scomposta, inarcata, terrorizzata e già preda del diavolo dell’uomo di destra. Il dipinto intende porre l’accento sui valori della conversione, del pentimento, della fede e del dolore che rendono l’uomo – simboleggiato dal condannato di sinistra – partecipe delle sofferenze di Cristo. La piccola tavola è, quindi, un soggetto di meditazione; lo conferma anche il basso punto di fuga che suggerisce che chi le stava di fronte non potesse che essere inginocchiato. SAN SIRO Ai contatti con la pittura di Mantegna rinvia il San Siro, un’opera variamente datata tra il 1460 e i primi degli anni Settanta. Parte di un polittico non identificato e di cui, al momento, si conosce un solo altro elemento, la tavola ha forma centinata e fondo oro. Essa è inoltre punzonata e arricchita di parti a rilievo ricoperte d’oro, in adesione al gusto lombardo ancora influenzato dal Gotico. Il Santo, mostrato in abiti vescovili, con mitria e piviale, tiene nella sinistra il pastorale dalla sommità ricurva e, nella destra, un libro. Un lembo del piviale, dai disegni di un rosso sgargiante su fondo oro, memore della sontuosità della pittura d’Oltralpe, fermato sul petto da un prezioso gioiello, è tirato su e portato davanti al corpo con la mano destra. In tal modo il piviale circonda quasi completamente la figura del Santo vescovo. La decisa volumetria, di stampo mantegnesco, si fa più forte e realistica nella testa, ruotata verso destra. Folte sopracciglia, rughe e barba brizzolata e non rasata da giorni caratterizzano, infine, il volto sereno e grave. GLI AFFRESCHI DELLA CAPPELLA PORTINARI È, comunque, negli affreschi della Cappella Portinàri, nella chiesa milanese di Sant’Eustòrgio, che si incontrano fondendosi armoniosamente fra loro la prospettiva albertiana, la visione in scorcio «di sotto in su» mantegnesca e il preziosismo decorativo lombardo. Voluta dal fiorentino Pigèllo Portinàri, la cappella è uno dei più eloquenti esempi di architettura milanese modellata su quella del primo Rinascimento fiorentino. Costruita tra il 1462 e il 1468 per ospitare la reliquia della testa di San Pietro martire e per assolvere anche alla funzione di cappella funeraria dello stesso committente, essa ripropone le forme della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo. In tal modo Pigello intendeva sottolineare i suoi legami con la città di origine e con il casato mediceo. Il vano principale e la scarsella hanno le pareti scandite da paraste, trabeazione e mensole, mentre quattro grandi arconi sostengono la cupola maggiore a ombrello scompartita in 16 spicchi. Sebbene il fregio, rechi un motivo a testine di serafini, le sobrie paraste scanalate del Brunelleschi sono sostituite da superfici molto ornate, il cotto della tradizione lombarda è impiegato per tutti gli elementi decorativo- architettonici e grandi finestre archiacute subentrano a quelle a tutto sesto della Sagrestia Vecchia. Un alto tamburo si interpone fra l’anello di imposta e la cupola, modificando le proporzioni brunelleschiane in chiave verticalistica e ancora goticheggiante.Esternamente un tiburio lombardo nasconde le cupole che coprono i due ambienti e piccole paraste di cotto ne sottolineano gli spigoli, mentre svettanti edicolette proseguono lo slancio dei contrafforti angolari. In sintesi lo sconosciuto architetto progettista toscano di Pigello e gli esecutori milanesi traducono un’architettura fiorentina nel linguaggio della tradizione romanico-gotica dei costruttori lombardi.In questo edificio così significativo il Foppa dipinge l’intradosso della cupola a ombrello con un motivo di coloratissimi embrici e orna le grandi lunette, i tondi entro i pennacchi e quelli ospitati alla base della cupola con solenni dipinti prospettici. Il soggetto del ciclo del Foppa è costituito da Storie di San Pietro martire, il frate domenicano inquisitore assassinato da sicari assoldati dagli eretici càtari nel 1252. Sulla lunetta sopra l’ingresso e in quella opposta sono raffigurate, rispettivamente, l’Assunzione della Vergine e l’Annunciazione, due scene che hanno relazione con il culto mariano promosso dal Santo martire. Nelle pareti di destra e di sinistra, articolate attorno a due bifore, trovano posto le seguenti raffigurazioni: il Miracolo della nube e il Miracolo della falsa Madonna, il Miracolo del piede risanato e il Martirio di San Pietro. Tutte le scene sono eseguite secondo la prospettiva albertiana, con la linea dell’orizzonte che taglia le composizioni poco sotto la metà della loro altezza, ad eccezione l’Annunciazione la quale, invece, presenta un punto di fuga al di sotto e al di fuori del dipinto e che, pertanto, mostra architetture e figure secondo un forte scorcio di sotto in su, alla maniera del Mantegna. Nel Miracolo della nube si narra come, durante una disputa proprio fuori Sant’Eustorgio, San Pietro facesse comparire delle nuvole per procurare, con l’ombra, sollievo ai presenti affaticati dal caldo dei raggi del sole. La composizione del Foppa traduce in disegno e colore la chiarezza del consente di emergere al Bambino, dalle membra ambrate, e alla Vergine, dalla veste rossa e oro coperta da un manto azzurro ricadente in pieghe come di metallo fuso. FRANCESCO DEL COSSA (1436-1478) Avviato alla pittura forse dal Tura, Francesco del Cossa nacque a Ferrara in una famiglia di muratori attorno al 1436 e la sua presenza nella città emiliana è documentata nel 1456, nel 1460 e nel 1467. Un probabile soggiorno fiorentino, tra il 1462 e il 1467, lo fa entrare in contatto con l’ambiente di Filippo Lippi e di Benozzo Gozzoli, per quanto la sua formazione artistica risenta dello stesso percorso culturale di Cosmè Tura e unisca a una non comune vena coloristica l’invenzione di paesaggi fantasiosi e improbabili. L’attività del Cossa si svolge, prevalentemente, tra Ferrara e Bologna, città, quest’ultima, in cui l’artista si era recato la prima volta nel 1462 e poi ancora nel 1472, deluso per il misero compenso offertogli da Borso d’Este per gli affreschi di Palazzo Schifanoia. Francesco muore a Bologna, forse di peste, nel 1478. Annunciazione - La Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda conserva – assieme alla predella – la porzione principale della cosiddetta Pala dell’Osservanza (che si ritiene fosse collocata nel Santuario dell’Osservanza a Bologna), smembrata alla metà del Settecento. L’Annunciazione è una delle prove migliori del Cossa appena trentenne. Smagliante per il colore dei marmi, delle vesti e per la forte luminosità, il dipinto mostra la Vergine annunciata e l’angelo nunziante, che nella mano sinistra tiene una rosa bianca, in un porticato a cielo aperto. In esso colonne e mensole murarie sostengono una trabeazione che segue l’andamento a maglie ortogonali (che si suppongono quadrate). Nel dipinto l’architettura (con colonne, pilastri, archi, volte, specchiature marmoree variamente colorate, modanature e ornamenti a guilloches sugli architravi rielaborati dall’Antico) e la veduta urbana sono talmente preponderanti da lasciare in secondo piano i due personaggi principali della narrazione evangelica. Non solo, la composizione architettonica è tale da proiettare l’angelo verso l’esterno, quasi isolandolo dalla scena. La luce genera le ombre che definiscono i piani e illumina frontalmente la Vergine, eretta di fronte al vano a crociera che immette nella sua stanza con il letto a baldacchino. Il pavimento di marmo bianco, riflette la luce che consente sia una maggiore luminosità dei primi piani sia di illuminare dal basso il volto dell’angelo. La prospettiva, con il punto di fuga sull’asse di simmetria della tavola e con la linea d’orizzonte poco sopra il terzo inferiore del quadro, genera ordine, ma anche ambiguità. Solo le ombre che gli architravi perpendicolari al quadro proiettano su quelli paralleli al quadro stesso fanno capire la geometria a maglie ortogonali del portico. Infine, manca la percezione dell’esatta loro posizione nel portico: tra i due sacri personaggi, infatti, con un effetto simile a quello riscontrabile nella cimasa della Pala di Sant’Antonio di Piero della Francesca, si interpone la colonna ed essi non possono vedersi. Mese di Marzo - Sotto la direzione iconografica dell’astronomo e letterato Pellegrino Prisciani (1435-1518), Borso d’Este fece affrescare il cosiddetto Salone dei Mesi nel Palazzo Schifanoia, uno dei principali luoghi di «delizia» estensi, la cui costruzione era iniziata attorno al 1385 nei pressi della Chiesa di Santa Maria in Vado, ma che Borso stesso aveva ampliato nel 1465. Della decorazione del salone, eseguita in parte a secco e in parte ad affresco e verosimilmente conclusa nel 1469, non tutto si è conservato. Ai Mesi, soggetto di origine medioevale ma rivisitato in chiave moderna e, soprattutto, monumentale, lavorarono numerosi artisti ferraresi, tanto che il ciclo pittorico può essere considerato un grande archivio della pittura a Ferrara attorno agli anni Settanta del secolo. Ogni parete è suddivisa in porzioni tramite alte lesene; all’interno di ciascuna porzione il programma prevedeva la ripartizione in tre parti, secondo altezze proporzionali: quella inferiore, infatti, è alta esattamente il doppio della centrale e la superiore una volta e mezza quest’ultima. Anche Francesco del Cossa fu coinvolto nel lavoro e a lui si devono ampi brani pittorici, in particolare il Mese di Marzo, nella parete Est. L’organizzazione è rigorosamente prospettica, ma con più punti di fuga anche all’interno di una stessa fascia narrativa. Nello scomparto centrale, con sfondo monocromo azzurro a imitazione del cielo, sono raffigurati tre personaggi che accompagnano il segno zodiacale dell’ariete, che governa il mese; in quello superiore viene celebrato il Trionfo di Minerva su un carro allegorico trainato da due unicorni bianchi, mentre ai suoi lati dei dotti leggono dei documenti (a sinistra) e delle fanciulle ricamano, filano o lavorano al telaio (a destra), allusione all’industria tessile alla quale Borso aveva dato un impulso vigoroso. Nello scomparto inferiore, infine, si esalta il buon governo di Borso in uno spazio edificato (la loggia a destra), con architetture in rovina e paesaggi lontani, uomini (in alto a sinistra) che potano alberi e una vigna, occupandosi con serenità delle attività agricole che regolano i tempi dell’economia dello Stato e la vita dei campi.Borso viene raffigurato sotto la loggia di destra mentre è intento ad amministrare la giustizia, quindi al centro, a cavallo, perfettamente di profilo, secondo la tradizione del Gotico Internazionale, accompagnato da un gruppo di cavalieri mentre si allontana dalla città per la caccia; infine, in alto, vicino ai potatori, al comando di un drappello di cavalieri, gruppo, purtroppo, molto deteriorato. All’esecuzione accurata di uomini, indagati nelle attitudini e nella resa anatomica, animali, paesaggio, colore e disegno si somma l’attenzione viva per l’architettura, trattata con competenza, nel ricordo della tradizione costruttiva di famiglia, al pari di quanto del Cossa avrebbe mostrato nelle invenzioni del Polittico Griffoni. San Vincenzo Ferrer - Opera di grande impegno per Francesco del Cossa, il Polittico Griffoni venne eseguito attorno al 1473, su commissione di Floriano Griffoni, che lo volle per la cappella di famiglia, nella basilica di San Petronio a Bologna. Alla sua esecuzione contribuì anche Ercole de’ Roberti al quale spetta la predella con i Miracoli di San Vincenzo Ferrer, ora alla Pinacoteca Vaticana. La tavola centinata con San Vincenzo Ferrer, conservata alla National Gallery di Londra, costituisce la porzione centrale del polittico, smembrato e in parte non pervenutoci. Essa era affiancata dalle tavole con i Santi Pietro, a sinistra, e Giovanni Battista, a destra – attualmente a Brera – in modo da proporre un unico paesaggio e, in primo piano, contro tre pilastri con l’accenno di arcate (parti di uno stesso porticato) le tre figure di santi. Nella parte superiore la tavola di Londra mostra il Cristo giudice entro una mandorla circondato da angeli che recano i simboli della Passione (da sinistra verso destra: i flagelli, la lancia, la croce, la colonna della flagellazione, la spugna, i tre chiodi della crocifissione). Tali figure alludono alle prediche di contenuto apocalittico del domenicano spagnolo Vincenzo Ferrer (1350-1419), santificato appena nel 1455, circa vent’anni prima dell’esecuzione del polittico bolognese. San Vincenzo, che tiene nella mano sinistra un manoscritto e rivolge l’indice della mano destra verso l’alto, come fa chi stia predicando, è in posizione perfettamente verticale al di sopra di un sostegno a pianta esagonale ricoperto da un drappo rosso. Il mantello nero avvolge quasi completamente la sua figura racchiusa nel bianco del saio. Il Santo si staglia con una sicura volumetria, memore di quella pierfrancescana, resa imponente anche grazie alla prospettiva dal basso, avendo l’artista collocato la linea d’orizzonte poco al di sopra del ripiano esagonale. Dall’imposta dei ruderi degli archi alla sommità del pilastro classico, che funge quasi da appoggio per il Santo, si dipartono due cursori di legno. Da essi pendono dei festoni di sfere di corallo alternate a sfere di trasparente cristallo di rocca: un rinvio alla corona del rosario, la cui devozione era stata diffusa in particolare proprio dall’ordine domenicano (secondo la tradizione era stata la stessa Vergine Maria a darne una a San Domenico nel corso di un’apparizione). Il Santo, dal volto severo ma sereno, con le sopracciglia appena aggrottate, guarda un punto all’esterno del quadro, volgendo appena gli occhi verso sinistra in alto. Il gusto per un mondo archeologico, dichiarato dai resti architettonici, risale al Mantegna, mentre gli edifici su strapiombi naturali o in parte incastrati in anfratti rocciosi o modellati direttamente nella roccia, come se la natura stessa fosse soggetta ai voleri ordinatori di un architetto, sono una chiara peculiarità del Cossa. ERCOLE DE’ROBERTI (1450-1496) Allievo di Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti nacque a Ferrara tra il 1450 e il 1456 e nella città natale morì nel 1496. Collaborò alle opere del maestro (in particolare al ciclo dei Mesi in Palazzo Schifanoia) che seguì anche a Bologna. Nel 1479 aprì una propria bottega a Ferrara. Durante i suoi viaggi a Venezia, a Mantova e a Roma – passando per Firenze – ebbe modo di aggiornare la propria cultura figurativa. Nel 1486 succedette a Cosmè Tura in qualità di pittore di corte presso gli Estensi e nel 1487 accompagnò il giovanissimo arcivescovo Ippolito d’Este (1479-1520) – cardinale dal 1493 – in Ungheria. Fra i tre Ferraresi della prima generazione (con lui Tura e del Cossa) fu, forse, colui che più facilmente e felicemente recepì il carattere arioso e monumentale della pittura di Piero della Francesca e il piacere per il colore di stampo veneto. Miracoli di San Vincenzo Ferrer - Della collaborazione con il suo maestro, Francesco del Cossa, rende testimonianza l’altissima qualità della predella del Polittico Griffoni, una tavola alta circa 30 centimetri e lunga ben più di due metri, realizzata in un sol pezzo di legno e recante la raffigurazione dei Miracoli di San Vincenzo Ferrer. I sei miracoli (la guarigione di una donna spagnola immobilizzata da anni; la resurrezione di una donna uccisa da un crollo; la guarigione della gamba piagata di un giovane uomo; la salvezza di un ragazzo in bilico su un’impalcatura; lo spegnimento di un incendio che aveva fatto crollare un edificio; la resurrezione di un bambino fatto a pezzi dalla madre malata) hanno come teatro delle architetture in prospettiva (salvo quello riguardante l’uomo dalla gamba piagata che, nella posa classica dello Spinario e collocato quasi al centro della predella, ha dietro sé un arco scavato nella pietra).Tra un edificio e l’altro il paesaggio roccioso è prepotentemente modellato in senso architettonico alla maniera di del Cossa, mentre vedute di città lontane compongono, infine, gli ultimi piani. La prospettiva, non è usata come metodo rappresentativo unificante della storia (alla maniera dei Fiorentini), non essendovi un unico punto di fuga, ma uno per ogni architettura dipinta. Tuttavia la scelta del posizionamento dei vari punti di fuga è tale da suggerire un’unica posizione per l’osservatore (quella che lo pone di fronte all’edificio dal quadruplice colonnato, il secondo da sinistra, che sembra in perfetta prospettiva centrale), poiché il primo edificio è come se fosse visto standogli a destra e i tre di destra, come se fossero visti da sinistra. Al raffinato ricorso alla rappresentazione prospettica si sovrappone l’insieme delle figure che, pur assiepandosi in corrispondenza dei cinque centri degli eventi miracolosi maggiori, sono distribuiti con continuità (di massa, di gesti, di movimenti) lungo tutta la superficie dipinta. Se le due figure femminili in posa contrapposta, che corrono secondo due direzioni divergenti, rappresentano il massimo del pathos e della concitazione narrativa, un ruolo speciale sembra, invece, svolto dai tre personaggi in giallo, due visti da dietro, un terzo di fronte. Infatti, la loro solida monumentalità, che rinvia a esempi pierfrancescani, è come se desse delle pause alla composizione, rallentandone la lettura. I due edifici alle estremità destra e sinistra – più avanzati rispetto agli altri – bloccano, infine, ogni movimento, segnalando l’inizio e la conclusione del racconto dei miracoli operati da San Vincenzo Ferrer. Dittico Bentivoglio - Al periodo della residenza bolognese di Ercole risale il Dittico Bentivoglio, eseguito verosimilmente nel 1474-1477. Le due tavole ritraggono i signori di Bologna, Giovanni II Bentivoglio (1462-1506) e Ginevra Sforza, figlia naturale di Alessandro Sforza, signore di Pesaro. I due giovani sposi, poco più che trentenni, hanno per sfondo un identico, pesante tendaggio color verde cupo.Come nel poco precedente esempio di Piero della Francesca, che ritrae Federico da Montefeltro e la moglie Battista Sforza, sorellastra di Ginevra, le due tavole di Washington pongono l’uno di fronte all’altra (in senso inverso rispetto al doppio ritratto di Piero) i due giovani, sposatisi nel 1464.I coniugi non sembrano guardarsi negli occhi, anche se sono ritratti di fronte alla stessa finestra, schermata da una tenda, ma sollevata quel tanto da consentire la visione di un piccolo brano di Bologna: Ginevra ha lo sguardo fisso davanti a sé, mentre Giovanni pare volgere gli occhi in alto.Conscio della propria posizione politica e del proprio potere, Giovanni è impettito ed è vestito di broccato ruvidezza è l’elemento di contrasto sia per il corpo liscio del giovane, sia per le architetture veneziane colpite dalla luce diretta o riflessa. VERGINE ANNUNCIATA La Vergine Annunciata di Palermo, sintesi di spazio, forma, luce e colore, è essenziale nella sua semplicità e può riassumere tutta la grandezza di Antonello. Il leggìo di legno – su cui poggia un libro dalle pagine sollevate –, in un’ardita prospettiva sghemba, si incunea nello spazio dell’osservatore quasi come uno schermo simbolico, eretto per proteggere la Vergine. In esso lo sguardo fiammingo dell’artista mette in evidenza anche le più minute caratteristiche del legno: dalle venature ai fori dei tarli. La mano protesa di Maria è un elemento prospettico che misura lo spazio, ma, nel medesimo tempo, configura un gesto imperioso che impedisce di avvicinarsi. La Vergine ha appena scorto l’angelo, che Antonello, per primo, evita di rappresentare, ma la cui presenza è rivelata dallo sguardo e dall’atteggiamento della stessa Maria. Che completamente ammantata da un velo blu cobalto, si staglia contro un fondo scurissimo, mostrando il suo volto luminoso e dolce di donna del Sud attraverso lo spiraglio a goccia allungata determinato dall’unione di due lembi del manto, accostati con un delicatissimo gesto di pudore. PIETA’ La riflessione sull’Ecce Homo e sul Cristo alla colonna sul volto di Cristo, in definitiva conduce Antonello a realizzare uno dei suoi dipinti più significativi: la Pietà oggi conservata al Museo del Prado a Madrid. Gesù è seduto ai bordi del sepolcro ed è sostenuto da un angelo piangente che gli arrotola al braccio destro un lembo del sudario. Un perizoma bianco gli copre il pube e non è contaminato dal sangue uscito abbondantemente dalla ferita sul costato. Le dita delle mani sono piegate verso il palmo e, mentre la mano sinistra poggia sulla gamba sinistra, la destra, rigirata verso l’interno, poggia sul sepolcro. La testa di Gesù è piegata all’indietro, ma tenuta eretta dall’angelo retrostante: i suoi occhi sono chiusi e la bocca è rimasta aperta dopo la morte; i capelli, che fanno corona al volto barbato, sono impastati di sangue, sangue che è sgocciolato anche sulle spalle. La desolata figura del Cristo morto, indicato alla pietà di chi osserva il dipinto, è collocata in un ridente paesaggio verdeggiante e punteggiato di alberi fronduti, presagio della resurrezione: il cielo chiaro, tendente all’azzurro in alto, copre Messina di cui vengono mostrate le mura, il porto e la cattedrale. Sulla sinistra, immobili, stanno le acque dello Stretto. Il termine Ecce Homo (in latino: «Ecco l’Uomo») fa riferimento alla frase che, secondo i Vangeli, il governatore romano Ponzio Pilato pronunciò mostrando al popolo Cristo flagellato (Giovanni, 19,5). Il tema, molto ricorrente nella pittura rinascimentale, è stato trattato a più riprese anche da Antonello da Messina • Ecce Homo di New York ca 1465/1470 - New York, collezione privata Il primo e più antico degli Ecce Homo di Antonello è, all’opposto, l’ultimo a essere stato scoperto, nel 1981. Si tratta di una minuscola tavoletta devozionale recante, sul retro, un’immagine di San Girolamo penitente. Il Cristo flagellato e coronato di spine è rappresentato al di là di un parapetto che reca la scritta «INRI», in atto di essere mostrato al popolo dei Giudei. Il volto mostra sofferenza e pietosa rassegnazione, mentre al collo già gli pende il cappio con il quale sarà trascinato. Al busto, lievemente ruotato verso destra, si contrappone la testa, a sua volta inclinata e ruotata nella direzione opposta, determinando allo stesso tempo una torsione delle spalle con un evidente abbassamento di quella sinistra. L’incarnato, di tonalità chiare e calde, si staglia con nettezza contro uno sfondo scurissimo, tanto che i capelli, arruffati e intrisi di sangue, appena se ne distinguono, soprattutto a destra, dove le ombre appaiono più profonde. • Ecce Homo del Metropolitan 1470 - New York, The Metropolitan Museum In questa tavola il tema della sofferenza si precisa ulteriormente e il volto, in posizione perfettamente frontale, è quello di un uomo indifeso e sgomento, con gli occhi sbarrati e le labbra dischiuse. La collocazione spaziale del personaggio, al di là di un sottile parapetto che reca il cartiglio con la firma dell’artista, è sottolineata dalla lieve torsione del busto verso sinistra. La corona di spine appare anteriormente distaccata dalla fronte, tanto che vi proietta sopra la propria ombra. Questo sottolinea ulteriormente la decisa volumetria della testa, incorniciata dai capelli intrisi di sangue e di sudore, dei quali si distingue appena la massa contro lo sfondo scuro. Antichi e poco accorti restauri hanno purtroppo attenuato gli effetti di chiaroscuro che modellavano il corpo. • Ecce Homo di Genova 1470 - Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola La tavola, in precarie condizioni di conservazione, testimonia uno degli esiti più alti e ispirati della produzione di Antonello da Messina.Contrariamente all’iconografia ricorrente, qui il Cristo non è posto dietro un parapetto ma è visto attraverso una cornice che funge da finestra, sul margine inferiore della quale l’artista dipinge il consueto cartiglio con la firma. La tipologia del ritratto risente dei modi fiamminghi di Jan van Eyck, attenti ai particolari in modo quasi ossessivo, come si vede – ad esempio – dagli occhi arrossati di pianto, dalle gocce di sangue rappreso e dal nodo del cappio al collo. Al volto, in posizione frontale, anche se mestamente reclinato a sinistra, si contrappone il busto, disposto di tre quarti nel verso opposto, per caratterizzare meglio la collocazione realistica nello spazio, pur in assenza di qualsiasi riferimento prospettico. • Ecce Homo di Piacenza. Anche in questo caso la figura, dalla volumetria forte e decisa, costruisce lo spazio ponendosi leggermente di tre quarti e inclinando e ruotando appena la testa. Dietro Gesù una colonna tornita accresce ulteriormente la resa spaziale complessiva suggerendo, allo stesso tempo, il tema della flagellazione, che la tradizione iconografica di solito rende con il Cristo alla colonna. La luce, che proviene da sinistra, contribuisce a una miglior definizione delle forme e dei particolari. È così che realistiche lacrime solcano il volto dai grandi occhi scuri, infossati e tristi del Cristo. È così, ancora, che gocce di sangue rigano la fronte ferita dalle spine e che i peli di baffi e barba luccicano, come fossero seta, illuminando la bocca dalla piega dolorosa. È così, infine, che l’umiliante corda pare ancor più pesante da portare, ringrossata com’è dall’ombra che proietta sul petto nudo. • Ecce Homo Ostrowsky 1474 - castello di Radoszewnica (Polonia), Collezione Ostrowsky Della preziosa tavola, misteriosamente scomparsa nel 1938, all’indomani dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista, non resta purtroppo che questa foto dell’epoca. Da essa possiamo ricavare che il modello di riferimento per Antonello fu probabilmente l’Ecce Homo di Piacenza, anche se, in questo caso, manca la corda al collo, la corona di spine sembra ancora più dolorosamente conficcata nella pelle, la testa appare maggiormente reclinata verso sinistra e il busto più ruotato dalla parte opposta. Inoltre i grandi occhi mesti e dolorosi, la piega amara della bocca, l’ombra più profonda in corrispondenza dello sterno danno a questo Cristo una connotazione di tragico realismo, come se cercasse solidarietà umana presso coloro che lo stanno guardando. L’immediata naturalezza dello sguardo, così come la rassegnata espressività del volto segnano anche in questo caso uno dei punti più alti della ritrattistica di Antonello. • Cristo alla colonna del Louvre 1476 - Parigi, Museo del Louvre La piccola tavola devozionale si discosta in realtà dal tema dell’Ecce Homo per aderire piuttosto a quello del Cristo alla colonna, alludendo con ciò al supplizio della flagellazione. Testa e busto sono questa volta di tre quarti, mentre lo sguardo, pieno di composta e dolorosa rassegnazione, è simbolicamente levato al cielo, quasi a chiedere rispettoso conforto al Padre. Le labbra dischiuse, come se stessero pronunciando una sommessa preghiera, con i denti che appena si intravedono nel cavo scuro della bocca, conferiscono ulteriore spessore drammatico a un ritratto di una veridicità impressionante, in tutto degna di un Jan van Eyck. Del resto, anche alcuni particolari minuti quali le lacrime (che paiono frammenti scintillanti di cristallo), le gocce di sangue rappreso e i peli dorati di barba e baffi ricollegano ancora una volta l’arte di Antonello alla grande tradizione fiamminga. ANDREA MANTEGNA (1431-1506) Andrea Mantegna nacque a Isola di Cartùro, nei pressi di Padova, attorno al 1431. Fece il suo apprendistato a Padova nella bottega di Francesco Squarcione (1397-1468), artista a quei tempi assai noto nell’Italia Nord-orientale e sfruttatore di giovani talenti. Nel 1460 si trasferì a Mantova invitatovi dal marchese Ludovico II Gonzàga. Nella dolce città lombarda, chiusa tra i laghi formati dal Mincio, Mantegna dimorò fino al 1506, anno della morte. Se ne allontanò solo per compiere due viaggi in Toscana nel 1466 e nel 1467 e per lavorare a Roma tra il 1488 e il 1490.Gli anni della formazione padovana furono per Andrea ricchi di stimoli. In quel periodo Padova, una delle più note e prestigiose sedi universitarie d’Europa, era anche fra i più importanti centri italiani della cultura antiquaria.Tale cultura divenne il fertile terreno su cui il Mantegna costruì la propria attività artistica. Ad essa si sommano anche l’osservazione diretta di antichi monumenti, lo studio di disegni di altri rinomati artisti e di reperti di cui era ricca la bottega dello Squarcione (appassionato collezionista e raccoglitore, al pari dello stesso Mantegna), l’insegnamento desunto dalle opere padovane di Donatello e la pratica del disegno inteso alla maniera dei Fiorentini (linea di contorno decisa e sicura). IL DISEGNO Nel disegno Andrea Mantegna tende a un effetto scultoreo ed è influenzato anche dal segno duro, secco e spigoloso tipico degli artisti tedeschi, che gli erano forse noti attraverso la sempre crescente diffusione delle stampe. Il foglio al British Museum di Londra con un Giovane uomo semigiacente su una lastra di pietra consente di capire quali fossero gli interessi primari dell’artista e di conoscere, allo stesso tempo, la sua tecnica disegnativa. Il giovane nudo, ma per metà coperto da un drappo, probabilmente un lenzuolo funebre, sta cercando di sollevarsi da una lastra di pietra sulla quale giace. La sua gamba destra è allungata, mentre la sinistra è piegata, in modo da sostenere il busto sollevato e gravante verso la propria sinistra. Contribuiscono all’azione di sostegno il braccio sinistro, piegato a squadra, e il destro che funge da puntello. La testa del giovane è piegata verso la propria sinistra. La postura rinvia all’antica scultura romana riferibile al tipo ellenistico del Galata morente. Inoltre, il giovane è visto in scorcio, cioè dai piedi verso la testa. L’effetto prospettico è esaltato dalla geometria regolare della pietra squadrata. Il drappo si modella sulle gambe definendone il volume con parti in ombra e altre in piena luce. Anche il busto è fortemente chiaroscurato per rilevarne il volume. Il disegno è definito da una decisa linea di contorno, mentre le ombre proprie sono realizzate con un tratteggio parallelo lievemente obliquo, quelle portate, invece, grazie a un tratteggio parallelo e orizzontale. Fra le prime realizzazioni del Mantegna, tra il 1450 e il 1457, sono certamente da ricordare la decorazione ad affresco della Cappella Ovetàri nella Chiesa degli Eremitani di Padova e l’Orazione nell’Orto ora alla National Gallery di Londra. CAPPELLA OVETARI La cappella padovana fu in gran parte distrutta nel 1944, durante l’ultimo conflitto mondiale (se ne salvarono solo due brani staccati già nel 1880). Il soggetto degli affreschi è costituito dalle Storie di San Giacomo e dalle Storie di San Cristoforo.
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