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Riassunto Cricco di Teodoro 4, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

riassunto manuale Cricco di Teodoro vol. 4 (versione gialla) - esame di storia dell'arte moderna

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 09/03/2019

Alice.Falzea
Alice.Falzea 🇮🇹

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Scarica Riassunto Cricco di Teodoro 4 e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! DAL BAROCCO AL POSTIMPRESSIONISMO Il Seicento si aprì e si svolse nella crisi. Nel continente europeo e nel Nord America fu un secolo estremamente freddo, il più rigido della «piccola età glaciale» (1300-1850 circa). I molti “grandi inverni” che si susseguirono determinarono una riduzione delle aree coltivabili e una contrazione della produzione agricola. Ne derivarono diffuse carenze alimentari e carestie che incisero drammaticamente sulle condizioni di vita dei ceti più bassi e sul declino demografico. Terribili epidemie e guerre incessanti contribuirono ad aggravare ciclo di crisi e a renderne chiara la percezione tra i contemporanei. Fu soprattutto la peste a imperversare con virulenza in tutto il continente: due esempi furono la peste in Italia del 1630 (descritta da Manzoni nei Promessi sposi) e quella di Londra del 1665. La guerra dei Trent’anni (1618-1648), le guerre scatenate tra la seconda metà del XVII secolo e gli inizi di quello successivo dalla Francia di Luigi XIV (1643-1715) e poi, le guerre di Successione polacca (1733-38) e di Successione austriaca (1740-48). Con effetti di enorme rilievo sugli assetti geopolitici dell’Europa del tempo, oltre che per le popolazioni rurali e urbane. Il Seicento fu costellato da rivoluzioni e guerre civili. Ne fecero drammaticamente esperienza, intorno alla metà del secolo, sia pure in misura diversa, l’Inghilterra e la Francia. Semplicemente endemiche, furono le rivolte popolari, figlie della disperazione generata dalla scarsità di risorse, dalle carestie, dalle epidemie, dalle devastazioni delle guerre, da una povertà crescente e senza prospettive delle popolazioni delle città e delle campagne. In molte parti del continente – soprattutto in Europa orientale – esse furono anche il prodotto di un feroce inasprimento delle relazioni sociali, che si espresse in veri e propri processi di «rifeudalizzazione» dei rapporti agrari. Scoppiarono in Francia, in Inghilterra, in Spagna e in Portogallo, in Olanda, in Italia e in Russia, provocate di volta in volta dall’eccessiva fiscalità dei governi, dalla crescente diffusione della proprietà privata delle terre ai danni delle terre comuni, dalla durezza dello sfruttamento del lavoro agricolo, dallo stato di totale emarginazione delle masse urbane dei vagabondi e dei mendicanti. Non è un caso, che l’idea della «crisi del Seicento» abbia assunto per molto tempo il valore di una vera e propria categoria storiografica, tanto da definire il XVII secolo come «the iron century». E tale fu senz’altro, con evidente riferimento al suo massiccio impiego nella costruzione di armi, anche da fuoco. Questa immagine, tuttavia, va in qualche misura ridimensionata, anche per comprendere fenomeni e processi che in parte sfuggono al quadro sin qui delineato. Anzitutto occorre precisare che la «crisi del Seicento» non fu tale, negli stessi termini e con la stessa intensità, nelle diverse parti del mondo e in Europa. Essa fu molto severa in quei paesi che rimasero o diventarono fragili sul piano della politica di potenza e della modernizzazione economica (in particolare la Spagna e il Portogallo, il mondo tedesco, la penisola italiana e la Russia). Nei paesi emergenti sul piano politico ed economico, invece, la crisi venne controbilanciata da imponenti processi di crescita e trasformazione. Fu questo il caso delle Province Unite e poi, soprattutto, della Francia e dell’Inghilterra, che divennero le più grandi e dinamiche potenze del XVIII secolo. Il Seicento fu altresì il terreno di coltura di due grandiosi processi destinati a diventare cruciali nell’ulteriore vicenda del mondo moderno e a plasmare in profondità la struttura delle classi sociali, la politica, la mentalità e le pratiche della vita collettiva. Fu proprio in quel secolo di crisi, infatti, che iniziò a prendere forma compiuta – soprattutto in Olanda e in Inghilterra e, più in generale, in tutto il mondo protestante – il moderno sistema capitalistico, con la sua specifica etica degli affari, la sua carica dissolvitrice dei tradizionali rapporti economici e sociali, la sua proiezione verso gli angoli più remoti del pianeta. Con esso acquisì un potere crescente una sempre più dinamica classe borghese, destinata in futuro a soppiantare definitivamente – con le sue ricchezze, i suoi stili di vita, la sua cultura e la sua crescente coscienza di sé – i vecchi ceti dominanti delle società di antico regime. Fu sempre nel Seicento, poi, che si fecero decisivi progressi nella storia degli Stati moderni e delle loro forme. Due diversi modelli si imposero. Il primo fu quello dello Stato assolutistico realizzato da Luigi XIV in Francia, che avrebbe dovuto ulteriormente svilupparsi nel XVIII secolo, pur tra enormi contraddizioni, fino al grande trauma della Rivoluzione francese. Il secondo fu invece quello dello Stato costituzionale che prese corpo in Inghilterra dopo la «Gloriosa Rivoluzione» (1688-1689) e che, nei decenni successivi, si sarebbe evoluto nella direzione del moderno Stato parlamentare. Sul terreno delle scienze, della filosofia e del pensiero giuridico, della letteratura e delle arti figurative, poi, il Seicento fu tutto tranne che un secolo di «crisi», anche in quei paesi – come l’Italia – che vennero risucchiati nel vortice di una profonda decadenza politica, economica e sociale. Non si può certo negare che lo spirito e gli istituti della Controriforma riuscirono a soffocare molte delle espressioni più vitali della cultura del Seicento. Il rogo che arse Giordano Bruno proprio al principio del secolo (1600), la lunghissima prigionia (27 anni), cui fu quasi contemporaneamente condannato Tommaso Campanella, e il processo a Galileo Galilei (1633) ne furono esempi più che eloquenti. E tuttavia, proprio sul piano della cultura il Seicento fu, più che un «secolo di ferro», un «secolo d’oro». Un secolo che, per molti aspetti, doveva anticipare e preparare la successiva «età dei Lumi». Nel Seicento, anzitutto, giunse a piena maturazione la «rivoluzione scientifica», già annunciata nel Cinquecento, tra gli altri, dal filosofo e naturalista Bernardino Telesio e dagli astronomi Niccolò Copernico e Tycho Brahe. Essa ebbe uno dei suoi primi e principali campioni in Giovanni Keplero, che studiò le leggi dei movimenti dei pianeti, confermando e correggendo in alcuni punti cruciali le dottrine di Copernico. Furono tuttavia soprattutto Galileo Galilei, Francesco Bacone e poi Isaac Newton a fissare i canoni della scienza moderna, fattore tutt’altro che secondario dello straordinario sviluppo della civiltà europea e di una nuova mentalità tecnico-scientifica che doveva plasmare soprattutto i ceti borghesi. Galilei fu un matematico, un fisico e un astronomo di fama europea. Le sue scoperte astronomiche – rese possibili dall’invenzione del cannocchiale, cui egli stesso diede un importante contributo costruendo il primo «telescopio» (1609) – e la sua adesione alle dottrine eliocentriche, tuttavia, lo misero in rotta di collisione con la Chiesa e l’Inquisizione, che nel 1616 aveva messo all’Indice l’opera di Copernico De revolutionibus orbium coelestium. È in questo quadro che Galilei scrisse – con una prosa scientifica in volgare che rappresenta uno snodo molto importante anche nella storia della letteratura italiana – la sua opera maggiore, i Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), che gli costò un lungo e penoso processo (1633) conclusosi con l’abiura. Si trattò di un mesto e solo temporaneo trionfo per la cultura della Controriforma. In realtà in quei Dialoghi – ma anche in altre opere quali Il Saggiatore (1623) e i Dialoghi delle nuove scienze (1638) – Galilei aveva fissato i principi cui si sarebbe ispirata l’intera scienza moderna, con una corrosiva polemica contro qualsiasi «principio di autorità», si trattasse anche dell’opera di Aristotele oppure delle Sacre Scritture. Da allora, grazie al suo contributo, il metodo sperimentale – il ricorso all’osservazione (la «sensata esperienza») e nel contempo al ragionamento, in particolare al ragionamento matematico (le «dimostrazioni necessarie») – divenne uno dei pilastri del pensiero scientifico. Come Galilei, anche Bacone fu un fautore del metodo sperimentale, che a suo giudizio avrebbe dovuto essere fatto proprio da tutte le scienze attraverso un progressivo superamento degli errori e dei pregiudizi (idòla) che irretiscono la mente dell’uomo, compresi quelli derivanti dalla sapienza degli antichi. Il suo sperimentalismo rimase tuttavia ai margini dello sviluppo della scienza moderna. Giocò invece un ruolo cruciale la sua esaltazione della «tecnica», intesa come strumento per sottomettere il mondo naturale al dominio dell’uomo, di cui Bacone – anche attraverso la sua Nuova Atlantide (1624), un’opera di genere utopistico in cui si celebrava il trionfo della scienza sperimentale – fu un vero e proprio profeta. Il ciclo seicentesco dello sviluppo del pensiero scientifico raggiunse il suo culmine con Isaac Newton, che nel 1687 pubblicò i Principi matematici della filosofia naturale. Al suo nome si legano acquisizioni decisive e per lungo tempo insuperate, come il calcolo infinitesimale, la teoria dei colori e della dispersione della luce e sé particolare e preziosa. Già nel Cinquecento, comunque, baròco registra il significato metaforico di «strano, tortuoso», riferito per lo più a quei discorsi e a quelle teorie filosofiche che dietro un’apparenza di grande complessità nascondevano la propria intrinseca debolezza e inconsistenza. A partire dal XVIII secolo, infine, la definizione viene applicata anche al campo artistico e assume un significato spesso marcatamente dispregiativo. La critica più moderna, al contrario, ha tolto qualsiasi valore negativo al termine e anche in queste pagine verrà sempre impiegato in senso strettamente storico, cioè per indicare convenzionalmente il periodo, tutt’altro che omogeneo, compreso tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVIII. Poiché il gusto barocco si diffonde molto rapidamente, partendo da Roma, in tutt’Italia, negli Stati cattolici d’Europa e in molti Stati di recente colonizzazione in America centrale e meridionale, le forme artistiche con le quali si manifesta sono quanto mai varie e differenziate. Nato inizialmente come esplicita risposta al protestantesimo, infatti, arriva in breve a diffondersi anche negli stessi Paesi protestanti (soprattutto Germania settentrionale, Inghilterra e Paesi Bassi) che lo esporteranno a loro volta nei territori coloniali sotto la loro influenza. Ecco perché più che di un generico “Barocco” sarebbe criticamente più corretto parlare di “Barocchi”, al plurale, e perché – conseguentemente – una definizione univoca del termine rimane comunque sempre parziale e insoddisfacente. L’ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI La produzione artistica del Rinascimento è stata sempre legata a delle personalità singole, gelose della propria arte e poco propense a condividerne le tecniche o a divulgarne i segreti. Tale atteggiamento, del resto, è perfettamente in linea con l’ideologia rinascimentale, secondo la quale ogni manifestazione artistica è connessa in modo specifico alla personalità, alla cultura e anche all’abilità tecnica di chi l’ha concepita e realizzata. L’esperienza seicentesca della famiglia bolognese dei Carracci assume pertanto un rilievo nuovo e particolarissimo nella storia dell’arte italiana ed europea. Intorno al 1582 il pittore Ludovico Carracci, il cugino Agostino e il fratello di questi Annibale si riuniscono per fondare quella che potremmo definire la prima scuola di pittura dell’età moderna. Essa fu inizialmente chiamata Accademia del Naturale, in quanto la sua finalità principale era quella di promuovere negli allievi lo studio e la riproduzione dal vero, secondo le teorie vasariane della verosimiglianza e della mimesi. In seguito venne anche detta Accademia dei Desiderosi, «per l’ardente desiderio che in tutti s’accendeva di rendersi gloriosi nell’arte», e infine Accademia degli Incamminati, allo scopo di sottolineare l’impegnativo percorso di maturazione artistica al quale ogni allievo era chiamato. I tre Carracci sono bolognesi di nascita ma la loro formazione è abbastanza variegata, in quanto si riallaccia sia alla tradizione classicistica di Raffaello e Michelangelo sia a quella veneziana del colore, avendo presenti anche l’esperienza di Correggio e di vari altri pittori emiliani e lombardi del periodo. Il loro insegnamento all’interno dell’Accademia prefigura quello di una moderna scuola d’arte in cui, oltre alla insostituibile pratica del disegno e all’introduzione della copia dal vero, si dà spazio anche alle discussioni filosofiche, allo studio delle lettere, della matematica, della geometria e dell’anatomia. Secondo gli intenti dei Carracci, la formazione di un artista deve svilupparsi non solo a livello pratico, con la semplice acquisizione delle necessarie abilità tecniche, ma anche a livello teorico, maturando conoscenze culturali il più possibile ampie, eterogenee e approfondite. I tre artisti, pur nella diversità dei rispettivi caratteri, riescono comunque a dare all’Accademia un indirizzo omogeneo. Si parla a questo proposito, di classicismo carraccesco. Con tale espressione si vuole alludere alla volontà dei tre artisti bolognesi di superare certe bizzarre estremizzazioni del Manierismo tardo- cinquecentesco per ricollegarsi direttamente al gusto classicheggiante dei grandi maestri del Rinascimento e al colorismo dei Veneti che, soprattutto con Paolo Veronese, avevano a loro volta già attinto al fantasioso repertorio della mitologia classica. L’Accademia degli Incamminati, alla cui guida rimarrà, dopo il 1602, solo Ludovico, non esaurisce comunque il proprio compito nei due decenni durante i quali la animano i Carracci. Essa, infatti, costituirà il prototipo di numerose altre accademie consimili che, nel corso del Seicento, fioriranno un po’ in tutt’Italia, al fine di promuovere lo studio e la diffusione non solo delle arti figurative ma anche della letteratura, della musica, della recitazione, della danza e di varie altre attività artistiche e culturali minori. AGOSTINO CARRACCI (1557-1602) Agostino Carracci è il più colto dei tre e il suo contributo all’Accademia è di tipo soprattutto teorico. Tramite la storia dell’arte e la filosofia egli insegna ai suoi allievi il valore della classicità e della storia quali fonti primarie di ispirazione. Allo stesso tempo fa loro comprendere, attraverso un uso quasi scientifico del disegno, che ogni realizzazione pittorica deve essere preceduta da una profonda e rigorosa fase di studio, durante la quale vengano presi in esame anche tutti i problemi connessi al significato che l’opera deve assumere e al messaggio che deve diffondere. • Ultima comunione di San Girolamo - Nell’olio su tela con l’Ultima comunione di San Girolamo, ad esempio, la figura del vecchio dottore della Chiesa presenta forti caratteristiche di drammaticità. Egli è inginocchiato sulla destra, in atto di ricevere, a mani giunte, con grande trasporto e devozione, l’ultima comunione. Alla morte ormai prossima e al ricordo della lunga penitenza nel deserto, di fatto, allude il teschio ai suoi piedi, mentre il mantello vermiglio che solo parzialmente ne ricopre le nudità evidenzia, per contrasto, un corpo che, pur segnato dalla vecchiezza e dalle privazioni, mostra un’anatomia ancora possente. La scena, nel suo complesso, presenta un perfetto equilibrio compositivo, come sempre nei Carracci, con una prospettiva che individua il punto di fuga esattamente al centro del dipinto, in corrispondenza della testa del sacerdote con la pianeta turchina che sta somministrando il sacramento a San Girolamo. Lo sfondo è inquadrato da un’architettura classicheggiante, con colonne in granito sormontate da capitelli compositi e un doppio arcone centrale a tutto sesto. Al di là di quest’ultimo si apre uno squarcio di paesaggio naturale, inondato dalla luce del tramonto, che rappresenta un altro rimando simbolico alla fine della vita terrena e un’evidente derivazione dalla scuola veneta del colore. I confratelli si stringono attorno all’anziano santo con varie attitudini riprese dal naturale, secondo quanto insegnava l’Accademia: chi riflettendo, chi scrivendo, chi semplicemente guardandolo con affetto pietoso. Due di essi (quello in primo piano che regge il lunghissimo cero e quello più arretrato, presso la colonna di sinistra) levano con stupore gli occhi al cielo, in quanto sono gli unici ad accorgersi della presenza soprannaturale dei due angeli. Questi, che si librano in prospettiva avanzata sopra l’intero gruppo, occupano solamente il quarto superiore del dipinto, marcando al tempo stesso la distanza fra la dimensione umana e quella divina, ma anche l’affetto con cui i messaggeri celesti guardano all’umiltà e alla fede con le quali San Girolamo si appresta a raggiungerli. LUDOVICO CARRACCI (1555-1619) Ludovico Carracci è probabilmente meno intellettuale del cugino e il suo contributo all’Accademia è soprattutto di tipo tecnico-pratico. In ciò gli era d’aiuto la propria formazione eclettica che gli consentiva di attingere alle esperienze artistiche più varie e aggiornate. Egli aderisce con convinzione alle indicazioni controriformiste e, conformemente a esse, i suoi personaggi sacri sono rappresentati sempre in modo da «spirare pietà, modestia, santità, devozione». • Trasfigurazione di Gesù Cristo - Questo spirito è evidente nella gigantesca tela della Trasfigurazione di Gesù Cristo, dipinta per la chiesa bolognese di San Pietro Martire e oggi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. In essa i personaggi e l’azione sono organizzati attorno alla diagonale che congiunge il vertice a sinistra in basso (presso il piede di San Pietro) con quello a destra in alto (oltre la testa del profeta Elia) e alla linea spezzata lungo la quale si orientano, in successione dall’alto in basso, il braccio teso di Cristo, la gamba flessa di Mosè (a sinistra, fra le nubi) e gli arti di Giovanni, a destra, e di Giacomo, al centro. Il Salvatore, colto nell’atto di compiere un passo simbolico verso l’osservatore, indossa una candida veste e un mantello azzurro rigonfiati dal vento divino che lo sta innalzando al cielo. Egli ruota la testa dalla parte opposta del busto, mentre le mani (aperta la sinistra, con il palmo rivolto in alto, e con l’indice destro egualmente puntato al cielo) alludono alla destinazione finale a fianco di Dio Padre. I tre apostoli in basso, sconvolti dall’evento, appaiono illuminati dalla luce soprannaturale che squarcia improvvisamente le nubi. Alla serena e composta maestà del Cristo, che allude a una dimensione di pura spiritualità, si contrappone la concitazione dei sentimenti umani, rappresentata dal gesticolare degli apostoli Pietro e Giacomo e dallo stupore ispirato di Giovanni, inginocchiato a destra in lontananza. L’atmosfera complessiva, di pacata monumentalità, rimanda alla pittura manierista emiliana (e di Correggio). La postura di Cristo, inoltre, agile e maestosa nel contempo, pur se sicuramente memore dell’esempio raffaellesco del 1518-1520, diventa modello più volte ripreso, dagli stessi Carracci ma anche da altri loro seguaci e continuatori, per altre rappresentazioni di soggetto analogo. ANNIBALE CARRACCI (1560-1609) Il più importante dei Carracci è Annibale (Bologna, 1560-Roma, 1609). La sua forte personalità e le sue grandi capacità pittoriche lo collocano subito al vertice dell’Accademia, alla quale si dedica con l’esempio più che con la teoria. E l’esempio è quello di un disegno di perfezione raffaellesca e di una tecnica pittorica estremamente colta e raffinata, maturata sui grandi modelli del Rinascimento fiorentino-romano, del colore veneto e della grazia correggesca. IL DISEGNO - Disegnatore instancabile, Annibale si riallaccia direttamente alla grande tradizione rinascimentale fiorentina usando il tratto morbido, ma deciso, di chi non ha pentimenti. Dall’armoniosa fusione fra il vigore delle forme michelangiolesche e la serena classicità di quelle raffaellesche egli matura in breve uno stile così nuovo e personale da costituire un sicuro punto di riferimento anche per molti artisti della generazione successiva, ad esempio Guido Reni. Nel cartone con un Rematore di spalle del British Museum di Londra, uno dei numerosissimi studi preparatori per il ciclo di affreschi romano di Palazzo Farnese, appare chiaro l’intento carraccesco di ricercare quel «bello ideale» che il Manierismo aveva finito per perdere di vista. La postura del corpo in torsione, con la testa ruotata a destra e il braccio sinistro spostato indietro, mette in evidenza la possente muscolatura del personaggio, ispirata con evidenza a modelli michelangioleschi. Gli effetti di chiaroscuro sono ottenuti con un tratteggio a carboncino rado e veloce, lumeggiato con tocchi di gessetto, per suggerire un senso di realismo e plasticità. • Il mangiafagioli - Tra le esperienze pittoriche giovanili si colloca Il mangiafagioli, la cui attribuzione carraccesca è ormai definitivamente accolta. L’opera costituisce, insieme ad alcune altre, tra cui La bottega del macellaio, uno dei primi esempi di scena di genere dell’arte italiana. Con questa definizione ci si riferisce, come già per l’ultimo Jacopo Bassano, a un tipo di pittura – molto diffuso soprattutto in area fiamminga – i cui soggetti, attinti dalle piccole cose della vita quotidiana, appartengono a un “genere” ritenuto minore rispetto a quello, assai più cólto e significativo, delle rappresentazioni sacre, storiche o mitologiche. Nella piccola tela, approssimativamente databile intorno al 1580/1581, l’artista bolognese raffigura un popolano nell’atto di divorare con avidità una scodella di fagioli. Sul tavolo sono disposti i poveri oggetti della mensa contadina: da destra, una brocca in terraglia, un bicchiere di vino, un coltello, un piatto con una frittata, dei porri freschi, il pane; al centro, la scodella del cosiddetto Bacchino malato, del Ragazzo con canestra di frutta o del Ragazzo morso da un ramarro, tutti dipinti fra il 1593 e il 1595. Il giovinetto, adagiato su una sorta di improvvisato triclinio realizzato con un semplice materasso arrotolato, è parzialmente avvolto in un lenzuolo, a imitazione – forse anche ironica – di un’antica veste romana. Il travestimento comprende anche una ghirlanda di tralci di vite che cingono a mo’ di corona la testa dai neri capelli ricciuti. Il volto, ruotato di tre quarti e lievemente inclinato in avanti, è percorso da un leggero rossore, che ne rende l’espressione ancora più enigmatica e trasognata. Tra l’indice e il pollice sinistri il giovane Bacco – probabilmente un garzone di bottega – regge con delicatezza un’esile coppa di vetro, colma quasi fino all’orlo del vino rosso versato dalla panciuta bottiglia appoggiata sul tavolo. La natura morta in primo piano anticipa i modi e i temi della Canestra di frutta, ivi compresi i frutti marci e le foglie secche, simbolo ricorrente del tempo che tutto corrompe e dissolve. L’atmosfera del dipinto, forse commissionato dal cardinal Francesco Maria Del Monte, che aveva ospitato a lungo Caravaggio nel suo palazzo romano, è nel complesso fosca, cosicché il gioco del travestimento finisce per diventare una sorta di rappresentazione mistica, dove il giovinetto può anche essere interpretato in un’ottica cristiana controriformista. In questo caso, infatti, egli alluderebbe allo stesso Salvatore, e la melagrana spaccata, la coppa del vino, la cintura nera e il drappo, egualmente nero, che appare a destra della fruttiera, rimanderebbero ad altrettanti, chiari simboli della Passione di Cristo. La sensibilità pittorica di Caravaggio, anche quando tocca temi di ispirazione mitologica e mistica, appare in aperta contrapposizione con quella dei Carracci, che dello studio dei modelli classici e rinascimentali avevano fatto il proprio punto di forza. Entrambe le interpretazioni sono comunque coerenti con l’ideologia e il gusto seicenteschi tendenti a ristabilire – ciascuno con la propria sensibilità – il primato della realtà su quello della ricercatezza tardo-manierista. • Canestra di frutta Fra i molti dipinti che il cardinal Del Monte commissiona a Caravaggio particolare rilievo assume anche la Canestra di frutta, oggi alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Si tratta di un olio su tela di piccole dimensioni realizzato intorno al 1595/1596 e acquistato dal cardinale di Milano Federico Borromeo, nella cui collezione privata è inventariato fin dal 1607. Il soggetto, una natura morta con una semplice canestra di frutta in vimini intrecciato, non rappresenta che un pretesto mediante il quale Caravaggio si pone in condizione di osservare minuziosamente la realtà, indagandone «dal naturale» ogni aspetto con attenzione e meticolosità straordinarie. Nonostante l’apparente e disadorna semplicità dell’insieme, la composizione è studiatissima in ogni sua parte. Il cesto, infatti, viene rappresentato secondo una visione perfettamente frontale e occupa un ideale semicerchio avente per diametro il lato inferiore del dipinto stesso. Tale scelta, tutt’altro che casuale, avrebbe messo in crisi qualsiasi pittore, in quanto rendeva assai più difficile la rappresentazione della profondità prospettica. Caravaggio, invece, risolve il problema in modo semplice e raffinatissimo. Per prima cosa, infatti, fa sporgere leggermente la base della canestra al di qua del piano sul quale è appoggiata e sul cui bordo proietta la propria ombra, quasi per avvicinarla di più all’osservatore. In secondo luogo, poi, egli allontana la percezione dello sfondo, di colore neutro, inondandolo di una luce calda e diffusa, quasi si trattasse a sua volta di un fondale dipinto sul quale far risaltare i toni freddi delle foglie e di parte della frutta in primo piano. Particolare attenzione, infine, viene riservata ai vari elementi che costituiscono la natura morta. Alcune foglie di vite appaiono accartocciate: indizio evidente della loro non perfetta freschezza. Le foglie della pesca sono a loro volta forate e sbocconcellate: segno che la grandine o qualche parassita le hanno precedentemente rovinate. Anche la mela al centro della composizione appare intaccata, mentre le foglie della cotogna sono maculate e nei grappoli d’uva alcuni acini risultano schiacciati o mancanti. Questo preciso desiderio di rappresentare una realtà oggettiva, priva di qualsiasi correzione e abbellimento artificiali, costituisce una delle caratteristiche più originali dell’arte caravaggesca, anche perché diventa la metafora del suo modo di osservare la realtà umana, sempre dominata dalla bruttura e dall’incombere della morte. Rispetto ai grandi maestri fiorentini del Quattrocento, che avevano sempre cercato di rappresentare la natura in modo mimetico, al fine di comprenderne a fondo le leggi che ne regolavano il funzionamento, Caravaggio si accosta a essa più per contemplarla che per indagarla, essendo per formazione e temperamento più attratto dalla spontaneità delle emozioni che dalla razionalità delle riflessioni. • Testa di Medusa Sempre su commissione del cardinal Del Monte, che ne farà poi dono a Ferdinando I de’ Medici, Caravaggio dipinge anche l’inquietante Testa di Medusa. Si tratta di un olio su tela a sua volta incollato sopra uno scudo di legno di forma leggermente convessa. Esso rappresenta con sconvolgente realismo la testa mozzata e sanguinante della gorgone Medusa, con l’intrico di serpenti aggrovigliati. L’espressione della mostruosa creatura, colta nell’istante preciso in cui la testa le viene recisa, con il sangue che le sgorga copioso dal collo, è di pauroso sgomento. La bocca, infatti, è spalancata, forse nell’ultimo grido di angoscioso stupore, e gli occhi roteano atterriti, come se potessero ancora conservare per un attimo il palpito della vita. Mai fino ad allora un ritratto era stato così crudo e impietoso. Il tema mitologico di Medusa, del resto, aveva sempre esercitato una grande attrazione per molti artisti. Lo si era già visto con Benvenuto Cellini, ad esempio, e lo si rincontrerà, qualche decennio più tardi, anche con Gian Lorenzo Bernini, che però la rappresenta nel momento in cui la Gorgone si accorge, con incredulo stupore, che per maledizione divina i suoi lunghi e bellissimi capelli si stanno tramutando in serpenti. Cappella Contarelli Grazie alla probabile intermediazione del cardinal Del Monte, intorno al 1599 Caravaggio ottiene l’incarico per la decorazione della Cappella Contarelli, all’interno della chiesa romana di San Luigi dei Francesi. Caravaggio realizza tre tele, la Vocazione di San Matteo sulla parete di sinistra, il San Matteo e l’angelo sulla parete centrale e il Martirio di San Matteo sulla parete di destra. • Vocazione di San Matteo - Nella Vocazione di San Matteo (ca 1599/1600) l’artista precisa e approfondisce ulteriormente le sue principali tematiche figurative. Il dipinto raffigura il momento in cui, secondo la tradizione evangelica, Gesù sceglie il pubblicano Matteo, cioè colui che riscuoteva le tasse dovute a Roma, quale suo apostolo. La scena è ambientata in un locale oscuro e disadorno. All’estrema destra della tela vi sono Cristo, che tende risolutamente il braccio destro in direzione del futuro apostolo, e San Pietro, ritratto quasi di spalle, che lo accompagna. Questi, che le indagini radiografiche hanno stabilito essere stato aggiunto in un secondo tempo, ribadisce il gesto del maestro indicando a sua volta il prescelto con la mano destra. Matteo, seduto al tavolo insieme a quattro compari, è colto nel momento in cui, stupito dall’inaspettato invito, reagisce con un gesto molto naturale e istintivo, accennando interrogativamente a se stesso con l’indice della mano sinistra a, come per sincerarsi che il Signore si stia rivolgendo proprio a lui. Dei cinque personaggi al tavolo, tutti significativamente allineati lungo la mediana della tela, solo Matteo e i due giovani di destra si accorgono della presenza di Cristo, verso il quale ruotano le teste incrociando un complesso gioco di sguardi. Il vecchio in piedi con gli occhiali e l’altro giovane a capotavola, invece, sono troppo intenti a contare i propri denari c per rendersi conto di ciò che sta succedendo. La simbologia caravaggesca appare chiarissima: la chiamata di Dio è sempre rivolta a tutti gli uomini di tutti i tempi, ma ciascuno è libero, secondo la propria coscienza, di aderirvi o di respingerla decidendo quindi anche della propria salvezza o della propria dannazione. Al di là delle simbologie e dei significati religiosi la vera protagonista della tela è comunque la luce. Caravaggio, infatti, la immagina provenire da una porta che dà sull’esterno; la stessa attraverso la quale sono verosimilmente appena entrati Cristo e Pietro, ma che corrisponde anche a quella naturalmente proveniente dalla finestra centinata posta sopra l’altare della Cappella Contarelli. Si tratta di una luce giallastra che squarcia la penombra del locale mettendone impietosamente in evidenza la povertà e lo squallore, simili a quelli delle taverne romane alle quali l’artista si era senza dubbio ispirato. Grazie a essa le figure assumono volume e risalto, staccandosi dalla penombra e modellandosi in tutto il realismo dei loro particolari. Nello stesso tempo, però, quella luce assume anche una funzione simbolica, in quanto si irradia dalle spalle di Cristo che con il suo braccio teso e sembra indirizzarla sugli altri personaggi, che a loro volta ne risultano rischiarati e quasi accesi. Si tratta quindi di una luce ideale, la luce della grazia divina che, come in un lampo, congela la posizione e le espressioni di ciascuno, collocandole in uno spazio astratto e senza tempo. Il realismo del Caravaggio è qui evidente non solo nella definizione dei vari caratteri, ma anche nelle posture e negli abiti dei personaggi, trattati sempre con meticolosa verosimiglianza. La rappresentazione, non presenta alcun esplicito riferimento sacro. Essa, infatti, ha più le caratteristiche di una scena di genere, piuttosto che quelle di un evento religioso. Anche l’aureola sospesa sul capo di Cristo, unico indizio della sua natura divina, è appena percepibile ed è stata dipinta successivamente, per compiacere una committenza insoddisfatta dal carattere troppo “laico” del dipinto. Ma l’incontro con la divinità, secondo Caravaggio, può evidentemente avvenire anche nei cuori di coloro che, allo sguardo superficiale degli uomini, ne apparirebbero meno degni. • San Matteo e l’angelo - Nel 1602 viene richiesto a Caravaggio, ormai già ritenuto da tutti un eccellente pittore, di ultimare la decorazione della Cappella Contarelli completando l’illustrazione della vita dell’evangelista Matteo con la realizzazione della pala d’altare raffigurante San Matteo e l’angelo. L’attuale tela fu però preceduta da un altro dipinto, che i chierici di San Luigi dei Francesi rifiutarono in quanto il santo, essendo stato raffigurato con i piedi sporchi e le gambe scoperte e accavallate, «non aveva decoro né aspetto di Santo». Quest’opera, nella quale l’anziano Matteo veniva aiutato nello scrivere il suo Vangelo da un angelo con fattezze di fanciullo che sembrava guidargli fisicamente la mano, è andata perduta in occasione dei bombardamenti alleati di Berlino nel 1945. La nuova pala, commissionata nello stesso 1602 dal banchiere e collezionista genovese Vincenzo Giustiniani, riprende il medesimo soggetto, nobilitandone però la narrazione. Qui il vecchio San Matteo indossa un abito all’antica, giocato sulle calde tonalità del rosso e dell’arancio, ed è colto nel momento in cui, iniziando a scrivere il proprio Vangelo, si volge con un misto di rispetto e titubanza verso l’angelo, questa volta librato in aria, che gli sta enumerando le 42 generazioni degli antenati di Gesù – con cui inizia appunto il suo Vangelo (Matteo, 1, 1-17) – mediante degli espliciti e umanissimi gesti delle mani. La prospettiva sghemba del tavolo, così come la rotazione del libro, che in parte fuoriesce dal piano, e la precaria posizione dello sgabello, quasi in bilico, sul quale il santo poggia il ginocchio sinistro, animano il dipinto di una vitalità intensa e palpitante, come se l’azione potesse fuoriuscire dallo spazio pittorico per proiettarsi in avanti e verso il basso, in quello reale dell’osservatore. La sfera divina, però, questa volta resta distinta da quella umana e il candido documentato – autoritratto, è angosciosa e inquietante. Gli occhi sbarrati, infatti, guardano senza vedere, mentre la bocca, semiaperta in una smorfia di doloroso stupore, sembra aver appena voluto pronunciare l’ultimo grido. Come già Michelangelo con le sue Pietà, anche Caravaggio torna in vari momenti della propria tormentata esistenza al tema della decapitazione di Golia, probabilmente sempre intesa in chiave controriformistica come il trionfo di Cristo (il giovane David, appunto) sul Male (il tracotante Golia). È il caso del David e Golia oggi al Prado, nel quale più evidente appare la ferita procurata sulla fronte del filisteo dal sasso lanciato con la fionda; così come del David con la testa di Golia del Kunsthistorisches Museum di Vienna, in cui David assume uno sguardo più deciso e trionfante. ARTEMISIA GENTILESCHI (1593-1653) Figlia primogenita del pittore di origine pisana Orazio Gentileschi (1563-1639), uno dei primi seguaci del Caravaggio, Artemisia nacque a Roma nel 1593. Precocemente attratta dalla pittura, che fin da bambina sperimentò insieme ai fratelli nell’avviata bottega del padre, fu anche la prima donna a essere ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze, città dove si trasferì appena ventunenne (1614). Qui conobbe il poeta Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del celebre artista, e Galileo Galilei, con il quale iniziò una lunga corrispondenza epistolare. Tra il 1620 e il 1621 tornò a Roma, dove restò però profondamente delusa dall’ambiente artistico cittadino, ormai più incline al classicismo di scuola carraccesca che al suo vigoroso caravaggismo. Dopo un triennio a Venezia (1627-1630), infine, si stabilì definitivamente a Napoli, città nella quale, a parte un breve soggiorno londinese per assistere il padre morente (ca 1639-1641), continuò a lavorare con alterne fortune fino alla morte, che la colse tra il 1652 e il 1653. Quella di Artemisia è una delle più nobili e dolorose figure della storia dell’arte italiana. Violentata poco più che fanciulla, seppe sempre reagire con forza e dignità alle avversità della vita. Il suo stesso essere donna, infatti, costituì fin da principio un forte impedimento per la sua carriera artistica. Nonostante ciò, grazie all’indubbio talento e alla forte passione che metteva nel dipingere, riuscì comunque a imporsi ai suoi contemporanei, riscuotendo ovunque successi e riconoscimenti che, proprio in quanto donna, le costarono molta più fatica di quanta ne sarebbe stata necessaria a un pittore maschio. La sua pittura appare, fin dagli inizi, più tenebrosa e tormentata di quella del padre e maestro. Questi, infatti, pur partendo dall’esperienza di Caravaggio, era poi approdato a una tavolozza più morbida e luminosa, come si può vedere nella Diana cacciatrice del Musée des Beaux- Arts di Nantes. La resa virtuosistica dei verdi panneggi mossi dal vento e lo studio attento della composizione, con la dea colta in un momento di forte torsione sul bacino (gambe orientate a destra, busto diritto e testa volta a sinistra e leggermente in alto), denunciano con chiarezza l’avvenuto abbandono degli iniziali ideali caravaggeschi di intenso naturalismo. • Maddalena penitente Una delle prime opere certe di Artemisia è la Maddalena penitente, un olio su tela realizzato tra il 1615 e il 1616. Il personaggio è rappresentato nell’atto più delicato e intimo della conversione, mentre con la mano sinistra allontana uno scrigno di gioie, simbolo della rinuncia ai beni terreni e alla loro vanità. La destra sul cuore, invece, allineata secondo la diagonale geometrica del dipinto, allude alla nuova predisposizione verso la grazia divina. Allo stesso modo il sensuale piede sinistro nudo, in contrapposizione con la sontuosa veste sgargiante, annuncia la scelta di penitenza. Se la ricchezza dell’abito e la complessa panneggiatura possono apparire come una concessione al raffinato gusto della corte medicea, l’intensità dello sguardo – rapito e quasi corrucciato – rivela già pienamente la personalità dell’artista. Artemisia, infatti, predilige la rappresentazione di personaggi femminili dal carattere fiero e deciso, protagonisti – quasi autobiograficamente – di scelte sempre coraggiose e coerenti, anche se spesso drammatiche. • Giuditta che decapita Oloferne È il caso – emblematico – di Giuditta che decapita Oloferne, un soggetto che Artemisia ripete più volte, con poche variazioni, in modo quasi ossessivo. In questa versione, verosimilmente la prima, oggi conservata al Museo Nazionale di Capodimonte, emerge tutto l’orrore di un atto che, pur nella sua nefandezza, è in qualche modo necessario al compimento del volere divino. Il riferimento all’omonimo dipinto di Caravaggio, artista al quale Artemisia non ha mai smesso di ispirarsi, avendolo con ogni probabilità conosciuto anche di persona, appare assolutamente evidente, soprattutto nei toni foschi dell’ambientazione e nella postura distaccata dell’eroina. Questa, infatti, vestita di un ricco abito azzurro, sembra in parte ritrarsi, nonostante le braccia tese, quasi a sottolineare la propria estraneità morale all’orrendo assassinio che sta compiendo, chiara allegoria della Virtù che trionfa sul Male. È comunque nella rappresentazione di Oloferne riverso sul letto, colto nel momento in cui esala l’ultimo respiro, che la Gentileschi raggiunge il massimo della propria espressività. Gli occhi sbarrati, la bocca semiaperta, la mano destra che inutilmente tenta di allontanare l’ancella complice di Giuditta, il sangue che inonda le bianche e preziose lenzuola conferiscono alla narrazione un ritmo serrato e drammatico, sullo sfondo buio e cupo di una stanza priva di qualsiasi profondità prospettica. La pittura di Artemisia diventa così pura azione e la teatralità del gesto, sorretta dal forte realismo, costituisce un angosciante atto d’accusa contro le violenze del mondo. NAPOLI NEL SOLCO DI CARAVAGGIO Nel corso della sua tumultuosa esistenza Caravaggio ha soggiornato a Napoli almeno due volte: nel 1606-1607 e nel 1609-1610. Naturalmente si è sempre trattato di veloci incursioni, incalzato com’era dagli eventi di una vita che, ormai, aveva assunto per lui il ritmo drammatico di una perenne fuga. Non è un caso che sia proprio Napoli la città dove Caravaggio, nonostante la brevità della sua permanenza, ha potuto lasciare un’impronta più consistente e duratura. Naturalmente non si può parlare di una vera e propria scuola, in quanto la personalità stessa e i comportamenti dell’artista non sono mai stati compatibili con l’organizzazione di una bottega né, con la formazione di allievi e aiuti. Nonostante questo il fascino “maledetto” della pittura caravaggesca coinvolse un po’ tutti gli artisti del Seicento, compresi quelli che, in seguito, maturarono scelte stilistiche di segno anche diversissimo, come nel caso di Guido Reni. IL BATTISTELLO (1578-1635) Giovan Battista Caracciolo, detto Il Battistello, nasce a Napoli nel 1578. La sua prima formazione avviene nell’ambito della tradizione tardo-manierista partenopea, legata soprattutto alla pittura di carattere religioso. L’incontro con il naturalismo del Caravaggio (1607) costituisce un momento fondamentale di svolta nella sua vita artistica. Dopo la precoce scomparsa del maestro, egli continua a studiarne lo stile e le opere, recandosi appositamente a Roma (intorno al 1618). Qui entra in contatto anche con il classicismo dei Carracci, attraverso il quale mitiga in modo sempre più accentuato l’iniziale, forte ispirazione caravaggesca. Dopo brevi soggiorni a Firenze e Genova rientra definitivamente nel capoluogo. Muore nel 1635. • Liberazione di San Pietro dal carcere - La Liberazione di San Pietro dal carcere è uno dei dipinti più intensi del Battistello e, risalendo al 1615, risente ancora in modo inconfondibile delle fosche e suggestive atmosfere caravaggesche. La grande tela, venne commissionata all’artista dalla confraternita del Pio Monte della Misericordia, una congregazione laica per la quale lo stesso Caravaggio aveva lavorato nel corso del napoletano. Dal buio compatto dello sfondo emergono all’improvviso, come in un’apparizione soprannaturale, la luminosa figura dell’angelo e quella, appena rischiarata di riflesso, dell’anziano San Pietro. Mentre il primo, che ha l’aspetto di un adolescente, avanza cauto e guardingo per schivare i guardiani addormentati, il secondo lo segue, incerto e ricurvo, protendendo nella penombra la mano sinistra, nel tentativo di prevenire eventuali ostacoli. Il prigioniero in primo piano, accovacciato di schiena, con i piedi realisticamente sporchi, così come era solito rappresentarli lo stesso Caravaggio, è solo parzialmente illuminato dall’abbagliante riflesso della candida veste angelica, unica fonte di luce di tutta la scena. La coltre di tenebre, invece, inghiotte quasi del tutto i guardiani, i cui profili, appena delineati dal riflesso metallico degli elmi, sembrano appartenere a grandi manichini pietrificati. JUSEPE DE RIBERA (LO SPAGNOLETTO) (1591-1652) Jusepe de Ribera, detto Lo Spagnoletto, nasce a Jativa, in Catalogna, nel 1591. Il soprannome allude alla corporatura minuta e all’origine spagnola, della quale l’artista, che pur visse sempre a Napoli, andava orgogliosissimo. Formatosi inizialmente in ambienti lombardi ed emiliani, nel 1612 approda a Roma e a partire dal 1616, si stabilisce definitivamente a Napoli, che diventerà ben presto la sua seconda patria. Qui avvia un’intensa attività al servizio della corte vicereale e di molti enti ecclesiastici cittadini. E sempre a Napoli muore, nel settembre del 1652. • Lo storpio - Pur partendo dal naturalismo caravaggesco, Ribera inserisce nei suoi dipinti una vena narrativa minuta e quotidiana, adottando accordi cromatici più luminosi, sicuramente derivatigli dalla conoscenza di Raffaello, dei pittori veneti e dell’ambiente emiliano sviluppatosi intorno a Guido Reni. A questo filone va senz’altro ricondotto Lo storpio del Louvre. L’opera, firmata e datata 1642, venne forse eseguita su commissione del viceré don Ramiro Felipe de Guzmán. La significativa scelta del soggetto, un bambino mendicante affetto da una grave malformazione al piede e alla mano destri, è da ricondurre a una precisa volontà dell’artista di indagare, qui come in altre sue opere della maturità, il mondo dei poveri e degli emarginati. Questa particolare sensibilità, destinata in seguito a riscuotere molto successo nella pittura spagnola e, più in generale, europea, trova qui uno dei momenti più sinceri e toccanti. Il piccolo mendicante regge con la mano sinistra un foglietto sul quale qualcuno gli ha scritto: «Dammi un’elemosina per amore di Dio». Questo ci fa pensare a un orfanello, costretto fin dalla più tenera età a vivere mendicando per le strade di una Napoli povera e ostile. Il volto tenero e sbarazzino, però, che ci regala un sorriso innocente e sincero, riscatta in parte il dramma della situazione. Anche la stampella, portata con leggerezza sulla spalla sinistra, perde il senso della sua funzione e diventa quasi un oggetto con cui giocare, contribuendo a imitare scherzosamente una posa militare. La prospettiva dal basso inoltre, che conferisce dignità e risalto alla piccola figura, così come lo sfondo chiaro, con ampi sprazzi di sereno, alludono alla speranza di un domani che, grazie alla carità e alla misericordia, potrebbe comunque essere migliore. GIAN LORENZO BERNINI (1598-1680) Mentre Caravaggio vive costantemente ai margini della società del suo tempo, sperimentandone in prima persona le contraddizioni, la violenza e le umiliazioni, Gian Lorenzo Bernini riesce a viverne orgogliosamente al centro, ricevendone fama, onori e ricchezza, fino a meritarsi l’appellativo di «gran Michelangelo del suo tempo». Figlio di Pietro Bernini, un modesto scultore di Sesto Fiorentino, presso Firenze, Gian Lorenzo nasce a Napoli nel 1598, dove il padre si era recato in cerca di fortuna. La sua formazione artistica avviene principalmente a Roma, dove si trasferisce con la famiglia attaccatura assume un che di carnale e quasi palpitante. Non a caso, del resto, di fronte a una tale perizia tecnica lo stesso papa Urbano VIII Barberini, uno dei massimi protettori e ammiratori di Bernini, definì l’artista «huomo raro, ingegno sublime e nato per disposizione divina e per gloria di Roma e per portar luce a questo secolo». • L’estasi di Santa Teresa La continua e fantasiosa ricerca di forme espressive sempre nuove e più coinvolgenti è una costante di tutta la lunga e fortunata attività del Bernini scultore. Nel gruppo raffigurante L’estasi di Santa Teresa (1645-1652) all’interno della Cappella Cornàro, nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma, l’artista esprime ancora una volta la propria volontà di strabiliare committenza e pubblico. La scena di quella che, già all’epoca, veniva definita la sua «men cattiva opera», dunque la migliore delle sue realizzazioni, rappresenta Santa Teresa d’Ávila in estasi mistica, nell’atto cioè di essere sopraffatta dalla soprannaturale visione di Dio (la cosiddetta transverberazione). Il Bernini scolpisce dunque l’intero gruppo in un unico blocco di marmo di Carrara immaginando la santa mistica quasi levitare in aria, semidistesa su una coltre di nuvole. Proprio su di esse, trattate da Bernini con una rifinitura più ruvida, in modo da farle apparire quasi di un’altra materia, si è concentrato il recente restauro (2015) che, ripulendole da antiche e arbitrarie incrostazioni pittoriche, ha loro restituito la consistenza volumetrica originaria. L’angelo sorridente che sta per trafiggere il cuore della santa con un simbolico dardo dorato è colto nell’atto di ruotare leggermente verso destra, come per prendere lo slancio. Esso, in realtà più simile al Cupido della mitologia classica che a un’entità spirituale cristiana, è panneggiato virtuosisticamente, intagliando il marmo in modo tanto sottile e delicato da renderlo quasi traslucido. Dietro al gruppo una cascata diseguale di raggi dorati, illuminati da un apposito oculo vetrato, nascosto in alto, illumina artificialmente la scena, alludendo assai scenograficamente alla presenza divina. La collocazione e gli atteggiamenti dei due personaggi, del resto, sono estremamente studiati e accentuati, come se si trattasse di attori su un palcoscenico. Questo aspetto è ancor più enfatizzato dalla significativa presenza, alle pareti laterali della cappella, anche di due finti balconcini in marmo nero e giallo dai quali, come da un palchetto teatrale, le sculture ad altorilievo raffiguranti vari membri della famiglia Cornaro, committente dell’opera, assistono all’estasi di Santa Teresa commentandola con stupore e devozione. Il confine tra realtà e finzione si fa dunque sempre più incerto. Come nel teatro la vita diventa sogno, così nell’arte barocca il marmo può farsi addirittura carne. Sotto il magistrale scalpello di Bernini, infatti, l’estasi mistica assume il ritmo convulso e sottilmente erotico del piacere terreno. L’intensa espressione del volto (con gli occhi socchiusi, la bocca semiaperta e il capo abbandonato all’indietro), la liscia nudità dei piedi e lo scomposto e quasi turbolento agitarsi delle vesti rimandano ancora una volta alle parole della santa mistica. Ed è proprio al corpo, infatti, che l’artista dedica la massima attenzione, indagandone le emozioni e sottolineandone la sensualità. In questo modo egli abbandona definitivamente la compostezza classicheggiante della scultura rinascimentale per dedicarsi al libero gioco delle forme, al fine di strabiliare e di coinvolgere emotivamente i suoi spettatori • Fontana dei Fiumi Ciò è più che mai evidente nella spettacolare Fontana dei Fiumi di piazza Navona, realizzata – con il concorso di molti aiuti – tra il 1648 e il 1651. Bernini ottenne l’incarico dopo aver sbaragliato la concorrenza presentando un modello di legno colorato e dorato. Papa Innocenzo X Pamphilj (1644-1655), che fino ad allora si era dimostrato molto sospettoso nei confronti dell’artista, fu costretto a ricredersi, ammettendo ironicamente che «se non si vuole che i suoi progetti vengano realizzati, non si deve nemmeno vederli». L’opera, di dimensioni colossali, è una fantasiosa e complessa allegoria dei quattro continenti allora conosciuti, raffigurati mediante le statue dei fiumi più importanti: il Danubio (per l’Europa), il Nilo (per l’Africa), il Gange (per l’Asia) e il Rio de la Plata (per le Americhe). I giganteschi personaggi, la cui esecuzione fu delegata a quattro diversi artisti, siedono ai vertici di un possente blocco di travertino scolpito a imitazione d’una roccia naturale. Su di esso poggia in ardito equilibrio un obelisco monolitico prelevato per volere del papa dall’antico Circo di Massenzio. Il concitato dinamismo dei personaggi, ulteriormente arricchito dalla presenza di animali allegorici e scenografici giochi d’acqua, distoglie l’attenzione dalla complessità statica della struttura. In essa, infatti, il pesante obelisco poggia in corrispondenza del sottostante vuoto della finta grotta e, dunque, pare quasi che si libri in aria, anche se, in realtà, la sua stabilità è assolutamente garantita dalla conformazione piramidale degli speroni di roccia. Il risultato complessivo è comunque di grande e suggestiva teatralità. Lo scrosciare delle acque, infatti, riempie di una vivace sonorità la grande piazza romana che, edificata sulle rovine dello Stadio di Domiziano, ne ricalca la forma e le dimensioni, fungendo da gigantesca cassa armonica di risonanza. Tutto ciò pone in secondo piano l’arditezza delle soluzioni costruttive, per le quali Bernini dimostra anche non comuni doti ingegneristiche e idrauliche, tanto che veniva chiamato «signore delle acque». • Baldacchino di San Pietro Un forte intendimento scenografico è sempre presente anche nelle opere più direttamente architettoniche dell’artista, nelle quali «grandi o piccole Che esse fossero.ch’elle si fussero, cercava, per quanto Dipendesse da lui.era in se, che rilucesse quella bellezza di concetto, Di cui.di che l’opera stessa si rendeva capace, e diceva, che non minore studio ed applicazione egli era solito porre nel disegno d’una lampada, di quello, ch’e’ si ponesse in una Statua, o in una nobilissima fabbrica» (F. Baldinucci). Nel grandioso Baldacchino di San Pietro, ad esempio, il Bernini realizza una delle più riuscite fusioni tra le varie arti. Queste, pur nel rispetto delle proprie specificità, si integrano l’una l’altra, esaltandosi a vicenda in quel «bel composto» che è un po’ la sintesi di tutta l’espressione artistica berniniana. Costruito fra il 1624 e il 1633 per volere di papa Urbano VIII Barberini, il Baldacchino doveva avere proporzioni e caratteristiche tali da potersi inserire in modo armonico e proporzionato sopra l’altare maggiore, nell’immenso spazio vuoto sottostante alla cupola di Michelangelo. Volendo evitare una struttura in muratura, che sarebbe forse apparsa troppo massiccia, l’artista è costretto a inventare una tipologia nuova e complessa che riunisca in sé anche la suggestione di un baldacchino in legno e tessuto. Per la realizzazione Bernini non pone alcun limite alla propria fantasia e ciò che ne risulta è una costruzione assolutamente diversa, sia nella forma sia nei materiali, rispetto a qualsiasi altra. Su quattro giganteschi piedistalli rivestiti di marmi policromi e ornati con stemmi pontifici a rilievo si ergono altrettante colonne tortili in bronzo dorato (in ricordo di quelle dell’antico presbiterio della basilica costantiniana, salvatesi dalla distruzione e da Bernini stesso collocate nelle nicchie dei quattro piloni che sostengono la cupola vaticana). Ciascuna di esse, alta circa undici metri e riempita di calcestruzzo per aumentarne la robustezza, è costituita da tre rocchi incastrati e sovrapposti, decorati in successione con scanalature tortili, fronde di alloro (simbolo di gloria), lucertole (simbolo di resurrezione) e api (richiamo araldico allo stemma della famiglia Barberini e metaforica allusione al «profumo di santità» del luogo). Alla sommità sono coronate da imponenti capitelli compositi, sui quali si impostano a loro volta quattro alti segmenti di trabeazione che creano un effetto ottico di maggior slanciatezza. Anche la fascia superiore della cornice prosegue concava verso l’interno, fra un segmento e l’altro, apparendo leggera e preziosa, e, pur essendo anch’essa in fusione di bronzo dorato, termina inferiormente imitando i pendóni (cioè le falde pendenti) di un baldacchino in tessuto mosso dal vento. La copertura, infine, è frutto della felice collaborazione – mai più ripetutasi – con Francesco Borromini. Al posto dei due arconi diagonali sormontati da una grande statua del Redentore che Bernini aveva preso inizialmente in considerazione e che, se realizzati, avrebbero dato un’impressione di eccessiva pesantezza, vengono impiegate quattro enormi volute sagomate a dorso di delfino. Esse si elevano dai quattro opposti angoli della struttura, ai piedi di altrettanti angeli colossali, e convergono diagonalmente verso il centro, sorreggendo un elemento di raccordo sul quale poggia un grande globo (in realtà un ellissoide) sormontato da una croce. La scelta della soluzione non fu immediata né semplice, come testimoniano i molti disegni preparatori, in quanto dovettero essere risolti anche numerosi problemi statici e di resistenza dei materiali. La straordinaria unicità del Baldacchino berniniano, comunque, sta anche nel modo in cui riesce a integrarsi all’interno della basilica michelangiolesca, dove «empie senza ingombrare». Nonostante le dimensioni colossali (è infatti alto come un moderno edificio di nove piani), esso appare esile e perfettamente proporzionato. Le colonne tortili danno alla struttura un grande slancio verticale, come di quattro enormi spirali che si avvitino verso l’alto. Il colore scuro del bronzo profilato d’oro contro la chiara policromia dei marmi circostanti, poi, crea un’illusione ottica che contribuisce a snellire ulteriormente la struttura rendendola in un certo senso il perno attorno al quale si organizza idealmente l’intero spazio sottostante all’enorme cupola. I pendoni, imitando la morbidezza di una stoffa preziosa, e le volute della “copertura-non copertura” accentuano ancora di più la sensazione di leggerezza e di armonia dell’insieme, come se si trattasse veramente di una struttura mobile, posta solo momentaneamente a copertura dell’altare. Il Baldacchino di San Pietro costituisce dunque uno degli esempi più significativi di come l’arte barocca riesca a far interagire armonicamente fra di loro i diversi linguaggi della scultura e dell’architettura utilizzando forme, materiali e proporzioni che falsano volutamente la percezione della realtà. • Colonnato di Piazza San Pietro Bernini architetto non pone limiti alla varietà e alle dimensioni dei propri interventi. Si va infatti dal Baldacchino che, nonostante la grandezza, è pur sempre un “arredo”, fino all’immenso Colonnato di piazza San Pietro, che si presenta come un vero e proprio intervento urbanistico a scala cittadina. Commissionato nel 1657 da papa Alessandro VII Chigi, il colonnato si compone di 284 colonne e di 88 pilastri disposti su quattro file. A coronamento della struttura, sorretto da enormi capitelli di ordine tuscanico, vi è uno spesso architrave sormontato da una cornice marmorea. La copertura è a capanna, come nei templi classici, ma in prossimità della gronda si innalza una massiccia balaustra sulla quale sono collocate, rivolte simbolicamente verso la piazza, 140 gigantesche statue di santi, che l’ultimo restauro (2009-2014) ha liberato dalle secolari incrostazioni calcaree e inquinanti. Il colonnato, la cui forma è geometricamente assimilabile a quella di un’ellisse, si congiunge alla facciata della basilica vaticana grazie a due ali laterali fra loro vistosamente divergenti. Se tali ali fossero state parallele, infatti, esse sarebbero apparse – a causa della deformazione prospettica – convergenti al centro e, di conseguenza, la facciata della Basilica di San Pietro sarebbe sembrata prospetticamente più lontana, quasi distaccata dal grande invaso della piazza. Grazie all’artificio delle due ali laterali divergenti, invece, il Bernini – come già Michelangelo nella piazza del Campidoglio – capovolge l’effetto prospettico. In questo modo la percezione una delle colonne del Baldacchino di Bernini per l’Altare della Confessione in San Pietro, l’architetto raffigura con minuzia il capitello composito, i rami di alloro, i puttini e le api che ornano il terzo superiore del fusto. Con l’acquerello, infine, rende la tridimensionalità del soggetto. Con il disegno a grafite dell’Albertina di Vienna si è, invece, in presenza di un complesso studio architettonico per la lanterna della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza. Eseguito in proiezioni ortogonali, infatti, esso mostra (in basso) la sezione della lanterna e la faccia esterna di una delle finestre che in essa si aprono e, in trasparenza, l’andamento della spirale conclusiva. L’impressione di errori o sfalsamenti del disegno, procedendo verso l’alto, è dovuta, invece, alla costruzione geometrica delle indispensabili correzioni ottiche. San Carlo alle Quattro Fontane - Tra il 1634 e il 1641 Francesco Borromini costruisce per i Padri Trinitari Scalzi spagnoli il «quarto» (o ala del dormitorio), il chiostro e la Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, detta anche «San Carlino» a causa delle sue esigue dimensioni. Il piccolo chiostro, eseguito tra il 1635 e il 1637, ha pianta pressoché rettangolare e si compone, in alzato, di un doppio ordine di colonne. Quelle inferiori, tuscaniche, hanno l’abaco prolungato fino a costituire un architrave che sostiene alternativamente un muro pieno e un arco; quelle superiori, invece, sono trabeate. Gli angoli del rettangolo di base, smussati secondo archi di cerchio, ospitano coppie di colonne sulle quali insistono porzioni di muro convesse. La pianta si trasforma dunque in un ottagono con quattro lati curvi e di dimensione ridotta rispetto ai rimanenti; inoltre la disposizione delle coppie di colonne angolari è tale che la loro proiezione sulle retrostanti pareti lunghe dia luogo a coppie di paraste la cui distanza reciproca è la stessa di quelle derivanti dalla proiezione delle coppie di colonne dei lati maggiori sulle stesse pareti. La forma convessa introdotta nel chiostro diventa anche il motivo dominante della chiesa. Questa, iniziata nel 1638, ha una pianta, basata sull’ellisse, costituita dal succedersi di rientranze e di sporgenze. L’andamento sinuoso del perimetro, ulteriormente animato dalla presenza di semicolonne addossate alle murature, si legge ancora, continuo e limpido, nell’alta cornice. Quattro arconi, infine, riconducono la struttura alla perfetta imposta ovale della cupola. Nel complesso disegno del cassettonato che la decora, infine, croci, esagoni e ottagoni si fondono mirabilmente con un potente effetto scultoreo, ulteriormente rafforzato anche dall’uniforme colorazione bianca. L’impressione che si ricava da questo spazio perennemente mosso, avvolgente e modellato dall’architettura fu ben espressa dalla testimonianza di un contemporaneo che così riferisce il comportamento dei visitatori: «et quando stano in chiesa altro non fanno che guardar allo alto et voltarsi per tutta la chiesa, per che tutte le còsse d’essa sono in tal modo disposte che una chiama alla altra». Le prime idee per la facciata di San Carlino risalgono al 1634, ma la costruzione vera e propria, iniziata nel 1665, si protrasse comunque a lungo e, in gran parte, avvenne dopo la morte dello stesso Borromini. L’ultimazione dei lavori, infatti, si ebbe solo nel 1677. L’architetto, perciò, poté controllare solo la costruzione dell’ordine inferiore, mentre quello superiore subì varie modifiche a opera del nipote Bernardo (1643-1709), che gli era succeduto nella direzione della fabbrica, tra il 1675 e il 1677. La grande invenzione della facciata consiste nella pianta. In essa – che ha l’andamento di una sinusòide – una curva continua presenta concavità agli estremi e una convessità al centro ed è contenuta e organizzata architettonicamente, in alzato, tramite lo snodarsi di quattro colonne. Queste sostengono una trabeazione che, al pari della struttura muraria – pur forata da finestre ovali, nicchie e portale –, si modella sulla sinusoide. L’ordine superiore, infine, presenta tre concavità (quella centrale con un’aggiunta convessa), un coronamento a balaustra e un grande medaglione centrale sorretto da angeli. L’effetto complessivo è pertanto quello di una sorta di plastica membrana che scorre come un’onda lungo l’attuale via del Quirinale. Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza - La massima espressione della libertà inventiva del Borromini, incentrata sempre sulla trasformazione di un rigoroso schema geometrico di partenza, è costituita dalla chiesa a pianta centrale di Sant’Ivo alla Sapienza, progettata a partire dal 1632/1633 e realizzata fra il 1642 e il 1660. Qui Francesco, appena nominato architetto della Sapienza, dovette innanzitutto misurarsi con un preesistente cortile, un lato del quale era curvilineo. Da un triangolo equilatero con un semicerchio su ciascun lato e con gli angoli tagliati da un arco di cerchio si genera uno schema planimetrico mai impiegato prima, costituito da tre ampie absidi lobate alternate a tre nicchie introdotte da pareti convergenti e aventi il fondo convesso. In tal modo Borromini abbandona definitivamente la regola rinascimentale delle proporzioni, che faceva generare l’edificio dalla ripetizione di moduli uguali, per proporre una preziosa e rigorosa progettazione per schemi geometrici. Contrariamente a quanto era avvenuto nella Chiesa di San Carlino, qui la forma della pianta prosegue in alzato senza variazioni – in un modo che dimostra la chiarezza e l’organicità della progettazione – per culminare nella cupola, la cui struttura ripete gli stessi spigoli e le medesime rientranze e sporgenze presenti nella pianta. Questo complesso andamento mistilineo si annulla soltanto nell’anello del serraglio della lanterna, le cui facce sono tutte convesse. Alla stessa logica compositiva risponde anche l’esterno, soprattutto nell’alto tiburio che nasconde la cupola e nelle gradinate che ne costituiscono le nervature scoperte. Dei contrafforti radiali curvilinei ad arco rovescio (cioè con la concavità rivolta verso l’alto) stringono la cupola e vanno a sorreggere la lanterna che ha facce concave separate da colonne binate concluse, oltre la trabeazione, da candelabre fiammanti. La terminazione della lanterna è un’elica scultorea. Essa, che via via si restringe procedendo verso l’alto, imprime all’edificio un senso di movimento rotatorio sempre più vorticoso. Infine la fabbrica si accende nella corona sommitale formata da lingue di fuoco sulla quale la palla e la croce, sostenute da quasi immateriali archetti metallici, sembrano miracolosamente sospese. Alle dimensioni della fabbrica Borromini prestò particolare cura. Egli, infatti, partì da proporzioni ideali e aumentò progressivamente le misure reali in modo tale che, dalla posizione privilegiata di chi sostasse sotto l’arco di ingresso al cortile della Sapienza, il complesso della cupola, stanti le riduzioni prospettiche, potesse apparire perfettamente corrispondente alle proporzioni ideali. Basilica di San Giovanni in Laterano - Fra le attività architettoniche del Borromini occorre ricordare l’intervento di trasformazione della basilica paleocristiana di San Giovanni in Laterano, la più importante delle chiese romane dopo San Pietro. L’incarico gli venne da papa Innocenzo X Pamphilj nel 1646 (in un momento in cui la notorietà del Bernini era momentaneamente in declino) in concomitanza con i preparativi per il Giubileo del 1650.Borromini conciliò le esigenze statiche (la chiesa minacciava addirittura di crollare) con quelle di conservare l’antica basilica, secondo il desiderio dello stesso pontefice. L’architetto trattò il venerando edificio come una reliquia, racchiudendola in un prezioso reliquiario in muratura. Egli, infatti, ne rinforzò le strutture inglobandole nelle nuove, ma rendendole visibili a tratti, così come un corpo sacro viene mostrato con devota moderazione. Inoltre impiegò a coppie le antiche colonne delle navate laterali nelle profonde edicole alla base dei grandi pilastri della navata centrale. Ciascun pilastro viene così sottolineato da lesene gigantesche sorreggenti la trabeazione che, non più continua, si interrompe per lasciare spazio alle aperture finestrate. L’unitarietà dell’immensa navata centrale si frantuma nelle diverse specie di coperture delle campate delle navate laterali, i cui pilastri presentano ancora, invece, il tema dell’angolo smussato già impiegato dall’architetto nel chiostro di San Carlino. La «prospettiva» di Palazzo Spada - Una straordinaria quanto spettacolare illusione prospettica viene commissionata a Borromini nel 1652 dal cardinale Bernardino Spada – che aveva forti interessi nei riguardi dell’ottica e dei giochi prospettici – per il suo palazzo romano. La «Prospettiva», com’è ancora chiamata, venne realizzata nel piccolo cortile degli aranci. L’aspetto è quello di una lunga galleria colonnata che conduce in un giardino ornato di siepi e statue. In realtà la distanza tra l’ingresso (introdotto da due coppie di colonne tuscaniche binate) e il fondo del “giardino” è di poco più di 8 metri, ma si ha l’illusione che la piccola architettura sia lunga più del doppio. Tale condizione – percepibile soprattutto attraverso la veduta frontale – è dovuta all’inclinazione del pavimento, che si alza in profondità, e della volta a botte, che, invece, si abbassa (ed è, perciò, un semicono), nonché alle pareti, scandite da colonne, che si avvicinano e riducono progressivamente la loro dimensione. Francesco Borromini, che rispose alle aspettative del cardinale Spada, era, d’altro canto, espertissimo in prospettiva e abituato, come si è visto, a tener conto della visione e della percezione dei riguardanti anche nel progettare le sue architetture reali. Cappella dei Re Magi - Nell’ottobre 1646 Francesco Borromini era stato nominato architetto della Congregazione di Propaganda Fide – carica già ricoperta da Bernini – grazie alla raccomandazione di papa Innocenzo X. La Congregazione era stata fondata nel 1622 da papa Gregorio XV Ludovìsi (1621-1623) con lo scopo di centralizzare tutte le attività delle missioni e ben presto era diventata ricca e potente. Nel 1647 Borromini era già all’opera per riorganizzare gli spazi e costruire nuovi ambienti nel complesso di proprietà della Congregazione, nei pressi dell’attuale piazza di Spagna, a Roma. È così che, tra le altre costruzioni, prende vita l’innovativo ambiente della Cappella dei Re Magi, una delle opere più significative della maturità dell’architetto ticinese. Il piccolo edificio fu costruito a partire dal 1660, anno in cui una precedente cappella, realizzata dal Bernini nel 1634, venne distrutta. La pianta è quella di un rettangolo dagli spigoli stondati. In alzato un sistema di coppie di alte paraste scandisce ritmicamente lo spazio, accompagnato da due ordini di parastine doriche architravate. Di queste, le più basse si trovano al di sotto dei busti di vari benefattori della Congregazione, mentre le più alte arrivano al di sotto delle finestre quadrangolari che illuminano l’ambiente b.Le alte paraste, invece, hanno una base pulvinata – ripresa dall’esterno della raffaellesca Villa Madama – e un capitello derivante dal corinzio, con volute rovesce c e un motivo decorativo costituito da una testina di serafino. I segmenti di architrave e fregio, che su di esse si impostano, vengono percepiti come prosecuzione del fusto delle paraste stesse di cui, pertanto, incrementano visivamente l’altezza. La cornice, invece, corre tutt’attorno all’edificio costituendo l’elemento che lega fra loro tutte le parti e che corona le pareti. Sulla cornice, infine, bassi piedistalli, in asse con le sottostanti paraste, definiscono l’appoggio per le nervature che percorrono l’intera volta intersecandosi. Come in un edificio gotico la volta è connessa ai muri che la sostengono, secondo una soluzione di intima chiarezza di cui, in seguito, soltanto Guarino Guarini, nelle sue architetture torinesi, saprà trarre tutte le conseguenze e nuovi stimoli. PIETRO DA CORTONA (1597-1669) Architetto e pittore contemporaneo di Bernini e Borromini, Pietro Berrettini detto da Cortona condivise con loro la scena artistica del Barocco romano. Nato nel 1597 a Cortona (Arezzo) da una famiglia di modesti artigiani, si formò inizialmente presso il pittore fiorentino Andrea Còmmodi. Fu proprio quest’ultimo che verso il 1611/1612 lo condusse a Roma, città dove erano già presenti moltissimi artisti toscani. In questo contesto il giovane e promettente Berrettini seppe dare un autonomo impulso al proprio tirocinio, dedicandosi con passione allo studio dell’arte classica e della pittura di Raffaello. Il contatto con i rappresentanti della cultura antiquaria del tempo consolidò in breve la fama di Pietro, rendendolo l’artista prediletto di famiglie importanti quali i Borghese, i Sacchetti, i Barberini e i Pamphilj. Poté così concorrere in modo determinante al formarsi e al progredire del gusto barocco a Roma, città dove lavorò quasi senza interruzione fino alla morte, avvenuta nel 1669. doveva essere semicircolare. In seguito Pietro l’ha resa semiellittica, al fine di meglio inserirla nel piccolo invaso della piazzetta. In tal modo, quasi trattenuta fra le retrostanti quinte delle ali laterali, la facciata sembra irrompere nello spazio antistante, come se una forza misteriosa la gonfiasse da dietro, conferendole una volumetria autonoma. Cap. 22 IL SEICENTO GUIDO RENI (1575-1642) Guido Reni – nato a Bologna nel 1575 – si avvicinò, quasi ventenne, all’Accademia degli Incamminati e seguì gli insegnamenti dei Carracci, in particolare di Ludovico. fin da bambino Guido veniva portato ai concerti nei quali il padre, musicista, si esibiva, in modo da poter essere anch’egli avviato alla professione paterna. In una di queste occasioni, il fanciullo, conobbe un pittore fiammingo, naturalizzato bolognese, Denijs Calvaert. Questi, scoperte le sue attitudini artistiche, persuase il padre ad assecondarne la vocazione. Dopo le prime esperienze presso il maestro fiammingo, Nel 1600 circa fu a Roma, dove poté studiare le opere di Annibale Carracci e di Caravaggio, ma si dedicò anche allo studio appassionato dell’Antico e di Raffaello, l’artista che più di ogni altro aveva incarnato le aspirazioni classiche del primo Cinquecento. Dal 1603, anno del suo rientro a Bologna, al 1614, anno della definitiva sistemazione nella città natale, Guido Reni si spostò spesso da questa a Roma. Morì infine a Bologna nel 1642. Reni crede fermamente che il pittore debba imitare la realtà, ma non quella quotidiana, preferita da Caravaggio, bensì una “ideale”, creata selezionando quanto di più bello offriva la natura stessa. Egli ricerca, quindi, la bellezza ideale e non quella che ha solitamente sotto gli occhi. Infatti, in una lettera con la quale accompagnava il San Michele Arcangelo per la chiesa dei Cappuccini di Roma, eseguito su commissione del cardinale Francesco Barberini. IL DISEGNO - Disegnatore dalla mano esercitata e felice, come ogni buon accademico, Guido ha un tratto rapido negli studi a penna. Spesso, come nello Studio per la Crocifissione di San Pietro, risalente al 1604/1605 (preparatorio per l’analogo dipinto, eseguito secondo la maniera di Caravaggio, per la chiesa romana di San Paolo alle Tre Fontane e ora alla Pinacoteca Vaticana), la penna è rinforzata dall’acquerello per una migliore resa spaziale e per conferire alle figure una più decisa consistenza volumetrica. In tal modo, inoltre, l’artista può infondere al disegno quella tragicità che il soggetto richiede. Nello Studio di donna inginocchiata, preparatorio per una delle madri della Strage degli innocenti, il carboncino, ora premuto sul foglio, ora tenuto leggero, dà fresca immediatezza al disegno, rilevato a biacca nelle parti che Guido Reni vuole in piena luce. • Strage degli Innocenti Al ritorno nella sua Bologna dal secondo soggiorno romano, Guido Reni dipinge per la Chiesa di San Domenico la Strage degli Innocenti, ora alla Pinacoteca Nazionale del capoluogo emiliano. È in quest’opera, realizzata attorno al 1611, che è possibile cogliere quanto la meditazione sulle opere di Raffaello e lo studio delle sculture e delle architetture antiche di Roma siano stati proficui per il pittore bolognese. La Strage degli Innocenti si riferisce al racconto evangelico secondo il quale il re Erode, per aver la certezza di sopprimere il piccolo Gesù, decretò la morte di tutti i bambini di Betlemme al di sotto dei due anni: gli Innocenti, appunto. Un alto numero di personaggi, tra madri, bambini e carnefici, affolla la scena occupando i due terzi della tela. La parte restante è lasciata agli edifici e al cielo, attraversato dalle nuvole. A sinistra, infatti, si erge una fortificazione, mentre a destra, su piani più avanzati, sono dipinte due architetture a ordini sovrapposti. Intanto dal cielo due angioletti distribuiscono le palme che, nella tradizione iconografica, rappresentano il simbolo del martirio. L’artista ha voluto attribuire la capacità di esprimere sentimenti solo alle madri e ai bambini caratterizzando i loro volti – e i loro occhi, in particolare – che rivelano paura, orrore, angoscia e disperazione. Le loro posture, inoltre, accentuano tali sentimenti con dolorosa intensità. C’è chi tenta di fuggire nascondendo il proprio figlio (la madre all’estremità destra), chi con terrore, afferrata per i capelli, urla sentendosi perduta (la donna all’estrema sinistra), chi tenta un ultimo gesto di supplica o un’impossibile difesa, chi, infine, volge gli occhi al cielo prostrata dal dolore. Ai carnefici, abituati al delitto, Guido Reni riserva l’ombra sui volti, la contrazione crudele della bocca, la mancanza di ogni umano sentimento e la luce intensa sulle braccia, e in particolare sulle mani che stringono i pugnali, strumenti di morte e di raccapriccio. La statuaria conformazione dei corpi dei due uomini e le donne dai volti perfetti e dai corpi racchiusi in abiti drappeggiati evitano che la scena appaia più cruenta di quanto non sia, con i due piccoli cadaveri nudi, drammaticamente in primo piano, in basso a sinistra. Gli edifici, che scandiscono la successione dei piani verticali, consentono anche di individuare l’intelaiatura prospettica con la linea d’orizzonte alta, poco al di sotto del terzo superiore della tela, e il punto di fuga che sta sul braccio del carnefice di sinistra, come a indicare nella violenza il motore centrale dell’episodio sanguinario. Il dipinto presenta una chiara geometria compositiva e un notevole senso di spazialità, nonostante le proporzioni della tela, insolitamente lunga e stretta. L’asse della rappresentazione pittorica, infatti, passa per la mano alzata del carnefice di sinistra e poco diverge dalla direzione della lama affilata del pugnale che stringe. Inoltre due triangoli opposti, uno dei quali con il vertice rivolto verso il basso e con la base passante per la parete ad arcate (posta esattamente a ⅓ del bordo superiore della tela), l’altro con il vertice in alto, definiscono la collocazione e le inclinazioni divergenti delle varie figure. Un terzo triangolo, infine, formato dalle tre donne accovacciate, penetra come un cuneo in profondità contribuendo alla resa spaziale complessiva. La composizione, il colore e lo spazio, pertanto, sembrano avere il sopravvento sulle emozioni e sul contenuto stesso della raffigurazione. • Sansone vittorioso Anche nel Sansone vittorioso, opera databile al 1613/1615 e realizzata come sopracamino per una delle sale del Palazzo Zambeccàri a Bologna, la storia biblica del forte Sansone vincitore di mille Filistèi sembra solo un pretesto per dipingere il corpo perfetto e sinuoso del giovane che segue docilmente la sagoma della tela o la contrasta armonicamente. Il fianco destro arrotondato e il braccio sinistro piegato e portato sulla vita, infatti, si incurvano nel senso opposto ai tagli a mezzaluna degli angoli superiori della tela, mentre il braccio destro levato in alto accompagna la curvatura di coronamento. Il drappo giallo che copre l’inguine e attraversa le reni si gonfia al vento e replica – enfatizzandole – le curve del corpo di Sansone. Il giovane è al centro della tela e si staglia, colpito da una forte luce, contro un cielo quasi notturno in un cupo campo di battaglia, limitato dall’orizzonte marino. Egli tiene ancora stretta nella mano destra la mascella d’asino che ha usato come arma per vincere i nemici ed è rappresentato nel momento in cui si disseta – con un’acqua apparsa miracolosamente – dopo le fatiche della lotta. L’andamento diagonale dei corpi riversi dei vinti, scorciati prospetticamente b, contribuisce infine ad ampliare il già vasto e desolato paesaggio. • Atalanta e Ippomene Attorno al 1618/1619 Guido dipinge il soggetto mitologico di Atalànta e Ippòmene. La giovane e velocissima Atalanta, figlia di Giàsone, ha deciso che sposerà solo chi riuscirà a vincerla nella corsa e ucciderà chiunque perda nella gara con lei. Solo Ippomene la sconfigge lasciando cadere, durante la corsa, tre mele d’oro dategli da Afrodite per ingannare la fanciulla, che si ferma ogni volta per raccoglierle. Come già per Caravaggio anche per Guido, in quest’occasione, la luce non naturale proveniente da sinistra ha la funzione di costruire i volumi dei due giovani corpi. Lo sfondo, al contrario, non è scuro come nelle tele caravaggesche e un barlume di tramonto rimane a segnare l’orizzonte lontano. La geometria compositiva si fonda su una rigorosa griglia di diagonali incrociate (due maggiori, inerenti al rettangolo costituito dall’intera tela, e due minori, riferite ai due rettangoli pari a metà del maggiore) lungo le quali si articolano le membra dei giovani corpi divergenti. Inoltre le figure sono concepite ciascuna all’interno di due triangoli opposti aventi lo stesso vertice, che li accolgono quasi interamente, in modo che in alto e in basso si formino altrettanti cunei lasciati rispettivamente al cielo, coperto di nuvole grigie, e all’ampia pianura. La fredda rigidezza della geometria, però, si scioglie nelle morbidezze dei passaggi dalla luminosità intensa alle ombre e alle mezze ombre e nel gioco sottilmente sensuale dei drappi – grigio e rosa – vaporosi che, gonfiandosi al vento, si avvolgono delicatamente ai corpi della fanciulla e del giovane, coprendo loro il sesso. • Nesso e Deianira tra il 1617 e il 1621 dipinge quattro tele richiestegli dal duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga, per una delle sale della Villa La Favorita, da poco edificata. Le tele, fra loro in relazione, hanno per tema episodi della vita dell’eroe mitologico Ercole. Il quale per poter sposare Deianira, dovette vincere il dio fluviale Achelòo, che cambiava continuamente aspetto, finché, trasformatosi in toro, Ercole non riuscì a strappargli un corno. Dovendo poi attraversare un fiume tumultuoso con la giovane sposa, un centauro, Nèsso, si offrì di traghettare Deianira, ma, una volta giunto sull’altra sponda, cercò di rapire la fanciulla. Ercole, allora, lo colpì al cuore con una freccia precedentemente intinta nel sangue dell’Idra. Nesso, morendo, confidò a Deianira che il proprio sangue era un potente afrodisiaco e che avrebbe potuto usarlo in caso di bisogno se Ercole avesse provato a tradirla. Ciò accadde e la giovane donna fece indossare all’invincibile marito un mantello imbevuto del sangue del centauro. Il sangue era però avvelenato, contaminato da quello dell’Idra, nel momento in cui la freccia di Ercole aveva colpito Nesso. Fu così che Ercole divenne preda di dolori fortissimi, sentendosi continuamente bruciare. Per porre fine alle proprie sofferenze, egli decise infine di darsi la morte immolandosi su una pira. In Nesso e Deianira, Reni dipinge Ercole nello sfondo della tela, mentre sta preparando la freccia. Il primo piano è occupato dalle figure del possente centauro e di Deianira, che egli tiene sulla groppa. Nesso è trionfante per essere riuscito a ingannare Ercole rapendogli la sposa ed esce veloce dall’acqua, volgendo la testa verso Deianira, che trattiene per la cintura. La giovane, che tiene una mano sulla spalla destra del centauro, è in equilibrio precario e sembra quasi volare, mentre, volgendosi indietro impaurita, tende il braccio sinistro verso lo sposo lontano. Guido Reni pare voler superare se stesso nel drappeggiare il mantello svolazzante di Nesso e nel gonfiare le vesti fruscianti di Deianira. Ed è così che il rosa del mantello del centauro si confonde con la veste rossa e di un giallo acceso della giovane donna, colori appena smorzati dalla lunga fascia grigio-azzurra che stringe Deanira alle reni. Una fiammata di colori si accende alimentata dall’aria, quasi un presagio delle sofferenze future di Ercole e del fuoco che avrebbe posto fine alla sua vita. • Trinità Il giallo aranciato dei cieli aperti, incorniciati da testine di serafini, circonda la figura in trono dell’Eterno, fonte stessa della luce intensa e calda che si spande spirituale e caricando la seconda di caratteristiche più umane. L’Annunciazione della Pinacoteca Civica di Forlì, una grande pala d’altare eseguita nel 1648, è tra gli esempi di tale innovativa composizione. In un ambiente spoglio, la cui porta inquadra un paesaggio con un ponte ad arcate e un’architettura fortificata, sta la Vergine, umile e serena, inginocchiata verso sinistra e di tre quarti. Avvolta in una veste rosa-violacea, ella è circondata, secondo un andamento a spirale, da un mantello d’un azzurro brillante che si raccoglie in pieghe davanti a lei espandendosi sul pavimento. La sua testa è china su un libro di preghiere che tiene con ambedue le mani. La Vergine è collocata esattamente in corrispondenza dell’asse verticale della tela, in una solitudine mistica. Sopra di lei, in uno spazio rettangolare, sono collocate le figure dell’Eterno, dell’Arcangelo Gabriele e di quattro angioletti. In particolare l’Eterno e l’Arcangelo sono disposti lungo una delle due diagonali del rettangolo. Dio Padre, un vecchio semicalvo, dalla barba lunga e ondulata e dai lunghi capelli mossi dal vento, emerge dalle nuvole e tiene la sinistra su un globo terrestre (su cui si appoggia anche la colomba dello Spirito Santo, che guarda in basso verso la Vergine). Egli è colto mentre istruisce l’Arcangelo sulla missione che deve compiere, indicando la futura Madre di Gesù. L’Arcangelo, a braccia incrociate, avvolto in una tunica azzurro-violacea dai risvolti arancione, ad ali distese, ascolta estatico le parole dell’Eterno. Il movimento e l’atteggiamento familiare dei personaggi celesti sono, infine, il mezzo per sottolineare la grazia della Vergine che, ignara dell’evento prodigioso che sta per compiersi, continua serena la sua lettura. • L’Angelo appare ad Agar e Ismaele Se la contemplazione devota e affettuosa di una divinità amorevole e amica dell’uomo è il fine del dipinto della Pinacoteca di Forlì, la commozione e il sentimento sono gli ingredienti essenziali dell’Angelo appare ad Àgar e Ismaèle, uno dei più compiuti esempi dell’attività matura del Guercino. Ripreso da un passo dell’Antico Testamento (Genesi, 21, 15-20), il soggetto del dipinto è costituito da Agar, la schiava egiziana di Sara, e da Ismaele, il figlio che ella aveva dato ad Abramo. Dopo avere avuto anche lei un figlio, Sara, gelosa di Agar, aveva indotto il vecchio patriarca a cacciare la giovane madre assieme al fanciullo (tema, questo, che sarebbe stato ripreso da Guercino pochi anni dopo). I due vagarono nel deserto finché durò l’acqua che Abramo aveva dato loro. Stremato, il piccolo Ismaele si accasciò morente per la sete e la madre, in preda a un immenso dolore, si allontanò per non vederlo morire. In quel momento un angelo mandato da Dio le apparve per indicarle una sorgente che avrebbe dissetato Ismaele. Il momento scelto dal Guercino è proprio quello in cui la donna sta ascoltando le parole dell’angelo con gli occhi gonfi e arrossati di pianto. Poco lontano il figlio si agita al riparo di un cespuglio. L’artista realizza la scena calibrando i pesi. Una fascia diagonale – comprendente Agar e l’angelo –, infatti, costituisce la zona densa del dipinto. Delle linee verticali (il braccio e la gamba sinistri dell’egiziana e il braccio sinistro di Ismaele) si sommano a quelle diagonali producendo una sensazione di equilibrio e misura. Ismaele è poco definito: forse, in questo modo, il Guercino voleva suggerirne la lontananza dalla madre, in aderenza al passo biblico («poi si allontanò e si mise a sedere di fronte, alla distanza quasi di un tiro di arco…»).Agar è in posa studiata con una gamba distesa e l’altra flessa. Le sue braccia seguono la stessa regola, mentre il busto è leggermente spinto in avanti. La testa è ruotata di lato e gli occhi umidi sono volti in alto, mentre, affranta, ascolta le parole proferite dall’angelo di Dio, incredula e già senza speranza. È per questa ragione che l’angelo porta la mano sinistra al petto, nel gesto tipico di chi chiede fiducia. La posa teatrale dei due personaggi in primo piano – monumentali, colloquianti e perfetti nelle loro forme ideali – e l’attenzione ai particolari danno modo all’artista di dipingere con calma, mitigando l’immediatezza dirompente dell’ispirazione. Lo sfumato, memore di quello del Correggio, ammorbidisce le forme; l’azzurro oltremarino del cielo – protagonista di tanti dipinti del Guercino – si sposa con il grigio rossastro delle nuvole. L’uso sapiente del colore e l’accostamento ardito di tinte calde e fredde definiscono la macchia luminosa di Agar. È così che nelle vesti della giovane e bella schiava il viola si interpone tra l’arancione e il rosso e sulla sopravveste rossa si raccoglie il verde nastro della cintura. GUARINO GUARINI (1624-1683) L’attività di Guarino Guarini, sacerdote dell’ordine dei Teatini, architetto, trattatista, matematico e filosofo, è strettamente legata a Torino, città per la quale progettò importanti edifici religiosi e civili. Fu attivo anche a Messina, Parigi e Lisbona, ma le opere che vi realizzò sono andate purtroppo distrutte. Prima di approfondire l’attività torinese del Guarini, comunque, conviene considerare alcuni importanti passaggi nello sviluppo urbano del capoluogo piemontese, che nel 1620 contava appena 20.000 abitanti. TORINO E IL SUO SVILUPPO URBANO La città di Torino, che solo dal 1563, sotto il duca Emanuele Filiberto, era diventata la piccola capitale del ducato di Savoia, nel XVI secolo manteneva ancora i caratteri di una tipica cittadella fortificata. Nel breve volgere di alcuni decenni, tuttavia, la città fu capace di dar vita al più compiuto esempio di organismo urbano barocco d’Europa. Tre furono le fasi di crescita della città a cominciare dal 1584, quando il duca Carlo Emanuele I di Savoia richiese all’architetto Ascanio Vitozzi un piano di ampliamento che si sviluppasse a partire dal vecchio castello, situato in prossimità delle mura orientali, in posizione periferica all’interno dello scacchiere quadrato, fatto di strade ortogonali, ereditato dall’antico insediamento romano. Il Vitozzi creò un’ampia piazza porticata attorno al castello e diede vita ad alcuni quartieri nuovi, a Sud-Ovest, sulla prosecuzione delle strade del castrum romano. Egli previde anche la creazione di una nuova strada, la via Nuova, anch’essa porticata, dipartentesi in direzione Sud da piazza Castello, nonché la fondazione di un nuovo palazzo ducale che si sarebbe affacciato con il cortile sulla medesima piazza. I suoi progetti vennero portati a termine dall’allievo e collaboratore Carlo di Castellamónte (Torino, 1560-1641) che proseguì l’ampliamento della città verso Sud dotandolo di un centro, la piazza Reale (ora piazza San Carlo), che si configura come dilatazione di un tratto della via Nuova. Lì dove la dimensione stradale riprende il sopravvento, la piazza è conclusa dalle due chiese quasi gemelle di San Carlo e di Santa Cristina. Queste rompono la monotonia delle facciate porticate della piazza e costituiscono una variante tutta italiana al rigido schema delle places royales (piazze reali) francesi, chiuse e concentrate attorno alla statua equestre del monarca. Tale soluzione, del resto, fu adottata dal Castellamonte anche in aderenza alla volontà dei Savoia di uniformarsi al modello politico assolutista e accentratore della monarchia francese. L’opera di Carlo venne proseguita da suo figlio Amedeo (Torino, 1610-1683) che costruì il nuovo Palazzo Ducale previsto già dal Vitozzi e iniziò il secondo ampliamento della città verso Est. Le strade ortogonali sono tagliate obliquamente dalla via Po (iniziata nel 1673), progettata per mettere in immediata comunicazione la piazza Castello con la Porta di Po e il ponte che valicava il fiume. Se anche in questo secondo ampliamento Amedeo di Castellamonte configurò nella regolarissima piazza Carlina 10 il centro del nuovo insediamento, pure la strada obliqua rappresentò una grande novità, in quanto ruppe le regole consolidate e prefigurò un nuovo rapporto fra la città e la campagna circostante. Infatti, in prossimità del fiume, essa si dilata in un’esedra 6 che rende lo spazio non edificato non più in contrasto, ma in stretta relazione con la stessa realtà urbana. Il terzo ampliamento di Torino, questa volta in direzione Ovest, venne infine affidato nel 1715 dal duca Vittorio Amedeo II all’architetto Filippo Juvarra. In quest’ultima occasione il nuovo quartiere fu organizzato attorno a due piazze: piazza Susina e piazzetta dei Quartieri Militari. La forma definitivamente assunta dalla città nel primo ventennio del Settecento era dunque assimilabile a una sorta di mandorla. GUARINO GUARINI E TORINO È questa città di pianura, in continua evoluzione urbana e quasi completamente chiusa nell’abbraccio della maestosa catena delle Alpi, che conserva le maggiori opere di Guarino Guarini. Nato a Modena il 17 gennaio 1624, Guarini compie i primi studi nella città natale e trascorre a Roma il periodo del noviziato, dal 1639 al 1647. Sono gli anni in cui nella città dei papi vengono costruiti gli edifici di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona: una grande scuola per il giovane modenese che, una volta rientrato in patria, è subito impiegato in qualità di architetto dal proprio ordine. Dal 1656 Guarini incomincia una lunga serie di spostamenti che lo porteranno a operare in Sicilia (a Messina), in Portogallo, in Spagna. Nel 1662, infine, è a Parigi e nel 1666 si stabilisce a Torino, dove resterà sino al 1681. Il sacerdote architetto muore improvvisamente a Milano il 6 marzo 1683. «Cappella della Santa Sindone» - Il primo intervento di Guarini nella città sabauda – nel quale si fondono le sue ricerche matematiche, geometriche e architettoniche – è costituito dalla prosecuzione dei lavori per la Cappella della Santa Sindone, già avviati da Amedeo di Castellamonte nel 1657.L’intervento, che si protrasse dal 1667 al 1690, iniziò esattamente l’anno successivo all’arrivo di Guarini a Torino, lì chiamato dal duca Carlo Emanuele II (1638-1675). L’impianto circolare della cappella, che collega la Cattedrale tardo-quattrocentesca al Palazzo Ducale, viene trasformato da Guarini in modo da trovare riscontro anche in una soluzione triangolare, come appare dal disegno in pianta che lo stesso architetto ha incluso nel suo trattato di architettura pubblicato a Torino nel 1737, dopo la sua morte. I tre vertici di un triangolo individuano in pianta tre spazi secondari: due ambienti circolari, che in parte penetrano all’interno della cappella, e uno ad arco di cerchio. I primi due hanno la funzione di collegare la cappella al presbiterio della Cattedrale tramite due scalinate i cui gradini ripetono il tema del cerchio. Il terzo ambiente, infine, immette direttamente nel Palazzo Ducale. Anche in alzato il triangolo e il cerchio si fondono poiché tre ampie arcate individuano altrettanti pennacchi sui quali si imposta un tamburo anulare formato dall’alternarsi di sei ampi piedritti e altrettante arcate. Al di sopra del tamburo si innalza una cupola di concezione molto ardita e singolare, conclusa nel 1682, ma danneggiata irrimediabilmente da un incendio nel 1997.Un elaboratissimo sistema, fatto di segmenti di trabeazione sormontati da elementi ad arco, si ripete per sei volte a partire dalla sommità delle arcate del tamburo e ogni elemento base (costituito dall’insieme del segmento di trabeazione e dell’archetto) si dispone sempre in maniera da congiungere la sommità di due archetti sottostanti. In tal modo lo spazio della cupola, che dal basso è visto restringersi gradualmente dando vita a tanti esagoni sovrapposti, concentrici e fra loro ruotati, è delimitato in alto da una struttura che individua una stella a dodici punte. Esternamente la copertura della Cappella della Sindone rivela la struttura interna e si configura come un insieme di elementi concentrici che dichiarano la conoscenza, da parte di Guarini, delle architetture di Borromini, quale, per esempio, Sant’Ivo alla Sapienza. «Chiesa di San Lorenzo» - La libertà compositiva dell’architetto modenese è ancor più evidente nella concezione della Chiesa di San Lorenzo. Qui a un grande ambiente a pianta centrale, preceduto da un vestibolo e formato da un ottagono dai lati curvilinei, fa seguito un presbiterio ellittico avente l’asse maggiore parallelo alla facciata. Sia l’ambiente principale sia il presbiterio sono coperti da cupole sorrette da costoloni intrecciati. Tali elementi strutturali a vista, che si impongono sul piano estetico quasi come in una svettante e articolata cattedrale gotica, sono il risultato di approfondite riflessioni sulla geometria delle forme e sul comportamento dei materiali. Lo spazio principale è invaso, con discrezione, dagli altri ambienti curvi L’esperienza barocca trova vasta eco in tutta la pittura europea, facendo emergere alcune fra le più alte personalità artistiche dei vari Paesi. Alle suggestioni caravaggesche e alle riprese classiciste di derivazione italiana si vanno progressivamente aggiungendo, a seconda dei casi, la minuzia dei particolari di tradizione fiamminga e olandese, la luminosità francese e l’espressività spagnola. Il risultato è, ovunque, quello di una pittura dalla forte personalità, nella quale gli accesi contrasti di luci e di ombre, così come una più attenta osservazione della natura, giocano un ruolo sempre più decisivo ed emotivamente coinvolgente. FIANDRE: PIETER PAUL RUBENS (1577-1640) Pieter Paul Rubens, nato a Siegen, in Westfalia, il 28 giugno 1577, è senza dubbio il più grande dei pittori fiamminghi del Seicento. La sua formazione, avvenuta principalmente in Italia tra il 1600 e il 1608, è estremamente varia e complessa. Durante un primo soggiorno a Venezia si appassiona alla pittura tonale e si esercita copiando le opere di Tiziano, Tintoretto e Veronese. In seguito si trasferisce a Mantova, a Genova e, infine, a Roma. Qui, oltre a conoscere la grande pittura rinascimentale, resta particolarmente colpito dal classicismo dei Carracci e, soprattutto, dal realismo caravaggesco. Egli è anche un grande conoscitore e collezionista di sculture classiche, sulle quali si esercita a lungo sia utilizzando gli originali sia attraverso calchi e riproduzioni a stampa. Ritornato nelle Fiandre, Rubens mette subito a frutto le esperienze artistiche maturate in Italia riuscendo a conciliare l’analisi dei particolari, tipica della tradizione fiamminga, con il colore e il disegno italiani. Rubens si spegne ad Anversa, in Belgio, il 30 maggio 1640. • La morte di Ippolito Rubens predilige le grandi composizioni, sempre animate da un convulso agitarsi di personaggi e caratterizzate da colori intensi e pastosi, che plasmano le figure con drammatica teatralità. Nella Morte di Ippolito, che è invece un olio di piccole dimensioni, Rubens riesce a concentrare in uno spazio angusto la sfolgorante grandiosità di una narrazione epica. La scena rappresenta la tragica morte di Ippolito, figlio di Teseo e di un’Amazzone, che – accusato ingiustamente di aver usato violenza alla seconda moglie del padre – viene assalito da alcuni mostri marini che il padre stesso, non volendo ucciderlo di persona, aveva fatto evocare per mezzo di Poseidone, dio del mare. I cavalli del suo cocchio, spaventati dall’orribile apparizione, si impennano e travolgono lo sfortunato eroe facendolo precipitare rovinosamente sugli scogli. Rubens organizza la composizione del dipinto lungo le due diagonali. Mentre quella che dal vertice destro in alto giunge a quello sinistro in basso segue la linea ondulata del bagnasciuga, l’altra è percorsa da una visione di straordinario dinamismo. I mostri marini che emergono con furia dalle acque, fra alti schizzi di schiuma, fanno imbizzarrire i cavalli, le cui criniere fremono al vento, mentre il cocchio d’oro di Ippolito si rovescia, facendo cadere l’eroe a terra. La possente muscolatura del personaggio allude in modo diretto a certi esempi michelangioleschi che l’artista aveva conosciuto e apprezzato a Roma. L’uso violento del colore sottolinea la drammaticità dell’evento, diretta manifestazione del divino. In riva al mare, la natura torna a essere mite e serena, e Rubens ne dà conto con la dolcezza della descrizione fiamminga, rappresentando granchi e conchiglie variopinte, quasi a voler controbilanciare con la pacatezza di una natura morta il concitato sconquasso generato dall’azione dei mostri. FIANDRE: ANTONIE VAN DYCK (1599-1641) Antonie (o Antoon) van Dyck nasce ad Anversa nel 1599 e muore a Londra, poco più che quarantenne, nel 1641. Talento artistico estroso e precoce, fin dal 1618 collabora con il già famoso Rubens, del quale diverrà in seguito uno dei massimi antagonisti a livello europeo. Dopo un primo soggiorno a Londra (1620), visse e lavorò a lungo in Italia (1621-1627). Stabilitosi a Genova, sulle orme di Rubens, visitò ripetutamente anche Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Palermo. La permanenza in Italia gli diede modo di studiare dal vivo la pittura rinascimentale, che in patria aveva conosciuto solo attraverso le stampe, subendo in particolar modo l’influenza di Tiziano. Dal 1632, si trasferì definitivamente in Inghilterra, dove essendo già stimato come uno dei più grandi ritrattisti del secolo, ottenne il prestigioso incarico di pittore ufficiale alla corte di re Carlo I. • Carlo I a caccia Se Rubens aveva privilegiato soprattutto i temi mitologici e le ricche pale d’altare, Van Dyck – che pur fornisce ottime prove anche in quei campi – si caratterizza fin dal soggiorno genovese come un insuperabile ritrattista. In Carlo I a caccia, un grande olio databile intorno al 1635, il re d’Inghilterra è ritratto durante la pausa d’una battuta di caccia, mentre uno scudiero fa riposare il cavallo alla frescura di un albero frondoso. Il sovrano, nonostante l’ambientazione campestre, è vestito con grande ricercatezza e si fa rappresentare in una tipica posa da atelier. Mentre la mano destra impugna con atteggiamento teatrale un bastone, la sinistra puntella un fianco e la testa, appena rivolta verso l’osservatore, mostra un’espressione altera e quasi sprezzante. Carlo I indossa una lucente casacca di raso, pantaloni di velluto rosso e stivali chiari con gli speroni. Al fianco porta una spada dall’impugnatura dorata e con la mano sinistra, ripiegata all’altezza della vita, tiene con noncuranza un guanto di pelle b, mentre un paggio che appena si intravede dietro lo scudiero gli regge il mantello. Lo sfondo luminoso del cielo crea sulla sinistra un suggestivo effetto di sfondamento prospettico, al quale si contrappone il realistico primo piano del cavallo, la cui bionda criniera è trattata con tutta la minuta raffinatezza propria della pittura fiamminga. La ricchezza dei colori, la resa attenta dei particolari e la studiata composizione delle figure fanno di questo dipinto uno dei punti di riferimento della ritrattistica del Seicento, che, a sua volta, si porrà come modello di pittura aristocratica anche per buona parte del secolo successivo. OLANDA: REMBRANDT (1606-1669) Rembrandt Harmenszoon van Rijn nasce a Leida, nei Paesi Bassi, nel 1606. Figlio di un agiato mugnaio, si forma negli ambienti umanistici della città natale che, nel XVII secolo, è fra quelle culturalmente più vivaci e ricche di contatti artistici internazionali. Intorno al 1632 l’artista si stabilisce ad Amsterdam, dove trascorre forse il decennio più intenso e felice della propria vita e dove anche muore, nel 1669. In questo periodo Rembrandt si dedica soprattutto al ritratto, ponendo in secondo piano sia la pittura di paesaggio sia quella di genere, che costituivano i soggetti preferiti della pittura olandese di epoca barocca. • Lezione di anatomia del dottor Tulp La grandezza pittorica di Rembrandt come evocatore di atmosfere e suggestioni è più che mai evidente nella Lezione di anatomia del dottor Tulp, una tela del 1632, la prima realizzata dopo il trasferimento da Leida ad Amsterdam. L’opera venne commissionata all’artista (allora solo ventiseienne) dalla Gilda dei Chirurghi di Amsterdam, la corporazione che riuniva i medici e i chirurghi della città olandese. La scena, ambientata nel chiuso di una stanza assolutamente spoglia, rappresenta il dottor Nicolaes Tulp (un luminare della medicina) mentre, durante una lezione di anatomia, sta mostrando a un gruppo di sette allievi la disposizione dei fasci muscolari dell’avambraccio sinistro di un cadavere. La composizione è magistralmente costruita lungo la diagonale che dall’angolo di sinistra in alto allinea le teste di due allievi, passa attraverso le mani del chirurgo e termina, nell’angolo a destra in basso, in corrispondenza del voluminoso trattato di anatomia aperto verso gli studenti. La mediana orizzontale, per parte sua, allinea le teste di altri quattro allievi, in modo da formare, con la precedente diagonale, una sorta di freccia simbolica indirizzata verso le capaci mani del chirurgo. Quest’ultimo è colto nel momento in cui, sollevata la testa, sta spiegando le parti anatomiche che mette in evidenza con il divaricatore. Gli studenti, da parte loro, sono variamente atteggiati, a seconda dei propri interessi e delle rispettive personalità. C’è chi si protende verso il professore, chi fissa lo sguardo sul trattato, chi – infine – si distrae volgendo l’attenzione all’osservatore. L’atmosfera complessiva appare cupa e come sospesa, in quanto l’unica fonte di illuminazione sembra provenire, in modo quasi spettrale, dal cadavere esangue disteso sul tavolo di dissezione, per poi riverberarsi da esso verso gli altri personaggi circostanti. Tutto questo anticipa una sensibilità quasi romantica nella rappresentazione degli stati d’animo e delle inclinazioni psicologiche, all’interno di ambienti nei quali la penombra contribuisce ad aumentare l’effetto di drammaticità complessiva. OLANDA: JAN VERMEER (1632-1675) Poche e frammentarie sono le notizie biografiche su Jan (o Johannes) Vermeer, nato a Delft nel 1632 e ivi morto nel 1675 a soli quarantatré anni. Figlio di un oste che occasionalmente si arrangiava anche come mercante di quadri, nel 1653 l’artista si iscrive alla Gilda di San Luca, la corporazione dei pittori della cittadina natale, giungendo a diventarne il decano dieci anni dopo. Di un suo eventuale viaggio ad Amsterdam nulla di certo si può dire, anche se è probabile che egli sia entrato in contatto con il più anziano Rembrandt, magari anche solo attraverso le riproduzioni a stampa. Vermeer attinge dalla tradizione olandese il gusto per una pittura nitida e particolareggiata. I suoi temi prediletti sono gli interni di abitazioni popolari o piccolo- borghesi, che egli sa restituire creando ineguagliabili atmosfere rarefatte, pervase da una luce carezzevole ed evanescente. Anche i suoi personaggi risentono di uno studio straordinario della luce, spesso filtrata attraverso vetrate e tendaggi, in modo da delineare con vibrante intensità volumi sempre netti e sereni. • Ragazza con turbante Nella Ragazza con turbante, una piccola tela nota anche come Ragazza con orecchino di perla, l’artista ci fornisce una delle prove più alte e commoventi delle sue non comuni capacità espressive. La fanciulla ritratta, forse l’ultima nata del maestro, è colta in un moto spontaneo e improvviso che le fa volgere docilmente il capo di tre quarti verso l’osservatore, quasi fosse stata chiamata proprio in quel momento. La luce accende il turbante di tocchi sgargianti di giallo e di celeste, mentre la morbida opalescenza della perla trova significativo riscontro nel vivace e naturalissimo scintillio degli occhi. La bocca, dalle labbra sottili ma delicatamente carnose, si dischiude in un abbozzo stupefatto di sorriso, concorrendo alla realizzazione di uno dei ritratti più intensi e intimamente veri di tutta la pittura olandese del Seicento. • Allegoria della Fede La straordinaria capacità di rendere l’atmosfera degli interni appare con particolare evidenza nell’Allegoria della Fede, un’opera tarda che, benché commissionata a Vermeer da un protestante, deve essere stata comunque realizzata in base a precisi riferimenti simbolici e dottrinari di ispirazione gesuita. Il personaggio femminile seduto, che rappresenta la Fede, leva gli occhi al cielo con aria ispirata, poggiando il piede destro su un globo (che allude simbolicamente al mondo) e portando la mano destra al cuore, simbolo della forza della fede stessa. Il braccio sinistro, invece, è appoggiato su un tavolino che, fungendo da altare, sorregge un libro sacro, un calice a e un crocifisso, mentre appeso al muro si intravede – vero e proprio dipinto nel dipinto – una grande crocifissione ripresa dal pittore fiammingo contemporaneo Jacob Jordaens. Per terra, in primo piano, una pietra (simbolo di Pietro, per traslato, della Chiesa cattolica) schiaccia la testa al serpente che simboleggia il demonio, mentre più a destra la mela sbocconcellata allude al peccato originale di Adamo atmosfere tenebrose, privilegiando sempre il colore anche nella realizzazione dei mezzi toni e delle parti in ombra. Muore a Madrid nel 1664. • San Serapione Nella tela del 1628 che rappresenta San Serapióne dopo il martirio, Zurbarán dimostra con chiarezza a quali significativi esiti di realismo e di espressività era già arrivata la sua pittura. Il santo martire, forse originario di Alessandria d’Egitto, venne ucciso durante le persecuzioni di Settimio Severo, agli inizi del III secolo. L’artista restituisce con grande pietà la crudezza del martirio nascondendo il corpo devastato di Serapione sotto un ampio saio monacale. Le braccia, tese da due corde lungo le ideali diagonali del dipinto, sembrano appartenere a un corpo slogato e disarticolato, la qual cosa accresce il senso di pietà e partecipazione. La testa mollemente reclinata, così come il cartiglio stropicciato sulla destra, dipinto come se fosse stato appuntato con uno spillo alla superficie stessa della tela, rimandano a un’indagine meticolosa e quasi ossessiva della realtà. La complessa panneggiatura della veste, giocata attraverso le graduazioni più luminose degli ocra e dei bruni, ribalta il significato caravaggesco della luce, isolando il personaggio contro uno sfondo non in penombra ma compattamente nero. In questo modo l’umile saio del martire sembra quasi animarsi di vita propria, diventando il simbolo del riscatto della fede contro il nero assoluto della morte e dell’assenza di divinità. SPAGNA: DIEGO VELAZQUEZ (1599-1660) Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, nato a Siviglia nel 1599 e scomparso a Madrid nel 1660, è senza alcun dubbio il maggior pittore spagnolo di età barocca. Egli si formò tra la città natale e Madrid, dove già dal 1623 ricopre, appena ventiquattrenne, la carica di pittore ufficiale di corte. Fin dall’inizio Velázquez dimostra una spiccata predilezione per una pittura legata alla riproduzione realistica dei paesaggi e della figura umana. Tale atteggiamento si accentua ulteriormente dopo il primo viaggio in Italia, intrapreso fra il 1629 e il 1631 su consiglio di Rubens. La conoscenza diretta del tonalismo veneto e del realismo caravaggesco fornisce all’artista nuovi e potenti spunti, che egli applica nella ritrattistica, riscuotendo fama e prestigio internazionali. Nel 1649 Velázquez compie un secondo viaggio in Italia, concluso nel 1651, ripercorrendo le tappe di quello di vent’anni prima (Venezia, Bologna, Modena, Parma, Firenze, Roma) e riscuotendo ovunque ammirazione e attestati di stima. Dai dipinti dell’artista spagnolo emerge con prepotenza un nuovo senso del vero. Questo, messa da parte la scenografica fantasiosità barocca, è un vero quotidiano e disincantato, che in ogni ritratto è indirizzato a cogliere il risvolto umano e i particolari rivelatori di uno stato d’animo. • Il principe Baltasar Carlos a cavallo La grande tela con Il principe Baltasar Carlos a cavallo, realizzata intorno al 1634/1635, costituisce uno dei migliori esempi di come Velázquez abbia sempre cercato di coniugare all’interno di ogni sua opera la perfezione del ritratto e la verosimiglianza del paesaggio. Il principino, figlio del re Filippo IV (1621-1665), posa in groppa a un focoso destriero sullo sfondo di un orizzonte vastissimo, contro il quale si stagliano le vette innevate della Sierra de Guadarrama, uno dei maggiori massicci della Spagna centrale. Lo sfarzoso abbigliamento del bambino, che all’epoca doveva avere solo cinque o sei anni, allude al suo rango principesco, con nella destra lo scettro del potere e a tracolla la fascia da generale. L’espressione estremamente seria è però velata di mestizia, in quanto gli obblighi della vita di corte finiscono per privare il fanciullo del suo stesso diritto di essere bambino. Questo tema Velázquez lo ripropone ogni volta che ritrae un giovane rappresentante della real casa. In questo modo egli mette in evidenza una vena riflessiva e malinconica, assolutamente anticonformista rispetto alla magnificenza – spesso solo esteriore – delle grandi case regnanti seicentesche. Poiché il dipinto doveva essere collocato in alto, sopra la porta di un salone di rappresentanza, la prospettiva del cavallo appare esageratamente enfatizzata dal sotto in su, quasi a suggerire che l’animale, saltando, potesse balzare in mezzo agli spettatori. La composizione è organizzata secondo la diagonale della tela, mentre il paesaggio dello sfondo è costruito mediante varie fasce sovrapposte di colore che suggeriscono in successione i vari piani del terreno, della vegetazione e delle montagne. Una luce chiara e fredda, infine, indugia sui particolari (le vesti trapunte d’oro, la lunga criniera scomposta del cavallo), impreziosendoli con un tocco sciolto e leggero, quasi che l’artista dipingesse con il vento e non con un pennello. Cap. 23 VERSO IL SECOLO DEI LUMI I CARATTERI DEL SETTECENTO Nei primi decenni del XVIII secolo il gusto ovunque predominante è senza dubbio ancora quello barocco, ma il rapido affermarsi delle teorie illuministe, tendenti a rivalutare la razionalità del pensiero e l’importanza dell’indagine scientifica, finisce in breve per scontrarsi con le esigenze di un’arte che, al contrario, tendeva invece a privilegiare l’effetto scenografico, il carattere evasivo e l’invenzione fantastica. Ne consegue un’inevitabile spaccatura. Da un lato, si assiste al perdurare dell’arte barocca, che in quest’ultima fase prende il nome di Rococò (dal francese rocaille, che sta a indicare un tipo di decorazione con conchiglie e pietruzze, allora ricorrente nelle grotte artificiali dei giardini signorili). Il Rococò, oltre che nella pittura, nell’architettura e in una rinnovata e scenografica arte dei giardini, si manifesta di preferenza nel ricorrente decorativismo degli interni, ornati di stucchi, intarsi, maioliche e specchi, e nella produzione di mobili, arredi, arazzi e porcellane dalle forme fantasiose ed elaboratissime. Con l’esasperata preziosità dei materiali e la straordinaria raffinatezza tecnica delle realizzazioni, il Rococò esprime al meglio gli ultimi ideali di grazia e di ricercatezza delle corti settecentesche. Dall’altro lato, invece, inizia a diffondersi anche una forte reazione a talune stravaganze del tardo Barocco al quale, si sente il bisogno di imporre degli adeguati correttivi di tipo classicheggiante. Intorno alla metà del XVIII secolo tutto questo darà origine all’importante fenomeno del Neoclassicismo, consistente nello studio e nella riproposizione in campo artistico delle forme e dei valori propri dell’arte classica. Con il ritorno alla razionalità e all’equilibrio dell’età greca, l’Illuminismo trionferà anche in campo artistico, decretando il definitivo declino della cultura barocca e, con essa, il tramonto di buona parte di quell’aristocrazia legata in modo parassitario alla vita delle grandi corti europee. FILIPPO JUVARRA (1678-1736) Filippo Juvarra (o, indifferentemente, Juvara), nasce a Messina nel 1678 e muore a Madrid nel 1736. Dal padre Pietro, un abile artigiano orafo, egli apprende fin da giovane il gusto per l’arte e per la modellazione scultorea. La sua formazione artistica avviene però a Roma, dopo aver lavorato presso l’architetto Carlo Fontana, uno dei più attivi fra quelli della generazione successiva a Bernini, Borromini e Pietro da Cortona, riesce subito ad affermarsi per le sue fantasiose qualità di scenografo. Nel 1714 l’artista è a Messina, dove Vittorio Amedeo II di Savoia, re di Sicilia, ha modo di apprezzare le sue qualità artistiche. Al seguito del sovrano sabaudo lo Juvarra si reca poi a Torino, dove si guadagna anche la nomina a primo architetto di corte. Nel corso del lungo soggiorno torinese egli mette ulteriormente a punto la propria tecnica progettuale, tanto da conseguire una solida fama anche a livello europeo. Viene invitato in Portogallo (1718), a Parigi (1719), a Londra (1720) e ovunque realizza progetti nei quali invenzione e monumentalità riescono sempre a sposarsi con grande naturalezza. Nel 1735 il re di Spagna Filippo V di Borbone lo chiama a Madrid affinché progetti il nuovo Palazzo Reale che, a causa della morte improvvisa (1736), viene poi costruito dal torinese Giovanni Battista Sacchetti. IL DISEGNO - Disegnatore eccellente e instancabile (solo nei quattro album delle collezioni torinesi di Palazzo Madama sono conservati 542 disegni), Filippo Juvarra utilizza il linguaggio grafico in tutte le sue accezioni: dal veloce schizzo d’ambiente al bozzetto per una scenografia teatrale, dal perfetto disegno tecnico di progetto alla fantasiosa veduta prospettica d’insieme. Nello Studio di architettura del Metropolitan Museum di New York, ad esempio, l’artista presenta la prospettiva dell’ampio ingresso monumentale di un palazzo classicheggiante. Su un leggero schizzo di partenza in grafite Juvarra ripassa velocemente a penna con inchiostro bruno, acquerellando successivamente per dare corpo alle membrature architettoniche e conferire uno scenografico effetto di chiaroscuro all’insieme. Basilica di Superga Il Piemonte di Vittorio Amedeo II è, fra gli Stati italiani della prima metà del Settecento, uno dei più potenti e meglio organizzati. Torino riceve quindi un forte impulso di espansione, la qual cosa porta a un totale ridisegno della città che, nel giro di pochi anni, si arricchisce di una viabilità più scorrevole e ordinata, sulla quale si affacciano palazzi fra loro estremamente omogenei per stile e dimensioni. È in questo contesto generale che si inserisce l’opera di Juvarra, che nel 1717 inizia la costruzione della grandiosa Basilica di Superga. Si tratta di un edificio monumentale posto sulla sommità dell’omonima collina, al margine orientale della città, in una particolarissima collocazione paesaggistica a quasi settecento metri di altitudine, su un rilievo che domina panoramicamente tutta Torino, tanto che anche dalla città il profilo inconfondibile della basilica si pone come un preciso e ben riconoscibile punto di riferimento urbanistico. Il complesso della basilica è un organismo architettonico di grande complessità e suggestione, che i Savoia vollero erigere in ricordo delle recenti vittorie sulla Francia (1706) e nella cui cripta, riadattata successivamente a mausoleo, si custodiscono le tombe monumentali di molti re e duchi di casa Savoia, quasi a ribadire lo stretto rapporto intercorrente tra la famiglia e la città. L’enorme fabbrica si articola attorno a una chiesa a pianta centrale, sormontata da un’imponente cupola di gusto michelangiolesco e preceduta da un alto e maestoso pronao a pianta quadrata. Quest’ultimo, ripreso volutamente da quello romano del Pantheon, è delimitato da otto colonne a fusto liscio con capitelli corinzi. La parte posteriore della chiesa, che si dilata in un profondo presbiterio, è inglobata nel retrostante convento, a sua volta organizzato attorno a un vasto cortile rettangolare porticato sui quattro lati. Due massicci campanili gemelli affiancano il corpo cilindrico della chiesa, come se si trattasse di uno sfondo teatrale contro il quale l’intera basilica si proietta. La grande abilità di Juvarra sta nell’aver saputo fondere senza forzature temi architettonici estremamente diversi. Si va, infatti, dal grandioso pronao classicheggiante alla slanciata cupola rinascimentale, fino ai campanili barocchi di derivazione borrominiana. L’effetto che ne consegue è, ancora una volta, di tipo fortemente scenografico, prodotto dal continuo e armonioso alternarsi di superfici murarie curve (come il tamburo della cupola, scandito da otto alti finestroni centinati) e piane. Queste ultime, infine, vengono ulteriormente differenziate dal susseguirsi, al loro interno, di spazi semiaperti (come il pronao colonnato) o compattamente murati (come le pareti laterali del convento). Palazzo Madama L’opera di rinnovamento edilizio e urbanistico di Torino prosegue con la costruzione di Palazzo Madama, che Juvarra intraprende a partire dal 1718 e conclude nel 1721 con la realizzazione del solo corpo avanzato (avancorpo) su piazza Castello. Il monumentale edificio venne commissionato all’architetto da Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, consorte di Carlo Emanuele II e, in quanto tale, chiamata Madama Reale (da cui il nome stesso del palazzo). La costruzione, a semplice pianta gusto teatrale del tardo Barocco. Da questo atrio, definito al piano terreno da una complessa intersezione di volte a botte, si diparte a destra il grandioso Scalone d’onore che, con i suoi diciotto metri di larghezza, è sicuramente il più grande e sfarzoso d’Italia. Esso, ornato di rilievi e balaustre marmoree, si compone di una rampa principale che, a partire dall’ampio pianerottolo che la interrompe, si divide in due ulteriori rampe parallele il cui punto di attacco è simbolicamente presidiato da due giganteschi leoni in marmo bianco. Sul retro della reggia si estende anche un immenso parco. Per la sua realizzazione Vanvitelli dovette affrontare e risolvere molti problemi di tipo tecnico quali, ad esempio, l’approvvigionamento delle acque necessarie al funzionamento delle cascate artificiali e delle fontane. A tal fine, egli fu costretto a costruire anche un apposito acquedotto che si snoda attraverso la campagna per diverse decine di kilometri. Il modello del parco è evidentemente ispirato al Giardino di Versailles, realizzato nella seconda metà del XVII secolo dall’architetto paesaggista parigino André Le Notre per volere del re di Francia Luigi XIV. In corrispondenza del centro della facciata posteriore si diparte un lunghissimo viale interrotto da fontane, vasche e cascate artificiali, in una successione che sembra perdersi prospetticamente all’infinito. Lateralmente, immersi ora in fitti boschi, ora in rigogliosi giardini ornamentali, decine di vialetti minori (orientati ortogonalmente o a 45 gradi rispetto a quello principale) conducono ad altre fontane ornate di statue a soggetto mitologico, a una peschiera, al Giardino inglese con annesso orto botanico e al laghetto dei cigni. In questo modo ogni elemento naturale viene volutamente e profondamente modificato. Torrenti e ruscelli dal percorso tortuoso sono incanalati in vasche dalle forme perfettamente regolari, mentre anche gli alberi, i fiori e gli arbusti vengono piantati e disposti in base a rigorosi disegni geometrici e tenendo conto dei rispettivi periodi di fioritura. Anche nel Giardino inglese, il cui aspetto selvaggio richiama l’assoluta spontaneità della natura, ogni pianta è in realtà collocata secondo ben precisi progetti, nei quali le radure con finte rovine si dovevano alternare armoniosamente alle macchie, agli specchi d’acqua e alle serre per le piante esotiche. Il paesaggio che ne deriva è quello di un prezioso fondale di teatro, davanti al quale viene recitata la farsa continua della ricca vita di corte settecentesca. GIAMBATTISTA PIAZZETTA (1683-1754) Il XVIII secolo rappresenta per la repubblica di Venezia il periodo della massima decadenza politica ed economica. Questo stato di cose, non sembra apparentemente intaccare lo splendore e la magnificenza di una città che, anche se non è più la meta preferita di mercanti e banchieri, diventa in ogni caso la capitale mondana d’Europa. È in questo contesto di crisi generale e di contemporaneo desiderio di evasione che matura la personalità artistica di Giambattista Piazzetta, che nasce a Venezia nel 1683. Figlio di un intagliatore di discreta fama, Piazzetta riceve la sua prima formazione nella città lagunare, dove apprende l’uso di un chiaroscuro particolarmente tenebroso. Tra il 1703 e il 1705 si reca a Bologna. Qui approfondisce lo studio dei Carracci e del Guercino,. Al rientro a Venezia inizia un’intensa attività professionale, che gli frutterà una buona fama anche in ambienti internazionali, nei quali si afferma soprattutto per la sua opera di grafico e illustratore. Già fondatore di una prestigiosa scuola di pittura, nel 1750 viene nominato primo direttore della scuola di nudo dell’Accademia, istituita proprio in quell’anno dal senato cittadino. Il 29 aprile 1754, si spegne, sempre nella sua amata Venezia. IL DISEGNO - Dall’esperienza bolognese l’artista matura un fortissimo interesse per il disegno. La tecnica prediletta è quella del carboncino o della pietra rossa lumeggiati a gessetto, con la quale realizza anche numerosi ritratti. Tra questi, il Suonatore di liuto fa parte di una serie di cosiddette «teste di carattere» o «teste al naturale», che il Piazzetta esegue fra il 1715 e il 1725. Il volto del giovane, caratterizzato da un sorriso quasi impercettibile, è lievemente ruotato verso l’osservatore e i lineamenti, delicati e regolari, sono delineati a carboncino e lumeggiati con tocchi di gessetto intorno agli occhi e al naso. Di grande semplicità e naturalezza appare infine il colletto, il cui candore contrasta con studiata evidenza rispetto al riccio del liuto e alla mano sinistra che lo impugna, resi mediante un marcato tratteggio incrociato. Nel 1745 l’artista si dedica alla realizzazione di un’edizione illustrata della Gerusalemme liberata, dove decide di abbandonare qualsiasi intento ritrattistico per dedicarsi all’evocazione di un’atmosfera serena e idilliaca. • San Giacomo condotto al martirio Nella tela con San Giacomo condotto al martirio, realizzata per la chiesa veneziana di San Stàe intorno al 1722/1723, Piazzetta si dimostra ancora legato ai modi della pittura seicentesca, con una forte e suggestiva prevalenza di tonalità scure e colori terrosi. La massiccia e drammatica figura del santo emerge dalle tenebre della scena in modo quasi caravaggesco, qua e là rischiarata da alcuni sapienti sprazzi di luce. Il carnefice, invece, che con una fune cerca di immobilizzare il vecchio apostolo, stenta a fuoriuscire dall’ombra, ma non per questo la sua azione appare meno decisa e violenta, con una torsione dell’intero corpo verso l’osservatore. Il santo martire, ancora non rassegnato al proprio destino, è rappresentato con lo sguardo rivolto al cielo, mentre sembra ancora voler proseguire il cammino, con i suoi scritti stretti al petto, incurante del laccio che, strappatagli la candida veste, gli sega ormai la pelle nuda. La potente modellazione della gamba rende bene l’idea di quel dinamico naturalismo che valse al Piazzetta l’appellativo di «gran maestro d’ombra e di lume». • Idillio sulla spiaggia Di tutt’altro tono, invece, è la tavolozza di Idillio sulla spiaggia, noto anche come Passeggiata in campagna, in quanto più verosimilmente ambientato sulle rive erbose del fiume Brènta. Dipinta con ogni probabilità fra il 1741 e il 1745, questa grande tela testimonia del cammino che l’artista ha compiuto alla ricerca di quel biondo «lume solivo» che andrà sempre più caratterizzando l’ultima fase della sua maturazione artistica. Abbandonato il cupo sovrapporsi delle ombre, infatti, la luce del sole penetra progressivamente fra i personaggi, ammorbidendone le forme e ingentilendone i caratteri. Anche i temi, nel frattempo, sono mutati, e all’ispirazione religiosa si sostituiscono sempre più spesso scene campestri e di genere, secondo modelli cari anche alla pittura olandese e fiamminga. Nell’Idillio, in particolare, i tre personaggi centrali (probabilmente due dame e un pastorello, che accenna loro maliziosamente con il pollice della mano sinistra) costituiscono una solida piramide di figure unificata da una luce dorata e rasserenante. Completano la scena la testa di una mucca, che pare curiosamente affacciarsi da destra, e – sul lato opposto, quasi per bilanciare la composizione – una terza figura femminile semisdraiata, con il capo dolcemente reclinato su un fianco. GIAMBATTISTA TIEPOLO (1696-1770) Giambattista Tiepolo, forse il più grande pittore del Settecento e l’ultimo esponente della scuola veneta, nasce a Venezia nel 1696 e muore a Madrid nel 1770. La sua esperienza artistica, dunque, copre quasi per intero l’arco cronologico di un secolo che, iniziato con gli ultimi sviluppi del Barocco e con il progressivo affermarsi del Rococò, finirà con il definitivo trionfo del Neoclassicismo. Figlio di un modesto mercante, frequentò fin da ragazzo molte botteghe di artisti, senza però mai avere un vero e proprio maestro. Nella sua arte, del resto, Tiepolo non si ricollega tanto ai suoi contemporanei quanto, alla tradizione cinquecentesca dei coloristi veneti e al Veronese. Già dai suoi esordi veneziani, intorno agli anni Venti del secolo, l’artista mette subito in evidenza la propria predilezione per i temi della luce e della prospettiva, che costituiranno i due principali punti di riferimento di una brillante carriera che, in pochi anni, lo porterà a decorare i palazzi e le chiese di mezza Europa. Egli lavora infatti a Milano (1731 e 1740), a Bergamo (1737-1739), dove affresca la Cappella Colleoni, a Würzburg, in Germania (1751-1753), e poi ancora a Venezia, a Verona, a Vicenza, a Padova, fino al definitivo trasferimento a Madrid, alla corte di re Carlo III di Borbone, nel 1762. Qui, giunto ormai all’apice della sua arte e della sua fama, conosce però l’amarezza di un rapido quanto immeritato declino. Il gusto neoclassico, infatti, sta ormai prendendo sempre più piede e la pittura del vecchio maestro incomincia a essere reputata inconsistente e sorpassata. IL DISEGNO - È già nella sterminata produzione grafica dell’artista (che si può meglio apprezzarne l’immediatezza espressiva che emerge con evidenza in Saturno, Cerere e amorino su nubi, tratto dai disegni del fiorentino Album Horne. In esso, con pochi tratti di penna e qualche veloce velatura ad acquerello, Tiepolo riesce subito a delineare figure dalle forme nitide e dai volumi immediatamente comprensibili. In tal modo i personaggi risultano subito caratterizzati sia per la composizione diagonale, che dà il senso di una collocazione sospesa, sia per l’espressività, in relazione al vecchio e pensoso Saturno. Le luci, abilmente ricavate con la interruzione della velatura bruna, conferiscono al disegno una straordinaria levità, quasi che la visione prendesse corpo fra le nebbie dell’Olimpo. IL QUADRATURISMO - Riprendendo gli spunti che già furono del Veronese, infatti, egli “sfonda” prospetticamente le pareti e i soffitti immaginando al di là di essi spazi luminosi e profondi, sempre popolati da una variopinta folla di personaggi scelti dal gran repertorio della mitologia classica. L’attenzione posta ai problemi prospettici è tale che, nel corso del secolo, alcuni artisti si specializzano nel cosiddetto quadraturismo. Tale tecnica, già presente fin dalla metà del Cinquecento e molto usata anche in epoca barocca, consiste nella rigorosa rappresentazione pittorica di forme architettoniche. Il termine deriva dalla definizione data dal Vasari, secondo il quale vengono dette «forme di quadro» tutte quelle che possono essere disegnate con squadra e compasso, del resto, quella settecentesca è sorretta dalle nuove scoperte matematiche e geometriche del periodo e, più che alla conoscenza della realtà e alla sua verosimile rappresentazione, essa tende alla trasgressione della realtà stessa, inventando scorci e punti di vista che, pur nel loro assoluto rigore geometrico, appaiono sempre e comunque al limite estremo della verosimiglianza, quasi a sfidare la natura. A tal fine anche Tiepolo nelle sue grandi opere si avvale spesso della preziosa collaborazione di uno dei migliori quadraturisti italiani del tempo. Si tratta di Gerolamo Mengozzi Colonna (Ferrara, 1688-Venezia, 1772), raffinato professore di disegno e scenografo di grande inventiva e di straordinaria abilità tecnica. • Banchetto di Antonio e Cleopatra Una delle più riuscite collaborazioni fra Tiepolo e Mengozzi Colonna è quella che risale agli anni tra il 1746 e il 1747 per la decorazione del Salone delle Feste di Palazzo Làbia, a Venezia. Giambattista vi affresca alcune scene tratte dalla storia di Antonio e Cleopatra. Esse sono immaginate come se si svolgessero nella sala contigua e risultano pertanto incorniciate da un arco a tutto sesto retto da colonne e pilastri scanalati (naturalmente solo dipinti). Nel Banchetto di Antonio e Cleopatra, sulla parete orientale, Tiepolo raffigura i due amanti ai lati opposti di una tavola riccamente imbandita. La complessa griglia prospettica predisposta dal Mengozzi Colonna necessita, per dare la giusta illusione, di due diversi punti di fuga. Il primo, relativo ai quattro gradini in primo piano (anch’essi solo dipinti), cade circa all’altezza dell’occhio dell’osservatore, mentre il secondo, corrispondente alle cornici architettoniche e al portico retrostante, risulta molto più basso. In questo modo si genera una visione dal sotto in su, al fine di meglio sottolineare la teatralità di una scena che si svolge su un piano rialzato e arretrato rispetto al vero pavimento del salone. Come già in Veronese, l’atmosfera dell’ambiente viene ricreata dando massimo rilievo con estrema puntigliosità sia l’ambiente sia i personaggi femminili. Si tratta di un atelier con sulla destra un gran tendaggio in pesante velluto verde a protezione dell’angolo riservato alle prove degli abiti. Al centro, atteggiata in un lezioso passo di danza, una giovane dama si sta specchiando rivolta verso l’osservatore. Seduta sulla sinistra, un’anziana inserviente dallo sgargiante abito rosso osserva la cliente alzando lo sguardo dal lavoro di cucito che tiene in grembo. A destra la sarta attende impettita, reggendo con delicatezza e orgoglio fra le mani il nuovo sontuoso abito color rosa corallo, coadiuvata da un’altra più modesta servente, arretrata di qualche passo. La luce appare smorzata, quasi trattenuta dal rivestimento bruno-rossastro delle pareti e dalla tenda di destra, e l’atmosfera che ne deriva suggerisce – come spesso negli interni longhiani – una calda ma un po’ soffocante intimità. • Lo speziale Lo Speziale, invece, viene ritratto nella sua caratteristica bottega mentre, chino sulla scrivania, è intento a compilare un registro. Al centro della scena un anziano aiutante controlla i denti di una paziente e a sinistra, in primo piano, un giovane servitore sta ravvivando il fuoco di un fornello. Lo sfondo è scandito orizzontalmente da una scaffalatura piena di albarèlli, i tipici vasi in ceramica che servivano nelle antiche farmacie per contenere le spezie e i preparati medici. Anche in questo caso Longhi, cantore attento di una città che gli sta morendo intorno, continua a essere affascinato dal piccolo orizzonte del quotidiano. In breve, però, la sua garbata maniera finisce per diventare ripetitiva, se non addirittura caricaturale, e comunque sempre meno fresca e spontanea, riprendendo con stanchezza temi già svolti e ricopiando spesso opere precedenti o spostando da una all’altra i personaggi meglio riusciti. IL VEDUTISMO TRA ARTE E TECNICA Con la definizione di vedutismo si è soliti indicare un particolare genere pittorico nel quale si rappresentano vedute prospettiche di paesaggi o di città riprese dal vero, come sempre più frequentemente si verifica sul finire del XVII secolo ma soprattutto e con maggior consapevolezza nel corso del XVIII. In questo periodo, del resto, la nascente cultura illuminista ha dato nuovo impulso allo studio della geometria e dell’ottica, il che ha consentito evidenti progressi anche nel campo della prospettiva e delle sue applicazioni. Il vedutismo settecentesco concentra pertanto la propria attenzione anche su soggetti architettonici cittadini nei quali, meglio che nei paesaggi, potevano essere messe in evidenza tecniche rappresentative tendenti a una restituzione sempre più scientificamente esatta e vicina al vero. LA CAMERA OTTICA Non è dunque un caso che proprio nel XVIII secolo giunga alla massima diffusione la cosiddetta camera ottica che, nota già verso la fine del Cinquecento, viene comunque perfezionata in modo tale da diventare di uso molto semplice e generalizzato. La camera ottica è, per certi aspetti, l’antenata della macchina fotografica in quanto, tramite un sistema di lenti mobili (obiettivo), proietta al proprio interno l’immagine capovolta del soggetto sul quale viene puntata. Solo che al posto delle lastre fotografiche, della pellicola o dei moderni sensori elettronici vi è, in relazione ai modelli, o un vetro smerigliato o direttamente il foglio da disegno sul quale ricalcare l’immagine proiettata. Il modello più completo di camera ottica consiste in una specie di armadio in legno trasportabile da due addetti a mezzo di stanghe, come se si trattasse di una portantina. Alla sommità della camera uno specchio, regolabile dall’interno per mezzo di un’asta metallica, proietta, su un foglio di carta, tramite un obiettivo, la veduta da riprodurre. Il vedutista, da parte sua, entra all’interno della camera e si siede al buio sul ripiano. L’immagine che gli appare proiettata sul foglio è la proiezione prospettica esatta del soggetto riflesso dallo specchio attraverso l’obiettivo, per cui, ricalcandola, sarà sicuro di aver ottenuto la rappresentazione più scientificamente simile all’originale. Un secondo modello di camera ottica che, per la sua maneggevolezza, può essere già definita “portatile” consiste invece in una cassettina di legno di dimensioni non superiori a quelle di una grossa scatola da scarpe. Non diversamente da una moderna macchina fotografica, tale camera era dotata di un obiettivo che, una volta puntato sul soggetto, lo rifletteva su uno specchio interno inclinato di 45 gradi, che a sua volta riproiettava il soggetto capovolto su un vetro smerigliato. Ponendo un foglio di carta sottile sul vetro e mettendosi all’ombra, o coprendosi con un panno nero per attenuare il riverbero della luce esterna, era possibile ricalcare per trasparenza l’immagine prospettica del soggetto prescelto. L’erudito veneziano Francesco Algarotti (1712-1764) scrive a tale proposito che, dal momento che nella camera ottica non entra «altro lume fuorché quello della cosa che si vuol ritrarre, la immagine ne riesce di una chiarezza e di una forza da non dirsi. Niente vi ha di più dilettevole a vedere e che possa essere di più utilità, che un tal quadro. E lasciando stare la giustezza dei contorni, la verità nella prospettiva e nel chiaroscuro, che né trovarsi potrebbe maggiore né concepirsi, il colore è di un vivo e di un pastoso insieme che nulla più». Tale entusiastica descrizione, del resto, può essere sperimentata ogni volta che si avvicina l’occhio al mirino di una macchina fotografica di tipo reflex, cioè dotata di uno specchio all’interno del mirino stesso. L’immagine che in tal modo si presenta, infatti, è la perfetta riproduzione prospettica della realtà che si sta inquadrando. A questo punto non è difficile comprendere come l’adozione generalizzata della camera ottica abbia mutato, se non addirittura stravolto, il modo di dipingere degli ultimi anni del Seicento ma, soprattutto e più diffusamente, del XVIII secolo. La perfezione della rappresentazione e la relativa semplicità del procedimento per ottenerla hanno fatto sì che l’attenzione degli artisti si potesse concentrare sempre di più su ciò che, in precedenza, era stato spesso tralasciato. È il caso delle architetture dal vero, ad esempio, che per la prima volta assumono la dignità di veri e propri soggetti artistici. Case, strade, chiese, piazze, canali, monumenti e rovine cessano di essere semplici sfondi sui quali si svolgono le azioni dei personaggi principali, ma diventano esse stesse protagoniste autonome. Affinché ciò avvenga, si abbandonano le finzioni ottiche e i trucchi scenografici cari alla tradizione barocca e si privilegiano visioni prospettiche il più possibile aderenti alla realtà. In questo modo il vedutismo, forte dell’ausilio tecnico delle camere ottiche, sale alla ribalta come uno dei generi pittorici più diffusi e amati del XVIII secolo. ANTONIO CANALETTO (1697-1768) Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, nasce a Venezia nel 1697 da una famiglia nella quale sia il padre sia, in seguito, uno dei fratelli, lavoravano quali scenografi e decoratori. La sua prima formazione artistica avviene pertanto sui modelli ormai consolidati di quel gusto rococò che, soprattutto nell’ambiente teatrale, aveva fatto dell’illusionismo prospettico uno dei generi artistici più diffusi e apprezzati. Nel 1719 Canaletto è a Roma dove, oltre a esercitarsi nel dipingere alcune rovine «vedute dal naturale», ha modo di entrare in contatto con il vedutismo fiammingo, allora diffuso in Italia soprattutto grazie a Gaspar van Wittel. A partire dagli anni Venti del Settecento Antonio Canaletto, abbandonata la tradizione scenografica familiare, inizia la sua carriera di vedutista specializzandosi soprattutto in quei soggetti “veneziani" dei quali diventerà, nel giro di un decennio, il massimo e più stimato interprete a livello internazionale. Venezia, infatti, nonostante la crisi politicoeconomica che la sta travolgendo, continua a essere uno dei più importanti crocevia culturali d’Europa, e l’arte di Canaletto si guadagna il favore della ricca e influente colonia inglese che abita nella città lagunare. I rapporti con la committenza inglese, affascinata dalla scientificità quasi illuminista delle vedute canalettiane, diventano sempre più stretti, tanto che nel 1746 l’artista si trasferisce a Londra da dove non ritornerà, salvo brevi interruzioni, che un decennio più tardi. Nominato (anche se non all’unanimità) membro d’onore dell’Accademia Veneziana (1763), Canaletto si spegne nella sua amata città natale il 20 aprile del 1768. IL DISEGNO - La prima attività veneziana dell’artista è testimoniata da un significativo Quaderno di disegni, oggi conservato a Venezia, presso il Gabinetto dei Disegni e Stampe delle Gallerie dell’Accademia, nel quale sono raccolte numerose vedute cittadine realizzate tra il 1728 e il 1735 con l’ausilio di una piccola camera ottica portatile. Nonostante lo stesso Canaletto li definisse scherzosamente scarabòti (cioè scarabocchi), si tratta di una preziosa raccolta di rigorosi disegni prospettici preparatori, spesso corredati anche di misure e annotazioni sulle caratteristiche e sui colori dei materiali. Nel foglio con lo schizzo di Venezia, Palazzo Foscari a Santa Sofia, ad esempio, in basso a sinistra si legge la scritta «còto bèlo chiaro» (cotto bello chiaro), che è una precisa informazione sulle tonalità da utilizzare nella successiva traduzione pittorica. Grazie a questi disegni, del resto, l’artista studiava anche la struttura geometrica delle sue vedute e l’esatta volumetria delle architetture. È il caso dell’olio su tela con il Campo dei Santi Giovanni e Paolo, oggi al Royal Collection Trust di Londra, per il cui schizzo preparatorio è stato necessario unire quattro fogli affiancati, ciascuno dei quali ricco di minuti particolari strutturali e decorativi. • Il Canal Grande verso Est Nel Canal Grande verso Est, dal Campo San Vio, un olio databile intorno al 1727, i temi del vedutismo canalettiano appaiono già perfettamente delineati e compiuti. Del dipinto si conoscono almeno altre tre repliche autografe, il che testimonia come, una volta realizzato un buon disegno di partenza con la camera ottica, l’artista potesse usarlo più di una volta, lasciando pressoché intatte le architetture e modificando solo la disposizione dei personaggi rappresentati (le cosiddette macchiette) e l’ambientazione atmosferica. La piccola tela rappresenta l’ultimo e più nobile tratto del Canal Grande, prima di confluire nel Bacino di San Marco. Il punto di fuga, molto decentrato sulla destra, è stato scelto per evidenziare al massimo i palazzi della riva sinistra, scorciando di conseguenza quelli sulla sponda opposta. A destra, quasi a bloccare il convergere delle linee prospettiche, Canaletto rappresenta una sottile porzione del cinquecentesco Palazzo Barbarìgo, dietro al quale si intravede quasi per intero la gran cupola barocca della Basilica di Santa Maria della Salute. La lunga teoria di edifici signorili della riva sinistra, invece, inizia con la grandiosa facciata rinascimentale di Palazzo Cornèr della Ca’ Granda, che si pone subito come quinta di contenimento dell’intera veduta. Il cielo azzurro, inondato di chiara luce mattutina, riempie quasi i tre quarti della tela, riflettendosi sulle calme acque del Canale, animate dalle attività quotidiane di gondolieri e barcaioli. Le novità del Canaletto, comunque, non si limitano al puro elemento tecnico della restituzione prospettica. Grazie all’impiego appropriato di colori puri di tonalità chiara, infatti, l’artista riesce a definire con estrema freschezza tutte le componenti della scena. Così anche le macchiette, pur essendo attentamente studiate negli atteggiamenti e altrettanto ben dettagliate nelle vesti, non cadono mai negli eccessi descrittivi comuni a molta pittura fiamminga di tema analogo, dimostrando di essere personaggi credibili all’interno di un’altrettanto credibile ambientazione. • Eton College Gli stessi concetti di fondo possiamo ritrovarli anche nella ricca produzione inglese di Canaletto. Ne è un esempio la veduta di Eton College, una tela databile intorno al 1754 e oggi conservata alla National Gallery di Londra. In questo dipinto l’artista rappresenta la monumentale cappella dell’antico (e tuttora esistente) college di Eton, nella contea britannica del Berkshire. La grandiosa struttura, rilevata come di consueto mediante la camera ottica, è vista dal fronte orientale, al di là del Tamigi. Essa emerge con evidenza dal compatta muraglia che cinge il Palazzo Reale di Torino. La composizione, equilibratissima, presenta nella metà superiore della tela uno smagliante cielo estivo, con rade nuvole che si addensano verso i rilievi all’orizzonte. La parte inferiore è a sua volta suddivisa fra le mura del castello sabaudo, con il possente torrione angolare, e – solcato da un fossato difensivo – l’ampio e solatìo spazio erboso dei Giardini Reali, sulla destra. Rispetto alle macchiette del Guardi i personaggi che popolano le vedute di Bellotto sono tratteggiati con maggior finezza, ciascuno intento alle proprie faccende (dalle lavandaie che stendono il bucato agli operai che provvedono alla manutenzione delle mura) e tutti concorrendo alla complessiva veridicità della veduta. Cosicché al puntuale riscontro delle architetture si aggiunge anche il quotidiano pulsare della vita che le anima. • Nella tela con la Veduta di Torino dai Giardini Reali, una delle tante che Bellotto dedica anche alle città italiane – costituendo un importante e affidabile repertorio di riferimento per tracciarne la storia –, l’artista rappresenta la compatta muraglia che cinge il Palazzo Reale di Torino. La composizione, equilibratissima, presenta nella metà superiore della tela uno smagliante cielo estivo, con rade nuvole che si addensano verso i rilievi all’orizzonte. La parte inferiore è a sua volta suddivisa fra le mura del castello sabaudo, con il possente torrione angolare, e – solcato da un fossato difensivo – l’ampio e solatìo spazio erboso dei Giardini Reali, sulla destra. Rispetto alle macchiette del Guardi i personaggi che popolano le vedute di Bellotto sono tratteggiati con maggior finezza, ciascuno intento alle proprie faccende (dalle lavandaie che stendono il bucato agli operai che provvedono alla manutenzione delle mura) e tutti concorrendo alla complessiva veridicità della veduta. Cosicché al puntuale riscontro delle architetture si aggiunge anche il quotidiano pulsare della vita che le anima. • Veduta di Vienna dal Belvedere Il dipinto con la Veduta di Vienna dal Belvedere fa parte di una serie di tredici vedute della capitale austriaca e dei castelli imperiali che l’artista realizzò su commissione dell’imperatrice Maria Teresa, sua grande estimatrice. Rappresenta una veduta panoramica della città presa dal Belvedere Superiore, lo sfarzoso padiglione per le feste che il principe Eugenio di Savoia aveva fatto erigere nel giardino della sua residenza estiva tra il 1721 e il 1723. A destra si può notare parte del giardino stesso, suddiviso in tre terrazze ornate da aiuole, vasche e fontane e, sullo sfondo, la bassa e lunga facciata posteriore del palazzo del Belvedere Inferiore, ove erano gli appartamenti residenziali. La metà inferiore sinistra del dipinto è riempita dal laghetto artificiale del giardino di Palazzo Schwarzenberg, la cui costruzione compatta biancheggia in lontananza. Ai limiti estremi della tela si fronteggiano le cupole barocche della Chiesa di San Carlo (1717-1737), a sinistra, e del Convento delle Salesiane (1717-1728), a destra. Al centro si staglia contro il cielo rosaceo del tramonto la gran mole della cattedrale gotica di Santo Stefano. La veduta appare molto dettagliata, evidentemente preparata con il supporto tecnico della camera ottica. Si notano però alcune distorsioni prospettiche che l’artista ha inserito per “correggere" la visione reale, al fine di conferire alla scena una sensazione di maggior compattezza e armonia. Le due cupole, infatti, sono fra loro più vicine di come appaiono dal vero e anche la cattedrale è posta maggiormente in primo piano rispetto a quanto realmente si vedrebbe dal Belvedere. L’intento del Bellotto è dunque duplice. Accanto alla volontà documentaria, legata al gusto dei suoi committenti, vi è anche quella di affinare la conoscenza delle città che raffigura interpretandone lo spirito in modo sempre più personale e approfondito. Come un ritrattista non si limita all’aspetto fisico del personaggio che dipinge ma, al contrario, cerca di indagarne e metterne in evidenza anche le qualità interiori, così il Bellotto interpreta e modifica le sue vedute al fine di renderle più vivaci e coinvolgenti. L’artista matura dunque la convinzione che l’atmosfera di una città non può più essere compresa limitandosi a utilizzare i freddi strumenti della camera ottica e della prospettiva geometrica. Ecco allora che anche la pittura di paesaggio cerca di recuperare un proprio spazio interpretativo, sollecitando gli spettatori sul piano delle emozioni e dei sentimenti. PITTURA AL DI LA’ DELLE ALPI Tutta la pittura francese del Settecento è attraversata dall’esperienza del Rococò, di cui la Versailles di re Luigi XV rappresentava il principale centro di elaborazione e diffusione. Questa nuova tendenza artistica, germogliata – come si è visto – nell’ultima fase del Barocco, tende in breve a imporsi anche come modo di vivere e di pensare. Ecco allora che non solo in Francia, ma anche nel resto d’Europa, lo sfarzo e la ricercatezza della vita di corte diventano la misura, oltre che di tutte le arti figurative, anche della musica, della letteratura, dell’arredamento e, più in generale, della moda. JEAN-ANTONIE WATTEAU (1684-1721) Una delle personalità che meglio incarna il senso profondo della cultura rococò è Jean- Antoine Watteau, nato nel 1684 a Valenciennes, nella Francia settentrionale, e morto a Parigi nel 1721. Figlio di un agiato carpentiere, inizia il proprio tirocinio artistico presso alcuni pittori della cittadina natale, maturando un precoce interesse per la scenografia e gli apparati teatrali. Intorno al 1702 si reca a Parigi, dove frequenta gli ambienti degli antiquari e degli editori, avvicinandosi nel contempo allo studio di Rubens e del colore veneto. Nel 1717 è ammesso all’Accademia Reale di Pittura e ciò contribuisce a inserirlo più autorevolmente nel variegato panorama dei salotti culturali parigini. I temi preferiti della sua pittura, in armonia con il gusto aristocratico del tempo, sono quelli legati al genere da lui stesso inventato delle «feste galanti», scene a forte carattere teatrale, ambientate nella dimensione di un’Arcadia senza tempo, dove le occupazioni prevalenti sembrano essere la musica, la danza e le galanterie amorose. Nei paesaggi non meno che nei personaggi, infatti, trionfano soprattutto la grazia e la leggiadria, ulteriormente impreziosite con «la precisione del disegno, la verità del colore, e una sottigliezza di tocco inimitabile», nelle quali «si scorge una gradevole mescolanza di serio, di grottesco e di bizzarrìe della moda francese vecchia e nuova». IL DISEGNO - La Donna seduta, oggi al Metropolitan Museum di New York, documenta una tecnica disegnativa molto sicura, con linee di contorno nette e sottili, senza ripassi né pentimenti. La forte espressività del volto e il vivace realismo della postura derivano da un efficace effetto di chiaroscuro ottenuto con tratteggi radi e veloci, impreziositi dalla bicromia delle matite rossa e nera, con qualche accesa lumeggiatura in gessetto soprattutto in corrispondenza dei seni, del collo, delle tempie e dei secchi panneggi della veste. • Pellegrinaggio all’isola di Citera Per essere ammesso all’Accademia Reale di Pittura, Watteau presentò questo Pellegrinaggio all’isola di Citèra, un olio nel quale appaiono già delineate tutte le sue tematiche. Il rimando colto alla mitica isola greca presso le cui sponde nacque Afrodite, la dea dell’amore, allude con sottigliezza a una festa galante, nella quale giovani dame e spensierati cavalieri sono impegnati nelle loro schermaglie amorose. A destra, presso una statua di Venere che due amorini agghindano di fiori, cinque coppie di amanti rappresentano con atteggiamenti scherzosi le varie fasi del corteggiamento, sotto gli occhi compiaciuti di altri amorini festanti. A sinistra, ai piedi della collinetta, seminascosto tra la vegetazione della riva, si intravede – immerso in una vivida luce rosata – il grande vascello dorato che porterà l’allegra comitiva all’isola dell’amore. Tutt’intorno è un lieto affaccendarsi di amorini, in una tersa atmosfera primaverile, mentre i contorni del paesaggio si perdono nel tenue sfumato dell’orizzonte. JEAN-BAPTISTE-SIMEON CHARDIN (1699-1779) Nato a Parigi nel 1699, Jean-Baptiste-Siméon Chardin svolge nella capitale francese l’intero arco della sua vita, morendovi nel 1779. La sua non fu una formazione accademica e, fin dall’inizio, egli preferì ai soggetti storici e allegorici la misura più intima e quotidiana della natura morta, della quale divenne in breve uno dei maggiori esponenti francesi. A partire dagli anni Trenta del secolo, infine, il repertorio di Chardin si allarga al ritratto e alla pittura di genere, con speciale predilezione per scene di serena vita familiare ambientate in modesti interni borghesi. • Cestino di fragole di bosco Nella vivace natura morta del Cestino di fragole di bosco Chardin cala immediatamente l’osservatore nel suo ideale di pittura, fatto delle piccole cose di tutti i giorni. Su un massiccio tavolo di legno pochi oggetti sono disposti con grande rigore geometrico: al centro un cestino di vimini ricolmo di fragole di bosco accomodate a formare un cono quasi perfetto, a sinistra un bicchiere pieno d’acqua, a destra due ciliegie mature e una piccola pesca, al centro due garofani bianchi, lo stelo di uno dei quali sporge al di fuori del piano. La purezza della composizione, organizzata secondo le linee che delimitano il cumulo di fragole, fa assumere agli oggetti una dignità straordinaria e senza tempo. Il loro pacato realismo, sottolineato dall’uso di colori vividi e pastosi, allude a una realtà semplice e, in quanto tale, profondamente vera. «La sua maniera di dipingere è singolare», notava un suo contemporaneo, in quanto «egli pone i colori uno accanto all’altro, senza quasi mescolarli, cosicché le sue opere assomigliano un poco al mosaico». • Il castello di carte È comunque nei caldi interni familiari che l’artista riesce a esprimere il massimo della sua arte. Il castello di carte della National Gallery di Londra ne costituisce un esempio particolarmente significativo. Firmata e databile intorno al 1736/1737, la piccola tela rappresenta un fanciullo seduto a un tavolino da gioco intento a costruire con grande attenzione e diligenza un castello di carte. La scena, inondata di una placida luce calda proveniente da sinistra, dà l’idea di una rassicurante intimità. Il personaggio (forse uno dei suoi figli, che ricorrono anche in vari altri dipinti del periodo) è tratteggiato con finezza e affetto. Grande, soprattutto, è l’attenzione posta alla naturalezza dei gesti e alla resa dei particolari. Il ragazzo, infatti, è vestito secondo la moda aristocratica del tempo, completo di tricorno, con i lunghi capelli raccolti sulla nuca con un nastro azzurro. L’orecchio e la guancia destra rosati, così come il dolce profilo del naso, alludono con tenerezza partecipe alla giovanissima età del personaggio e all’impegno che egli mette nel suo gioco solitario. I colori, tutti accordati sulle tonalità dei bruni, con la sola eccezione del panno verde del tavolino da gioco e del risvolto del bavero del ragazzo, conferiscono all’insieme un tono di pacata e rassicurante quotidianità. JEAN-HONORE FRAGONARD (1732-1806) Jean-Honoré Fragonard nasce nel 1732 a Grasse, in Costa Azzurra, da una famiglia di origine italiana. Già nel 1742 è però a Parigi, dove, a parte vari soggiorni in Italia e nei Paesi Bassi, risiederà fino alla morte, che lo coglie il 22 agosto 1806. Fin da giovanissimo egli si forma nell’ambiente della cultura rococò, guardando alle «feste galanti» di Watteau e al tenue colorismo di Chardin (del quale è anche allievo, pur se ventata di aria fresca favorita dall’espansione del cartesiano cogito ergo sum («penso, quindi esisto») a tutte le branche del sapere e dall’orgogliosa rivendicazione del pensiero come prerogativa indispensabile per la comprensione della realtà. Il simbolo del periodo è la lanterna, chiamata a rischiarare le tenebre dell’ignoranza, a dipanare le nebbie della superstizione e dei pregiudizi, per guidare l’uomo lungo i nuovi sentieri della conoscenza aperti dalla ragione. Una sete di conoscenza che nel 1751 inizia a trovare appagamento con l’uscita del primo volume dell’Encyclopédie, diretta da Denis Diderot e Jean-Baptiste D’Alembert, volta a offrire un compendio universale del sapere in chiave laica e moderna. La lanterna accesa dai filosofi illuministi punta verso terra, non verso il cielo, allo scopo di spingere l’uomo a concentrarsi sulle cose terrene, a liberarsi dai dogmi per approfondire la conoscenza del mondo che lo circonda, per interrogarsi sulle dinamiche che sovrintendono alla comunità in cui vive, per riconsiderare il rapporto tra potere politico e volontà divina sul quale affonda le sue radici l’istituzione monarchica. In tale ottica la religione diventa una questione soggettiva e non più un valore universale da osservare in obbedienza a un preordinato principio di autorità. Separata rigorosamente dalla ragione e lasciata a disposizione della coscienza individuale, la fede è ridimensionata a una faccenda privata, da professare con spirito di apertura e tolleranza verso il prossimo. Obiettivo del movimento illuminista è operare una netta separazione tra presente e passato, recidere il filo diretto che fino ad allora ha tenuto il moderno strettamente legato con l’antico. Nuovi stili, nuovi generi, nuove tematiche si impongono in arte, letteratura, musica e teatro. I canoni del passato vengono rielaborati in un’ottica di recupero ma non di continuità. È ciò che avviene con il Neoclassicismo, declinazione artistica degli ideali illuministi, dove l’ammirazione per l’Antichità greca e romana si traduce nell’elaborazione di modelli architettonici razionali, ispirati all’equilibrio e alla regolarità delle forme, lontani dalla sfarzosità del Barocco e più attenti al tessuto urbanistico che li circonda. Un’attenzione che trova riscontro nell’arte figurativa, impegnata a rappresentare i nuovi valori politici e civili di una società in rapida evoluzione. Con l’Illuminismo tutto cambia. La riforma del melodramma cambia la musica; il superamento della tradizionale separazione fra tragedia e commedia cambia il teatro; l’affermazione del romanzo realistico su quello cavalleresco cambia la letteratura. Ovunque va in scena la realtà quotidiana con i suoi problemi e le sue speranze. Una realtà in cui le persone comuni diventano padrone della scena, mentre i potenti sono non di rado relegati sullo sfondo. Le nozze del valletto Figaro, messe in scena da Wolfgang Amadeus Mozart, e la sferzante satira sociale che le accompagna vengono applaudite nelle corti europee, a testimonianza del nuovo clima di tolleranza che spinge i nobili a entrare in sintonia con il pensiero illuminista. I sovrani “assoluti” («sciolti», secondo l’etimologia del termine, dai vincoli di una legge da loro stessi incarnata) si trasformano allora in “despoti illuminati”, intenti a modernizzare e razionalizzare l’apparato di uno Stato avvertito come un anacronistico retaggio feudale da un ceto borghese oramai pienamente consapevole del proprio ruolo. I tempi del sovrano e i tempi del borghese però non coincidono. Il sovrano marcia al passo lento delle prudenti riforme, il borghese corre incontro all’esigenza di cambiamenti rapidi e profondi, volti a favorire una più equa redistribuzione delle ricchezze e a scardinare la rigidità dell’ordinamento sociale a vantaggio di una maggiore mobilità; l’antica stratificazione per ceti fondata sulla nascita sta per cedere il posto alla stratificazione per classi, fondata sul denaro. Nello spazio di un decennio, in America come in Francia, la borghesia sale in cattedra, detta le nuove regole, sperimenta soluzioni alternative che stravolgono assetti secolari. Con la Rivoluzione americana il concetto di uguaglianza trova, dopo una lunga elaborazione teorica, piena espressione sul piano politico. «Tutti gli uomini sono creati uguali. Il Creatore li ha dotati di alcuni diritti che nessuno può loro togliere, come il diritto alla vita, il diritto alla libertà, il diritto alla ricerca della felicità»: così si legge nella Dichiarazione di indipendenza firmata il 4 luglio 1776, che sancisce insieme la separazione delle colonie americane dalla corona britannica e istituisce un principio di validità generale: «I governi sono stati istituiti tra gli uomini per assicurare tali diritti. Quando un governo si oppone al raggiungimento di questi scopi, il popolo ha diritto di cambiarlo o di abolirlo». Risuona in queste parole l’eco delle riflessioni filosofiche di John Locke (1632-1704), che aveva appoggiato la rivoluzione inglese del 1688-1689 legando la legittimità di ogni governo al consenso espresso dai governati e aveva sostenuto la necessità di una separazione dei poteri dello Stato a garanzia della libertà personale dell’individuo. La solenne dichiarazione formulata dai coloni americani riecheggia potentemente oltre oceano, trovando non a caso pieno riconoscimento nel Paese dove più che altrove è maturata la spinta al cambiamento. Sotto molti aspetti la Rivoluzione francese appare un’estensione di quella americana, i cui principi sono ampiamente accolti e sintetizzati nella fortunata formula «Liberté, egalité, fraternité». Sul terreno di un comune afflato ideale, le differenze tra le due rivoluzioni, francese e americana, appaiono tuttavia chiare. Non si tratta solo di differenze legate alle strutture organizzative dei due nuovi Stati: federalista in America, centralista in Francia. Anche il riconoscimento del principio della separazione tra Stato e Chiesa trova differente applicazione sulle due sponde dell’Atlantico. Se in Francia, in sintonia con gli ideali illuministi, esso pone fine all’ingerenza della Chiesa nella vita dello Stato limitando il raggio d’azione ecclesiastico alla sola dimensione spirituale, in America, quasi all’opposto, l’obiettivo è quello di proteggere il principio della libertà religiosa e limitare l’invadenza dello Stato in materia di religione. Più in generale, la convinzione di avere fissato principi validi per tutta l’umanità anima le aspirazioni dei rivoluzionari francesi di un anelito assai più ampio rispetto a quello espresso pochi anni prima dai coloni americani. La fede incrollabile nella ragione, che aveva animato lo slancio rivoluzionario, entra in crisi con la crisi stessa della Rivoluzione, la sua involuzione violenta (il Terrore) e i tanti eccessi compiuti in nome degli ideali rivoluzionari. Si assiste così, nel giro di pochi anni, a un cambiamento di clima culturale, a un ripiegamento verso ragioni più intime, individualistiche, private. Già sul finire del Settecento, in Germania inizia a prendere forma un movimento culturale incentrato sulla valorizzazione degli aspetti più irrazionali e impetuosi dell’animo umano. La potenza assoluta e incontenibile della natura, intesa come organismo vivente, diventa oggetto di mitizzazione e di ispirazione artistica, nonché specchio degli istinti e delle passioni che contraddistinguono ciascun individuo. È questo il terreno sul quale muove i primi passi il Romanticismo, una nuova corrente di pensiero destinata a diffondersi nell’Europa del XIX secolo e a riportare l’equilibrio nel rapporto tra ragione e sentimento. Con il Romanticismo la lanterna del letterato e dell’artista si sposta dalla terra verso l’alto, alla ricerca di nuovi punti di riferimento, percepibili più con il cuore che con il cervello. Al processo di “scristianizzazione”, perseguito con rivoluzionaria determinazione, il Romanticismo sostituisce la rivalutazione del cristianesimo e la stabilità generata da una rinnovata alleanza fra trono e altare. Il periodo della Restaurazione, seguito al crollo dell’impero napoleonico, saprà far tesoro di tali aspirazioni ideali. All’universalismo culturale del mondo greco-romano esaltato dal Neoclassicismo, il Romanticismo preferisce il particolarismo del periodo medievale in cui si rispecchia la giovinezza dell’Europa. Un’Europa fatta di popoli, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, il proprio territorio: siamo agli albori di quell’idea di Nazione che segnerà l’intero corso del XIX secolo. Con il Romanticismo anche lo Stato recupera una dimensione assoluta. Non si tratta però del modello assolutista che ha caratterizzato l’Ancien Régime, ma di quello Stato etico immaginato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) e chiamato a svolgere una missione educativa nei confronti della società. Uno Stato inteso come momento superiore in cui lo spirito del popolo si incarna nella nazione e la morale collettiva si impone sulle passioni egoistiche dell’uomo. Nello Stato etico, al dovere di obbedienza del singolo nei confronti del principe, il principe è chiamato a rispondere interpretando e realizzando i bisogni del cittadino. È nella partecipazione attiva alla vita dello Stato etico, nell’identificare il proprio interesse con quello della totalità, che l’uomo costruisce la propria libertà. Nell’immaginare un mondo caratterizzato da un continuo divenire, il pensiero di Hegel esercitò un forte ascendente su gran parte dei contemporanei, offrendo in particolare una preziosa base ideologica per lo sviluppo di correnti filosofico-politiche (la cosiddetta «sinistra hegheliana») che, in netta contrapposizione con l’ordine esistente, auspicavano una trasformazione, talvolta anche radicale, della società. Nella seconda metà del secolo la società europea andò in effetti incontro a un periodo di grandi trasformazioni. Mentre l’irresistibile diffusione dell’ideale nazionalista scuoteva le fondamenta dei grandi imperi e dei piccoli regni, mentre le principali potenze iniziavano a gettare lo sguardo oltre i propri confini, preparandosi alla conquista di interi continenti, dal connubio tra scienza e tecnologia prendeva origine una rivoluzione industriale in due tempi, dalla quale si sarebbero innescati profondi cambiamenti nel tessuto economico e sociale. Ancora una volta si trattava di una rivoluzione guidata dalla borghesia e destinata tanto a imprimere una potente accelerazione al progresso umano quanto a favorire, nel suo impetuoso divenire, la formazione di squilibri sociali evidenti, con lo sviluppo di un proletariato urbano e rurale soggetto a condizioni di pesante sfruttamento. La denuncia delle diseguaglianze, dello sfruttamento e delle ingiustizie passa, in prima istanza, dalla letteratura e dalla filosofia: parte dalla Francia un movimento letterario – strettamente connesso ai nuovi progressi della scienza e della tecnica e al nuovo clima “razionalista” inaugurato dal Positivismo – che si prefigge di fotografare la realtà sociale nella sua cruda verità: dal romanzo naturalista di Émile Zola (1840-1902) al Verismo (più conservatore) di Giovanni Verga (1840-1922), le classi sociali vengono fotografate e scandagliate con inaudita crudezza, nel loro vivere quotidiano, fatto di dura lotta per la sopravvivenza, di fatica e di sofferenza o al contrario di piccole e grandi vanità, di egoismi e meschinità. La ricerca di soluzioni a questi squilibri costituisce lo stimolo per la nascita di un articolato movimento di pensiero, riunito sotto il termine di «socialismo» e orientato a trasformare la società in senso egualitario. Nelle sue espressioni più estreme, in particolare nelle teorie elaborate da Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), il socialismo indica in quella borghesia che alla fine del Settecento aveva abbattuto i privilegi dell’aristocrazia la responsabile di nuove ingiustizie e nuovi privilegi. Interpretando il divenire storico come il ripetersi di lotte di classe, il marxismo individua nel confronto tra borghesia e proletariato (e nell’inevitabile vittoria di quest’ultimo) la suprema sintesi della dialettica della storia. L’eliminazione delle classi, la socializzazione dei mezzi di produzione e la distribuzione equa della ricchezza tra i membri della società avrebbero consentito all’uomo la realizzazione del comunismo, caratterizzato dalla completa attuazione degli ideali di giustizia, eguaglianza e libertà. A differenza dell’aristocrazia francese settecentesca, adagiata su anacronistici retaggi feudali, la borghesia europea della seconda metà dell’Ottocento è però una borghesia dinamica, produttiva, pienamente consapevole della propria forza e assai determinata a difendere la posizione egemonica conquistata nel mondo occidentale. Una borghesia protagonista del suo tempo e pronta a raccogliere la sfida lanciata dal movimento socialista. Quello che va in scena nell’ultimo scorcio del XIX secolo è solo l’inizio di un confronto destinato a tracimare, con tutto il suo peso, nel secolo successivo. Cap. 24 DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE ALLA RIVOLUZIONE FRANCESE L’ILLUMINISMO La seconda metà del Settecento e il primo ventennio dell’Ottocento sono periodi di grandi cambiamenti in vari campi della cultura e del sapere. La rielaborazione di alcune delle scoperte di Galileo Galilei (1564-1642) e di Isaac Newton (1642-1727), nonché la diffusione del pensiero scientifico anche fra i “non addetti ai lavori” avevano prodotto in molti la convinzione che la scienza avrebbe finalmente potuto recare la felicità agli uomini. Tale idea era anche rafforzata dalla realizzazione di nuove macchine che aumentavano a ritmo vertiginoso la produzione ed erano in grado di assi diagonali lo affiancano. Altrettante ampie gradinate coperte da volte a botte immettono in un immenso spazio coperto da una cupola emisferica il cui oculo sommitale, a imitazione di quello del Pantheon, consente alla luce di entrare. Il cono luminoso che ne consegue, che si sposta al variare della posizione del sole durante l’arco del giorno, diffonde chiarore, come in un titanico palcoscenico, sull’ampio doppio colonnato circolare, situato al centro del grande invaso cupolato, con le statue degli uomini illustri. All’esterno la cupola è interamente nascosta alla vista dalle alte pareti del perimetro quadrato e da un anello colonnato di rinfianco che sembra un tamburo in attesa di essere esso stesso sormontato da un’ulteriore cupola. Il rapporto di 4:1 lega la larghezza della struttura a pianta quadrata e l’altezza complessiva dell’edificio calcolata al livello del coronamento colonnato. Il Cenotafio di Newton Il Cenotafio di Newton è costituito da un’immensa sfera cava sorretta da un terrazzamento che ha la funzione di assorbire le spinte eventuali della metà superiore e di sostenere nel contempo l’emisfero inferiore. Come in un mausoleo imperiale romano (quello circolare di Augusto, ad esempio, secondo la descrizione del geografo Strabone), l’immane e insolito edificio è circondato da tre anelli concentrici di cipressi allineati. L’interno, occupato dal solo sarcofago commemorativo, avrebbe offerto grandiose visioni: un cielo stellato durante il giorno (per l’esistenza di aperture sulla calotta che avrebbero filtrato i raggi del sole che, nel suo moto apparente dall’alba al tramonto e in base al periodo dell’anno, avrebbe acceso o spento le varie costellazioni, come se queste stesse sorgessero o tramontassero); un effetto diurno, invece, durante la notte, quando il sarcofago, collocato sulla sommità di un basamento tronco- piramidale, sarebbe stato illuminato dalla luce emanata da un grandissimo globo a forma di sfera armillàre sospeso nel centro della ciclopica cavità. In questo modo all’interno del cenotafio veniva ricreata una copia – o modello – dell’universo le cui leggi erano state rivelate agli uomini proprio da Newton, attraverso la teoria della gravitazione universale. GIOVAN BATTISTA PIRANESI (1720-1778) Nel bel mezzo del Neoclassicismo, quando la tesi prevalente fra i più era che la purezza dell’arte fosse stata raggiunta solo dagli antichi Greci e che i Romani l’avessero corrotta, un veneto trapiantato a Roma dall’età di vent’anni manifestava idee completamente diverse. Giovan Battista Piranési (Moiàno di Mestre, 4 ottobre 1720 - Roma, 9 novembre 1778) era infatti dell’opinione che i Romani non dovessero nulla ai Greci, ai quali anzi erano superiori. Infatti, nella sua opera teorica più significativa, Della magnificenza ed architettura de’ Romani (1761), cercò di dimostrare che l’architettura romana dipendeva solo da quella etrusca e aveva, pertanto, origini esclusivamente italiche. Educato a Venezia nel solco della tradizione architettonica lagunare, della scenografia e dell’amore per la lingua e la storia di Roma (alle quali ultime l’aveva introdotto il colto fratello Angelo, frate domenicano), Piranesi aveva raggiunto la Città Eterna nel 1740 e già nel 1743 aveva pubblicato la Prima parte di architetture e prospettive subito imponendosi come disegnatore e incisore di grandissime capacità tecniche. IL DISEGNO - Un disegno del 1745/1750 circa, con un Arco di trionfo delineato a penna e inchiostro bruno, su traccia di matita rossa, rivela l’esuberanza creativa e la padronanza dello strumento grafico da parte di Piranesi. La visione, un capriccio architettonico, si serve delle numerose linee sottili della penna, arricchite dall’acquerello, ora leggero, ora più denso, per definire un grande spazio superbamente scenografico. Un fondale architettonico, vagamente all’antica, costituisce il piano più arretrato contro il quale si staglia un arco di trionfo quadrifronte, carico di colonne, paraste, rilievi, statue, bandiere che ne costituiscono la complessa ed esuberante ornamentazione. All’arco si perviene attraverso una possente scalinata che si allarga verso il basso, dove è affiancata da due gruppi scultorei (raffiguranti dei prigioni accovacciati che sostengono delle sfere) fortemente rilevati dallo scurirsi del tono e dalla maggiore quantità dell’inchiostro depositato sulla carta. Della stessa qualità chiaroscurale gode anche la porzione di tempio periptero posta a destra che, insieme ai due gruppi scultorei, definisce con concretezza il primo piano. La stessa eloquenza, nutrita però da un gusto architettonico quasi stupefacente e con le radici profondamente affondate nello spettacolare del tardo Barocco, si rivela nelle serie delle Carceri, pubblicate nel 1749-1750, nel 1751 e nel 1761 circa. In queste straordinarie invenzioni Piranesi mette in scena un elevato numero di interni architettonici di fantasia. In essi, come ad esempio in Carcere VII, l’osservatore si perde rincorrendone i numerosi elementi (una scala elicoidale, ponti con oculi che ne forano il timpano, un ponte levatoio, passerelle, uno scalone monumentale, argani, funi sospese, grossi anelli di ferro, torrette, beccatelli, arcate, grate, figurette, nuvole di fumo) incapace, però, di formarsi un’idea credibile dell’architettura rappresentata. L’ANTICHITÀ RIVISITATA L’amore appassionato per le vicende artistiche romane e la presenza continua nell’Urbe quando il gusto per l’archeologia e l’Antico cresceva d’importanza, fecero dell’architetto-disegnatore veneto uno dei più profondi conoscitori delle vestigia classiche e della topografia romana. Non solo: la sua bottega produceva stampe e disegni di oggetti all’antica, che poi venivano realizzati e, al pari di tanti reperti (che la bottega di Piranesi commercializzava), venivano acquistati soprattutto da facoltosi viaggiatori stranieri, quali ricordi del Grand Tour. Così come Boullée rendeva la solennità delle forme semplici per mezzo di scenari grandiosi in cui l’uomo spariva, allo stesso modo Piranesi, attonito di fronte all’imponenza delle rovine di Roma, dava vita a un’archeologia visionaria (l’unica che potesse rievocare quel che non poteva più tornare) applicando l’identico tipo di rappresentazione grafica, una prospettiva ingegnosamente dilatata. In tal modo egli perviene a immagini improbabili e falsate nel documentare le meraviglie della tecnica costruttiva romana, come si verifica nell’incisione rappresentante le Fondamenta del Mausoleo di Adriano. Qui gli uomini piccolissimi (si vedano quelli in alto a destra su un blocco roccioso in bilico e quelli al centro, in basso, su un ampio ripiano) forniscono immediatamente i riferimenti metrici per i titanici blocchi di pietra. Allo stesso tempo il particolare scorcio prescelto lascia immaginare che proprio per le sue dimensioni colossali l’edificio sia tale da non poter essere in alcun modo rappresentato entro i limiti del foglio. Piranesi ha fiducia nella creatività e nella libertà artistica individuale. Perciò non si allontana del tutto dal Barocco e dal Rococò, di cui è, peraltro, un interprete sottile, né riesce ad accettare i principi del Neoclassicismo. A suo modo di vedere, infatti, il sottostare alle regole e ai codici classici avrebbe trasformato l’architettura da arte a semplice edilizia, riducendola a una piatta ripetitività di schemi e ornamenti. D’altra parte per Piranesi non esistono regole poiché, egli osserva, la fantasia e la creatività hanno modificato l’architettura e gli ornamenti con continuità nel corso dei secoli, tanto che neppure negli edifici classici è dato di riscontrare il rispetto delle regole: ciò che ha valore normativo per un edificio non necessariamente ne ha per un altro. In tal modo Giovan Battista è portato ad accogliere tutte le manifestazioni dell’arte dell’Antichità e a fonderle assieme in modo eclettico, specialmente nelle decorazioni, come appare, per esempio, dal disegno, ora al British Museum, raffigurante una Facciata fantastica di un edificio antico. Il foglio, preparatorio per un’incisione aggiuntiva (non pubblicata) del Parere su l’architettura, opera data alle stampe nel 1765, propone un assemblaggio di soggetti eterogenei, in parte ripresi dalla medievale Casa dei Crescenzi a Roma. Motivi ornamentali ed elementi costruttivi egizi, greci, etruschi e romani, per la maggior parte d’invenzione, alcuni ispirati, invece, a reperti antichi (per esempio le sfingi, derivate da capitelli conservati a Villa Borghese e nella collezione di Robert Adam, impiegate da Piranesi anche nella facciata di Santa Maria del Priorato di Malta), si combinano e si addensano così in un’architettura fantasiosa quanto bizzarra. Altre volte sono gli elementi decorativi (da sculture, architetture, pitture…) tipici di una determinata civiltà artistica a diventare parti di un manufatto (anche tecnologico) anacronistico, ma dal sicuro fascino. Abside di San Giovanni in Laterano Nel 1763 Piranesi – che sempre si definì architetto piuttosto che incisore – viene incaricato dal papa veneziano Clemente XIII Rezzònico (1758-1769) di modificare la zona absidale della basilica paleocristiana di San Giovanni in Laterano, edificio già trasformato da Francesco Borromini tra il 1646 e il 1649. Il progetto, che non ebbe seguito e che venne abbandonato nel 1767, forse perché troppo legato al gusto barocco, è noto attraverso disegni che illustrano diverse proposte. Quella mostrata prevede un’esedra – al di là dell’arco trionfale – composta da un doppio colonnato ulteriormente accresciuto da sei colonne nella porzione retrostante all’altare. Tale esedra, staccata dalla parete di fondo dell’abside, dà luogo a un ambulacro. Il gusto scenografico barocco avrebbe completato l’opera con una doppia fonte luminosa: una prima dovuta alle finestre dell’abside, una seconda, non visibile dalle navate, costituita da tre oculi (uno solo dei quali è visibile nella sezione) posizionati nella porzione di muro che fronteggia il catino absidale e che supera in altezza le navate e il transetto. La soluzione dello schermo traforato composto da colonne e situato fra il presbiterio e il coro si ricollega alle invenzioni cinquecentesche di Palladio per le basiliche veneziane di San Giorgio Maggiore e del Redentore nonché alla seicentesca Santa Maria della Salute di Longhena. Un’ispirazione lagunare, dunque, un omaggio al papa regnante, al nipote di lui, cardinale Giambattista Rezzonico – protettore di Piranesi – e alla città che aveva visto l’artista muovere i primi passi nell’arte dell’incisione e dell’architettura. Ma si tratta anche di una soluzione che si armonizza con l’intervento borrominiano e che, anzi, lo interpreta e lo conclude con quella fantasia decorativa tipica dell’architetto ticinese. D’altra parte proprio nel Parere su l’architettura, scritto mentre era impegnato nello studio per la sistemazione dell’abside di San Giovanni in Laterano, Piranesi loda l’inesauribile fantasia creatrice di Borromini (assieme a quella di Bernini) contro le opinioni di coloro che ritenevano che gli edifici dovessero essere costruiti secondo le regole dettate da Vitruvio. Santa Maria del Priorato Mentre ancora si occupava della basilica lateranense, nel 1764 il cardinale Giambattista Rezzonico, Gran Priore dei Cavalieri di Malta, incaricò Piranesi di restaurare la chiesa dell’Ordine sull’Aventìno, Santa Maria del Prioràto. L’architetto, che assieme alla chiesa si interessò alla creazione di una piazzetta a essa antistante, curò la progettazione fin nei minimi dettagli, come appare, per esempio, dal disegno della decorazione della volta della chiesa fedelmente rispettato nell’esecuzione. L’architettura ha il suo culmine nella fantasiosa macchina dell’altare. Preceduto da disegni preparatori, l’altare venne realizzato come una triplice sovrapposizione di sarcofagi, ornati con lunghe foglie lanceolate, rami di palma, girali d’acanto, mensole inginocchiate, cornucopie, ghirlande e l’apoteosi di San Basilio (protettore della prima chiesa che il Priorato ebbe nell’antico Foro Romano), portato in cielo da angeli in volo. Da tale progettazione derivò un edificio dove gli ordini architettonici classici sono rielaborati in modo eclettico, specie nella facciata che si mostra come una sorta di enciclopedia dell’ornamentazione, fantastica ma rigorosa al tempo stesso. Essa, infatti, appare come l’interpretazione di un fronte di tempio tetrastilo. Tuttavia, le paraste scanalate e rudentate, che accolgono delle lastre scolpite con spade rituali, non appartengono ad alcun ordine architettonico. Il capitello, infatti, è formato da sfingi affrontate e separate da una torre (le prime ispirate a modelli antichi di Villa Borghese e della collezione di Robert Adam, come ricordato per il disegno al British Museum; la seconda stemma della famiglia Rezzonico). La trabeazione è ridotta a due elementi: il fregio (con un motivo a meandro) e la cornice. Il rilievo del frontone è un insieme di simboli militari e religiosi. Il portale è affiancato da immagini simboliche (fra successivamente in modo negativo gli sviluppi dell’archeologia. Infatti, quando agli inizi dell’Ottocento Lord Elgin portò in Inghilterra i marmi del Partenone, non si volle credere che fossero di Fidia, reputandoli piuttosto rifacimenti di età romana, tanto furono ritenuti lontani dalla bellezza ideale classica e da quel che si credeva dovesse essere l’arte fidiaca; e ancora quando, nel 1877-1882, i frontoni del Tempio di Zeus a Olimpia furono riportati alla luce, vennero subito giudicati così deludenti da definirli arte secondaria e provinciale. Si faceva, cioè, molta fatica a riconoscere in queste sculture, capisaldi della plastica greca, quelle creazioni che erano state immaginate e sognate con gli occhi del Neoclassicismo. Winckelmann, d’altra parte, per tutta la vita non vide mai un originale greco, ma solo copie del tardo ellenismo romano e su esse fondò i propri principi interpretativi dell’intera arte greca. PENSIERI SULL’IMITAZIONE DELL’ARTE GRECA Nei Pensieri sull’imitazione dell’arte greca (1755) che, come si è già notato, costituisce la prima e già compiuta teorizzazione del Neoclassicismo, Winckelmann parte dal presupposto che il buon gusto aveva avuto origine in Grecia e che tutte le volte che si era allontanato da quella terra aveva perduto qualcosa. La grandezza artistica era, perciò, peculiarità dei Greci. Pertanto «l’unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi». L’imitazione alla quale allude Winckelmann è – naturalmente – cosa ben diversa dalla copia: imitare, infatti, vuol dire ispirarsi a un modello che si cerca di uguagliare ed è, pertanto, all’origine di nuove creazioni. Copiare è invece azione fortemente limitativa, in quanto prevede la realizzazione di un’opera identica in ogni parte al modello, l’originale. «NOBILE SEMPLICITÀ E QUIETA GRANDEZZA» Per la scultura Winckelmann consiglia di imitare l’Antinoo del Belvedere e l’Apollo del Belvedere, due fra le opere più ammirate delle collezioni pontificie e che i facoltosi viaggiatori stranieri del Grand Tour amavano far collocare negli sfondi dei dipinti che li ritraevano. Infatti nell’Antinoo (copia marmorea da originale bronzeo di scuola prassitelica) Winckelmann vede «riunito tutto ciò che è sparso nell’intera natura»; mentre ritiene che dalla statua di Apollo (copia romana del 130 d.C. circa da un originale del 350-324 a.C. attribuito a Leochares) sia invece possibile «formarsi un’idea che superi le proporzioni più che umane di una bella divinità». Inoltre «tale imitazione insegnerà a pensare e a immaginare con sicurezza, giacché si troverà fissato in questi modelli l’ultimo limite del bello umano e del bello divino». Infine, considerando il gruppo del Laocoonte, Winckelmann definisce ciò che egli ritiene essere il carattere proprio di quella scultura e allo stesso tempo stabilisce il principio fondamentale a cui si conformerà ogni opera neoclassica: «la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata». Winckelmann sostiene, inoltre, che «più tranquilla è la posizione del corpo e più è in grado di esprimere il vero carattere dell’anima». Se è vero, perciò, che è più facile riconoscere l’anima nelle passioni forti e violente, tuttavia essa è grande e nobile «solo in istato d’armonia, cioè di riposo». Una scultura neoclassica, dunque, non sarà mai concepita in modo da esprimere intense passioni né rappresenterà il verificarsi di un evento tragico mentre accade. Nella composizione dei propri soggetti, pertanto, l’artista sceglierà sempre l’attimo successivo all’ardente turbamento emotivo e rappresenterà il momento che precede o segue un’azione tragica, quando il tumulto delle passioni o non c’è ancora o si è già attenuato. IL CONTORNO, IL DRAPPEGGIO Nelle opere degli Antichi Winckelmann riconosce come valori, oltre alla bellezza dei corpi, alla «nobile semplicità e quieta grandezza», anche il contorno e il drappeggio. Da ciò deriva il gusto neoclassico per i contorni ben definiti e per il disegno. Poiché ancora poco si sapeva della pittura greca e, comunque, ciò che si conosceva dagli scavi di Ercolano, Pompei e Roma era “non greco”, gli esempi da emulare per quel che concerneva la pittura erano indicati nelle opere di quei maestri che avevano operato nella Roma di papa Leone X, in particolar modo di Raffaello, il più “classico” fra gli artisti del Rinascimento. E proprio il Parnaso di Raffaello venne preso a modello dal tedesco Anton Raphael Mengs – «il più grande artista del suo tempo e forse anche dei tempi che verranno», come scriveva di lui Winckelmann – nel dipingere il medesimo soggetto per la volta del salone di Villa Albani nel 1761. L’opera, dal grande valore didattico in quanto rappresentativa della proto-pittura neoclassica e realizzata secondo le intenzioni di Winckelmann, riassume la concezione che il suo autore aveva della bellezza e che avrebbe sintetizzato nel 1762 nei Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura. Apollo, in un’attitudine che ricorda quella dell’Apollo di Leochares, è al centro della composizione circondato dalle Muse. Con la mano destra regge una corona di alloro, con la sinistra stringe a sé la lira. Mnemòsine, la madre delle Muse, siede a sinistra. Dietro Apollo il dio Scamandro è disteso mentre tiene rovesciato un vaso da cui sgorga l’acqua della fonte Castàlia, elargitrice di ispirazione poetica per chi se ne fosse dissetato. La scena è ambientata all’aperto e la composizione, simmetrica rispetto alla figura assiale del dio delle arti e della bellezza, vede i personaggi inclusi in un’ideale ellisse, mentre due circonferenze racchiudono il gruppo di destra e quello di sinistra. LE “ARTI MINORI” Il fascino dell’Antico pervade altresì la produzione di oggetti e di arredi, oltre che la moda. Di alta qualità sono anche i prodotti che, nell’età delle scoperte e dell’industrializzazione, vengono realizzati da manifatture, a metà fra artigianato e industria. È il caso, per esempio, delle porcellane francesi di Sèvres, e della fabbrica parigina Dagoty, nonché di quelle italiane della Real Fabbrica di Capodimonte (poi Ferdinandea) a Napoli e anche dei marchesi Ginori a Doccia (vicino a Firenze). Ed è il caso, in particolare, delle ceramiche inglesi Spode e Wedgwood che, alla ricerca di nuovi materiali e colori capaci di imitare pietre e marmi naturali, aggiungono un processo realizzativo che ricalca quello della divisione del lavoro, già da anni praticata nelle fabbriche britanniche. Infatti la realizzazione di un singolo oggetto non è più propriamente artigianale, ma frutto dell’azione di più maestranze specializzate in specifiche attività del ciclo produttivo, il che consente di mettere in commercio oggetti comunque raffinati, ma in molteplici esemplari, pertanto con un prezzo basso che ne consente la diffusione presso più ambiti sociali. I fondi rosa o verdi a disegno bianco, rossi a disegno nero, azzurri a disegno bianco, o semplicemente a monocromo grigio scuro imitano di fatto, anche se in chiave moderna e con nuove tecnologie di coloritura e cottura, la ceramica classica a figure nere e rosse. È il fondatore Josiah Wedgwood (1730-1795) a servirsi fin dall’inizio, per i disegni, di noti pittori e scultori. Fra i vasi più significativi sono senza dubbio da annoverare quelli (realizzati attorno al 1790 e ancora in produzione) che riproducono il Vaso Portland e il Vaso di Pegaso (per via del cavallo alato che ne orna la sommità del coperchio) detto anche dell’Apoteosi di Omero, eseguito attorno al 1786. In pasta celeste a imitazione del diaspro, quest’ultimo reca degli ornamenti in rilievo di pasta bianca che mostrano nel fronte il sommo poeta greco coronato di alloro mentre, alla presenza di quattro personaggi, si accinge a salire dei gradini, portando una grande lira. Nel verso una palma precede un tempietto con il simulacro di Atena. La delicatezza del panneggio e i contorni sicuri, assieme al candore delle figure monocrome, rispecchiano i principi del Neoclassicismo, configurando il vaso inglese come aggiornamento di un vaso attico. IL GRAND TOUR Tra i motivi che hanno preparato la strada alla cultura neoclassica, contribuendo a diffonderne poi gli esiti, e fra i motori che hanno mantenuto costantemente vivo l’attaccamento all’Antico, e alla città di Roma in particolare, è da collocare il viaggio di istruzione che, dagli inizi del Settecento, da tutta Europa (in particolare dal Nord e dall’Inghilterra, ma anche dalla Russia) portava nobili, alto borghesi, artisti, musicisti, scienziati e letterati a visitare l’Italia, soprattutto Roma, Firenze, Venezia, Napoli: il cosiddetto Grand Tour. Un viaggio di studio – integrazione e completamento della formazione – non meno che di piacere, che si intensifica nella seconda metà del secolo e che subisce un parziale arresto solo con le campagne d’Italia di Napoleone. Alle città più rinomate, dove era possibile studiare da vicino la scultura classica, affinando le proprie capacità di conoscitori, si affiancano le località più suggestive del Lazio, dell’Umbria e della Campania, costantemente visitate, raffigurate e descritte in resoconti e diari di viaggio. Successivamente alla pubblicazione – tra il 1781 e il 1786 – dei quattro volumi del Viaggio pittoresco o descrizione dei regni di Napoli e di Sicilia di Jean-Claude Richard, Abbé de Saint-Non, che a buon diritto fu subito considerata la “guida” più significativa del meridione d’Italia – una vera e propria “scoperta” del Sud –, anche la Sicilia divenne, con sempre maggior frequenza, una meta, una terra da percorrere. A Roma i viaggiatori, soprattutto aristocratici e ricchi collezionisti, visitavano non solo i musei e le antichità della città, ma per lunghi anni anche il laboratorio di Bartolomeo Cavaceppi, tra i maggiori restauratori di sculture classiche del suo tempo e possessore di una quantità notevole di reperti e di calchi. La sua casa- museo era un luogo di incontro di artisti e personalità internazionali. Alla data del 7 marzo 1788, Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) scriveva nel suo Viaggio in Italia (pubblicato in tre parti nel 1816, 1817 e 1829). I souvenirs che i viaggiatori portavano con sé, partendo da Roma, divulgavano le vedute delle antichità incentivando la produzione del micro mosaico, tecnica sviluppatasi nei laboratori vaticani, e la pratica delle copie di celebri sculture (realizzate in ogni dimensione e in molti materiali). Gli acquerelli, gli oli, i pastelli, le stampe serbavano il ricordo delle solenni vestigia romane e nelle case dell’aristocrazia e dell’alta borghesia europee entravano, assieme ai reperti di scavo – acquistati più o meno legalmente o provenienti da scavi finanziati dagli stessi collezionisti – ritratti che immortalavano i nobili viaggiatori al cospetto dei templi e delle più note sculture di quella che era stata la capitale di un impero e che si dimostrava ancora capace di stimolare le arti. ANTONIO CANOVA (1757-1822) il carattere semplice e riservato, la dedizione al lavoro, l’attaccamento a Roma – fonte continua d’ispirazione, meta d’ogni artista, luogo d’irraggiamento della cultura neoclassica – e la concezione dell’arte intesa come fonte di vita del più grande scultore che l’Italia abbia avuto dopo Donatello, Michelangelo e Bernini. Antonio Canova nacque a Possagno, nei pressi di Treviso, il primo novembre 1757. Figlio di uno scalpellino, fece il suo apprendistato a Venezia dove aprì uno studio nel 1775; nel 1779 si era trasferito già a Roma, ospite di Girolamo Zuliàn, ambasciatore della Repubblica Veneta. Nella città dei papi, dove seguì corsi di nudo all’Accademia di Francia, risiedette quasi per tutta la vita. Si allontanò da Roma solo per alcuni soggiorni nei luoghi natii, specie tra il 1798 e il 1799, a motivo della proclamazione della Repubblica romana e dell’esilio di papa Pio VI Braschi, e successivamente per alcuni viaggi di lavoro all’estero. In particolare per un incarico in Austria (1798 e 1805), per due primi viaggi a Parigi, nel 1802 e nel 1810, su chiamata dello stesso imperatore e per un terzo viaggio nella capitale francese dopo il Congresso di Vienna del 1815. In quest’ultima occasione era in veste di ambasciatore papale per ottenere la restituzione delle opere d’arte sottratte da Napoleone allo Stato Pontificio a cominciare dal 1797. Da Parigi raggiunse poi Londra per esaminare i marmi fidiaci del Partenone lì condotti dall’ambasciatore britannico, Lord Elgin. L’osservazione diretta di quei marmi greci lo induceva a compiacersi perché aveva avuto conferma di quanto propria bottega in modo da riservare a sé, oltre all’ideazione, solo la lavorazione finale della superficie, cioè l’attività creativa, mentre lasciava che gli aiuti svolgessero le funzioni meno importanti. L’artista, infatti, partendo dal disegno definitivo realizzava il modello in creta; gli assistenti traevano da questo il calco in gesso. Nei punti significativi del calco venivano infissi dei chiodini di bronzo, dei punti di riferimento (o repère, in francese). Si accostava infine il calco al blocco di marmo e, servendosi di fili a piombo che pendevano da una griglia collocata sopra il gesso, di un pantografo e guidati dai punti di riferimento, si cominciava a sbozzare la pietra. Il lavoro degli assistenti si arrestava quando solo pochi strati di materia separavano l’abbozzo dallo stato definitivo. A questo punto interveniva di nuovo Canova che conduceva l’opera a compimento secondo la propria sensibilità. Il modello in gesso con i repère e il metodo di lavoro della bottega canoviana consentivano di replicare la scultura quante volte lo si desiderava perché l’intervento iniziale e finale dello scultore garantivano sempre l’originalità dell’opera. Tutte le sculture di Canova sono condotte fino al sommo grado di finitura, levigate sino a che il marmo opaco non diventa totalmente liscio, traslucido, cioè quasi trasparente. È in questa estrema finitura del marmo che risiede la poetica di Canova, attento ai particolari oltre che alla resa complessiva e agli effetti di grande luminosità e tenue ombreggiatura. • Amore e Psiche Nel gruppo di Amore e Psiche che si abbracciano (commissionato nel 1787 dal colonnello inglese John Campbell, ma trattenuto dallo scultore che, terminatolo nel 1793, lo vendette solo nel 1800) Canova ha ripreso la favola narrata nel romanzo L’asino d’oro di Lucio Apuleio (libro VI). L’artista ha rappresentato un episodio della favola, quello in cui Amore rianima Psiche che, contravvenendo agli ordini, aveva aperto un vaso ricevuto negli Inferi da Proserpina e destinato a Venere. Infatti – come recita la traduzione di Agnolo Firenzuola del 1603, volume presente nella biblioteca di Canova – Psiche fu colta da «un sonno infernale […] il quale subito levato il coperchio se n’uscì fuori, e ingombratogli gli occhi, e tutte le altre membra d’una foltissima nebbia […] la fece ricadere in terra come morta». Canova ha fermato nel marmo un attimo che rimane sospeso: la tensione dei due giovani corpi che non si stringono, ma si sfiorano appena con sottile erotismo, mentre il dio contempla, ricambiato con la stessa dolce intensità, il volto della fanciulla amata, ognuno rapito dalla bellezza dell’altro. È l’attimo che precede il bacio, un contatto che sta per avvenire, che l’atteggiamento dei corpi e gli sguardi preannunciano. Solo la visione frontale permette di fermare un’immagine del gruppo statuario tale da consentire di coglierne la geometria compositiva. Due archi infatti si intersecano mettendo in gioco il corpo leggermente sollevato e in torsione di Psiche, la gamba destra e le ali tese di Amore, che da dietro si piega verso la fanciulla e l’abbraccia sfiorandole i seni e la guancia destra. Due cerchi intrecciati (le braccia dei giovani amanti) sottolineano, infine, il punto d’intersezione degli archi. Tuttavia la visione frontale non esaurisce le possibilità di godimento dell’opera. Infatti i rapporti reciproci fra i due corpi, pensati nello spazio, mutano continuamente girando attorno al gruppo scultoreo. Solo così ci si accorge della complessità della creazione di Canova. • Adone e Venere Nel 1789 lo scultore conclude il modello di Adone e Venere, un soggetto mitologico da lui stesso scelto, senza che l’opera gli fosse stata commissionata. La traduzione in marmo avvenne nel 1794. Acquistato dal marchese Francesco Berio di Salsa, venne collocato in un tempietto nel giardino di Palazzo Berio a Napoli. Nel 1820, in occasione del passaggio a un proprietario successivo, Antonio Canova rilavorò in alcune parti l’opera. Il gruppo raffigura l’ultimo saluto di Venere all’amato, bellissimo Adone, prima che questi, durante una battuta di caccia, morisse sotto la selvaggia aggressione di un enorme cinghiale mandatogli contro dal rivale Marte, accecato di gelosia. Il gruppo è formato da tre personaggi: oltre a Venere e Adone, infatti, è raffigurato anche il fedele cane di lui, seduto con il muso all’insù, dietro la coppia allacciata. Venere si appoggia all’amato tenendogli la mano destra sulla spalla sinistra, mentre con l’altra mano gli accarezza il mento. Contemporaneamente Adone attira a sé la dea, che lo guarda fisso negli occhi reclinando il capo, cingendola dolcemente alla vita. Solo un drappo che sta scivolando a terra, ma che ancora circonda le gambe di Venere, tiene appena discosti i due giovani corpi. Adone poggia sulla gamba sinistra e tiene l’altra scostata e portata in avanti. Il suo bacino compie una rotazione opposta a quella delle spalle, mentre il braccio destro scivola inerte lungo il fianco toccando la coscia destra. Canova rende i due corpi quasi simili per la mancanza di un’evidente muscolatura in Adone, di cui sottolinea, perciò, la giovane età. I volti trasognati, le labbra appena aperte, le palpebre socchiuse mentre gli occhi dell’uno fissano quelli dell’altra, le teste inclinate, i corpi rilassati sono, infine, i componenti per definire il trasporto amoroso e la tenerezza reciproci. • Ebe Di Ebe l’artista eseguì quattro esemplari (a cominciare dal 1795/1796) un po’ diversi fra loro. Quello qui considerato è il secondo in ordine di tempo, oggi conservato all’Ermitage di San Pietroburgo. La fanciulla divina, coppiera degli dei, si libra in volo sostenuta da una nuvola. Il suo busto è nudo, mentre la parte inferiore del corpo è avvolta da una veste leggera e sottile che, tenuta stretta in vita da una cintura annodata, mentre la dea fende l’aria, aderisce alle giovani membra svelandone ogni curva. Il chiaroscuro più pronunciato si concentra lateralmente, nel mosso groviglio della veste che, dal fianco destro, accompagna la gamba destra arretrata, in una superba dimostrazione dello studio del panneggio da parte di Canova. Tutto in Ebe tende alla grazia: il suo corpo giovane, l’ovale perfetto del volto incorniciato dai riccioli che sporgono dal diadema incastonato nelle chiome raccolte, la delicatezza con cui tiene la coppa e il piccolo versatoio, l’atteggiamento del corpo appena proteso in avanti, ma con il busto lievemente incurvato all’indietro, come se anch’esso fosse spinto dall’aria che contrasta il corpo in movimento. Dopo l’esecuzione del primo esemplare, Canova fu criticato da alcuni che rilevavano la mancanza di espressione nel volto della dea. A essi lo scultore rispose che volutamente Ebe mancava di una forte espressione perché altrimenti sarebbe sembrata una baccante e non una divinità, manifestando, in tal modo, la sua convinta adesione agli esempi della statuaria classica (come anche Winckelmann sosteneva). • I pugilatori Non tutta l’attività scultorea di Antonio Canova si risolve nella rappresentazione del bello ideale e nella grazia dei corpi, secondo uno stile che lo stesso artista, in una lettera a Quatremère de Quincy del 12 dicembre 1801, definisce «dolce e delicato». Con I Pugilatori lo scultore di Possagno intende dare dimostrazione di uno stile severo, «di più forte carattere», capace, dunque, di interpretare emozioni forti e persino violente, senza, tuttavia, che venissero meno l’ideale di proporzioni classiche e il principio winkelmanniano che suggeriva di evitare le azioni mentre accadono. Creugante e Damosseno, concepiti attorno al 1794/1795 per essere esposti assieme, quasi fossero un gruppo statuario, furono realizzati, il primo entro il 1801, il secondo nel 1806. I due personaggi raffigurano i pugilatori la cui storia era stata narrata da Pausania (Periegesi della Grecia, VIII: L’Arcadia). Nel corso dei giochi Nemei i due atleti, dopo una giornata di lotta che non aveva ancora visto un vinto e un vincitore, per concludere si accordarono perché ognuno si lasciasse colpire dall’altro una sola volta in qualunque parte volesse. Creugante percosse con forza la testa di Damosseno e pose subito una mano chiusa a pugno sulla propria per proteggerla. Damosseno, tuttavia, lo colpì con la mano destra tenuta distesa e rigida, così da penetrargli il fianco cavandone gli intestini. Gli Argivi bandirono Damosseno e decretarono vincitore il defunto Creugante, dedicandogli una statua nel tempio di Giove Licio. Canova raffigura Creugante dopo che questi ha colpito Damosseno, e quest’ultimo prima che sferri il colpo micidiale. Sia l’uno sia l’altro si giovano dello scrupoloso studio dell’Antico da parte di Canova, tanto che anche le fonti classiche, non poche, sono facilmente individuabili: dal Gladiatore Borghese ai Dioscuri del Quirinale, dall’Ercole Farnese ai Tirannicidi al Torso del Belvedere. Al contrapposto e alla rotazione del busto e della testa di Creugante, con la compressione della parte sinistra dello stesso busto e la tensione di quella opposta – che aveva facilitato la penetrazione della mano dell’avversario, più di quanto non avrebbe fatto un tessuto muscolare rilassato e capace di assorbire meglio i colpi –, fa da contrasto il corpo più tozzo di Damosseno, con il busto incurvato, la testa spinta in avanti, la gamba destra tesa, il braccio sinistro portato contro il petto e il destro irrigidito, piegato ad angolo acuto e portato indietro per colpire con forza e precisione. Mentre il volto di Creugante, sia veduto frontalmente sia di profilo, mantiene una classica bellezza manifestando quasi imperturbabilità, al contrario quello di Damosseno, più squadrato, ha la fronte più corrugata, le narici dilatate, la bocca più dischiusa e presenta una verruca in corrispondenza della narice destra, quasi che quella minima imperfezione fisica bastasse a rendere meglio il carattere “imperfetto”, violento e scorretto del pugilatore. • Paolina Borghese Dei rapporti di Canova con Napoleone, a cui si è accennato nelle pagine introduttive, sono testimonianza diverse sculture eseguite per lui o per i suoi familiari. L’esempio più celebre è il ritratto di Paolina Borghese, sorella dell’imperatore e moglie del principe romano Camillo Borghese. Paolina è raffigurata come Venere vincitrice. Infatti con gesto grazioso tiene in mano il pomo della vittoria offerto da Paride alla dea giudicata da lui la più bella. La giovane donna è rappresentata adagiata su un fianco sopra un divano con una sponda rialzata, a mo’ di triclinio. Il busto, sollevato e appoggiato a due cuscini, è nudo fin quasi all’inguine, mentre la parte inferiore del corpo è coperta da un drappo. Esso, sottolineando e sostituendo le pieghe inguinali e scoprendo l’attacco dei glutei, conferisce al ritratto un evidente erotismo, molto più percepito di quanto non sarebbe stato se Paolina si fosse offerta alla vista completamente nuda. Il braccio destro, appoggiato sui cuscini e piegato ad angolo acuto, puntella la testa, tenuta, dunque, ben eretta, volta a destra e appena sfiorata dalla mano quasi chiusa a pugno. Il volto idealizzato e le sembianze divine collocano Paolina al di fuori della realtà umana. Tuttavia la cera rosata spalmata da Canova sulle parti nude della statua, a imitazione dell’incarnato, la restituisce al mondo terreno. Il letto di legno su cui è collocato il pesante marmo nascondeva un ingranaggio che consentiva alla scultura di ruotare. In tal modo, in base alla posizione che questa assumeva rispetto alla sorgente luminosa (naturale o delle candele) che la colpiva essa era più o meno illuminata e più o meno e variamente ombreggiata, mutando all’infinito d’aspetto e di significato. • Le Tre Grazie Una consonante sensibilità conduce contemporaneamente Antonio Canova e il poeta Ugo Foscolo (1778-1827) – che aveva lodato la canoviana Venere italica, esposta a Firenze alla Galleria degli Uffizi nella primavera del 1812 e che procinto di partire per ritornare a Cartagine dove lo avrebbero atteso le torture e la morte. Una forte componente dinamica caratterizza il disegno a penna, acquerellato in modo da lasciar trasparire – a tratti – il colore grigio-verde della carta. L’espressione decisa del volto di Attilio Regolo e la sua attitudine, colta in un’andatura sostenuta, mentre cerca di liberarsi dalla stretta implorante della figlia gemente e caduta a terra, sottolineano il carattere eroico di chi si sacrifica per amore della patria. L’acquerello grigio illumina soprattutto le spalle e le braccia della giovane donna a sottolineare la forza degli affetti e la coesione familiare, componenti fondamentali delle virtù romane. Nel disegno di una Donna dal turbante il soggetto enigmatico è reso con una tecnica simile a quella dell’incisione. Un tratteggio incrociato e fitto determina il fondo scurissimo contro cui si staglia il profilo nitido della fanciulla. Il turbante, le fasce e l’abito drappeggiato sono anch’essi resi con tratti incrociati molto sottili disegnati in punta di penna. Il segno è insistito dove l’oscurità dev’essere più forte e i mezzi toni sono dati da un tratteggio parallelo obliquo o verticale, ma il passaggio dall’una agli altri è addolcito da innumerevoli puntini che si infittiscono nelle parti maggiormente in ombra. Tale tecnica è ancor più evidente nel volto, nel braccio e nella nuca della fanciulla dove la puntinatura – che, quasi impercettibilmente, simulando lo sfumato, permette il graduale trapasso dall’ombra alla luce rendendo il senso delle carni tornite e sode – si aggiunge all’azione delicata del tratteggio rado e arcuato. Il giuramento della pallacorda, opera iniziata e mai conclusa da David, ricorda il giuramento solenne dei membri del Terzo Stato – costituitosi in Assemblea Nazionale – il 20 giugno 1789. Il disegno a penna, inchiostro bruno e acquerello, conservato a Versailles, mostrante lo stato definitivo che avrebbe dovuto essere trasposto sulla tela, era stato preceduto da non pochi studi. Quello conservato al Fogg Art Museum dell’Università di Harvard consente di capire quanto meticolosa e precisa fosse la tecnica grafica di David. Il foglio, infatti, mostra una puntualissima prospettiva geometrica, che non solo delinea in modo credibile l’architettura, ma, grazie alla griglia del pavimento, consente di collocare i personaggi in profondità dimensionandoli in modo adeguato. Il confronto tra i due disegni, francese e americano, fa capire la notevole sensibilità grafica e compositiva dell’artista. Il punto di fuga, inizialmente posizionato sul petto di Bailly (il personaggio in piedi su un tavolo) e lungo l’asse verticale b, viene spostato più in alto, in corrispondenza della testa, in modo da coincidere esattamente con il centro geometrico del foglio a, accrescendo l’impressione di profondità dell’ambiente. Il margine superiore dell’architettura è abbassato, così le figure vengono a trovarsi nella metà inferiore della carta, lasciando quasi vuota la metà superiore. Il trasporto del disegno sulla tela, lasciata come abbozzo, di cui si conserva un frammento, consente di verificare come tutte le figure fossero state disegnate nude. Solo con l’apposizione del colore David le avrebbe “vestite”, guidato dalla sottostante precisione anatomica. Le accademie di nudo Durante il primo soggiorno romano Jacques-Louis David è impegnato in tutte le attività e nei programmi stabiliti per i pensionnaires. In particolare nell’esecuzione di disegni e dipinti in grado di rivelare l’originalità creativa degli artisti; tra questi le accademie di nudo. A questa tipologia appartengono sia l’Accademia di nudo virile riverso, sia quella di Nudo virile semidisteso e visto da tergo. Si tratta di due oli su tela eseguiti rispettivamente nel 1778 e attorno al 1780, a conclusione del quinquennio romano. Solitamente identificato come Ettore riverso dietro il proprio carro da guerra, il nudo del 1778 è mostrato in scorcio, adagiato su supporti che costruiscono un ideale piano inclinato, secondo un andamento diagonale, con il busto illuminato in primo piano e le gambe, incrociate, spinte in profondità e quasi nell’oscurità. Il secondo e più tardo nudo, tradizionalmente identificato con Pàtroclo, è visto da tergo, ha la testa reclinata in avanti, mentre i capelli appaiono come mossi dal vento. L’atteggiamento, con la torsione del busto, consente a David di esercitarsi nell’anatomia. Correttamente, e con grande capacità di osservazione da parte dell’artista, il rosso del drappo su cui il giovane uomo è collocato si riflette sulla coscia sinistra e sui glutei: una conquista rispetto all’Ettore, in cui il nudo e lo sfondo scuro non si erano valsi degli effetti del giallo-aranciato del drappo contro cui si staglia il corpo dell’eroe troiano. • Il giuramento degli Orazi La permanenza a Roma fu particolarmente proficua per David. Nei cicli delle Stanze Vaticane e nei dipinti di Raffaello, infatti, egli colse ciò che, a suo avviso, costituiva il carattere grande dell’Urbinate: essere riuscito a isolare ogni personaggio e averlo reso autonomo, pur all’interno di una narrazione con tante comparse e numerosi protagonisti. Questo egli volle ripetere. Il giuramento degli Orazi, firmato e datato 1784 e risalente, perciò, al secondo soggiorno romano dell’artista, fu realizzato su commissione del re di Francia e l’anno seguente venne presentato al Salon. Il soggetto è scelto dalla storia della Roma monarchica quando, durante il regno di Tullo Ostilio, i tre fratelli Orazi, romani, affrontarono i tre fratelli Curiazi, albani, per risolvere in duello una contesa sorta fra Roma e la rivale Albalònga. I tre Curiazi morirono mentre uno solo degli Orazi si salvò, decretando in tal modo la vittoria della propria città. Il soggetto sta dunque a rappresentare le virtù civiche romane e l’amore per la gloria: i tre giovani, infatti, giurano di vincere o morire per Roma. L’adesione di David a tale ideale è certa, come sicura è la volontà di proporlo a chi guarda perché l’esempio spinga all’emulazione i suoi compatrioti. La scena, non priva di una certa teatralità, si svolge nell’atrio di una casa romana inondata dalla luce solare. L’impianto prospettico è sottolineato dalle fasce marmoree che racchiudono riquadri di pavimento in laterizi disposti a lisca di pesce. Nel fondo due pilastri e due colonne doriche dal fusto liscio sorreggono tre archi a tutto sesto oltre i quali, immerso nell’ombra, un muro delimita un porticato (ornato di una lancia e uno scudo appesi), mentre un’ulteriore arcata – a destra, aperta nel muro in un piano arretrato – lascia intravedere altri ambienti abitativi e una finestra alta da cui entra una luce fioca. I personaggi sono distinti in due gruppi incorniciati dalle arcate estreme, mentre il vecchio padre si erge nel mezzo, isolato, conscio della propria centralità nella storia e consapevole di mettere a repentaglio la vita dei figli chiedendo loro il giuramento di combattere per Roma; da essi soltanto sarebbero dipese le sorti della città. Egli ha appena parlato: è l’unico ad avere le labbra dischiuse. Il rosso del mantello, che richiama su di lui l’attenzione di chi guarda, lo distingue come personaggio chiave della rappresentazione, mentre leva in alto le spade lucenti che, successivamente, consegnerà ai figli. È proprio su quella mano tenuta stretta che sta il punto di fuga (lievemente spostato a sinistra rispetto all’asse di mezzeria della tela), lì i raggi prospettici conducono gli occhi dell’osservatore. D’altra parte è in direzione del padre e verso le spade che si protendono le braccia dei tre fratelli, tenute alte nel giuramento solenne. Un giuramento che unisce nell’eroismo i tre giovani, allacciati in un abbraccio che indica grande forza morale, sprezzo del pericolo e unanimità di intenti. A destra le donne, meste e mute, carezzate da una luce morbida e diffusa, sono abbandonate nel dolore e nella rassegnazione. In posizione più arretrata la madre degli Orazi copre con il suo velo scuro, presàgo di lutto, i due figli più piccoli, mentre Sabina (moglie del maggiore dei fratelli), affranta e senza più lacrime, si volge verso la cognata Camilla. Questa, piegata verso di lei, le tiene sulla spalla una mano su cui appoggia il capo chino. Secondo l’estetica neoclassica, David non mostra il momento cruento del combattimento, ma rappresenta quello supremo del giuramento, che precede l’azione, e congela nei gesti tutti i personaggi che in tal modo illustrano l’amor di patria. I RITRATTI Mentre veniva affermandosi come pittore, acquistando molta notorietà grazie alle sue tele di grande formato a soggetto storico e dall’intento etico e moraleggiante, David eseguiva anche numerosi ritratti. In essi uomini e donne in abiti da fine dell’ ancien régime e in stile impero guardano verso l’esterno del dipinto rivelandosi all’osservatore per l’attitudine indagatrice o nell’imperturbabile serenità che l’estetica neoclassica preferiva, dal Nord al Sud del Vecchio Continente. Spicca, tra tutti, il Ritratto di Antoine-Laurent Lavoisier e di sua moglie, opera di dimensioni non indifferenti, tale da poter competere con le tele di argomento storico, eseguita nel 1788. In essa il grande chimico (1743-1794) – impegnato anche in imprese finanziarie statali che in periodo rivoluzionario lo resero inviso tanto che, a seguito delle accuse di Marat, fu ghigliottinato – è raffigurato al tavolo di lavoro con accanto la moglie, la giovane Marie-Anne-Pierrette Paulze (1758-1836). L’ambientazione è costituita da una stanza spaziosa, pavimentata a parquet, le cui pareti sono scandite da paraste scanalate che poggiano su un alto zoccolo. Lavoisier siede di fronte al tavolo di lavoro, collocato obliquamente rispetto al quadro prospettico; sul suo volto sta il punto di fuga. L’abito nero che indossa contrasta con il rosso del velluto che copre il tavolo; la sua gamba destra, distesa quasi lungo la diagonale della tela, è protesa in avanti, al di qua del drappo rosso. Essa acquista forza d’impatto, e quasi di penetrazione, dalla piega dello stesso drappo. Lo scienziato è ritratto mentre, distogliendosi dalla scrittura, guarda la moglie che gli si è avvicinata appoggiandogli affettuosamente la mano sinistra sulla spalla. Sul tavolo e a terra sono collocati degli strumenti scientifici in vetro e ottone. Nella grande bolla in basso a destra, in particolare, si riflettono delle finestre da cui entra un fascio di luce che, attraversando diagonalmente la stanza, colpisce la parte superiore della figura “vaporosa” della signora Lavoisier. L’abito bianco, stretto in vita da una fascia celeste, e i capelli arricciati e gonfi sono luce nella luce. Marie Paulze, che aveva preso lezioni di pittura da David (una cartella da disegno è appoggiata su una sedia a sinistra), guarda verso l’esterno del dipinto, lasciando entrare l’osservatore nell’intimità della stanza, che lo sguardo di Antoine Lavoisier, fisso su di lei, tendeva a isolare. • La morte di Marat Il 13 luglio 1793 il medico rivoluzionario Jean-Paul Marat, nato in Svizzera da padre sardo (Màra), direttore del giornale «L’Ami du peuple» («L’amico del popolo»), deputato alla Convenzione, presidente del club dei giacobini, tra i responsabili della caduta dei girondini, venne assassinato nel suo bagno dalla nobile Marie-Anne-Charlotte de Corday d’Armont (1768-1793), fervente seguace delle idee girondine. David fu incaricato dalla Convenzione di dipingere un quadro che rendesse onore al martire della rivoluzione. Nel dipinto non compaiono tutti quegli elementi (noti dalle cronache del tempo) che nella realtà caratterizzavano il luogo del delitto e che avrebbero fatto apparire la morte di Marat troppo simile a quella di un uomo comune. La tappezzeria in carta da parati viene sostituita da un fondo scuro e quasi monocromo, se non fosse per le fitte pennellate gialle formanti una sorta di pulviscolo dorato che sembra voler investire Marat. Una cartina della Francia e delle pistole appese alla parete non vengono riprodotte, mentre il cesto che fungeva da tavolino viene sostituito da una cassetta di legno chiaro che viene trasformata da David in una sorta di lapide. Su di essa l’artista scrive la dedica: «À MARAT, DAVID. 1793. L’AN DEUX» (A Marat, David. 1793. L’anno secondo).La sobrietà e l’essenzialità dell’arredo quasi monastico (la cassetta, la vasca da bagno in cui il rivoluzionario è immerso per necessità curative, il ripiano di legno – su cui è gettato un drappo verde – che funge da scrivania, il lenzuolo rattoppato) stanno a testimoniare la virtuosa povertà di Marat, repubblicano incorruttibile, ucciso a tradimento proprio per le sue virtù, le stesse alle quali l’assassina aveva fatto appello per essere ricevuta. Infatti Marat tiene ancora in mano – come a mostrarlo a chi osserva – un biglietto, l’inizio di una supplica, in cui si legge:«Du composizione, ai due ragazzi che, rimandati indietro con uno stratagemma a causa della loro giovane età, decidono invece di restare e morire con gli altri: entrambi coronati di fiori, l’uno si allaccia un sandalo, l’altro (a destra) si stringe al vecchio genitore. Al suono delle trombe che annunciano l’avvistamento delle truppe nemiche i Greci si preparano alla battaglia (le gambe divergenti e i busti inclinati dei soldati, soprattutto di quelli in primo piano, sottolineano la fretta del momento). Alla battaglia partecipa anche un anziano soldato cieco – all’estrema sinistra – sostenuto da uno più giovane. A destra, sotto Leonida, il cognato Agis, deposta la corona di fiori, si appresta a indossare l’elmo. L’abbraccio del Giuramento degli Orazi è riproposto nel gruppo dei quattro amici che, allacciati, offrono le loro corone all’indirizzo di un commilitone che con l’elsa della spada incide sulla roccia un messaggio per i futuri viaggiatori: «Straniero, va’ a dire agli Spartani che siamo morti qui, obbedendo ai loro ordini». Il messaggio diviene muto incitamento all’emulazione e formidabile testimonianza di coraggio e lealtà. • Bonaparte valica le Alpi Agli inizi della folgorante ascesa militare di Napoleone Bonaparte e all’epoca della convinta adesione di David al pensiero politico dell’ufficiale, diventato poi imperatore, risale invece Bonaparte valica le Alpi al passo del Gran San Bernardo. Commissionata dal re Carlo IV di Spagna e seguita da almeno tre repliche, la tela mostra il generale che monta un focoso cavallo pezzato, ritto sulle zampe posteriori. L’insieme delle due figure occupa l’intero primo piano campeggiando sullo sfondo delle vette alpine e di un cielo a tratti nuvoloso, mentre, nei piani arretrati, pochi soldati che trainano o spingono affusti di cannone e numerose canne di fucile sporgenti da una balza rocciosa suggeriscono una grande armata in lento e difficile movimento. Napoleone si volge allo spettatore indicandogli genericamente un punto al di là dei monti: la meta della lunga marcia, ma anche il futuro, il destino che lo attende. Il suo volto – ringiovanito dal pennello dell’artista – è idealizzato e la sua calma ostentata risalta in confronto all’agitato cavallo. Alla spinta verso sinistra, la direzione del moto, contribuiscono anche la coda e la criniera dell’animale che, al pari del mantello del generale, sono mosse dal vento. A simboleggiare l’azione ardimentosa di Napoleone, David dipinge in primo piano a sinistra, delle rocce con incisi i nomi di Bonaparte e dei grandi condottieri hanno valicato le Alpi: Annibale e l’imperatore Carlo Magno. • Marte disarmato Il disimpegno politico – conseguente all’abbandono della politica attiva e alla caduta delle illusioni – caratterizza, invece, gli ultimi anni di David, il cui stile, tuttavia, non risente dei cambiamenti di contenuto. Durante l’esilio in Belgio, infatti, l’artista riprende i vecchi temi mitologici, ma il suo principale interesse pare rivolto alla pura rappresentazione della bellezza ideale. È il caso di Marte disarmato da Venere e dalle Grazie, un dipinto ultimato nel 1824, l’anno prima della morte. Sullo sfondo di un portico corinzio tetrastilo le tre Grazie allontanano le armi da Marte offrendogli, allo stesso tempo, del vino. Il dio, semidisteso su un letto a barca e completamente denudato, viene distratto da Venere, anch’essa nuda, che lo incorona con una ghirlanda di rose, mentre Eros gli slaccia un sandalo b. Due colombe, simbolo dell’amore fra il dio della guerra e la dea della bellezza, tubano. Le forme delicate di Venere sono simili a quelle della Psiche di Canova, e la sua postura ricorda, in controparte, quella di Paolina Borghese come Venere vincitrice. L’evidenza geometrica del portico sospeso tra le nuvole dell’Olimpo dà stabilità alla scena, tutta raccolta in uno spazio pressoché quadrato. La verticalità delle colonne controbilancia l’armoniosa inclinazione di Marte e Venere verso sinistra, mentre il dipinto prende forza dalle varie tonalità dei blu accordate con i rossi, gli ori e il rosato degli incarnati. BERTEL THORVALDSEN (1770-1844) Una folla di circa quarantamila danesi festanti accolse il 18 settembre 1838 il ritorno di Bertel Thorvaldsen nella natia Copenaghen. Grida di giubilo, cori, sventolare di bandiere, applausi, onori militari e i professori dell’Accademia di Belle Arti che ricevevano il famoso scultore che sbarcava dalla fregata Rota nella rada della capitale della Danimarca costituirono gli episodi più significativi dell’eccezionale avvenimento. Bertel – che vi era nato il 19 novembre 1770 da un intagliatore di legno islandese e vi aveva studiato all’Accademia Reale – aveva lasciato la capitale danese giovanissimo, nel 1793, dopo aver ottenuto una borsa di studio per Roma. Viaggiando via mare era prima approdato all’isola di Malta, quindi a Palermo, a Napoli e, finalmente, nel 1797 era arrivato a Roma. Non abbandonò l’Urbe che nel 1837, avendola destinata a propria patria adottiva. A Roma, dove arrivò a essere nominato presidente della prestigiosa Accademia di San Luca, restaurò i marmi dei frontoni del Tempio di Athena Aphaia, lì fatti trasportare nel 1815 da Ludovico di Baviera, che li aveva acquistati nel 1812 per la Gliptoteca di Monaco. Lavoro, questo, che procurò a Thorvaldsen una fama maggiore di qualunque altra opera egli avesse mai realizzato in precedenza. Lo scultore morì il 24 marzo 1844 nella città natale che, dopo la sua scomparsa, gli dedicò un museo .La scultura di Thorvaldsen – il «Fidia del Nord», il «moderno Prassitele», come venne presto definito – si inscrive perfettamente nella cultura neoclassica del vivace ambiente romano dominato dalla figura di Canova, il cui esempio fu per l’artista danese di grande importanza, ma non tale da poter essere seguito fino in fondo. E quando il grande scultore di Possagno instillava quasi un vero respiro nelle sue sculture, mediando il bello ideale con quello di natura, Thorvaldsen preferiva restare fedele alla bellezza ideale senza tempo. IL DISEGNO - Un segno deciso spicca sul foglio con studi per un Diomede con il Palladio, disegno preparatorio mai tradotto in scultura. Eseguito attorno al 1804, l’insieme delle varianti (se ne vedono tre a figura intera sulla destra) è superato dalla forza della matita nera che delinea un guerriero che occupa quasi l’intera altezza del foglio ed è raffigurato in nudità eroica e in una posa che rinvia al chiasmo di Policleto. Si discostano dagli esempi del grande scultore di Argo soltanto la testa ruotata nella direzione della gamba non portante e l’esilità e dolcezza delle forme, che hanno maggiormente risentito di un’ispirazione prassitelica. L’eroe impugna una corta spada nella destra, mentre con la sinistra tiene il Palladio, simulacro di Athena rubato nel tempio della dea a Troia, città che esso rendeva invincibile. • Giasone Gli stessi criteri formali del Diomede sovraintendono alla realizzazione del Giasone. Qui, inoltre, allo schema policleteo si sovrappone l’esempio dell’Apollo del Belvedere, per il vello d’oro che pende dal braccio sinistro piegato e proteso in avanti dell’eroe mitologico. La scultura mostra Giasone che incede recando la lancia nella mano destra e appoggiata alla spalla, e il vello nella sinistra. Una cintura, che sostiene una spada entro il fodero, gli attraversa diagonalmente il busto all’altezza dei pettorali. La testa è completamente ruotata verso destra, tanto che risultano leggibili il perfetto profilo classico, l’elmo e il cimiero ondulato. Questa attitudine suggerisce che, nonostante qualcosa abbia colpito l’attenzione dell’eroe, questi non accenna a fermarsi. La scultura, tutta contenuta entro i margini ideali di un solido la cui base coincide con quella marmorea della statua, è fatta per essere guardata frontalmente. La linea di contorno, sicura e senza asperità, definisce il volume plastico sollecitandone la lettura secondo valori lineari e bidimensionali piuttosto che spaziali e tridimensionali. Significative, a questo riguardo, appaiono le differenze con il Perseo trionfante di Canova, di cui costituisce una risposta. In tal modo Thorvaldsen sembra aderire, più dello stesso Canova – che crea molteplici punti di vista per le sue sculture, che si espandono nello spazio – alla «quieta grandezza» riconosciuta da Winckelmann come una delle peculiarità della scultura classica. • Venere vincitrice Sulla stessa direttrice di ricerca si colloca anche la Venere vincitrice. L’esemplare che qui si propone – scolpito nel 1846 per il Thorvaldsens Museum di Copenaghen da un allievo dello scultore, Johann Scholl (1805-1861) – è una delle numerose repliche della creazione di Thorvaldsen, che ne fissò le forme nel 1813-1816. La scelta è giustificata dallo stesso metodo di lavoro, quasi industriale, della bottega di Thorvaldsen, che non lasciava che un minimo ruolo – spesso nessuno – all’intervento diretto dell’autore. La Venere, che contempla il pomo donatole da Paride, si pone in posizione colloquiante sia con l’esemplare antico di riferimento – l’Afrodite Cnidia di Prassitele conservata ai Musei Vaticani – sia con quello moderno, la Venere italica scolpita da Antonio Canova nel 1804-1812. Laddove Canova copre pudicamente le nudità della dea, che leggermente si piega in avanti, ma ruota la testa verso destra, determinando così l’assoluta padronanza dello spazio, Thorvaldsen ne accentua la bidimensionalità, quasi come in un disegno. Se la Venere canoviana può dunque essere contemplata da una qualsiasi posizione, quella di Thorvaldsen va guardata soprattutto di fronte. La gamba destra è portante, mentre la sinistra, lasciata mollemente andare all’indietro, comporta il forte pronunciamento in fuori del fianco destro, lo spostamento in senso opposto del busto e l’abbassamento della spalla sinistra. Tale complesso e inedito movimento viene equilibrato dalla rotazione della testa verso sinistra. Il braccio destro, infine, è piegato, mentre l’altro regge un drappo che, per necessità statiche, poggia su un tronco d’albero. La composizione molto sinuosa sottolinea i valori lineari di questa scultura, mentre la grazia accentuata delle sue forme, così come le proporzioni slanciate e l’atteggiamento pensoso, parlano del superamento dell’esemplare antico. • Ganimede e l’aquila Suggerito dall’iconografia classica e, verosimilmente, anche da un’antica gemma della propria collezione, nel 1815 Thorvaldsen realizza una prima versione di piccole dimensioni (44×55  cm) del gruppo di Ganimede e l’aquila. Risale al 1817 la versione di dimensioni maggiori. Anche in questo caso la lettura risulta completa e coerente solo se l’opera viene guardata frontalmente, per quanto la tridimensionalità sparisca per lasciar posto alla suggestione di un grande bassorilievo. I profili, perciò, e la linea di contorno diventano il criterio principale di giudizio.La scultura trae la sua forza dal contrasto fra il corpo ricoperto di piume opache dell’aquila di Zeus e quello del tutto liscio e lucido del giovane principe frigio rapito dal padre degli dei e condotto sull’Olimpo in qualità di coppiere. E, per l’appunto, il fanciullo, in posizione inginocchiata, è colto mentre quasi devotamente offre da bere all’uccello divino dallo sguardo arcigno e dal becco adunco. JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES (1780-1867) Fra i più appassionati e famosi direttori dell’Accademia di Francia, che fu sotto le sue cure dal 1834 al 1841, Jean-Auguste-Dominique Ingres risiedette a lungo a Roma. Vi si recò giovanissimo nel 1806, dopo aver vinto il Prix de Rome, rimanendovi fino al 1820, ben oltre la scadenza della sua borsa di studio (1810). Dal 1820 al 1824 dimorò a Firenze. Ingres, quindi, visse in Italia per 25 anni, trascorrendovi circa un terzo della inesistente per evitare che il fulgore sprigionantesi dall’immagine dell’autorità venisse in un qualche modo occultato; esso, dunque, non costruisce le forme. Dai drappi di velluto e dalle vesti di seta frusciante, emergono un piede entro una preziosissima scarpetta, braccia fasciate e mani guantate, il volto tondeggiante che pare scolpito nell’avorio: quasi l’imperatore fosse una reliquia ricoperta di ex-voto. I simboli del potere sono ben in evidenza: lo scettro del re di Francia Carlo V (1364-1380) tenuto con la destra, la Mano della Giustizia (tenuta con la sinistra), la spada gemmata detta di Carlo Magno, il collare appositamente eseguito per Napoleone, il manto rivestito d’ermellino, la corona d’oro a foglie di alloro. La figura di Ingres è una summa dell’iconografia sacra, profana e mitologica. Essa, infatti, rinvia ai reliquiari romanici, alle icone bizantine – con un’audace identificazione con il sacro –, agli avori e agli argenti tardo-antichi di consoli e imperatori – per la ieratica frontalità –, all’immagine di Dio Padre in maestà del Polittico di Gand di Hubert e Jan van Eyck (presente al Louvre negli anni dell’esecuzione del dipinto) – per la cornice a semicerchi che la inquadra –, all’apoteosi imperiale romana, come pure a Zeus, per l’aquila sul tappeto ai suoi piedi. L’imperatore qui è davvero tale, secondo la tradizione, quasi un corpo mistico senza tempo (di cui Napoleone è il capo e i sudditi le membra), l’erede degli imperatori romani d’Occidente e d’Oriente, il successore consacrato di Carlo Magno, nel momento in cui le vittorie avevano posto la Francia a capo di un territorio ancora più vasto di quello del tempo dei Carolingi ❯ Oggetti d’arte. • Giove e Teti Ispirata ai racconti mitologici di un’antichità immutabile, Giove e Teti, opera eseguita nel 1811, ma dalla lunga gestazione, è ispirata a un passo finale del primo canto dell’Iliade. La nereide Teti, madre di Achille, implora Giove di rendere i Troiani vincitori delle battaglie che li oppongono ai Greci perché il figlio, allontanatosi dalle mischie per una contesa con Agamennone, possa essere da questi pregato di tornare sui propri passi e riavere indietro Brisèide, la schiava troiana che si era conquistato e che il comandante delle armate greche aveva, invece, voluto per sé. Giove – che ricalca il Ritratto di Napoleone del 1806 – è seduto su un trono sul cui basamento è scolpita una gigantomachia. Al suo fianco sta l’aquila, il rapace che gli è sacro. Le nuvole bianco-grigie, che sulla destra riverberano di bagliori rossastri, coprono i due terzi della tela circondando completamente l’insieme delle figure. Dal cielo azzurro, sulla sinistra, la gelosa Giunone ascolta, non vista. Giove, ammantato di un drappo rosato, ha il possente busto nudo; il braccio sinistro poggia su una nuvola, mentre il destro impugna uno scettro: la divaricazione delle braccia mette ancor più in evidenza l’ampiezza delle spalle in confronto allo stretto bacino. Il volto, impassibile e fisso avanti a sé, è ornato da una fluente barba e da una criniera di capelli scuri; dietro la testa è dipinta una stilizzata aureola di sette raggi. Teti, in ginocchio e discinta, implora Giove tenendogli il braccio destro sulle gambe – quasi ad abbracciarle – mentre con la mano sinistra lo vezzeggia carezzandogli la barba. La composizione è piramidale (i lati obliqui sono suggeriti dalla schiena di Teti e dal manto di Giove). Nella figura del padre degli dei prevalgono le direttrici orizzontali e verticali (che ne sottolineano la ieraticità e la possanza divina), mentre nell’implorante Teti predominano le orizzontali e le linee oblique. Una griglia modulare, infine, pare sostenere e dare equilibrio al disegno d’insieme suggerendo anche la posizione di elementi notevoli del dipinto. Il fitto panneggio del drappo grigio-verde e del velo bianco della nereide contrasta con la resa pressoché bidimensionale del manto del signore dell’Olimpo. Inoltre la narrazione mitica è proposta in maniera statica. In tal modo Ingres opta per il più adatto tipo di raffigurazione quando si vogliono rappresentare delle divinità; allo stesso tempo la composizione si arricchisce di valori lineari e cromatici, piuttosto che spaziali, collocando la scena fuori dal tempo e lontano dal mondo dei mortali. • L’apoteosi di Omero Il vero e proprio manifesto del Neoclassicismo di Ingres è L’apoteosi di Omero. Il dipinto, realizzato nel 1827, appare – grazie anche alle sue notevoli dimensioni – di grande solennità e magniloquenza, nonostante un’impostazione complessiva fortemente retorica. Non a caso, quando venne esposto al Salon di fronte a un’opera di Delacroix, ricevette il plauso e l’ammirazione anche dei pittori romantici. Al centro di un’affollata composizione che rinvia alla raffaellesca Scuola d’Atene, davanti alla facciata di un tempio ionico esastilo, su un alto piedistallo siede Omero coronato dalla Vittoria librata in aria. Ai suoi piedi stanno le personificazioni dell’Iliade e dell’Odissea: due figure femminili esemplate sulle Sibille michelangiolesche della volta della Cappella Sistina. Il sommo poeta greco è circondato dai “grandi”, antichi e moderni, divisi in due schiere: gli antichi in alto, i moderni in basso, ma con due significative eccezioni perché Raffaello, tenuto per mano da Apelle, e un pensoso Michelangelo sono collocati tra i primi, in quanto pari agli Antichi. Dante (all’estrema sinistra), accompagnato da Virgilio, è in una posizione intermedia tra gli uni e gli altri. In basso, in primo piano Molière e Poussin guardano lo spettatore indicandogli Omero come modello da seguire e come vetta insuperata e insuperabile. Omero è visto come una divinità. A lui, infatti, è dedicato il tempio alle sue spalle, la cui decorazione frontonale (rielaborazione dall’Apoteosi di Antonino Pio e Faustina sul basamento della Colonna di Antonino Pio, ora in Vaticano) reca proprio l’apoteosi del sommo poeta, portato in cielo dall’aquila di Zeus. Inoltre, una scritta in greco, scolpita su una delle alzate della grande scalinata che a lui conduce, proprio al di sotto delle personificazioni dell’Iliade e dell’Odissea proclama: «Se Omero è un dio, che lo si onori tra gli dei; se non è un dio, che sia considerato tale». La divinizzazione del poeta è sottolineata dall’offerta che ciascuno dei presenti gli porge: Dante gli offre la Commedia, Pindaro la sua lira, Fidia lo scalpello e il mazzuolo, Alessandro Magno la teca dove conserva gli scritti omerici. Tutti compiono un gesto o un movimento, tranne Omero che è perfettamente immobile e frontale, quasi in esclusivo e divino isolamento, sottolineato, come già nei dipinti di Raffaello, dallo spazio libero da figure che lo fronteggia. Tale spazio è delimitato dai due raggi proiettivi che, seguendo gli spigoli dei due muretti posti ai margini inferiori destro e sinistro della tela, convergono al punto di fuga, coincidente con lo sgabello su cui Omero poggia i piedi. Questi ultimi – studiati accuratamente da Ingres – sono raffigurati in obbedienza alla prospettiva centrale della composizione. Il dipinto è ricco di allusioni a opere di altri artisti, anche desunte da stampe in circolazione negli anni dell’esecuzione. D’altra parte per Ingres il pittore non doveva esercitarsi nella copia della natura, ma sulle incisioni dei grandi maestri. • Il sogno di Ossain Assai più sentito ed evocatore è Il sogno di Òssian, un dipinto eseguito nel 1813, esemplato sui precedenti di François Gérard e, soprattutto, di Anne-Louis Girodet. Da quest’ultimo, che vi aveva fatto ricorso sin dal 1799, Ingres riprende anche la speciale luce lunare. L’attenzione prestata a Ossian, considerato per alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta del Settecento, pari a Omero, e il tema dell’evocazione proiettano l’ispirazione pittorica di Ingres nel campo del gusto per i primitivi, tipico del preromanticismo francese. Il bardo addormentato, riverso sulla propria arpa, è colto nell’atto di sognare. I personaggi fantastici del sogno, gli eroi armati e le belle eroine che avevano popolato le sue ballate, prendono dunque forma reale sopra e accanto a lui. Si tratta di figure a chiaroscuro, quasi monocrome, illuminate da un lume notturno e opalino che conferisce loro la forma. Esse poggiano su una nuvola come di stucco e, se a sinistra il loro blocco è compatto e le loro pose variate, a destra un muro di armati prospetticamente si allontana suggerendo eroiche moltitudini. La monocromia sottolinea anche l’incorporeità dei personaggi sognati, a, mentre la realtà di Ossian è richiamata dalle sue vesti colorate e dal paesaggio di rocce scure che si stagliano contro un mare azzurro e un cielo blu cobalto, dunque è cromaticamente assai ben definita. Un silenzio soprannaturale avvolge la scena composta dal bardo creatore e dalle spettrali creature dei suoi sogni. L’opera, commissionata per ornare la camera da letto di Napoleone nel Palazzo del Quirinale, dispersa e recuperata da Ingres durante gli anni in cui diresse l’Accademia di Francia, fu modificata successivamente. In particolare entro il 1854 vi furono aggiunti dei personaggi laterali (alcuni dei quali, appunto, non compaiono in un disegno acquerellato preparatorio del 1813): la figura di destra, che tiene in alto uno scudo, protesa in avanti, per esempio; e ancora Oscar (il guerriero di sinistra), figlio di Ossian e di Evirallina, la donna semidistesa di sinistra che tocca il braccio del bardo che sogna.Il suggestivo controluce che caratterizza queste figure è forse ricordo degli armati che vegliano l’imperatore nel Sogno di Costantino, dipinto da Piero della Francesca nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo, città visitata da Ingres all’epoca del soggiorno fiorentino. • La grande odalisca Un clima intimo e conturbante è invece configurato nella Grande odalisca, suggestiva di contaminazioni romantiche per il gusto dell’esotico. Ma l’esotismo di Ingres, a ben considerare, non è autentico, studiato e osservato – come sarà, invece, per Delacroix –, esso ha solo il sapore di una tendenza, un orientamento di certa pittura del tempo. Infatti, gli oggetti orientaleggianti – il bruciaprofumi e la lunga pipa all’estremità destra – sono presenze d’occasione, mentre il turbante e il gioiello che adornano la testa della giovane donna sono ripresi dalla Fornarina di Raffaello, benché in controparte. È infatti ai grandi maestri del Cinquecento che il pittore francese si rifà per la composizione della struttura e lo studio delle forme. La Venere di Urbino di Tiziano sta alla base della composizione, con l’inversione della posizione del drappo e, per conseguenza, della stanza in profondità. Una tenda azzurra ricamata, infatti, fa da quinta laterale ricadendo pesantemente a destra (e in piccola parte anche a sinistra), lasciando trasparire l’ambiente alquanto scuro al di là di essa, ma tale da lasciar comunque intravedere due grandi bauli e il muro di fondo. Contrariamente alla Venere tizianesca, completamente rivolta verso l’osservatore e vista dall’alto, quella di Ingres è veduta di spalle, distesa su un letto – o un divano – rivestito di stoffa azzurra, sul quale sono gettati un grande cuscino, una pelliccia bruna, una coperta gialla e un lenzuolo bianco. Tra la coperta e il lenzuolo è appoggiato anche un gioiello e altri ne indossa la giovane donna al polso, mentre regge un ventaglio di piume di pavone. La sua testa è ruotata indietro e gli occhi guardano un punto all’estremità sinistra. Il volto denuncia un’espressione consapevole, ma non maliziosa. Il grande corpo morbido definito da una linea ondulata, una flessuosa mezzaluna rosata, ha proporzioni deformate. Le membra della donna distesa, esageratamente allungate, derivano dai dipinti manieristi, mentre la postura, con il braccio sinistro che funge da appoggio e la gamba sinistra piegata e portata su quella destra, dipende dalle statue giacenti dei sepolcri medicei di Michelangelo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo. I RITRATTI - La grandezza di Ingres si rivela soprattutto nei numerosissimi ritratti che eseguì, tutti definiti dalla perfezione del disegno, dall’uso sapiente del colore e da una
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