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Riassunto "Cromorama" di Riccardo Falcinelli, Sintesi del corso di Comunicazione Grafica

Riassunto completo del testo "Cromorama", comprendente immagini, Appendice A e Appendice B.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 17/06/2021

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Scarica Riassunto "Cromorama" di Riccardo Falcinelli e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 1 CROMORAMA – COME IL COLORE HA CAMBIATO IL NOSTRO SGUARDO di Riccardo Falcinelli PARTE PRIMA SGUARDI GIALLO INDUSTRIALE La società del design Dai faldoni della Storia veniamo a sapere che le matite, incastonate in un corpo di legno, sono state introdotte in Francia solo nel 1790. Prima si usavano carboncini, pastelli o stecche di grafite senza nessuna guaina. A idearla è Nicolas-Jacques Conté, che per risparmiare si inventa di usare grafite in polvere e di mischiarla con l’argilla, impacchettandola nel legno. La proposta di questo oggetto asseconda la richiesta di strumenti che non sporchino le mani e i vestiti dei non professionisti. Il legno che avvolge la mina è, insomma, una scelta pratica che tiene conto della grande platea degli amatori, e il fatto di pensare in astratto a un pubblico di potenziali acquirenti fa di Conté un designer. La prima matita dipinta esternamente compare, però, solo un secolo dopo, lanciata all’Esposizione di Chicago nel 1893 dalla Koh-I-Noor. Il motivo di questa coloritura va rintracciato con ogni probabilità nel tentativo di nascondere le imperfezioni del legno, e questa prima verniciatura è, appunto, gialla. Secondo alcuni storici, il movente sarebbe nazionalistico: richiamerebbe il colore dell’Impero austroungarico dove la Koh-I-Noor aveva sede. Secondo altri, invece, si tratta di una scelta metaforica che rimanda alla Cina, da cui tradizionalmente proviene la grafite e dove il giallo è il colore della famiglia imperiale. Oggi, le matite in legno continuano a godere di un imperterrito consenso. L’unica scomodità, quella di doverle temperare, è tuttavia un rituale con un suo fascino preciso. La leggerezza del legno rimane efficientissima per scrivere e disegnare. Per non parlare del fatto che la matita classica, man mano che la si usa, perde acutezza, tracciando un segno sempre più largo. Il dato sorprendente è, però, che i 2/3 delle matite prodotte e vendute sul pianeta sono gialle. A tal proposito, durante un’indagine di mercato in un ufficio americano, vennero proposte delle nuove matite, alcune gialle e altre verdi. Dopo una settimana si chiese agli impiegati quale delle due preferissero e la maggioranza si lamentò di quelle verdi. In realtà, le due matite erano identiche, cambiava solo la vernice esterna. Nella società attuale, dunque, il colore è non solo una sensazione né un mero attributo delle cose. Il colore è spesso un’idea o un’aspettativa, ovvero certe tinte diventano tutt’uno con gli oggetti che le indossano. La matita gialla è, insomma, più matita di qualsiasi altra. È un archetipo, un modello mentale a cui rapportiamo tutti gli altri. Oggi la maggior parte delle cose con cui abbiamo a che fare è stata prodotta in serie. Anche le trasmissioni televisive, i film e i videogiochi vengono guardati su tanti schermi diversi, e le nostre parole, quando circolano sui social network, vengono visualizzate su centinaia di supporti in contemporanea. La società delle immagini è caratterizzata dalla moltiplicazione dei discorsi tramite mezzi di produzione e riproduzione. Questo non vuol dire che non esistano più pezzi unici o esperienze singole. La novità del nostro mondo è nel tipo di mentalità che queste contribuiscono a formare. La caratteristica principale dell’industria è normare la produzione anzitutto per ragioni economiche, e questo pertiene artefatti umani e prodotti “naturali”. Molti frutti, infatti, prima di essere inviati al supermercato vengono fatti passare dentro un anello che ne verifica la misura media: se il frutto non ci passa, viene scartato e inviato a farne succhi o bibite. La normalizzazione non è solo una necessità della fase produttiva: anche il mercato trova più facile vedere cose tutte uguali, perché in sostanza il commercio ha bisogno sia di “cose”, sia di una loro rappresentazione coerente. La selezione eseguita dalla filiera distributiva è a tutti gli effetti un’operazione di design perché progetta il modo in cui noi guarderemo quei frutti. Così facendo, l’industria standardizza la percezione, e noi finiamo per trattare un’arancia come se fosse un artefatto. La serie ci fornisce, insomma, degli strumenti mentali con cui pensare il mondo. Abbiamo imparato che un difetto visibile è indizio di qualcosa che non va, eppure non è solo questo. In realtà, abbiamo introiettato lo statuto di questi oggetti di somigliarsi fra loro e siamo inclini a preferire sempre quello più uguale agli altri. Pretendendo la serie e non l’eccezione, vogliamo comprare non il singolo oggetto ma la sua idea. Vogliamo il prototipo di cui quell’oggetto è una manifestazione. Si tratta di una circostanza storica. Negli ultimi anni sono nati i gruppi di acquisto a “chilometro zero”, che si riforniscono solo da coltivatori del territorio limitrofo. La frutta e la verdura che propongono sono spesso di forme inconsuete e irregolari. Queste imperfezioni sono salutate dai consumatori come segno di genuinità. Il “chilometro zero” è, insomma, pensabile solo in relazione al supermercato. A tal proposito, nelle grandi città europee è facile imbattersi in ambulanti che vendono statuine in legno dell’artigianato africano. Per quanto si tratti di oggetti fatti davvero a mano, sono nondimeno tutti virtualmente identici, e questo poiché sono stati concepiti apposta per il nostro mercato. L’artigianato africano, in fin dei conti, ha inglobato la nozione di serie. Questo dimostra che l’essenza del design consiste nella serializzazione dei processi. Anche molti oggetti che appaiono industrialissimi sono assemblati a mano da operai. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 2 Il design, attraverso l’iterazione di idee e di modelli, progetta anzitutto “rappresentazioni”, cioè cose che si mostrano al nostro sguardo, ma che finiscono per abitare la nostra mente. Per questo il design, ancor prima che oggetti, produce discorsi, vale a dire un insieme di saperi, di convincimenti, di miti, di comportamenti e di pratiche sociali accomunati dalla scala di massa. Un ruolo fondamentale lo hanno i mezzi di comunicazione, in primo luogo tramite le invenzioni della grafica, del cinema e della pubblicità. Non è senza significato che nel 1912 Picasso e Braque inaugurino la rivoluzione cubista inserendo nei loro dipinti scampoli di carta da parati, biglietti del treno e ritagli di giornale come stralci di mondo. Da questi ragionamenti si comincia a intuire come si costruisce l’immaginario cromatico: fare un oggetto di un certo colore può incontrare o meno il consenso del pubblico; ma se lo incontra, inizia a vivere nella nostra fantasia, finché quel colore diventa una categoria con cui giudichiamo tutto il resto. L’aspetto cruciale del rapporto tra i colori e le cose sta proprio in questo depositarsi della tinta nella memoria collettiva e nel suo continuare a parlare anche quando i significati originari sono ormai perduti tra le pieghe della Storia. Per verificarlo si potrebbe provare a fare un elenco di tutte le cose gialle, ormai famose, che contraddistinguono il nostro mondo culturale, e di cui però ignoriamo l’origine. Tante abitudini comuni sono invenzioni recentissime, spesso determinate da necessità tecniche. Eppure sembrano fatti ovvi. Negli ultimi 3000 anni, gli uomini più diversi si sono interessati al colore costruendoci sopra intere visioni del mondo. È chiaro che i dilemmi cromatici di un tintore vissuto nel II secolo a.C. sono lontani da quelli di un pittore settecentesco o di un biologo contemporaneo. Ogni ambito ha posto i propri problemi e costruito un lessico acconcio. Questo fa sì che oggi ci ritroviamo con saperi spesso in conflitto tra loro e con una terminologia molteplice e a volte imprecisa. Queste contraddizioni sono un aspetto importante della storia del colore. La moltitudine di approcci, di studi e di competenze accumulatasi nei secoli ha, infatti, costruito un grande castello di conoscenze, ma ha anche prodotto molte scorie e detriti. Si tratta, però, di incrostazioni culturali preziosissime. Chiunque osservi con attenzione la nostra società sa bene come spesso uno stereotipo dica più di un’idea esatta. Il mondo del colore ricorda quella meravigliosa stampa di Hokusai in cui un grande elefante vecchio e decrepito è assediato da 11 uomini ciechi, ognuno intento a farsene un’opinione. Eppure nessuno riesce a coglierlo nella sua completezza, perché l’esperienza dei sensi restituisce solo frammenti parziali e mail il tutto. In sostanza, l’elefante è un’arguta metafora dell’impossibilità di conoscere la cosa in sé. Per capire il colore dobbiamo lasciare da parte qualsiasi pretesa di arrivare a un’unica verità, e dare ascolto invece a ciascun cieco, poiché ognuno ha qualcosa da dire. Se vogliamo capire cos’è oggi il colore dobbiamo chiederci non solo come funziona, ma anche quali sono le idee che gli uomini se ne sono fatti. ROSSO UNITO L’occhio del XXI secolo In pasticceria, la regina delle paste è il diplomatico, ovvero il trancetto di liquoroso pan di Spagna con pasta sfoglia e crema pasticcera. La complessità di questo dolce ha a che vedere non tanto con la ricetta in sé, ma con il modo in cui viene gustata. Quando si morde il diplomatico, lo zucchero a velo che lo ricopre vola sul palato; poi si sente sui denti il croccante della sfoglia e questa, una volta spezzata, rivela l’umido del ripieno da cui, masticando, cola il liquore fin sotto la lingua. È un dolce che, per esprimere sé stesso, ha bisogno di un preciso lasso di tempo. Da quando lo addentiamo a quando viene deglutito produce effetti e sensazioni molteplici. Che sia un dolce fuori moda dipende forse da questo sottrarsi alla velocità. Un’esperienza diversa rispetto alla Nutella, che ha un gusto concorde per tutto il tempo che la teniamo in bocca. L’opposizione tra i due è di certo quella tra un prodotto di lusso e uno economico, tra tradizione artigiana e serialità contemporanea; ma è innanzitutto il contrasto tra due mentalità dissimili: il passo lento dell’uno e l’immediatezza dell’altra. In molti ambiti dell’invenzione, è la velocità la cifra dei nostri tempi. Nell’arte e nel design, i linguaggi che riscuotono maggior successo sono proprio quelli che si colgono in un baleno. Spostando la metafora sul piano cromatico, se il diplomatico è un colore articolato e cangiante, allora la Nutella è un esempio di tinta unita. Da un punto di vista tecnico, la tinta unita è l’aspetto uniforme di una superficie in cui riconosciamo lo stesso colore in ogni punto. Dire dove inizi il concetto di tinta unita è difficile. Nel lessico quotidiano ci capita di nominarla a proposito di qualcosa che potrebbe non averne, come un maglione, contrapponendone la compattezza a un pattern, un disegno o un mélange. Anche la tinta unita si fa capire all’istante. Per averne la prova, si confronti il colore di un cielo dipinto da Fragonard nel Settecento con il cielo della tavola di un fumetto: • Il primo è lavorato e apprezzarlo richiede una lunga osservazione; • Il secondo è omogeneo e immediato. Non è pero solo una caratteristica percettiva, ma una categoria con cui pensiamo il colore più in generale. Una rivoluzione anzitutto dello sguardo. La frequentazione dei linguaggi industriali comporta infatti che del colore oggi predichiamo prevalentemente la tinta, e diamo per scontato che questa sia unita. Insieme ai pigmenti sintetici, quest’idea di compattezza è forse la vera e più importante novità del mondo moderno. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 5 asseconda la nostra naturale tendenza all’astrazione; dall’altro cerchiamo, però, la sporcatura, l’imperfezione che renda vivo e umano quel colore. Il successo del diplomatico è dovuto al fatto che è sentito da tutte le generazioni come la pasta di un’epoca passata; e quindi il suo mostrarsi desueto non è un fatto reale quanto una dimensione psicologica. Il ricordo è un punto di vista. In fondo, solo chi conosce le tinte industriali è in grado di apprezzare le incertezze e i tremolii che forse nel Rinascimento non avevano alternativa. Il senso del discorso è riconoscere a ciascuno la propria specificità estetica rimanendo uomini del nostro tempo. Comprendere meglio le logiche inventive del passato può insegnarci, per contrasto, nuovi usi del colore proprio negli artefatti prodotti in serie. È fondamentale collocare il colore nel suo contesto e chiedersi quali mondi e quali mentalità lo abbiano generato. PARTE SECONDA STORIE AZZURRO COSTOSO Coloranti e pigmenti prima della modernità I colori “da adulto” hanno dei nomi davvero inconsueti, parole che lasciano intuire un mondo esoterico che seduceva e metteva soggezione. I nomi delle belle arti evocavano non le sembianze cromatiche, ma la loro origine: ad esempio, Terra di Siena, dalla località dove un tempo abbondava quel terriccio ferroso, oppure bruno Van Dyck, in omaggio al pittore che usò al meglio quel tono scuro. Non semplici tinte, ma certificati di provenienza. La prima e più grande differenza coi colori del passato è tutta qui: prima della chimica, il colore è stato anzitutto una materia preziosa. Per più di 35 millenni, i colori sono stati ricavati dai 3 regni della natura: • Da quello minerale si estraevano terre, carbone e pietre da macinare; • Da quello animale, molluschi e insetti da spremere; • Da quello vegetale, tutte quelle piante i cui succhi rivelavano poteri tintori. Il fatto che un determinato colore si potesse trovare solo in alcuni luoghi è sempre stato tenuto in gran conto e ha spesso lasciato tracce negli artefatti umani. Oggi i colori, per uso artistico o industriale, sono prodotti sintetici, molecole create in laboratorio tramite reazioni chimiche. In passato, gli oggetti potevano essere soltanto di alcuni colori, il che comportava che la tinta venisse sentita coma una loro qualità consustanziale. Oggi, invece, quando parliamo di colore ci riferiamo a un concetto in parte astratto. Usiamo gli aggettivi giallo, rosso, blu applicandoli a qualsiasi cosa. Abbiamo un’idea generale delle tinte svincolata da oggetti precisi e possiamo pensare o nominare il giallo a prescindere da cose gialle. Si tratta anche di una condizione storica, perché l’industria ci permette di avere determinati oggetti di qualsiasi colore. Può sembrare un fatto ovvio, eppure è una conquista recente. I primi pigmenti usati dall’uomo sono le terre. A queste si ricorre fin dai tempi arcaici per dipingere o per cambiare aspetto agli artefatti. Sono terre quelle che dànno vita alle pitture preistoriche, e sono terre quelle trovate in alcune delle più antiche inumazioni conosciute. Dalle piante si estraggono, invece, sostanze adatte alla coloritura di carta, cibi e tessuti. Dalla robbia, per esempio, si ricava un rosso vivace perfetto per tingere le stoffe. Altre tinte vengono dal regno animale, come il rosso di cocciniglia, non solo la tintura più usata per secoli, ma tutt’oggi uno dei più diffusi coloranti alimentari (® Campari, orsetti gommosi, Strawberry Frappuccino di Starbucks). Ci sono poi colori che vengono creati unendo il mondo animale e quello vegetale, come il pregiato giallo indiano, prodotto dando da magiare alle vacche soltanto foglie di mango e privandole dell’acqua, per cavare dalla loro urina essiccata una polvere gialla con intenso potere colorante. Stiamo, però, parlando dell’India del V secolo. A un certo punto della Storia si comincia anche a fabbricarli. Il più antico pigmento artificiale risale al III millennio a.C. È la “fritta egizia”, il blu più usato per secoli. Il pigmento di maggior successo è, invece, la “biacca”, l’impasto più importante dall’età classica all’Ottocento. È il bianco che troviamo negli affreschi della Roma imperiale e nella tavolozza di Renoir; ha, però, un difetto: se usato ad affresco, scurisce. Una testimonianza di questa catastrofe la troviamo nella Crocifissione di Cimabue ad Assisi, dove, assorbendo l’umidità, l’intonaco ha mutato il carbonato in solfuro di piombo nero che ha invertito l’immagine come in un negativo fotografico. Tossicità e instabilità raccontano bene i problemi che incontra chi ha a che fare col colore nel mondo premoderno. È una storia piena di insidie: • Da una parte, si ignorano le proprietà nefaste di alcuni legami chimici; • Dall’altra, per fissare il colore, si fa ricorso a sostanze acide come l’urina, che appesta i locali in cui si lavora. Chi maneggia i colori appartiene in sostanza a una classe inferiore, maleodorante, e tanto più sono apprezzate le stoffe variopinte, tanto meno sono stimati i loro artefici. Sono questi operai a occupare il gradino più basso della scala sociale, al di sotto degli artigiani e degli artisti. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 6 Da questa manciata di storie si capisce come il colore venisse pensato, in passato, in maniera profondamente diversa rispetto ad oggi. Soprattutto perché più era difficile da ottenere, più costava. Nel mondo antico, ciascun colore ha un suo prezzo preciso e caratterizzante. Il nerofumo, che si ottiene dal carbone, lo si trova a buon mercato; il rosso di porpora e il blu di lapislazzulo, sostanze di importazione insolite e preziose, hanno al contrario prezzi proibitivi. La tavolozza non è, quindi, composta di tinte paritetiche, ma sempre di gerarchie, e la differenza di quotazioni continua a parlare anche negli artefatti finiti. La disponibilità di colori sintetici ha annullato questa educazione economica che nei cibi è, invece, ancora presente. Per lo sguardo antico, il blu vale più del nero, immediatamente, a colpo d’occhio. Il blu oltremare non è, però, solo più costoso, è prima di tutto mitico, tanto da essere annoverato da Marco Polo tra le meraviglie dei suoi viaggi. Si tratta della riduzione in polvere di una pietra semipreziosa, il lapislazzulo, che arriva in Europa portata da navi provenienti dai Paesi lontani, “oltre” il Mediterraneo. “Ultramarino” si riferisce a come arriva sul mercato, cioè da un posto imprecisato al di là del mare. Oggi sappiamo che, nel mondo antico, l’unica fonte di questo minerale era l’attuale Afghanistan, da cui giungeva in Italia tramite la via della seta fino alla piazza più importante in Europa, che era Venezia. Tuttavia, sul piano dell’immaginario, l’oltremare è il blu del Rinascimento: quell’azzurro intenso che troviamo nella Cappella degli Scrovegni di Giotto, nel Cenacolo di Leonardo, nella Sistina di Michelangelo. A rendere questo colore ancora più glorioso contribuisce il fatto che richiede una lavorazione luna e laboriosa. In natura, il lapislazzulo si trova mischiato, poi si aggiungono olio, cera, resina, e il tutto viene impastato più volte per poi subire molteplici risciacqui da cui, dopo la decantazione, compare una polvere finissima di un azzurro brillante. A descriverci questa ricetta è Cennino Cennini, pittore giottesco e autore del Libro dell’arte. Leggere Cennini è come entrare nel backstage della grande officina del Rinascimento. Qui anche i nomi dei colori sono fascinosi: orpimento, minio, sangue di dragone, risalgallo. Che questa cultura sia alla base dell’attuale civiltà delle immagini è un fatto noto, per capire però fino a che punto abbia lasciato tracce bisogna soffermarsi su alcune complesse dinamiche sociali in cui proprio il lapislazzulo ha un ruolo capitale. I maggiori committenti del Quattrocento fiorentino sono mercanti e banchieri le cui fortune vengono dal prestito a usura. Per la Chiesa si tratta di un peccato grave: l’usura consiste nel far pagare un interesse che cresce col tempo, ma siccome il tempo è un attributo di Dio non può essere oggetto di compravendita. Per salvarsi dalla dannazione questi strozzini devolvono parte delle proprie ricchezze ora in beneficienza, ora investendo in cultura. Il fine è esibire la propria munificenza, dimostrare il proprio potere, e risarcire la società di quanto si è preso, cercando di riguadagnarsi un posto in paradiso o anche solo tra le persone per bene. Sono committenti attentissimi alle opere, fino a entrare nel merito dei contenuti e dei modi in cui gli artisti devono lavorare. La scelta di materiali di pregio è vitale: l’arte deve mostrare talento e si deve vedere quanto è costata. Quasi sempre tendiamo a guardare il Rinascimento dal punto di vista degli artisti, eppure ci accorgiamo che il rapporto tra i Medici e Botticelli è molto simile a quello che abbiamo oggi con un muratore a cui chiediamo di ristrutturare un appartamento: ci affidiamo a lui per il lavoro, ma le piastrelle le pretendiamo di scegliere noi. Botticelli è ritenuto un grande artista, ma nel XV secolo un artista è socialmente più simile a un muratore che a un intellettuale e l’arte è così importante per la politica che non si può lasciarla in mano a un semplice pittore. Il lapislazzulo si pone al crocevia tra trattative finanziarie e significati simbolici. Infatti, il pubblico condivide l’orizzonte economico dei committenti e ne capisce le scelte sia sul piano estetico, sia su quello narrativo. Per esempio, nel dipinto del Sassetta San Francesco dona il mantello al soldato povero vediamo il santo che cede un drappo di stoffa azzurra porgendolo all’altro personaggio. Per il pubblico del Quattrocento è senza dubbio blu oltremare e, quindi, il bene a cui san Francesco sta rinunciando è metaforizzato dall’uso del pigmento più costoso. Il lapislazzulo trasferisce un valore di mercato dentro le opere, facendo assumere al colore significati non solo simbolici, ma più ampiamente culturali. Il tipo di colore può stabilire delle graduatorie all’interno di uno stesso dipinto. Si legge nei contratti d’epoca che il lapislazzulo può avere diversi gradi di purezza, a cui corrispondono i relativi prezzi. Il più costoso viene raccomandato per dipingere il manto della Madonna, mentre quello più economico si può usare per cose di minore importanza. Attraverso il costo, il colore stabilisce anche delle distinzioni teologiche. Per tutto il Novecento, Winsor & Newton ha commercializzato sia il “vero” oltremare, sia una versione sintetica, ma mentre quest’ultima chiedeva 1 sterlina l’oncia, per quello autentico ne chiedeva 120. Il costo dei materiali a volte è responsabilità dell’artista, altre a carico diretto del committente, che mette per iscritto le quantità esatte che ne verranno usate. La preoccupazione economica, infatti, è il chiodo fisso dell’epoca per tutte le parti in gioco e Cennini non manca mai di mettere in guardia gli artisti dalle possibili frodi (® per esempio, l’azzurrite, un minerale economico). Il prestigio dell’oltremare cambia le sorti del blu, che da colore poco usato nell’antichità diventa, dal Rinascimento in poi, la tinta più nobile e apprezzata – fino al punto da essere scelto come la virtù stessa del manto della Madonna. Fino al Quattrocento, l’abito ufficiale della Vergine è scuro, a simboleggiare il lutto per la morte del figlio. Poi, nel Quattrocento c’è un cambio di rotta, quando la fastosa generosità dei committenti pretende che Maria sia vestita col lapislazzulo. Una testimonianza eccezionale di queste oscillazioni del gusto cromatico la incontriamo in una Madonna scolpita in legno di tiglio conservata al Museo di Liegi. La scultura è stata ridipinta diverse volte: • Lo strato più profondo è nero perché appartiene ai tempi in cui la Vergine è la madre in lutto; • Sopra c’è uno strato blu rinascimentale, in cui non è più solo madre, ma soprattutto regina dei Cieli; GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 7 • Poi uno strato d’oro di epoca barocca, gli anni in cui Maria raffigura la Chiesa stessa, avvolta in uno sfarzo ostentato e prepotente volto a combattere i pauperismi protestanti; • Infine, uno strato bianco, steso con tutta probabilità dopo la proclamazione dell’Immacolata Concezione nel 1854, in cui la Vergine si propone come simbolo di purezza. La statua è una, la stessa per quasi 5 secoli. Sono i colori che le fanno dire cose diverse. Le convenzioni cambiano al cambiare della cultura; quello che vale la pena sottolineare, invece, è come le idee che ci facciamo delle cose siano sempre costruite partendo dall’uso concreto delle cose stesse. La Madonna continua, infatti, a indossare un mantello blu in tutte le raffigurazioni recenti, ma la Vergine è blu perché una concreta diatriba di mercato è stata sublimata dall’arte in una questione teologica. Perfino fare il cielo blu è un’opzione che diventa normativa quando lo si comincia a dipingere col lapislazzulo rendendolo più intenso e scuro di quanto sia davvero. Eppure il cielo non ha un colore preciso e meno che mai blu: è bianco all’alba, rosso al tramonto, grigio d’inverno e celeste chiaro in una bella giornata di sole. Per sua natura, il cielo cambia di continuo, e in pittura lo si è dipinto in svariati modi. Desiderare che i segni abbiano a che fare con la realtà è più forte di noi ed è facile convincersi che una convenzione sia un fenomeno naturale. Nell’immaginario della società industrializzata trasudano, insomma, le tracce di una storia materiale vecchia di 5 secoli. Il passato cromatico continua a parlare negli usi e nelle abitudini moderne. PORPORA SIMBOLICO Idee e miti del mondo antico Il mercato dei colori del Cinquecento dischiude merci dai poteri straordinari, precluse ai non iniziati. Accanto ai pigmenti più noti, alcuni pittori sono soliti comprare una sostanza scura, tanto costosa quanto macabra: si tratta della riduzione in polvere di mummie egizie, il cui contrabbando risale in Occidente ai tempi delle crociate. La chiamano “carnemonía”, nome che ne rivela l’origine umana e mortuaria, e il suo successo cresce nei secoli tanto che viene commercializzata addirittura come farmaco. Leggenda vuole che Tintoretto sia disposto a pagare più del lapislazzulo per un po’ di questo “nero di mummia” che mischia con gli altri pigmenti, convinto che abbia un potere occulto capace di penetrare nelle viscere dei dipinti fino a rendere immortale la sua fama ed eternare il suo nome. Anche Giovanni Paolo Lomazzo sostiene che la polvere di mummia, macinata finissima, sia ottima per dipingere le ombre dell’incarnato. Quando si dipinge una figura umana, per costruire un’ombra credibile, ciò che conta sono i rapporti tonali che si instaurano tra le zone chiare e quelle scure; cioè deve sembrare che i toni bui arretrino e quelli luminosi vengano verso di noi. Le ombre sono un fenomeno ottico che si può ottenere con qualsiasi pigmento purché bruno o terroso. Tintoretto e Lomazzo, invece, sono persuasi che il miscuglio egizio conferisca alla pittura un merito ulteriore, non visibile nel quadro, e tuttavia prodigioso. Per la loro mentalità, le mescolanze colorate sono anche rituali, e i confini di ciò che è reputato un colore sono decisamente sfumati rispetto a come ragioniamo oggi. Nei tempi antichi, la maggioranza delle persone frequentava nella vita comune colori naturali o sbiaditi. Quindi, tutto ciò che era colorato era per forza eccezionale e miracoloso, non solo in senso metaforico. Molte delle idee sui colori sviluppate dall’uomo fin dai tempi remoti interessano appunto le loro facoltà magiche. Per questo il potere colorante è reputato solo uno degli aspetti che le cose possiedono insieme ad altre virtù non esibite, ma agenti. Per la mentalità antica, il colore è qualcosa che si dà insieme alle cose che lo possiedono e concerne l’ontologia della materia, cioè la sua essenza. Dicendo “porpora”, assieme a una percezione si sta sempre indicando una cosa concreta, e quando in un testo leggiamo che una veste è di questo colore non ci viene fornita tanto una lunghezza d’onda quanto l’informazione su come quella stoffa è stata lavorata. Il pigmento – estratto da un mollusco – a seconda di come viene trattato, può infatti tingere un tessuto di rosso, di arancio, di marrone o perfino di viola. La porpora è, dunque, un “colore”, ma a cui corrispondono molte tinte e il cui effetto evoca prima di tutto meriti economici e spirituali. Per tingere una sola veste occorrono migliaia di conchiglie, tanto che rigide leggi suntuarie stabiliscono quali classi possono sfoggiarla e quali no. Questo statuto privilegiato dà adito a miti e leggende che si tramandano per secoli. Isidoro di Siviglia sostiene che il termine “porpora” venga da puritate luci (= purezza di luce), a significare che dietro quella sensazione c’è una prerogativa che non è elargita a chiunque. Questa logica chiarisce come mai l’origine dei colori sia per quegli uomini così importante: risalire ai principî delle cose ne svela il significato profondo. L’uomo medievale compila sterminate raccolte in cui la conoscenza non risiede nel dato verificabile bensì in quello allegorico. Ciò che è impensabile per la mentalità antica è l’arbitrarietà dei significati: per un uomo medievale il rosso partecipa di un senso stabilito da forze che precedono i patti tra gli uomini. Non si sceglie una tinta perché si accorda a un’altra, quel pigmento deve avere proprietà ulteriori che ne giustifichino l’impiego. Anche per questo, tra le materie esiste sempre una gerarchia. Nelle società preindustriali, l’origine eterogenea di pigmenti e tinture non permette di mescolare i colori tra loro. È soprattutto questa irriducibilità dei colori tra loro a far sì che la peculiarità della sostanza preceda il concetto di tinta e l’aspetto ottico rimanga una dote secondaria. È quindi impensabile una teoria universale del colore che li contenga tutti in modo ordinato. Non esiste, o quasi, un colore che a guardarlo possa significarci più dell’effetto retinico. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 10 Scopre, infatti, che si possono sovrapporre più raggi colorati provenienti da prismi differenti ottenendo tinte composte che non sono presenti nell’arcobaleno. Per il diagramma scelto, Newton si ispira a un disegno del Compendium musicae, un trattatello scritto da Cartesio nel 1618. Cerchi e ruote avevano del resto una storia illustre in ambito filosofico e scientifico: sono tra gli strumenti di ragionamento prediletti da tanti pensatori. La più antica attestazione di una ruota cromatica è in un manoscritto latino del XV secolo conservato alla Bibliothèque nationale de France. Si tratta di un’immagine curiosa e divertente in cui le tinte vanno dal giallo chiarissimo al marrone intenso e che serviva a indicare lo stato di salute del paziente in base alle nuance dell’urina. La vera novità newtoniana è che il suo cerchio non è uno strumento pratico o divinatorio, bensì la graficizzazione di un concetto scientifico, cioè un modello per ragionare. Una volta posti in circolo, i colori cominciano infatti a instaurare delle relazioni prima impensabili; per esempio ogni tinta ha un suo opposto dell’altro lato del cerchio. Un’idea che cambierà le sorti dell’estetica, dell’arte e del design, anche grazie all’importanza che le attribuisce un secolo dopo Wolfgang von Goethe. Autore di spicco della letteratura mondiale, Goethe scrive 2 libri sul colore. La teoria dei colori è il fondamento di tutta la futura letteratura scientifica: la scienza si rivela tangibile e appassionante. Goethe investiga l’aspetto fenomenico del colore, cioè il modo con cui lo vediamo nella vita di ogni giorno, polemizzando con la teoria newtoniana che reputa troppo astratta. Per molti versi, Goethe è antiscientifico, ma in questa maniera fornisce spunti fondamentali a chi col colore deve farci delle cose. Le sue idee riscuotono subito grande fortuna e diventano argomento di dibattito. L’attenzione per le apparenze trova, infatti, nelle pagine goethiane una premessa fondamentale. La virtù del suo approccio è la concretezza. Goethe parte da aneddoti e osservazioni per risalire alla riflessione complessiva. Per esempio, racconta che una sera si trova di fronte una ragazza dal volto bianchissimo e dai capelli neri, vestita con un corsetto rosso scarlatto. Eli è lì, ferma, e lui la fissa. Quando questa d’improvviso si muove, sul muro bianco gli appare un’immagine come in negativo. Si tratta dell’esperienza oggi nota come “immagine postuma”, ovvero i neuroni coinvolti nella visione, di fronte a una superficie neutra, costruiscono un’immagine residuale e opposta, per compensazione. Goethe propone un esperimento in linea con questo racconto: suggerisce di poggiare su un foglio di carta bianca, al crepuscolo, una candela accesa. Tra questa luce e la luce del sole dice di mettere una matita, di modo che l’ombra generata dalla candela venga rischiarata ma non cancellata dalla debole luce del sole calante. Ed ecco che l’ombra si mostra di un bell’azzurro vivo. L’effetto è possibile perché la candela, illuminando la carta di un tono arancio, spinge l’occhio a costruire un’ombra azzurrognola con l’aiuto della luce più fredda che viene da fuori. Nel caso della ragazza, la mente crea un colore dopo aver guardato; nell’esperimento della matita si forma, invece, un colore psicologico accanto a quello percepito. La prima è una reazione che avviene nel tempo, la seconda nello spazio, ma in entrambi i casi la tinta che vediamo nasce per opposizione alla tinta di partenza. Goethe sottolinea che si tratta di tinte suscitate nell’osservatore e non di qualcosa che esiste nella realtà, suggerendo che la mente può produrre il colore anche in assenza di stimoli esterni. Partendo da queste indagini, Goethe costruisce così un modello cosmologico in cui i colori rivelano alcune proprietà profonde sulla natura delle cose. Diventano le manifestazioni sensibili di forze che governano l’universo e che sono in accordo o in conflitto fra loro. Ogni colore ha un suo “complementare”, cioè una tinta con cui instaura un rapporto di attrazione e di distanziamento, o meglio di un’affinità elettiva. L’opponenza a 2 a 2 di colori suddivisi per intervalli uguali e simmetrici. Queste scoperte saranno un lascito fecondissimo per gli artisti a venire, ma anche idee capitali per il futuro della psicologia della percezione: la prova che i sensi forniscono al cervello strumenti con cui costruire quello che vediamo. Tra le domande filosofiche della fanciullezza c’è il chiedersi se una cosa continui a esistere anche quando non la guardiamo più. Crescendo, abbandoniamo questi convincimenti magici, eppure certe domande si ripropongono in tutta la loro forza quando abbiamo a che fare col colore. Se chiudiamo gli occhi, infatti, le cose intorno a noi di certo continuano a esistere, ma il loro colore no. Chiudendo gli occhi, il colore smette di esserci, perché il colore non è qualcosa che esiste a prescindere da un occhio che lo sperimenti. Là fuori, in sostanza, esiste l’energia elettromagnetica e la fisica può studiarla, ma non c’è il colore, che esiste solo quando un vivente è in grado di dargli voce e consistenza – ed è questa voce ciò che interessa Goethe. Non deve allora stupire che sia in aperta polemica con Newton: le riflessioni del fisico gli paiono svincolate dall’esperienza reale. La critica di Goethe a Newton è che ciò che dice sia inutile alla vita. Sono due punti di vista sul mondo: del colore, a Newton interessano le cause, a Goethe gli effetti. Newton diventa il paladino di chi vuole capire la realtà per stabilirne leggi e andamenti; Goethe, di chi vuole capire il colore nel suo concreto mostrarsi ai nostri occhi. Da questa diatriba è Newton a uscire vincitore, un fatto spiegabile in sede storica con i passi da gigante compiuti dalla fisica. Poi, alla fine del Novecento, quando lo studio del cervello diventa la nuova scienza di moda, Goethe viene riscoperto come il primo ad aver intuito gli aspetti psicologici dell’esperienza cromatica. A raccogliere le idee di Goethe e a trasformarle in qualcosa di utile alle pratiche professionali è un chimico. Si chiama Michel Eugène Chevreul e viene a contatto coi problemi del colore quando nel 1824 è nominato direttore delle manifatture reali di Gobelins a Parigi. In quegli anni, i tintori che ci lavorano si vantano di saper distinguere fino a 20.000 sfumature diverse, eppure non possiedono un sistema preciso per indicarle, ma solo moltissimi nomi. Chevreul, per prima cosa, razionalizza le GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 11 nomenclature cortesi sostituendole con dei numeri, e introducendo l’uso di cerchi cromatici graduati per metterle in ordine. È il presupposto di tutte le classificazioni moderne. Durante quest’opera di organizzazione, Chevreul si imbatte in un problema che fa dannare gli artigiani delle manifatture e cioè la beffa che il nero dei disegni ricamati sulle stoffe a tinta unita non sembri davvero nero, ma cambi a seconda del contesto. Chevreul capisce che quest’effetto è dovuto all’occhio dell’osservatore: è la costruzione di un complementare psicologico. Si mette allora a studiare i vari tipi di contrasto, accostando tinte diverse, fino a concludere che l’unico modo per risolvere il problema è barare. Bisogna modificare le tinte per farle sembrare quello che vogliamo quando vengono accostate le une alle altre. Il mondo degli artisti e dei designer prende atto che non basta creare le cose: bisogna progettare anche il modo in cui vengono guardate, cioè preoccuparsi della loro rappresentazione nella mente del pubblico. è una conquista cruciale per le arti visive, un pilastro operativo in pittura, nell’illustrazione, nel cinema e nella grafica. Chevreul denomina “simultaneo” questo tipo di contrasto, perché accade simultaneamente alla vista del colore, che ne è la causa; e all’argomento dedica un intero libro (1839). Chevreul dice di aver aspettato di proposito così tanto tempo perché non voleva fosse troppo costoso; rivelando di appartenere alla nascente cultura di massa. Generazioni di artisti lo leggono e lo studiano. Tra questi, il grande pittore Delcroix, forse il primo ad applicare la teoria dei colori simultanei in pittura, proponendo incantevoli ombre viola, cioè cariche del complementare della luce calda del sole. Le ombre che fino al giorno prima erano state nere, grigie o marroni diventano variopinte. Gli impressionisti se ne innamorano, sedotti da quella nuova verità ottica, fino a Monet che dipinge covoni gialli dalle ombre di un viola vivace e innaturale. Scelta che permetterà poi ad artisti come Gustave Klimt di usare il blu persino per le ombre dell’incarnato. A questo proposito, uno dei malintesi divulgati dalla vecchia storia dell’arte è credere che gli impressionisti dipingano il mondo come appare. Il cuore di quella pittura è ben più concettuale. L’azzurro delle ombre suggerito da Goethe è una costruzione psicologica; quindi, se un pittore dipingesse le ombre grigie, il cervello ce le farebbe comunque vedere un po’ azzurrognole. Realizzarle proprio d’azzurro è dunque una volontaria esagerazione della realtà ed è anche la più autentica delle sommosse operate dai pittori dell’Ottocento: non dipingere le cose come sono davvero, ma come vengono elaborate dalla nostra psiche. E questa liberazione della materia colorata sarà il fondamento di tutta la futura comunicazione visiva. BLU BOVARY Vestirsi per amare e per significare Quando, in un’opera di invenzione, un personaggio si veste di un certo colore la cosa non è mai senza importanza. Sono tanti i personaggi la cui identità è legata a una tinta precisa: il verde di Robin Hood, il rosso di Cappuccetto, ecc. Se un narratore ci racconta che qualcuno è vestito di un determinato colore ci sta dicendo qualcosa che trascende la descrizione immediata. Si può cominciare dalla protagonista di uno dei romanzi più famosi dell’Ottocento francese, Madame Bovary di Gustave Flaubert. Emma, figlia unica di un piccolo possidente agricolo, durante gli anni del collegio ha conosciuto le arti, la musica, la letteratura e, tornata a vivere in campagna, si sente stretta. Volitiva ed egocentrica, sogna una vita diversa; così quando conosce Charles Bovary, un medico condotto, accetta di sposarlo intravedendo in lui la possibilità di uscir fuori da quei confini campagnoli. Il marito, però, si rivela presto un uomo mediocre nei pensieri e modesto nelle ambizioni, e quando se ne presenta l’occasione Emma si tuffa nell’adulterio. Prima con Rodolphe, proprietario terriero disinvolto e seduttivo, poi con Léon, giovane avvocato. Emma cerca nelle relazioni extraconiugali un senso che le manca, inseguendo quegli ideali romantici scoperti da ragazza attraverso le pagine dei romanzi. Un senso che combatta la noia, che è un sentimento moderno. Quella industrializzata è la prima società, se non atea, perlomeno priva di paradiso: se non c’è certezza di un’altra vita, allora stare senza far niente significa sprecare quel poco tempo che ci è dato, col rischio di mancare il proprio destino. La noia moderna è forse solo questo: la consapevolezza di un presente reso ansioso dalla mancanza di eternità. Il senso va cercato nell’immediato. In primo luogo, è la lettura che nella nuova società di massa intrattiene le classi emergenti proponendo mondi, modelli e aspirazioni. Emma desidera il teatro, l’equitazione, i giornali illustrati e aspetta un evento pratico che la distragga e le dia senso. Un senso non ultraterreno, ma mondano. Così, Emma comincia a spendere al di sopra delle sue disponibilità, infilandosi in una spirale di debiti da cui non riesce ad uscire e di cui il marito è ignaro. Alla fine, incapace di tirarsene fuori e troppo orgogliosa per arrendersi allo sguardo dei compaesani che disprezza, decide di farla finita e si uccide ingoiando dell’arsenico. Sul piano cromatico, Madame Bovary è un romanzo parco di descrizioni, tranne riguardo al blu: unico colore su cui l’autore torna con insistenza legando fra loro alcuni elementi cruciali. La prima volta che Charles Bovary incontra la sua futura moglie, Emma, è vestita con un abito di lana blu. Non si tratta di una considerazione buttata lì per caso. Il blu spicca, si fa notare, e racconta il desiderio di una vita diversa, forse più elevata. Flaubert ci informa che Emma indossa abiti blu; veniamo a sapere che pure il signor Bovary ai tempi della scuola aveva attirato l’attenzione giacché portava delle calze blu. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 12 Tuttavia, il blu non è solo qualcosa che si indossa, è anzitutto qualcosa che si è: Emma ha occhi marroni che alla luce del giorno brillano di un blu scuro come fossero fatti di strati di colore successivo, e ha i capelli divisi in due bande, tanto lisci che emanano riflessi blu. Il blu, dunque, è un colore-tema, un segno preciso che narra gli ideali della protagonista, ma è anche colore presagio e doloroso. Quando Rodolphe la lascia, Emma sospetta che lui stia partendo per sempre, così si affaccia alla finestra e lo vede allontanarsi in un calesse blu. Di vetro blu è anche il barattolo che contiene l’arsenico: per uccidersi, Emma lo ruba al farmacista, instaurando tra quel suo primo vestito e questo ultimo gesto una tragica simmetria. Un secolo prima di Emma Bovary, c’era stato un altro suicidio a opera di un personaggio letterario vestito di blu. Il protagonista dei Dolori del giovane Werther, pubblicato nel 1774 da Goethe, vittima di un amore impossibile per Charlotte, si spara un colpo di pistola alla tempia e si fa trovare morto vestito con una giacca blu e un panciotto giallo. Goethe è il primo a evidenziare le ombre azzurre proiettate dagli oggetti quando la fonte che li illumina è gialla, ma in lui quest’opposizione è un fatto metafisico: la luce del giallo e l’ombra dell’azzurro sono i poli di una serie di opposti da cui scaturisce tutto l’esistente. Il maschile, il dispari, il caldo da una parte. Il femminile, il pari, il freddo dall’altra. Il blu della giacca di Werther è dunque una questione identitaria che afferma un proprio modo specialissimo di stare al mondo. Il successo del libro è enorme e l’accostamento di blu e giallo fa scoppiare una moda, tanto che diventa una divisa sentimentale. Vestirsi alla Werther è un segno di gusto e diventa la costante iconografica del personaggio pure fuori dal libro. A partire dal Rinascimento, il blu, da colore negletto nella tavolozza antica, diventa pregiato e spirituale. Nel Settecento ha ormai una storia illustre e viene eletto nei cenacoli più colti a emblema di distinzione nella vita e nell’arte. Nell’Enrico di Ofterdingen di Novalis si raccontano le avventure di un Minnesänger, cioè di un cantore medievale di cose amorose, che accompagnato dalla pastorella Cyana va alla ricerca di un fiore blu, simbolo della capacità intuitiva di comprendere la realtà e delle altezze metafisiche cui tendono gli animi nobili. Dietro questa suggestione ci sono teorie botaniche alla moda che associano ai colori il potere di emanare energie curative, ma la ricerca del fiore è anche una metafora dello spasimare lirico per l’infinito, per l’assoluto, quello struggimento che in tedesco è chiamato Sehnsucht: il sentimento delle cose distanti, la nostalgia di qualcosa che ci è fisicamente lontano. Il fiore blu è, insomma, la poesia stessa. All’aprirsi dell’Ottocento, il blu è un modo di sentire la vita. Negli ultimi 40 anni, le copertine delle edizioni economiche di Madame Bovary hanno spesso attinto ai ritratti di Jean-Auguste-Dominique Ingres, come quelli della Principessa de Broglie o della Contessa d’Haussonville, entrambe vestite di tonalità di blu. A differenza di Emma Bovary, però, queste due appartengono all’aristocrazia, e lo sfarzo che i dipinti mettono in scena è lontano dai costumi della vita di provincia. La principessa de Broglie anima alcuni dei circoli più colti e raffinati della Parigi del Secondo impero ed è nota per l’eleganza e il riserbo, cioè la qualità prediletta del potere. È dunque una donna-modello. La de Broglie è blu per censo, Emma si veste di blu per imitarla. Sono in bella vista i segni della ricchezza: drappeggi sontuosi e scintillanti, pietre preziose. Ingres ha studiato i maestri rinascimentali e introduce nel dipinto delle geometrie esoteriche. Il ritratto della de Broglie ha una composizione classica, la protagonista si trova al centro del layout e occupa lo spazio formando una piramide, come accade nei dipinti delle Madonne “in maestà”, ma quello che nella Vergine era distacco ieratico qui è divenuto un valore profano: il prestigio. La principessa sembra porgerci la mano, punto focale dell’intera composizione, e l’anello che indossa si trova sull’asse di simmetria in linea con il suo occhio; come a dire che lo sguardo della ritratta ha legami profondi con i beni che possiede. La mano che si protende verso di noi è bianca e curata, le unghie sono ovali esatti e lucidissimi, e i capelli sono serici e puliti, ma questa no è la norma per le donne dell’epoca. Inoltre, questa non è una semplice figura di donna. Da quando esiste la fotografia, difatti, i ritratti sono per noi la raffigurazione psicologica del soggetto; quello della de Broglie è, invece, anche l’effigie di un uomo: quel marito che le consente di essere e possedere quanto ci viene mostrato. Questo non è un ritratto, ma una natura morta e qui un ricco uomo politico mostra ciò che può permettersi. Se isoliamo la figura staccandola dallo sfondo ci accorgiamo che mentre la scenografia è fatta solo di tinte spente e di linee dritte, il corpo di lei è tutto tinte squillanti e linee curve. La de Broglie è una mole vaporosa che inonda lo spazio, riservata eppure padrona del proprio ruolo. L’idea figurativa di Ingres è raccontare il potere mettendoci in soggezione: guardiamo il quadro senza essere ricambiati. Lei guarda oltre. Invenzione brillante per l’epoca, divenuta poi lo standard nelle foto di moda. L’abito della de Broglie è fatto di metri di tessuto raggiante e per quanto comunichi pure a noi una ostentata grandeur non lo vediamo con gli occhi del 1853, quando tingere una stoffa di blu è un procedimento difficile e costoso. In questo modo, il colore non si riduce al fatto percettivo, ma comunica, giudica, gerarchizza. L’abito è blu, la poltroncina su cui si poggia è gialla, il contrasto goethiano più alla moda. Emma Bovary sogna una città vicina e raggiungibile, Rouen, nell’alta Normandia: è qui che si incontra con il suo secondo amante ed è qui che assiste a teatro a un’opera lirica, la Lucia di Lammermoor. Quando Emma entra in loggione, Flaubert dice che in sala alcuni degli spettatori stanno parlando di “indaco” non come discettazione scientifica, ma per lavoro. Rouen è uno dei centri più importanti per la tintura dei tessuti in indaco e in blu. Ecco dunque l’altra faccia del blu romantico: colore di moda e pilastro del benessere della borghesia cittadina. All’epoca, vestirsi di blu significa, prima di tutto, poterselo permettere. Per questo l’ingresso in scena di Emma in un abito di lana blu è un manifesto programmatico: il blu Bovary è sì spirituale e anticonformista, ma anche un blu di classe. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 15 la disponibilità di macchinette fotografiche ha costruito l’interesse per la foto di reportage. Lo stesso potremmo dire dei lettori di fumetti, che spesso disegnano i loro personaggi preferiti, o del successo del calcio. Il tubetto, però, comporta uno scadimento della qualità dei materiali rispetto alla raffinatezza della tradizione. Del resto, per passare il tempo certo non si spendono cifre esorbitanti per il lapislazzulo più fine; così i produttori di belle arti cominciano a tagliare i colori con la cera e con molto olio per abbassarne il costo e per evitare che si secchino rimanendo a lungo sugli scaffali dei negozi. I nuovi colori si rivelano perciò più instabili, perché la cera li rende meno aderenti e l’eccesso di olio li fa ingiallire in meno tempo. L’economicità comporta, però, anche un cambio stilistico. L’Impressionismo è, insomma, il primo movimento a usare gli stessi materiali pensati per il mercato di massa: tra questi artisti professionisti e pubblico c’è una nuova, inaspettata vicinanza. A suggellare un patto definitivo con questi modelli culturali è, però, la fotografia. È anche grazie a lei che nascono il divismo, la moda e l’arruolamento militare di massa, tutte pratiche che propongono prototipi a cui si chiede di aderire. L’Ottocento è assetato di foto e, soprattutto, di ritratti, di volti che si pongano come uno specchio per milioni di persone sparse per il mondo. Proprio in quegli anni, i ritratti dei potenti e dei famosi smettono di funzionare come simboli e vengono riconosciuti come immagini di persone reali a cui ispirarsi. Il divismo forgia e legittima i gusti del pubblico. lo stesso accade al colore che non è più solo qualcosa da comprare, ma da imitare. L’importanza sociale della malva di Perkin è tutta qui: un colore realizzato in laboratorio è domato, e quindi economico. Diventa un bene di consumo. Tutte le regine si sono vestite dei colori più sfarzosi. Però, mentre in epoca romana la porpora stabiliva una distanza tra la regalità e il volgo, quando la regina Vittoria si veste di malva impone una vicinanza. Il colore antico è un colore che facendo sfoggio di sé incute timore e reverenza, il colore moderno chiede di essere copiato. La benzina della società di massa è il consenso. I Vip non ostentano solo l’inavvicinabile, ma anche l’incredibilmente comune. Durante il periodo di presidenza Obama, ha fatto notizia la scelta della moglie Michelle di presenziare a un contesto ufficiale con un abito giallo senza maniche. Il mostrare le braccia nude esprime un’attitudine più amichevole di porsi in relazione al pubblico. Quel giallo ha uno slittamento di significato, candidandosi a nuovo tipo di regalità grazie al gesto solo in apparenza casual della first lady. Oggi qualsiasi colore va bene se viene scelto da chi ha l’autorevolezza di dettare il gusto. In questo senso, il colore è design, cioè la copia di una matrice replicata in serie dalle masse. L’imitazione è un processo industriale sul piano dei comportamenti. Solo che stavolta siamo noi a produrne la copia: siamo noi a servire l’industria, consumando un’idea di noi stessi. VERDE ILLEGALE La favola dei primari Nel 1386, Hans Töllner, un tintore di Norimberga, viene fermato e coinvolto in un processo da cui esce condannato a una pesantissima multa, viene esiliato e, infine, radiato dall’arte dei tintori. L’accusa è infamante. A quei tempi, in Europa, vigono leggi precise che governano le attività artigianali. Le corporazioni (® “arti”) vigilano su tutto quello che viene prodotto. Nel campo della tintura, sono concesse licenze che prevedono quali materiali si possono tingere e di quali colori. Le regole sono rigide e guai a sgarrare. Hans possiede una licenza per tingere la lana di blu e di nero. A un certo punto, però, vengono scoperte nel suo laboratorio alcune vasche ricolme di giallo. Hans, con un doppio bagno, fa commercio illegale di lana verde, all’epoca molto di moda, specialmente nel Nord Europa. La gravità del fatto è individuata dai giudici proprio in questo doppio passaggio: tingere mischiando due sostanze per ottenere un terzo colore è illegale. Il fatto che il giallo mischiato al blu dia il verde è una conoscenza poco diffusa, tanto che la prima attestazione ufficiale di un doppio bagno di colore è di due secoli dopo. Su queste pratiche pesano condanne antichissime, di stampo morale, che vedono nell’idea stessa di mischiare sostanze un’attività diabolica. In verità, almeno riguardo al colore, nell’antichità non si mescola giacché i risultati sono modesti o nulli: le impurità contenute nei singoli pigmenti, infatti, reagendo tra loro ingrigiscono e degradano il colore finale. Alessandro di Afrodisia dice che, in effetti, si può fare il verde partendo dal giallo e dal blu, ma lo sconsiglia visto che il risultato non regge mai il confronto con un verde vero. Nel mondo attuale si dà per scontato che la miscela del giallo e del blu produca il verde. È un fatto talmente indiscusso che Leo Lionni gli ha potuto dedicare la poetica avventura di Piccolo blu e piccolo giallo. Se la sua favola è comprensibile anche ai più giovani è perché l’industria moderna nel corso degli anni ha stabilizzato i pigmenti facendo sì che producessero risultati abbastanza prevedibili. La società odierna potrebbe essere definita “società delle mescolanze”, giacché la maggior parte del colore con cui abbiamo a che fare è prodotta dall’incontro di poche tinte di partenza. I milioni di computer, telefonini e televisori che usiamo ogni giorno impiegano una tecnologia basata su 3 colori principali: quelle minuscole lucine rosse, verdi e blu producono tutti i colori. Il risultato è una cosiddetta “miscela ottica”, cioè i punti colorati sono così piccoli che, a distanza, il nostro occhio li fonde in un effetto unitario. Lo stesso accade con la stampa tipografica, anch’essa basata su 4 colori mischiati fra loro. Anche il campionario Pantone, che pare sterminato, è in realtà costruito sulla miscela di soli 18 inchiostri di partenza. Per sdoganare le mescolanze sono tuttavia serviti secoli e il contributo di fattori di vario tipo: GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 16 • Da una parte, le scoperte di Newton suggeriscono che forse le materie si possono combinare in maniera strutturata; • Dall’altra, con l’avvento dell’industria, il mercato cerca sistemi per produrre più colori con sempre meno spesa. A monte, però, il presupposto necessario è un rinnovamento di mentalità che ha luogo nel XV secolo: un cambiamento di tecnica pittorica che porterà all’invenzione dei monitor a 3 colori 500 anni dopo. Fino al Quattrocento, la maggioranza degli impasti pittorici impiega una base acquosa – ad esempio, l’affresco e la tempera. A un certo punto, però, prima nelle Fiandre poi in Italia e in Europa, comincia a prendere piede una tecnica conosciuta fin dall’antichità, ma sempre sottovalutata: l’olio. L’olio ingloba il pigmento, foderandolo col suo stato untuoso, per trasformarsi quindi in una pellicola dura e stabile. Essendo fluido, facilita sfumature e miscele e diminuisce le reazioni impreviste. Un’ipotesi suggestiva e piuttosto credibile è che sia stato proprio il successo dell’olio a legittimare le mescolanze coloriche rendendole finalmente legali. A Venezia la moda scoppia prima che in altre parti d’Italia per ragioni atmosferiche: il clima umido della laguna non consente il lavoro ad affresco, così per realizzare grandi opere pittoriche si sceglie l’olio e tele giganti fissate alle pareti: si chiamano teleri e raggiungono altezze significative, da terra fino ai soffitti. D’altronde, a Venezia si è facilitati anche dalla fiorente industria delle vele navali. Così, da lì a qualche anno, compare un oggetto nuovo: la tavolozza, attributo per antonomasia del pittore, di cui prima del Cinquecento non abbiamo traccia. Di questa tavoletta non c’è nessuna attestazione nell’antichità: tutte le raffigurazioni di pittori greci, romani e medievali ce li mostrano mentre imbevono i pennelli da singole conchiglie o piattini affiancati, uno per ogni tinta – prova che i colori non venivano mischiati se non sul quadro. Oggi tavolozza è diventata un’astrazione, sinonimo del tipo e del numero di colori che distinguono un certo lavoro. Storicamente, però, il ruolo di quest’oggetto non è mostrare, elencare o disporre le tinte, ma consentire le miscele. A metà del Cinquecento, negli ambiti più vari, ci si comincia a interrogare su quali siano i colori davvero necessari e su come vadano classificati e combinati. Soprattutto ci si chiede quanti debbano essere. All’improvviso ci si trova tra le mani un’idea senza precedenti, ovvero che possano esistere colori più importanti di altri, quelli che oggi chiamiamo “primari”. Elenchi di colori fondamentali compaiono, in realtà, già nel mondo antico. Si tratta, però, di colori metafisici, principî generali alla stregua dei 4 elementi che compongono l’universo. È solo nel Seicento che il problema diventa una questione pratica in senso moderno. I nomi che vengono proposti sono i più svariati: semplici, primi, “naturali”. Il mondo scientifico si appassiona a questo dilemma: Edme Mariotte sostiene che tutti i colori possano essere fatti mescolando 5 pigmenti “principali”: rosso, giallo, blu, bianco e nero. Moses Harris, invece, propone la prima ruota basata su 3 tinte da cui si genera tutto il resto del visibile. Questa smania di catalogazione e di semplificazione ha una doppia ragione: • Da una parte, è una propaggine dello spirito critico e indagatore avviato dalla rivoluzione scientifica; • Dall’altra, è impossibile non vederci i prodromi di quelle esigenze razionalizzanti di cui si gioverà l’industria di lì a poco. A inizio Settecento, tutte queste indagini trovano una conferma empirica nel lavoro di un pittore, cui la società delle immagini deve moltissimo: Jacob-Christof Le Blon. Per primo, realizza delle stampe a colori partendo da 3 matrici di rame incise, una per ogni colore primitivo – rosso, giallo e blu. I risultati sono forse rozzi e imperfetti, ma è una svolta epocale: il principio con cui stampiamo ancora oggi viene da qui. Le Blon descrive la sua invenzione nel 1725, in un libricino intitolato Coloritto, termine con cui si riferisce al colore dell’incarnato umano. In queste pagine c’è il debutto della riproducibilità tecnica delle immagini, e compare ufficialmente l’assunto che giallo più rosso dia l’arancio, rosso più blu dia il viola, blu più giallo dia il verde. È emblematico che la prima attestazione di questa idea compaia in un trattato tipografico: è la riprova che a sdoganare le mescolanze in via definitiva sia, appunto, una necessità tecnica e protoindustriale. Nel 1801, il fisico Thomas Young si chiede, infatti, se non sia possibile che la visione umana funzioni anch’essa per mescolanza. Poiché sembra improbabile che nel fondo dell’occhio esistano particelle infinite che vibrano all’unisono con ogni colore possibile, Young sospetta che queste siano in un numero limitato, magari 3, proprio come i colori di base dei pittori: rosso, giallo e blu. Si tratta solo di un’idea lanciata per caso durante una conferenza, che verrà però confermata un secolo e mezzo dopo con la scoperta sul fondo dell’occhio di 3 tipi di recettori, ciascuno sensibile a una gamma dello spettro. A questo punto, l’entusiasmo per i 3 primari ha la strada spianata. A metà Ottocento, giallo, rosso e blu sono ormai legge e il tricromatismo un concetto incredibilmente alla moda. Owen Jones, architetto e teorico di design, chiamato per stabilire la decorazione del Crystal Palace, sede della Grande esposizione universale di Londra del 1851, sceglie il giallo, il rosso e il blu come tinte cardinali di tutto l’allestimento. Mentre Oliver Byrne, per l’edizione illustrata degli Elementi di Euclide del 1847, usa la triade per rendere più chiari ed eloquenti assiomi e ragionamenti. È rivelatore che questo accada proprio con Euclide, come a porre un’equivalenza tra le basi della matematica e quelle della percezione. Nel testo, infatti, le tinte campeggiano singole, pure e compatte. Anche gli artisti si entusiasmano con la favola dei primari. Turner è sedotto dall’aspetto cosmologico della faccenda e sostiene in modo poetico che il giallo è la luce, il rosso la materia e il blu la distanza. Questo è vero, però, solo nei suoi quadri, dove l’aria è imbevuta di luce gialla e le cose hanno la consistenza dell’ocra rossa. Oggi la totalità dei modelli didattici con cui si insegna la teoria del colore è incentrata su questa idea. Nel concreto, però, tutti sanno che con solo 3 tubetti non si va da nessuna parte. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 17 Il consolidamento di quest’idea in ambito scolastico si deve, prima di tutti, a Piet Mondrian, Theo Van Doesburg e agli artisti che ruotano intorno alla rivista “De Stijl”. Nei famosi reticoli mondrianeschi ci sono, appunto, il giallo, il rosso e il blu, ma non compare il verde, giudicato secondario. Si tratta di una posizione ideologica, priva di qualsiasi riscontro scientifico o sociale: il verde è statisticamente un colore molto amato, il più diffuso sul pianeta e quello di cui vediamo il maggior numero di sfumature. Secondo Mondrian, però, la missione della nuova arte è eliminare il tragico, rivendicando un’estetica in cui la ricerca di valori primigeni è centrale. L’ambizione di ridurre tutto a linee ortogonali e l’ossessione per i colori primari rivelano difatti una schematizzazione giacobina della realtà che vorrebbe liberare i dipinti dagli aspetti accidentali e dolorosi dell’esistenza. Mondrian parla di colore in termini di bene e male, e ottiene credito e consenso, ma non è isolato. Gerrit Rietveld progetta una sedia che è un manifesto programmatico della primarietà; Paul Klee mette la triade al centro di una struttura dinamica che battezza con assoluta enfasi il “canone della totalità”; Vasilij Kandinskij propone un questionario in cui chiede di associare i 3 colori alle 3 forme base (® quadrato, cerchio, triangolo); Joahnnes Itten innalza la terna a oggetto di venerazione, quasi fosse una faccenda ontologica. Non è esagerato parlare di culto. Tutti gli artisti coinvolti non sono, infatti, alieni da influenze mistiche e irrazionali: nel salotto di Alma Mahler (® moglie di Gropius, fondatore del Bauhaus) è di casa la teosofia, e i saperi esoterici sono salutati con curiosità. I colori primari sono, insomma, coccolati in un’atmosfera che oggi definiremmo new age. Quasi sempre la cultura del Bauhaus è raccontata nei suoi meriti moderni e razionali, ma queste propaggini di esaltazione romantica sono altrettanto importanti e suggestive: soprattutto l’utopia di cogliere l’essenza della vita e dell’arte scovandone i fondamenti. In verità, i “primari” non esistono. Un colore primario è tale solo perché viene usato per mescolarlo e farne dei secondari. Ci sono quindi tanti primari quanti ne servono a ogni preciso sistema industriale per risparmiare denaro. Non esistono i primari in sé, giacché si tratta di una mera convenzione tecnologica e culturale. Qualunque insieme di almeno 2 inchiostri permette di produrre immagini a colori, la scelta di usarne 3 è solo un’ottima idea per allargare le possibilità, ma nessuna terna consente di stampare tutto il visibile. Il fatto che sulla retina ci siano 3 tipi di recettori ha, però, diffuso una vulgata secondo cui la tricromia dei monitor sarebbe la più affine al modo di funzionare dell’occhio umano, ma anche questo è solo un malinteso. La tricromia non è legge e se si costruissero schermi a 5 colori la gamma visibile sarebbe ancora più ampia. La ragione per cui non esistono ancora tecnologie del genere è che pochi saprebbero apprezzare la miglioria. Anche l’epoca dell’elettronica a 3 colori è dunque un momento della storia della tecnologia, non una verità della percezione. Del resto, la stampa ha superato la tricromia da un bel pezzo. Un duro colpo all’esaltazione Bauhaus arriva nel 1935, quando viene sintetizzata la ftalocianina di rame, e compare per la prima volta l’inchiostro ciano che garantisce un ventaglio amplissimo. Da quel momento, il rosso smette di essere necessario all’industria e viene sostituito col magenta. CIANO LITOGRAFICO Breve storia delle tecnologie cromatiche Nel 1796, a Offenbach, in Baviera, Alois Senefelder, rimasto orfano, per mantenere sé e i fratelli più piccoli si guadagna da vivere incidendo testi musicali su lastre di rame. Disperato per la miseria, Alois decide di farla finita e va a buttarsi nelle acque dell’Isar. Giunto in riva al fiume, qualcosa lo distoglie dal tragico intento: è un pezzo di calcare, ma di tipo diverso. Gli viene in mente che potrebbe essere perfetto per raschiare le sue lastre musicali e se ne torna a casa. Da asciutta, la pietra assorbe qualunque liquido, se però viene prima bagnata diventa repellente alle sostanze grasse, perché acqua e olio non si mischiano tra loro. Alois prende il calcare, lo liscia per bene, ci disegna sopra con una matita grassa e, infine, ci stende un velo d’acqua. La pietra si bagna completamente tranne nei tratti a matita, che restano grassi (= asciutti). A questo punto, Alois tampona tutto con inchiostro tipografico che, siccome è oleoso, non si attacca alla pietra umida, ma aderisce in modo perfetto ai segni a matita, tanto che stendendoci sopra un foglio permette di tirarne una copia. La pietra è diventata, in sostanza, una matrice da stampa, pure se non è in rilievo. La quasi totalità dei materiali grafici con cui abbiamo a che fare ogni giorno è stampata sfruttando quest’idea. Il sistema moderno, chiamato offset, ha sostituito la pietra con una lastra di alluminio su cui l’immagine è trasferita col computer, ma il procedimento è lo stesso. La storia raccontata è inventata. In realtà, Alois – che è anche un drammaturgo – lavorava già da un po’ a un metodo per poter stampare da sé le proprie opere senza dipendere dai costi dell’editoria ufficiale e l’idea gli venne dopo molteplici tentativi col calcare di Solnhofen. È davvero lui il primo a sfruttare l’inimicizia tra acqua e inchiostro per stampare con una lastra piana, ed è lui a inventare la litografia (= “scrittura con la pietra”), che di lì a poco permetterà l’affermarsi della stampa a colori di cui si gioveranno l’arte, l’editoria, il packaging e la pubblicità. Grazie al nuovo procedimento si possono, infatti, tirare migliaia di esemplari. Quando Senefelder lancia la sua invenzione, la stampa di immagini a colori ha alle spalle già 4 secoli di sperimentazioni. Fin dai tempi dei libri xilografici tardo medievali ci si era industriati in vari modi: dal colorare a mano le copie come in una catena di montaggio, a riempire le zone aiutandosi con degli stampini. Bisogna costruire tante matrici quanti sono i colori necessari, ma il difficile è farle combaciare. Per incontrare risultati qualitativamente moderni dobbiamo aspettare l’inizio del Cinquecento, quando Ugo da Carpi riesce a sovrapporre diverse impressioni con ammirabile accuratezza; nel 1516 ottiene dal senato veneziano un GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 20 Se, infatti, esiste un valore luminoso caratteristico per ogni colore, queste differenti quantità di luce dovrebbero equilibrarsi. Se ciò accade, abbiamo l’armonia. I colori vengono così ricondotti, attraverso la loro intrinseca brillanza, ad accordi di quinta, di quarta e di ottava, in maniera simile a quanto accade tra le note nel sistema armonico tonale. Se, infatti, si può stabilire un parallelo con la musica e parlare di “scala” riferendosi alla luminosità dei colori è, però, impossibile trovare criteri ordinatori più generali, in quanto il susseguirsi delle tinte nello spettro non segue una logica assimilabile a quella delle note sul pentagramma. Il sistema nervoso codifica suoni e colori in modi del tutto differenti. L’occhio non è in grado di vedere i costitutivi di una sensazione cromatica. Per il nostro sistema visivo, gli accordi cromatici possono essere solo di tipo spaziale, cioè campiture di colore affiancate. Ed è appunto a proposito di questi accostamenti che Itten sostiene che ci sarebbe armonia quando la risultante di tutti i colori in un quadro restituisce un grigio medio: ciò accade, appunto, nello scontro metà rosso e metà verde, o 3 parti di viola e una di giallo. È un grigio matematico: quello che verrebbe fuori se le tinte venissero mescolate. Qualche anno prima, a Boston, è sempre un professore di teoria del colore a proporre un modello fondamentale per il secolo entrante: Albert Munsell. Anche lui finisce col parlare di armonia, sebbene i suoi scopi siano lontani da quelli di Itten. Poiché tinte diverse al massimo della saturazione mostrano luminosità differenti, Munsell sostiene che non si possano ingabbiare i colori dentro uno schema rigido. Si sbarazza così dei modelli cromatici troppo regolari e propone una forma tridimensionale, simile a un albero dai rami di lunghezze diverse e composti di tasselli di colore sistemati in progressione. Il fusto indica la luminosità e, salendo dal basso verso l’alto, si procede dal buio alla luce. Intorno al tronco le tinte sono disposte in circolo, mentre i rami rappresentano i differenti gradi di saturazione, e più si va verso l’esterno più si hanno tinte piene. Anche lui sostiene che una composizione armonica sia quella in cui la mescolanza dei valori di tinta, di luminosità e di saturazione produce un grigio neutro. Compito dell’artista è dunque equilibrare i 3 parametri e, per dimostrarlo, in A Grammar of Color, pubblicato nel 1921, ci propone 2 illustrazioni: una “sbagliata”, e l’altra in cui le tinte sono “aggiustate” secondo la sua idea di armonia. Spiega che solo la seconda mescolanza è corretta perché produce il famigerato grigio medio. Negli stessi anni, pure il Nobel per la chimica Wilhelm Ostwald sostiene che l’effetto piacevole dei colori è conseguenza del loro rapporto preciso e regolato. Si tratta di convincimenti diffusi e pervasivi che germogliano negli ambiti più diversi, tanto che in un manuale pubblicato a New York già nel 1902 troviamo molteplici letture di opere d’arte basate sulla somma geometrica delle percentuali coloriche. Per ognuno di questi pensatori, il bilanciamento fisiologico dei complementari e le quantità luminose dosate in modo matematico sono il cardine della bellezza. Le idee appena esposte trasudano, però, un riduzionismo un po’ facile: Paul Klee sottolinea che seguendo una regola per arrivare ai valori artistici finiamo per rinunciare a tutta la ricchezza psichica, ossia creativa. Il limite di Itten e compagni, però, è soprattutto ideologico: le loro posizioni sono totalmente svincolate dalle reali pratiche sociali del mondo in cui vivono, cioè non tengono conto dei veri linguaggi in azione. Munsell afferma che le pubblicità e il circo possono concedersi accostamenti disarmonici in quanto sono pensati per una seduzione immediata e destinata a non durare nel tempo; laddove la vera armonia si rivolge all’eterno e mira al sublime. Insomma, è in atto il famigerato idolo romantico che separa la grande poesia dalle arti commerciali. Si cerca cioè nella fisiologia della percezione un modo per condannare indirettamente la società dei consumi, perché, in fin dei conti, si dice che la pubblicità è “innaturale”. A distanza di un secolo, una tale concezione dell’armonia appare, infatti, un progetto moralizzante e ci si accorge che questi teorici stanno costringendo il colore in un sistema di tipo “igienico”. Itten dichiara di ispirarsi alle teorie di Goethe, ma si sbaglia: in realtà, si tratta di un’idea di Arthur Schopenhauer. È questi il primo a sostenere, già a inizio Ottocento, che per ottenere consonanza cromatica si deve controbilanciare la qualità di luce riflessa dalle tinte. Secondo il pessimismo filosofico di Schopenhauer, il mondo fenomenico è fonte di illusione e di dolore, costitutivi dell’esperienza umana e quindi ineliminabili. Ci si salva tramite l’arte o la morale, e ne consegue che composizioni cromaticamente armoniche confronterebbero lo sguardo dallo stato di sofferenza esistenziale, ristabilendo la pace. Anche la condotta purificante di Itten pare rispondere a un imperativo simile: la ricerca dell’equilibrio e l’ossessione per il bilanciamento energetico sono concetti tipici delle culture orientali. Anche Kandinskij lo dice in modo aperto: l’armonia dei colori è fondata su un solo principio, l’efficace contatto con l’anima. La parte finale della Teoria dei colori di Goethe influenza molti approcci salutistici: è lui il primo a suggerire significati spirituali intrinseci alle tinte. Già alla fine del XIX secolo, infatti, prendono piede dottrine in cui medicina ed esoterismo hanno i confini sfumati. Per esempio, nel 1890 il fisiologo Charles Féré comincia a curare gli attacchi isterici sottoponendo i pazienti a flussi di luce colorata inaugurando le pratiche di cromoterapia secondo cui il potere irradiante della luce dovrebbe stabilire la pace psichica perduta. L’idea è che, siccome alcune lunghezze d’onda dànno benefici all’organismo, è allora pensabile che ogni singola lunghezza d’onda possa arrecare un giovamento specifico. Dai fiori di Bach alle pratiche di meditazione, oggi non c’è ambito in cui qualcuno non abbia da dire sui colori e sul loro potere terapeutico. Si tratta certo di pratiche differenti e di diversa credibilità, accomunate però da un’idea mitica del colore che porta quasi sempre a generalizzazioni superficiali. Legare le scelte cromatiche a una verità psichica profonda – come accade nel test di Lüscher – chiude lo stato emozionale del paziente dentro formule facili e prevedibili, con la pretesa di avere un valore sovraculturale. Lüscher sostiene che ogni colore è un segnale definibile con esattezza. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 21 In queste parole si sente l’eco di approcci magici che vorrebbero ancorare il colore a significati universali. Il problema è rifiutare indirettamente il relativismo culturale, che è invece la più grande conquista del pensiero moderno. Ittern è il primo ad associare le scelte cromatiche con i tipi umani, sostenendo che i colori che un artista sceglie corrispondano ai suoi tratti fisici e caratteriali. Sono l’inquietante testimonianza di come la fisiognomica riscuotesse grande interesse nella Germania degli anni Trenta. Se il nazismo ne ha fatto la tragedia della Storia, Itten ha influenzato tutte quelle correnti di successo, in primo luogo nella moda e nell’arredamento, che spiegano come abbinare le tinte all’aspetto fisico o alla personalità. L’aspetto affascinante di tutte queste vicissitudini è come idee decisamente trascendentali siano oggi sparse nella maggior parte dei libri in circolazione, che vorrebbero insegnarci come costruire una composizione equilibrata. Spesso è proprio la mancanza di equilibrio a rendere notevoli le opere più interessanti della storia umana. È indubbio che alcuni accordi ci sembrino più piacevoli di altri. Non è affatto facile stabilire quali siano, e tante volte capita di trovare splendidi accostamenti gratuiti e privi di regole. L’idea che esista un’armonia a priori è dunque falso, e la pretesa di circoscriverla si risolve in una manciata di formulette o di consigli di buonsenso. È il gioco del talento e della sensibilità. Nella costruzione del colore non conta allora l’armonia, quanto avere una storia da raccontare. Le teorie esposte appaiono come sistemi chiusi e autosufficienti, come se il colore avesse un suo funzionamento interno a prescindere dagli uomini. Al contrario, tutte le idee – esoteriche, pratiche o scientifiche – sono formulate da persone precise in precise condizioni storiche, tecnologiche e sociali. Itten opera all’interno della prestigiosa tradizione filosofica tedesca. L’eredità di Goethe e Schopenhauer non è casuale e occuparsi di colore è una visione del mondo. Munsell manifesta, invece, il pragmatismo tipico della cultura americana. È lui il primo a pubblicare un atlante, composto da tanti tassellini colorati e numerati, strumento nuovo. Non tenere conto di questi contesti crea il malinteso di confondere il piano percettivo con quello ideologico, sottovalutando il fatto che un’idea sul colore è sempre inevitabilmente anche un’ideologia, magari politica. PARTE TERZA ARTEFATTI MARRONE NEURONALE Come il cervello costruisce il colore Nel 1959, David Hubel e Torsten Wiesel stavano conducendo una ricercar sulla visione: hanno preso un gatto e gli hanno impiantato un elettrodo nel cervello per capire cosa accade quando si guarda qualcosa. Quel giorno cambierà per sempre il corso delle scienze cognitive. Molto di ciò che sappiamo sull’elaborazione psicologica del colore lo dobbiamo, infatti, alle loro ricerche. Il cervello dei felini, come quello umano, è composto di neuroni in comunicazione gli uni con gli altri tramite prolungamenti (® i “nervi”) che scaricano un segnale elettrico quando incontrano una condizione che gli si confà. La domanda che si pongono Hubel e Wiesel è, appunto, cosa nella scena visiva ecciti un determinato neurone, e per provare a rispondere sottopongono al gatto la proiezione di immagini elementari disegnate su dei vetrini misurando poi la risposta cellulare. Il neurone tace. Senza ragioni apparenti, ogni tanto scarica, cioè rilascia la sua risposta elettrica. Hubel e Wiesel allora cambiano vetrino: il neurone risponde, poi tace. Ne cambiano un altro e il fenomeno si ripete. Il neurone non è eccitato dal disegno sul vetrino, ma dal vetrino stesso: il bordo di questo, infatti, quando viene inserito nel proiettore, getta sullo schermo una leggera ombra verticale, ed è questa linea in movimento che piace alla cellula del gatto. Hubel e Wiesel hanno appena trovato un neurone sensibile alle righe verticali che si spostano verso destra. Che il cervello riconosca linee con un orientamento preciso non deve stupire: i contorni delle cose sono uno degli aspetti più importanti per capire la realtà. Hubel e Wiesel dimostrano, invece, che le cellule della corteccia sono specializzate: ci sono quelle a cui piacciono le righe poste in verticale, altre che preferiscono quelle in diagonale; alcune sono sensibili a linee sottili, altre a quelle più larghe; alcune amano il movimento, altre reagiscono solo al rosso. I due scienziati hanno, insomma, scoperto una sorta di mattoni elementari della visione. Il neurone si eccita o si inibisce di fronte a un certo stimolo che corrisponde al compito per cui si è evoluto. Una massa gelatinosa di cellule genera il pensiero, le azioni, i movimenti. Una sostanza materiale produce qualcosa di immateriale. I neuroni non si limitano a “eccitarsi” e “inibirsi”, ma nascono e muoiono e i loro legami (® sinapsi) possono farsi e disfarsi. L’insegnamento di questi studi è che il cervello sarebbe interessato non tanto alle cose quanto alle discontinuità presenti nella scena, ovvero a tutti quei punti in cui sono presenti contrasti luminosi o cromatici, e che, contenendo più informazioni delle superfici omogenee, ci aiutano a decifrare le forme e lo spazio. Secondo la scienza attuale, la percezione inizia quando l’energia luminosa arriva sul fondo dell’occhio finendo sulla retina, una membrana ricoperta di cellule predisposte a trasformare la luce in un segnale nervoso. Nel 1959 si è avuta una prima conferma che queste cellule, battezzate “coni”, sono di 3 tipi, ciascuno sensibile a una certa fetta di lunghezze d’onda. Alcuni sono più coinvolti. Alcuni sono più coinvolti con le gradazioni dei rossi, altri dei verdi e altri GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 22 ancora dei blu. Un cono, però, non sa nulla del colore. Il suo compito è solo quello di contare i fotoni da cui è colpito, cioè le particelle che compongono la luce: misura esclusivamente la quantità luminosa della scena e sono poi le cellule superiori a ricostruire la precisa lunghezza d’onda operando un confronto tra i dati dei 3 tipi di coni. Secondo il modello classico di Thomas Young, la visione dei colori sarebbe il frutto della mescolanza delle informazioni dei 3 recettori primari. Già dalla fine dell’Ottocento, però, questa teoria solleva alcune perplessità sul fronte psicologico. Secondo il fisiologo Ewald Hering, il giallo è una sensazione elementare e non composta. È dunque possibile che dal punto di vista psichico i primari siano 4 e non 3, se per “primario” intendiamo una sensazione elementare in cui non avvertiamo in alcun modo la presenza di altri colori. Hering arriva a questa ipotesi affascinato dal modo con cui certe tinte sono in relazione fra loro. Comincia, così, a sospettare che i colori più distanti percettivamente siano in antagonismo reciproco. Si tratta di una constatazione che ha precedenti illustri: anche Otto Runge, in una lettera indirizzata a Goethe sostiene che concepire un arancio che tende al blu è come volersi immaginare un vento del Nord che soffia da sudovest. Da scienziato, Hering presume, invece, che sia una caratteristica tipica del sistema nervoso. Immagina che la retina mandi al cervello non la misurazione cruda dei 3 coni, ma un segnale già elaborato che in qualche modo restituisca al giallo autonomia e primarietà. I recenti studi di neuroscienze parrebbero dare ragione a Hering. La retina, infatti, non dice al cervello “qui c’è il giallo”, ma, confrontando i dati dei coni, fornirebbe un’informazione doppia, del tipo: “Poiché c’è il giallo allora non può esserci il blu”. La sensazione cromatica sarebbe in breve comunicata sempre come coppia di opposti. La ragione di questa condizione controintuitiva e in apparenza ridondante sarebbe legata al modo in cui funzionano le fibre nervose. Per ridurre l’energia metabolica è più efficace per le cellule dividersi in 2 gruppi: uno che risponde al diminuire di uno stimolo, e l’altro all’aumentare. Un processo simile è anche alla base della percezione del caldo e del freddo: abbiamo 2 classi di recettori cutanei che rispondono all’incremento e alla riduzione della temperatura. In fondo, pure la meccanica del corpo funziona in maniera simile. L’”opponenza” e il contrasto sarebbero dunque il linguaggio stesso con cui il sistema nervoso ci permette di pensare il mondo. I colori sarebbero sensazioni che si dànno sempre in coppia e che si cancellano l’un l’altra. È impossibile vedere un giallo che dà sul blu anzitutto perché per il cervello sarebbe una contraddizione tecnica. Salendo nella gerarchia della visione, l’organizzazione per segnali opponenti seguirebbe l’idea di Hering, con la conseguenza che i colori primari per la psiche si rivelano 6, uniti in 3 coppie di opposti: giallo e blu, verde e rosso, bianco e nero. Quando chiamiamo il rosso “primario psicologico” non si tratta di un rosso preciso come quello che viene fuori da un tubetto di tempera; così come se parliamo di “segnale opponente” per il verde-rosso stiamo indicando gamme cui appartengono ciò che per il cervello sono l’idea di giallezza e di bluezza. Il sistema dei segnali opponenti spiega come mai le contrapposizioni cromatiche siano così significative e perché gli artisti siano sempre stati affascinati dalla complementarietà tra le tinte. Dopo due secoli in cui il dominio della fisica aveva messo Goethe nell’angolo, ecco che le neuroscienze lo riscattano: il vestito giallo e blu indossato dal giovane Werther si rivela un’immagine che sintetizza in modo narrativo come il cervello elabora il colore. Vedere è anche una costruzione. Il colore accade solo dentro la nostra testa, tanto che i cani e i gatti non hanno la più pallida idea di cosa sia il rosso. È dunque il cervello che costruisce, a partire da medesimi dati fisici, l’esperienza del colore come la conosciamo. È probabile che le creature primordiali da cui discendiamo avessero un solo tipo di recettore, che permetteva di distinguere il chiaro e lo scuro; poi, è subentrata una differenziazione che ha portato a discriminare prima il blu dal giallo e poi il verde dal rosso. Una delle ipotesi è che questa capacità sarebbe stata vantaggiosa per distinguere i frutti maturi e rossi in mezzo al fogliame verde. Il colore è un modo davvero efficiente di entrare in relazione col mondo. Questo processo è, però, una costruzione per un’altra ragione: una delle peculiarità fondamentali della mente è quella di percepire come stabili le caratteristiche delle cose, anche quando non lo sono. Se la visione dipendesse solo dalle lunghezze d’onda, il mondo sarebbe un posto difficile in cui orientarsi, e il colore smetterebbe di essere utile per conoscere la realtà. Un foglio, invece, si mostra grossomodo sempre bianco grazie a un meccanismo tra i più brillanti messi in atto dall’evoluzione: la “costanza cromatica”, capacità che consentirebbe anche alle scimmie di riconoscere un frutto maturo a prescindere dall’illuminazione. A costruire questa costanza è un’area della corteccia celebrale che, elaborando i dati ricevuti dalla retina, confronta quello che accade in un punto della scena con quello che c’è accanto, facendosi un’idea generale dell’insieme e affrancandosi da variabili come il cambio di luce. La retina vede difatti il foglio al tramonto nella sua esatta composizione spettrale, cioè rossa; le cellule in V4, invece, comparando punti adiacenti “capiscono” che, siccome tutta la scena è illuminata di rosso, allora il foglio forse è bianco. Mentre i coni sono schiavi della lunghezza d’onda, i neuroni di V4 sono liberi di costruire quella stabilità del reale che ci permette di usarlo. La percezione umana è sempre una costruzione perché non ci limitiamo a misurare le radiazioni, ma elaboriamo le loro relazioni costanti. L’aspetto affascinante è, però, che questa alterazione dei dati fisici è una necessità squisitamente umana. La corteccia visiva, però, fa qualcosa in più. I meccanismi di confronto punto a punto permettono la visione di alcuni colori non contenuti nell’arcobaleno. Immaginiamo di trovarci in una stanza buia. Tramite un riflettore che monta una gelatina colorata, proiettiamo sul muro un cerchio giallo usando una lampada da 100 watt. Lo spazio si presenterà buio tranne per quel disco di un bel GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 25 Illustration di Andrew Loomis, bibbia dell’illustrazione “commerciale” dell’epoca. Cromaticamente, Loomis ha molti punti di contatto con Tiepolo e una delle ragioni di questa eredità è forse da cercare proprio nella luminosità delle ombreggiature settecentesche. L’illustrazione americana è imperniata, infatti, su una visione ottimistica delle vicende umane. Il linguaggio di Tiepolo è, invece, raggiante e dunque esteticamente adatto a essere piegato alle seduzioni commerciali. CELESTE SIMULTANEO I contrasti cromatici fondamentali Perché Cappuccetto è Rosso? Secondo un’interpretazione antropologica ci sarebbe un riferimento al sangue della prima mestruazione. A un certo punto, tante ragazze vengono chiuse in una torre o abbandonate in un bosco, ricordo di pratiche ancestrali che impongono, durante il primo ciclo, di isolare le ragazze giacché impure; così che, quando vengono riaccolte nella comunità, si risvegliano non più bambine ma donne. Alcuni studiosi hanno, invece, preferito pensare che la storia avesse luogo nel periodo di Pentecoste, il cui colore liturgico è il rosso; mentre altri ancora hanno ricordato che spesso i bambini venivano vestiti di rosso per tenerli meglio sott’occhio. Due illustratori di inizio Novecento hanno detto la loro sul senso del rosso di Cappuccetto: Arthur Rackham e Jessie Willcox Smith. Rackham getta una luce su tutto il racconto. Il bosco domina la scena, eppure monotono: un susseguirsi di beige e di marroni, ora chiari ora scuri, e su tutto spicca Cappuccetto. Quel tocco di rosso è una notazione psicologica: è la vivacità della protagonista contrapposta a un mondo minaccioso e tetro. Tutt’altra idea è quella che troviamo nel lavoro di Smith: stavolta Cappuccetto occupa l’intero quadro e la mantellina rossa si allarga su gran parte della superficie pittorica. Rackham sta illustrando un momento della fiaba, Smith sta facendo un ritratto. Rackham è tutto dentro la storia: attraverso i rami rinsecchiti, suggerisce un’aria aspra e temibile, un senso luttuoso e un po’ infernale che fa somigliare Cappuccetto al Dante nella selva oscura illustrato da Gustave Doré. Smith, invece, sta disegnando una cartolina. Cappuccetto è il pretesto per dipingere una bella bambina vestita di rosso, colore sempre gradito e festoso. La Cappuccetto di Rackham è rossa perché è in pericolo, quella di Smith perché è una variante di Babbo natale. La costruzione cromatica fatta da Rackham è chiamata “contrasto di quantità”, uno dei 7 possibili secondo la formula coniata da Johannes Itten. Il layout è costruito mettendo in contrapposizione una grande superficie di una certa tinta con una piccola quantità di un’altra. È una relazione sempre evocativa in quanto il poco circondato dal tanto attira subito l’attenzione. Gli impieghi sono molteplici e le possibilità espressive pressoché infinite. Pensiamo al logo della compagnia petrolifera Mobil disegnato da Ivan Chermayeff, blu con una sola lettera rossa. In Rackham il contrasto serve a evocare il tremulo spaesamento della protagonista, qui aiuta a memorizzare il brand della benzina – ma la logica visiva è la stessa. Un vero maestro del contrasto di quantità è il pittore francese Jean-Baptiste-Siméon Chardin, che ne fa un uso anzitutto compositivo, cioè lo impiega per dare ritmo a delle disposizioni geometriche, come nel caso della Natura morta. Gli oggetti emergono da una semioscurità fangosa: il dipinto è governato da toni spenti su cui squillano le pennellate rosse dei frutti e quelle bianche della tazza di ceramica. Il conflitto è apertamente allegorico. Spesso il tema delle nature morte è, appunto, la caducità dei valori materiali, eppure Chardin sarebbe un pittore come un altro. Invece è grandioso e solenne perché trasforma l’argomento morale in un contrappunto di pennellate. Per apprezzarlo dobbiamo guardarlo come se fosse un quadro astratto, cioè godendo del rincorrersi dei toni chiari e scuri, del ripetersi ritmico degli stessi tocchi di colore. In Chardin in contrasto di quantità è un fatto musicale, quasi contemplativo, che fa scaturire lo spirituale dal geometrico. Un uso diverso e modernissimo lo incontriamo, invece, in un’illustrazione di Valeria Petrone. Che usa il contrasto per suggerire una gemellarità tra le 2 figure femminili: una piccola macchia rossa ripetuta 2 volte, le stesse labbra. Potrebbe essere un abbraccio omoerotico o anche lo sdoppiamento di una stessa figura. L’immagine resta ambigua di proposito. Il contrasto di quantità insinua che tra le 2 bocche ci sia molto in comune, lasciandoci però sospesi in un’atmosfera sognante e non priva di mistero, come il gatto nero che entra nel corpo della donna bianca: il correlativo poetico di un’anima fluttuante. Vale la pena ammirare l’uso del contrasto di quantità nel lavoro di Gipi (1963). I suoi personaggi, colorati all’acquerello, hanno spesso le orecchie macchiate da un piccolo tocco rossastro. Si tratta in parte di una notazione realistica: negli umani le zone sessuali sono spesso più rosse del resto del corpo, ma sono rosse pure le nocche di chi lavora con le mani, i nasi di chi ha freddo, gli occhi di chi piange. Questi tocchi di rosso sono la vita stessa che si concentra sempre in alcuni punti più sensibili. In una tavola del suo fumetto unastoria, il bisnonno del protagonista si trova in trincea con l’unico conforto di scrivere e pensare alla moglie tanto amata. Lei compare di spalle, come se lui, tornando, la sorprendesse distratta. Tutta bianca, occupa la vignetta. Su quel silenzio bianco tintinnano 2 piccole orecchie rosse. Stavolta il contrasto di quantità è la metafora universale del ricordo e del desiderio. Il confronto tra opere tanto diverse dimostra una cosa: i grandi autori, che siano artisti, designer o tutt’e due, usano il colore per raccontare, GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 26 non per decorare. Il contrasto si può attuare naturalmente con qualsiasi tinta. La sapienza non sta nell’aver scelto il rosso, quanto nell’averne usato pochissimo per dire delle cose precise. Il primo tipo di contrasto che compare nella lista di Itten è quello di “chiaroscuro”. In questo caso il tipo di tinta è irrilevante, ciò che conta è la modulazione dal buio alla luce. Un saggio formidabile ne è il Ritratto di Émile Zola scattato da Nadar introno al 1880. Si potrebbe obiettare che qui il chiaroscuro è una condizione tecnica e non una scelta, dato che la fotografia a colori ancora non esisteva. Il senso di questo tipo di contrasto risiede nel muoversi tra un massimo scuro e un massimo chiaro usando le collisioni luminose in maniera espressiva. Basti notare il colpo di luce a destra della barba di Zola che è determinante per inquadrare la psicologia. Quella luce è come un’aureola di cultura. I ritratti di Nadar sono, infatti, sempre biografie intellettuali. Anche nell’autoritratto di Rembrandt il contrasto di chiaroscuro serve per raccontare una storia. I colori ci sono, sebbene non sia certo un dipinto colorato: quello di Rembrandt è un monocromo di seppia. Il tocco di luce sul volto è l’analogo di una “messa a fuoco”, una metafora dello sguardo autoriflessivo dell’artista che si osserva e si riconosce non più giovane. Quel chiarore fa scaturire le forme dall’indistinto, o forse è l’oscurità che tra poco inghiottirà tutto. A questi segue il “contrasto di colori puri”: vale a dire quando si affiancano tinte piene, senza mezzitoni. Stavolta quello che conta. Stavolta quello che conta è il rapporto tra tinta e tinta e non la progressione tonale, cioè luminosa. Un campione perfetto ne sono le vetrate medievali: tasselli di colore assoluto, saturo, affiancati gli uni agli altri. È anche il linguaggio del fumetto tradizionale e di molti cartoni animati, in cui le campiture cromatiche si contrappongono in maniera netta. Inoltre, pensiamo a molte opere di Vincent Van Gogh, come l’Autoritratto su fondo blu. Le sfumature non sono al centro del discorso. L’artista sta parlando tramite la giustapposizione delle tinte, e infatti spesso il contrasto di colori puri è una scelta che si pone in aperta polemica col chiaroscuro: se quest’ultimo valorizza le forme e i volumi, il primo li annulla e muta lo spazio in un fatto esclusivamente cromatico. Un uso mirabile lo troviamo nella Poltrona Proust di Alessandro Mendini, un totem del design degli ultimi 30 anni: il colore fa della seduta una presenza virtuale, foderata di un pulviscolo ultraterreno e allucinatorio che la idealizza. È una superpoltrona. Il contrasto di colori puri può avere anche un impiego funzionale, come nella famosa mappa della metropolitana di Londra ideata da Harry Beck dove la contrapposizione delle tinte in variazioni di blu e di verde, il gioco tra nuance simili sarebbe di ostacolo alla comprensione della cartina e alcune tratte risulterebbero visivamente più importanti di altre. L’accostamento di colori puri elude, invece, la prevaricazione percettiva e le linee appaiono paritetiche. Il quarto tipo dell’elenco è il “contrasto di qualità”. Il termine fa riferimento al grado di saturazione di una tinta in relazione ad altre simili. “Qualità” nel senso di intensità del colore percepito, ossia quanto un punto nella composizione ci sembra colorato rispetto a un altro che risulta più spento. Confrontando l’autoritratto di Van Gogh con una copia realizzata da un imitatore: • L’originale è imperniato su una forte opposizione colorica (® i gialli e gli arancioni fanno resistenza agli azzurri); • La copia, pur impiegando sia i gialli sia blu, tende ad attenuarne lo scarto (® variazione in giallo in cui si accennano con cautela riverberi rossicci e azzurri). È un effetto che troviamo anche nelle Polaroid degli anni Settanta dove tutto è intriso di una tonalità pallida, rosa o giallina. Possiamo, però, apprezzarlo anche in una chiave scura nel ritratto Madame Camus di Edgar Degas, dove il timbro rosso mattone si offre in molteplici variazioni. Nel contrasto di qualità, di solito, si evitano il massimo scuro e il massimo chiaro, l’immagine germoglia nel mezzo. Nel graphic novel Fats Waller, Igort fa qualcosa di simile con una tavolozza di marroni caldi e di beige, ora slavata ora pienissima. Il marrone è un valore portante per la storia, visto che identifica il protagonista, un afroamericano. Il tutto è puntellato da tocchi di rosso bordò, che occupa il grado più alto della scala. Se Igort avesse usato un rosso qualsiasi avrebbe lavorato su un classico contrasto di quantità, il bordò invece finisce per figurare come lo stadio più intenso raggiungibile dai marroni (® marrone ipersaturo). In questo modo, il rosso non è una tinta esterna alla tavolozza della storia, ma spicca, e in ciò sta la sapienza narrativa: la scelta del registro marrone evoca un tempo che fu. Una volta stabilita una regola del genere, però, il colore diventa autonomo, non imita il monocromo della fotografia. Ci sono poi il contrasto di “complementari” e di “simultaneità”, due rapporti che dipendono dalla capacità del cervello di vedere i colori in modo diverso a seconda di quello che sta loro intorno. Nel primo caso, l’accostamento di 2 tinte antagoniste le esalta a vicenda. Ne è un campione il ritratto Ragazza afgana di Steve McCurry: la pelle e i capelli hanno dominanti rossastre, come rosso è il tessuto che la avvolge e la stacca dal fondo verde. Un verde in assonanza col colore degli occhi. Da una parte, il soggetto risalta con forza su quel verde, dall’altra viene risucchiato per gemellarità cromatica proprio dal fondale, generando un movimento senza sosta in avanti e indietro che contribuisce al potere ipnotico del ritratto. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 27 Un caso di altro tipo lo troviamo, invece, nell’illustrazione Beautiful Old World (2003) di Shout, in cui il medesimo contrasto serve a fare da cornice alla gamba femminile: il rosso della gonna e della scarpa agiscono come quinte prospettiche che ci obbligano a fissare il centro. Qui l’uso del colore è strutturale: serve a indirizzare il nostro sguardo. Un formidabile uso letterario del contrasto di complementari lo incontriamo nel romanzo La storia infinita (1979) di Michael Ende, in cui il design del libro è tutt’uno con l’esperienza del racconto. Il testo è stampato a 2 colori, rosso mattone e verde smeraldo, per indicare al lettore i 2 piani della storia: • Quello in cui si narra la vita del protagonista Bastian nel mondo reale; • Quello delle vicende ambientate a Fantàsia, il mondo parallelo che Bastian scopre leggendo un libro chiamato a sua volta La storia infinita. È un gioco di scatole cinesi, che mette in discussione l’idea stessa di quale sia la realtà. Una scelta potente visto che le 2 tinte hanno la stessa luminosità e quindi si contendono il campo, vibrando senza sosta per quale debba essere la più “reale” ai nostri occhi. Un caso particolare di contrasto di complementari lo troviamo in un effetto molto in voga nel Rinascimento: il “cangiantismo”. Sarebbe a dire quando si dipingono le ombre in un colore freddo e le luci con uno caldo, o viceversa. In principio questa clausola compare per imitare l’aspetto delle stoffe di seta, e poiché sono costose e importate dall’Oriente, il cangiantismo diventa presto l’attributo delle figure spiritualmente superiori. Michelangelo lo usa spesso nella Cappella Sistina, come fosse un tipo di chiaroscuro. Non si tratta, però, di un vero chiaroscuro, perché i complementari hanno spesso la stessa luminosità e, anziché mostrare i volumi, li negano, facendoli vibrare. All’epoca i tanti imitatori di Michelangelo cominciano a usarlo come mera questione stilistica, dipingendo sfumature di tinte opposte, spesso acide, che la cultura romantica bolla col nomignolo di Manierismo (= alla maniera di Michelangelo) e che vengono riscoperte nel Novecento per la loro natura audace. Una variante più contemporanea la troviamo nelle foto con effetto cross processing, molto di moda in pubblicità a partire dagli anni Duemila e poi esploso grazie alla facilità di applicarlo con i filtri di Instagram. Qui l’immagine viene forzata ad avere ombre azzurre o verdastre e luci caldissime. È il cangiantismo manierista all’epoca degli smartphone. Sia il cangiantismo, sia il cross processing sono spesso anche un “contrasto di caldo e di freddo”, il quinto dei rapporti formulati da Itten. Lo vediamo in azione nel fotogramma tratto da Eyes Wide Shut (1999), l’ultimo film diretto da Stanley Kubrick con protagonisti Nicole Kidman e Tom Cruise. È diviso in 2 campiture: una principale dominata dai toni di arancio, l’altra di azzurro. I protagonisti si trovano in camera da letto, la stanza è illuminata dalla luce morbida e dorata dell’elettricità. Dietro di loro si intravede il bagno, buio ma appena rischiarato dal riverbero blu che sale dalla strada. Già solo con quest’immagine Kubrick racconta il tema della storia, ossia il conflitto tra la comodità rassicurante del matrimonio e la tentazione di metterla a rischio. Il film contrappone, infatti, 2 mondi: • Quello arancione degli interni borghesi, degli appartamenti, della prudenza; • Quello blu dell’esterno, della notte, del rischio. Nel fotogramma in questione, il colore è una virtù dell’illuminazione. Le case sono calde perché la luce delle lampadine è metafora di un universo chiuso e protetto, basato su pratiche consolidate puntellate dal benessere economico. Dal fondo della scena il blu tenebroso già trapela, presagio della trama a venire. La storia è ambientata nel periodo natalizio, quando New York è tempestata di minuscole lampadine colorate. Brillano nella notte, eppure non dicono nulla di festoso: al contrario, servono a ribadire una solitudine che riguarda tutti. Se il colore è una qualità della luce, stavolta c’entra l’inquieto oscillare delle anime. Non c’è amore, per quanto saldo, che possa far finta che non esista un fuori; non c’è rapporto, per quanto felice, che non ponga dubbi alla volubile natura umana: non c’è arancione che non desideri un po’ di blu. L’uso di questo contrasto come analogo dei rapporti tra il dentro e il fuori è ormai un classico della fotografia cinematografica statunitense. Anche nella figura tratta dalla serie Tv Dexter siamo in una camera da letto, e notiamo una luce fredda che filtra dall’esterno: stavolta è verdastra. L’uomo seduto sulla poltrona è un’apparizione del padre morto a cui il protagonista si rivolge. In questo caso, il conflitto tra interno ed esterno è la metafora di una psiche combattuta. Il verde è l’opposto dell’arancio, la sua metà oscura. Più di recente, c’è un’altra New York disegnata attraverso il contrasto di caldo e di freddo: è quella di The Journey of the Penguin, il libro che Emiliano Ponzi ha inventato per festeggiare i 70 anni della casa editrice omonima, storia di un pinguino che ha lasciato la terra natale per fare fortuna nella Grande Mela. La città è avvolta in un’alba arancione, che fa sembrare azzurre le ombre sui grattacieli. È un contrasto morbido, che racconta lo spaesamento del protagonista, facendoci sentire attraverso il colore ciò che sta provando: il calore di un giorno nuovo che inizia. Il baluginio aranciato scalda l’aria e presagisce un domani promettente, l’aria è carica del freddo della notte. L’arancione è storicamente il colore istituzionale dei primi romanzi Penguin, l’eleganza di Ponzi sta però nel contrapporre la coppia arancio e blu a quella bianca e nera di cui è “vestito” il pinguino. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 30 con cui si pensano le cose della vita quotidiana. Da questo punto di vista il rosso di Valentine ha un merito storico preciso: è il colore della plastica stessa con cui è realizzata. Il rinnovamento del design italiano del secondo dopoguerra è la storia di una classe di imprenditori che comincia a investire concentrandosi sulla lavorazione di materiali innovativi. I nuovi oggetti si distinguono rispetto a tutto quello che li ha preceduti. Da una parte ci sono nuove possibilità tecnologiche, dall’altra questi composti possono essere colorati nell’impasto anziché rivestiti di tinta. I classici del design che arredano le case di quegli anni si distinguono appunto per questa qualità: non sono colorati, ma sono fatti fi materia colorata. Il materiale di cui è fatta la macchina di Sottsass, noto come Abs, è un polimero termoplastico che permette di creare oggetti rigidi eppure leggerissimi. È con l’Abs che vengono prodotti i mattoncini Lego e Valentine non sfoggia le tinte spente della vecchia strumentazione burocratica: è vivace e visibile. Sostanza nuova per molti modi di vivere e di abitare. Con la plastica cambia tutto: Valentine e una scodella Tupperware condividono un medesimo statuto essenziale ed esistenziale. È in questi termini che Sottsass si pone come inevitabile antesignano del sovvertimento operato da Apple. In questo senso il rosso di Valentine allude solo in parte al colore della “rivoluzione” perché è più che altro un modo di stare nello spazio. Gli aspetti narrativi del colore non riguardano, però, solo gli oggetti firmati dai grandi autori, ma anche quelli più comuni. Analizzando un trapano e un frullatore, il colore è allo stesso tempo simbolo, ruolo e discorso commerciale. Nel caso degli elettrodomestici, la plastica colorata serve quasi sempre a proteggere il meccanismo e allo stesso tempo a renderne memorabile la marca. Se prendiamo la linea per il bricolage della Bosch, l’accoppiata di nero e verde conferisce personalità al trapano e allo stesso tempo lo distingue dal rivale Black & Decker, che è arancione e nero. Già nell’antica Roma le gare di bighe dividono la tifoseria in 2 gruppi, ciascuno con una coppia di colori distintivi, un sistema che ancora oggi è lo standard di tutti gli sport. Qualche secolo dopo, un aspetto importante del modo di vestire bizantino è indossare abiti con i colori della propria squadra; la stessa convenzione la ritroviamo nei colori delle contrade del palio di Siena, ed è il cuore di uno dei sistemi grafici più importanti del Medioevo: l’araldica. La ragione per la quale i colori delle squadre sono sempre a coppie è dovuta al fatto che un sistema di tinte singole non è facile da memorizzare. Un colore isolato è psicologicamente mutevole e può essere scambiato con facilità per un altro, mentre di una coppia memorizziamo l relazione tra i 2 elementi. La scelta di Bosch di unire il nero col verde fa dunque un uso araldico delle logiche di marketing: uno stendardo che contende il campo ai rivali sul bancone della ferramenta. In questo settore il nero rimanda spesso alle armi da fuoco: qui si aggiunge il verde, che evoca paesaggi montani. La Bosch aggiunge una nota silvestre a quella militare. Affiancando al trapano un frullatore da cucina, come il Minipimer della Braun, questi sono entrambi piccoli motori elettrici che girano montando un accessorio; cambia la potenza, ma ciò che li fa sembrare tanto differenti sono soprattutto il design e il colore. La prima cosa che salta all’occhio è un contrasto di chiarezza: tanto il trapano è scuro e violento, tanto il frullatore è candido e gentile. Il primo ha una decisa indole maschile perché scimmiotta quelle di un revolver. In realtà, anche il Minipimer è violento, sebbene lo nasconda: la lama è celata allo sguardo. La punta del trapano è esibita, come il sesso nel corpo maschile, la lama del Minipimer è invece nascosta, come il sesso femminile. A ribadire le differenze sono poi in atto forti peculiarità sinestetiche. Le cose scure, senza concettualizzare, sembrano richiederci sempre uno sforzo maggiore. Forse per questo nelle palestre i pesi per le donne sono colorati di tinte pastello, mentre quelli per i body builder sono neri e minacciosi. Si tratta di stereotipi fortissimi che ribadiscono però una differenza di genere non tanto tra le persone, quanto tra i luoghi, cioè gli spazi in cui sono stati storicamente separati i ruoli e i compiti maschili e femminili. La ricercatrice svedese Karin Ehrnberger ha progettato 2 nuovi elettrodomestici scambiando i colori e le forme del trapano con quelli del frullatore. Si tratta di 2 oggetti teorici (e politici) che rivelano come la retorica della distinzione di genere parli negli ambiti più imprevisti. Nel progetto di Ehrnberger stavolta è il frullatore a sembrare un oggetto guerresco, mentre il trapano si mostra medicale e quasi ginecologico. Gran parte di questi significati vengono veicolati dal colore. Un brand non è mai la merce, ma la sua idea psicologica. Per questo, come ha notato Andrea Branzi, degli oggetti percepiamo l’identità cromatica prima della forma e della funzione. Le relazioni di cui si è appena parlato sarebbero chiamate in ambito semiotico una questione di “pragmatica” del colore, cioè sistemi in cui le tinte significano poiché sono usate in un certo modo all’interno di mondi culturalmente definiti. Si tratta di un aspetto centrale e sempre presente nella comunicazione di massa: una certa tinta dice delle cose perché si oppone a un’altra tinta che si comporta in modo differente. Se di notte, passeggiando per una metropoli contemporanea, incontriamo una lampadina rossa, accesa, può evocare significati legati al sesso o alla pornografia. Se la vediamo, invece, insieme a lampadine di tanti colori vivaci pensiamo al luna park, al circo o agli addobbi natalizi. Se invece la incrociamo vicino a una luce verde, solo allora quel rosso ci significa “divieto”. Tra la luce rossa del locale pornografico e la luce del semaforo non c’è nessun rapporto se non una possibile somiglianza percettiva: è solo il contesto di relazioni che le permette di avere un “contenuto”. Nel semaforo, insomma, il rosso non è in sé legato al concetto di proibizione, ma insieme al verde costruisce una coppia che si fa carico di stare per un’altra coppia, quella di divieto-permesso. Senza contesto, appunto, si può significare tutt’altro. Il modello del semaforo è, però, un caso limite, fortemente codificato, che non può spiegare i modi, tanti e complessi, in cui il colore parla. La comunicazione cromatica di rado è così semplice e piana, anche perché mentre il significato del semaforo ci è stato insegnato in modo prescrittivo, non è accaduto lo stesso con il verde del trapano Bosch. Quando la Bosch sceglie quel verde per la sua linea di utensili ha di certo ponderato a lungo la decisione. Il pubblico a cui è rivolto il trapano ha tuttavia con quel colore i rapporti più diversi. La comunicazione non è un insieme di GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 31 nozioni che vengono passate da un emittente a un destinatario, la comunicazione è un processo; e in questo processo alcuni pezzi possono andare perduti, essere fraintesi o addirittura sovrainterpretati. I significati cromatici delle merci sono tutto ciò che accade tra l’acquirente che non ha opinioni e quello che ne ha troppe. Le ragioni che portano gli oggetti ad assumere un determinato aspetto sono, perciò, svariate: in alcuni casi ci troviamo di fronte a scelte stringenti e intenzionali come quelle della Apple; altre volte si tratta di abitudini stilistiche, cioè la ripetizione di qualcosa che è piaciuto ed è diventato norma, ma in alcuni casi può riguardare associazioni casuali o estemporanee. Non sempre, insomma, il colore ha una ragione o un significato precisi. VERDE ASPRO Colori da bere e da mangiare Nel 2002, Guglielmo Alessandro Nicola Giorgio Ferdinando d’Orange-Nassau dei Paesi Bassi convola a nozze con l’argentina Máxima Zorreguieta Cerruti. Per l’occasione, Amsterdam è parata a festa e ogni cosa è colorata di arancione, tinta ufficiale del brand costruito intorno al nome della casa regnante: gli Orange. A vederlo, questo colore, così vivace e brillante, fa pensare alle carote. Il colore dell’ortaggio è, infatti, frutto di un artificio. La carota che conosciamo oggi non esisteva in natura: non si è evoluta da sé, ma è stata progettata nei Seicento quando gli agronomi di corte misero a punti, tramite gli incroci più opportuni, una radice di colore arancio. Le carote sono, insomma, di questo colore come tributo agli Orange. Selezioni di piante e di animali caratterizzano le attività umane almeno dal Neolitico. L’attuale ingegneria genetica stupisce e spaventa perché agisce all’origine della vita, ma le idee su cui si fonda sono antiche quanto l’uomo. In queste pratiche il colore ha avuto spesso un ruolo di primo piano. I maiali, per esempio, fino al Medioevo erano neri e selvatici. Nello stereotipo odierno sono, invece, rosa perché nuove razze sono frutto di accoppiamenti mirati a tirar fuori animali mansueti. Fin qui, però, siamo ancora nel regno di pratiche ancestrali. Oggi, invece, gli alimenti sono controllati attraverso strategie industriali che non possiamo che definire di design. Pensiamo ai molti prodotti distribuiti in massa: persino i più raffinati è importante che abbiano un colore sempre uguale a sé stesso. I cibi, però, proprio perché derivati da materie vive, non hanno sempre lo stesso colore. Per ovviare a questo inconveniente si sono messe a punto procedure adeguate che mantengono costante la cromia, selezionando i mangimi con cui vengono cresciuti gli animali o intervenendo con coloranti sintetici. Della categoria “aromi naturali” che leggiamo sulle etichette fanno parte pure le sostanze impiegate per correggere la sfumatura dei prodotti. Oggi ogni pietanza è disciplinata da un rigoroso controllo delle apparenze. In tutti questi casi, a farci riconoscere il colore “giusto” è la memoria, il ricordo di qualcosa che abbiamo già conosciuto. Ragionare sul cibo rivela allora una condizione generale del nostro rapporto con il colore: ci chiediamo sempre dove l’abbiamo già visto. Per questo il sistema delle tinte non ha una semantica rigida e funziona innanzitutto per ricordi e analogie. L’esattezza della tinta serve così a individuare le merci senza lasciare dubbi. Proprio riguardo alla maionese, quella commercializzata in Francia ostenta un giallo deciso, grasso e vellutato, per esplicitare la presenza delle uova. Al contrario, quella americana è quasi bianca e pone l’accento sulle qualità leggere e dietetiche. Gli americani si rifiutano di comprare uova dal guscio scuro. Lo stesso potremmo dire del pollo, che in Europa è reputato pregiato quando è scuro, mentre negli Stati Uniti lo si vuole tenero e bianco come la cotoletta del McDonald. I colori dunque non cambiano da Paese a Paese solo perché cambia il contesto geografico e faunistico, si tratta di interventi consapevoli per far somigliare i cibi all’idea che ogni cultura si fa delle cose. In natura, le nuance dei potenziali alimenti sono meno marcate di quelle cui ci ha abituati la società industrializzata, dove il manzo deve essere chiara, cioè sbiancata tramite farmaci. Così, coloriamo il cibo per farlo sembrare sano e naturale. Del resto, tra tutti i concetti inventati dall’uomo non ce n’è nessuno più artificiale di quello di “natura”. È lampante, a questo punto, come la gestione del colore nella progettazione alimentare sia cruciale a decretarne il successo. Nel caso delle glasse, se ne sono fatte di tutti i colori. Lo stesso gioco, però, non ha funzionato con il purè o con il pane. Di certo molto dipende dal momento storico in cui certe proposte vengono fatte. Del resto, ha avuto un grande successo il gelato blu al gusto “puffo”, ma forse la ragione, come per le glasse, è che siamo più disposti ad accettare una rottura delle regole riguardo ai dolci, in quanto li leghiamo a priori a un’atmosfera di festa. Al di fuori di questo spazio ludico, però, il blu nel cibo trasmette più un senso di avariato che di anticonvenzionale, anche perché viene legato alle muffe. Non a caso è stata proprio l’industria alimentare a investire nell’arco dell’ultimo secolo ingenti capitali per provare a spiegare cosa accade nella nostra testa quando ci troviamo di fronte al cibo e alle sue tinte, rivelando che lo percepiamo sempre in maniera sinestetica, ovvero in relazione agli altri sensi. Il collegamento tra colori e sapori è del resto antichissimo e già Aristotele ne fa oggetto di riflessione nel De sensu et sensibilibus. In Occidente è comune legare il nero all’amaro, il grigio al salato, il giallo al grasso, le tinte calde al dolce e il verde all’acido. Il rosso è spesso dolce, ma può indicare al contrario il piccante, evocando il peperoncino che dal dolce è distantissimo. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 32 Il primo a interessarsi alla sinestesia cromatica è stato Francis Galton, che si è accorto come ad alcune persone i numeri apparissero colorati. Per esempio, se su un foglio c’è una serie di cifre scritte in nero, il 5 spicca di un bel rosso vivo. I soggetti sinestetici vedono davvero quel rosso, forse per la vicinanza a livello cerebrale delle aree che elaborano i numeri con quelle deputate ai colori. Si tratterebbe di un’associazione mentale di tipo particolarmente forte. C’è un esperimento proposto negli anni Trenta da Wolfgang Köhler, uno dei padri della psicologia della forma. Questi mostra le due seguenti figure: Chiede chi è Maluma e chi è Takete, dimostrando che, nella maggioranza dei casi, Takete viene riconosciuto nella figura con le punte aguzze, mentre Maluma in quella più tondeggiante. Anche Ernst Gombrich racconta che di fronte ai termini “ping” e “pong” non si hanno troppe difficoltà a capire chi è il gatto e chi è l’elefante, e così quando diciamo che u è più scura di i troviamo molti consensi. Questo è possibile perché il cervello, se messo di fronte ad almeno 2 oggetti, costruisce sempre delle relazioni di tipo sinestetico secondo cui una cosa è più simile di quanto non lo sia un’altra a un termine di confronto. La conseguenza cromatica di questo discorso è che il rosso è quasi sempre dolce e rotondo, mentre il verde è spesso acido e pungente. A corroborare questi legami conta l’esperienza che facciamo del mondo. È come se la natura ci fornisse una scala graduata che ci informa in anticipo su quello che proveremo, ed è interessante rilevare che finché il frutto è acerbo si confonde col fogliame: più diventa maturo più spicca rispetto al fondo. A questo proposito, un test classico ha confermato che una medesima bevanda somministrata in colori diversi produce sapori altrettanto distinti. L’aspettativa che riponiamo nei colori del cibo è, dunque, tanto forte che finisce per incidere sull’esperienza gustativa, preparandoci in anticipo a categorizzare i sapori. Un’ulteriore conferma che la percezione non è un atto passivo, bensì il cervello proietta sulle cose immagini psicologiche che in un certo senso ne velocizzano la comprensione. Gli studiosi che hanno provato a spiegarne le ragioni sono arrivati a conclusioni di taglio evoluzionistico. La mente, se si trova di fronte a un pericolo, non ragiona sui pro e i contro: riconosce quel pericolo e ci dice di scappare. Il cervello funzionerebbe sempre così: formulando valutazioni rapide e, quindi, più adatte a sopravvivere. Attenzione: l’automatismo innato è quello di applicare un pregiudizio alla realtà, ma l’associazione tra rossezza e dolcezza rimarrebbe comunque un dato appreso. Tali pregiudizi gustativi sono stati sfruttati dall’industria non solo per adulterare il cibo, ma per confezionarlo. Il packaging conserva, protegge, mostra e racconta, soprattutto attraverso il colore, e costruisce il prodotto fino a guidarne il sapore. Una storia fra tante è quella della 7up, che a un certo punto ha aggiunto alla grafica delle confezioni una maggiore presenza di giallo: il pubblico ha affermato di sentirla più limonosa, anche se la bibita non era affatto cambiata. Un’elegante variazione di questa idea è quella della Schweppes, sulla cui bottiglia trasparente compare una piccola etichetta gialla che sembra anticipare la fettina di limone con cui la bevanda viene di solito consumata – ovvero, un elemento accessorio è stato inglobato nella grafica come presenza indispensabile al rituale. Il packaging punta a rifare sul piano cromatico quello gustativo, trasformando il meccanismo sinestetico in un topos narrativo. Eppure trovare il colore giusto per raccontare i cibi non è sempre facile. Quando venne lanciata la margarina si provò a impacchettarla di giallo per ricordare il colore del burro: fu un fiasco. Dopo vari tentativi si sono imposte confezioni di vario tipo, per lo più dorate o con la presenza del verde che ne richiama l’origine vegetale, inventando la favola che si tratti di un grasso più leggero e dietetico. In questo caso, il verde evoca il concetto di naturalità. Il packaging, infatti, racconta spesso qualcosa di invisibile agli occhi. Per esempio, alcune acque in bottiglia indicano, tramite la tinta, il grado di effervescenza. In questo caso si traspone il codice internazionale dell’idraulica al mondo alimentare: nei rubinetti il blu sta per il freddo e il rosso per il caldo. L’idea di caldo e quella di frizzante non hanno nulla in comune, l’acquisiscono però quando vengono contrapposte al blu. Se la tinta fredda indica l’acqua allo stato naturale, il rosso indica il grado di modificazione perché scaldata o resa frizzante con l’anidride carbonica. In casi come questo, ciò che conta è la costruzione di una scala interna al sistema. Le tinte agiscono come indicatori. Il colore delle confezioni alimentari indica spesso anche la fascia di prezzo. Di solito, i prodotti costosi sfoggiano tinte unite e ricercate, come il tè e i biscotti del londinese Fortnum & Mason o come la pasticceria Ladurée. La tinta unica e sofisticata evoca lusso, calma e voluttà. Come nella moda, dove il maglione senza griffe o ricami esplicita l’acme del privilegio. L’unione di più colori è, al contrario, subito pop, commerciale o economica. Basti pensare al giallo e al rosso di molti fast food, che da una parte rimandano al ketchup e alla maionese e dall’altra comunicano un senso di rapidità non solo del servizio, ma anche della consumazione. Tra tutti i colori usati nel packaging alimentare ce n’è uno di particolare interesse: il viola. Si tratta di una tinta che non passa mai di moda e ha impieghi molteplici – ad esempio, nelle confezioni di prugne, o nelle caramelle di sambuco. Nella famosa Milka, dove la variante lilla pastello sottolinea gli aspetti calmanti della cioccolata al latte piuttosto che quelli energizzanti del fondente puro. Nei cibi viola c’è sempre qualcosa di lento, di pacato. Se dovessimo paragonarlo a un tratto caratteriale diremmo che a differenza del rosso, il viola è trattenuto e formale. Il nome è quello di un fiore, e per tradizione è il colore della quaresima. È il colore della maturità, anche nei suoi risvolti negativi: significando ora la saggezza ora la morte. Nei cartoni animati statunitensi, il viola è spesso collegato ai GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 35 Sul piano della raffigurazione, il Paese di Oz, immaginifico e sorprendente, è contrapposto al Kansas, realtà rurale abitata da persone semplici e genuine. Tanto Oz è stravagante e irreale, tanto il Kansas è tradizionalista e concreto. L’opposizione è spinta al limite dello stereotipo: se Oz è l’artificio, il Kansas è abitato da chi non ha studiato, ma è in contatto con le verità autentiche della vita. sono tutti temi molto cari alla narrazione statunitense: il contrasto tra metropoli e provincia. Il film usa un escamotage narrativo che ha contribuito a farne un cult: le scene ambientate in Kansas sono girate in bianco e nero, il mondo di Oz è invece a colori. Si tratta, appunto, di una contrapposizione morale: se gli schietti principî contadini vincono le seduzioni della metropoli, allora vuol dire che l’austerità del bianco e nero è preferibile alle frivolezze del variopinto. È un tema antichissimo, i cui echi ancora si fanno sentire: per anni il cinema d’autore è stato in bianco e nero, reputato serio e concreto rispetto a quello a colori, e sono tanti tra i fotografi più ingenui a scattare in bianco e nero attribuendo alla scelta una decisa volontà d’arte. Se la paura delle immagini e il desiderio di distruggerle è noto come iconoclastia, qui siamo in un territorio simile, ma sul piano percettivo: la cromofobia. La contrapposizione tra colore e non colore è così radicata nella mentalità moderna che spesso ne sfugge il peso del tutto convenzionale. Anche questo è un modo con cui il colore parla e racconta, stavolta però più che di significati in senso stretto dovremmo parlare di abitudini e usi sociali. Sono molteplici le occasioni in cui ragioniamo tenendo conto di un tale dualismo: il colore può assumere il ruolo del personaggio pericoloso quando prende la forma del famigerato calzino rosso che contamina il candore di lenzuola e asciugamani. Esistono addirittura espressioni che ribadiscono questa morale cromatica, quando parliamo di “mangiare in bianco” o di “farne di tutti i colori”. L’origine di questa ideologia è da ricercarsi con molta probabilità nelle leggi suntuarie che si sono scagliate contro lo sfarzo. Il colore è barocco e smodato, l’acromatico è misurato e retto. Il mito dell’asciuttezza ha radici antiche e compare come imperativo etico. È la cultura protestante, a inizio Cinquecento, che impone l’understatement come merito. Dai ritratti dell’epoca si vede che la borghesia del Nord veste di nero, in aperta polemica con i colori sgargianti indossati dai principi delle corti italiane: l’abbigliamento colorato è percepito come dismisura e spreco. Vestirsi di nero diventa allora sinonimo di misura morale, di compostezza interiore, forma simbolica delle virtù del nascente capitalismo, di uomini fatti ricchi dal lavoro. C’è comunque da dire che tingere di nero è in quei tempi assai difficile e costoso. Per questo è prediletto dalla classe dominante, che lo prescrive come tinta luttuosa per eccellenza. Fino alla fine dell’Ottocento, i ceti popolari si vestono ai funerali di qualsiasi colore purché sia il loro abito migliore; la scelta delle élite di vestire col tessuto meno economico fa così anche della morte una faccenda di status. La rivoluzione industriale ha inizio e sviluppo all’interno di questa mentalità, ed è il modello vincente. Lo smoking è l’ossimoro prestigioso del glamour non ostentato. Audrey Hepburn avvolta nel tubino nero è il coronamento di un ideale di asciuttezza che continua a essere considerato l’eleganza più autentica. Non soltanto le automobili sono l’unica merce nera: sono neri i primi telefoni, i ferri da stiro e molte attrezzature elettriche. Bianchi, invece, i frigoriferi, in omaggio a un’idea di igiene. A dare man forte a questi convincimenti c’è però un fatto che ha agito nel profondo: la diffusione, a partire dal Rinascimento, dei testi a stampa. Prima del Quattrocento, i libri hanno illustrazioni coloratissime e perfino la carta o la pergamena vengono tinte, così da avere pagine rosse scritte in oro o pagine nere scritte in bianco. Bibbie, exultet e codici miniati sono un florilegio di espedienti cromatici e di seduzioni per l’occhio. Il libro tipografico inventato da Gutenberg, invece, impone di colpo come standard il testo nero da leggersi sul fondo bianco. In breve tempo, questo diventa il libro tout court, tanto che ancora oggi il testo colorato è vissuto dai lettori come un guizzo da grafici o un gioco per bambini. Questo, però, non è un fatto naturale, bensì la convenzione imposta dai testi a stampa del Rinascimento. Il libro, però, non è un oggetto come un altro e di certo non lo è in quei secoli in cui l’alfabetizzazione appartiene a una minuscola élite: leggere significa essere persone istruite e quindi socialmente superiori. Nel giro di qualche decennio comincia così a farsi avanti un pensiero in principio debole e incerto: che il colore sia roba da incolti o da bambini. Alle soglie della modernità industriale il colore è ormai guardato con sospetto. Se il nero si contrappone al variopinto sul piano dell’austerità, è però il bianco a farla da padrone quando si tratta dei valori di purezza e di corruttibilità. Nel mondo contemporaneo, il bianco è sinonimo di classicità: è il colore degli showroom di Armani, degli ultimi computer Apple. L’inizio di questo gusto si trova nel convincimento che il candore fosse il linguaggio dell’arte greca e romana. Al contrario, la statuaria antica era vivacemente colorata. La maggior parte delle sculture levigate e lucenti che ammiriamo oggi erano coloratissime. Le statue, insomma, erano molto simili alle sculture lignee medievali dal cromatismo mimetico e oleografico, con gli occhi dipinti e sospesi simili alle bambole. Per non parlare dei bronzi, che in Grecia erano tirati a lucido e sottoposti a doratura fino a risplendere come le cromature di una automobile. Sennonché il lungo perdurare sottoterra e il lavoro del tempo hanno via via cancellato la patina pigmentata da quei marmi; così quando la generazione neoclassica riscopre l’antico si convince che il mondo di Fidia e Prassitele fosse davvero incorrotto dalla barbarie colorica. A metà Settecento, Johann Winckelmann si mette a lavare le statue per togliere gli ultimi rimasugli di tinta, inventando la classicità bianca e abbagliante che ammiriamo oggi nelle collezioni d’arte di tutto il mondo. Da questo momento, l’antichità perfetta è l’idea che ne ha Canova: il marmo nudo. C’è, però, da chiedersi come mai ai Greci e ai Romani piacessero le statue colorate. Il colore nel mondo antico è cosa rara e non partecipa all’esperienza quotidiana, quindi il suo uso è sempre eccezionale e ammirevole. In più, le GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 36 sculture subiscono il mutare della luce, offrendosi più bianche di mattina e più rossicce di sera. È plausibile che dipingerle le sottraesse a questo mutamento, elevandole su un piano più concreto da una parte (® somigliano alle cose comuni del mondo) e più astratto dall’altra (® non mutano con la luce e rimangono sé stesse, come le idee). C’è poi da dire che per la mentalità antica non esiste quello che noi chiamiamo kitsch (= l’imitazione dozzinale delle grandi opere), un po’ perché l’arte non era tenuta in così alta considerazione come oggi e un po’ perché è solo la diffusione di oggetti industriali ad alimentare la graduatoria tra alto e basso. Potremmo allora insinuare che il successo del bianco alla Winckelmann sia stato favorito proprio dal suo opporsi al chiasso dell’industrializzazione. Un fatto che conferma come la Storia non sia solo qualcosa che si scopre, ma anche qualcosa che si inventa. Nel 1977, in Italia scoppia una polemica che si delinea presto come una vera e propria forma di cromofobia, un rifiuto radicale del colore. In difesa della spartana verità della televisione in bianco e nero, si alzano gli strali dei custodi della morale: bisogna impedire l’introduzione del colore che potrebbe corrompere i costumi. Il dibattito si concentra sull’equivalenza tra cromatismo e decadenza morale. Si attribuisce alla nuova tecnologia un lusso seduttivo non necessario a una società per bene. Già nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti si era mossa una crociata contro la cromolitografia, considerata un inutile cedimento al lusso e alla mollezza. Quello che si teme davvero non è il colore, ma il potere seduttivo che conferisce alle cose. La polemica sulla Tv a colori pare l’ennesima variante di quel moralismo vuoto che individua il nemico in questioni di superficie. Di lì a poco non sarà il colore, ma l’avvento delle emittenti private a cambiare il palato e l’etica del Paese. La condanna del colore ha precedenti illustri. Il Novecento non è nuovo a simili giudizi, dietro cui si nascondono timori più ampi, soprattutto quello che il diffondersi del consumo comporti senza dubbio un impoverimento dell’esistenza. Fatta eccezione per un filosofo spregiudicato come Walter Benjamin, la classe intellettuale si è spesso arroccata in posizioni di difesa, disprezzando i prodotti di massa, pretendendo di imporre il proprio gusto a tutte le classi, in primo luogo a quelle che le erano subordinate. Il colore diventa vittima della stessa mentalità: se l’incredibile varietà di merci porta l’uomo alla decadenza, allora proporre molti colori ne imbastardisce la sensibilità. A rinforzare queste posizioni ci si mettono i teorici e gli artisti modernisti: Adolf Loos, quando condanna l’ornamento come delitto, non risparmia il colore; Le Corbusier spara a zero contro la carta da parati battendosi a favore del bianco di calce alle pareti. Tra i due, però, ci sono alcune differenze: mentre Loos persegue l’essenzialità come riscatto dal tribale e dal primitivo, Le Corbusier apprezza alcune forme di primitivismo e vuole il bianco come scudo contro il frastuono contemporaneo (= dozzinalità del mercato). Anche Mondrian e il movimento De Stijl, impongono principî che prima che estetici riguardano l’idea di bene. Più la pubblicità e la comunicazione si fanno colorate, più la classe colta si arrocca in una cittadella dove il colore viene tollerato e centellinato. Riguardo al cinema, un importante studioso come Siegfried Kracauer rimprovera al colore un difetto di realismo, perché distrae e finisce per risultare meno vero del bianco e nero. Per Rudolf Arnheim, il colore al cinema è sdolcinato, volgare e caratterizzato da una completa mancanza di forma. Per Michelangelo Antonioni, invece, il problema è un eccesso di realismo che distrugge la natura profondamente artistica del mezzo. Non bisogna, però, sottovalutare che su tutti pesa l’esperienza straordinaria del Neorealismo, che consacra il legame fortissimo tra bianco e nero e impegno morale, additando il colore alla frivolezza e all’evasione. Nel caso del colore troviamo posizioni retrograde e infondate proprio nelle classi dominanti. In questi termini, il colore è una cartina di tornasole che fa emergere alcune contraddizioni sociali. Non è senza significato che il movimento di liberazione omosessuale abbia scelto una bandiera arcobaleno come simbolo da opporre al riserbo sottotono degli amori reputati “normali”. Nella bandiera, il variopinto non sta a significare il vivace, ma il progressista: la tavolozza molteplice di chi si ribella a un unico modo di inquadrare le relazioni, perché molteplici sono le forme del desiderio. Anche per questo, le icone queer sono tanto sgargianti. Per non parlare della rilettura dei melodrammi in Technicolor che mettono al centro del discorso un cromatismo sfacciato, una giovinezza dell’animo che non si lascia intimidire dal moralismo bianco e nero della cultura tradizionale. Usando colori improbabili si persegue alla fin fine un effetto volutamente artificiale per dimostrare che il naturale in fondo non esiste. Per ragioni simili sono variopinti i Barbapapà. Nati nel 1970 dalla mano degli architetti Annette Tison e Talus Taylor, i personaggi risentono dei fermenti del Sessantotto e dei movimenti ecologisti e pacifisti. Il capofamiglia è rosa, la mamma nera, metafore di una famiglia davvero differente. Un po’ per significare che ognuno ha una sua personalità e la sua propria pelle, ma anche per raccontare come le virtù e i limiti dei singoli siano la forza per una società più ricca e cooperativa. Del resto, i Barbapapà non sono solo colorati: la loro virtù principale è cambiare forma. La paura del colore evidenzia come le scelte visive parlino sempre di questioni sociali, che ribadiscono come il primo significato di un colore è spesso l’uso che se ne fa. In un vagone della metropolitana di Roma, è eloquente come i colori più diffusi nell’abbigliamento contemporaneo siano gli scuri. Sarebbe certo il contrario se si pensasse a una spiaggia affollata d’agosto, dove i costumi colorati abbonderebbero. Perfino Goethe afferma che le persone raffinate hanno un naturale disinteresse per i colori sgargianti, e Munsell aggiunge che i colori misurati sono sempre indice di buongusto. Da tempo immemore i più fieri paladini del colore ne hanno preso le distanze quando si è trattato di associargli valori identitari, comportamentali o morali. Oggi sono in tanti, almeno in Occidente, a trattare il minimalismo cromatico come un fatto indiscutibile. La condanna del colore gridato è diffusissima. Il nero è irrinunciabile, e l’amore per il bianco è legge, ma sono, appunto, GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 37 dei miti. Intorno al colore si sono prodotti saperi, come pure luoghi comuni, leggende, pregiudizi e idiosincrasie, e sono tutte queste diverse posizioni a dare forma all’immaginario. VERDE VERTIGINE “La donna che visse due volte” Il poliziotto John Ferguson, detto Scottie, assiste impotente alla tragica morte di un collega precipitato da un palazzo e, per il trauma, sviluppa una forma invalidante di vertigini. Qualche tempo dopo, Elster, un vecchio amico, gli chiede di sorvegliare sua moglie Medeleine, che è convinta di essere la reincarnazione della bisnonna Carlotta Valdés. Appena la vede, Scottie è conquistato e accetta l’incarico. Comincia a pedinarla e, un pomeriggio, durante una passeggiata sulle sponde del Golden Gate, la sventurata si getta nelle acque della baia. Scottie si tuffa e la salva, portandola nel suo appartamento. Ormai è innamorato e decide di farsi avanti, insistendo per aiutarla a guarire. Tra le ossessioni della poveretta torna con insistenza un luogo comparso in un sogno, un paesaggio in cui Scottie riconosce la missione spagnola di San Juan Bautista. Così decide di condurla lì: giunta sul posto, però, Madeleine ha un crollo e corre su per le scale del campanile. Impedito dalle vertigini, Scottie non riesce a seguirla e assiste al precipitare del corpo sul tetto sottostante. Passa un anno e Scottie incontra per caso Judy Barton, una commessa di un negozio appena somigliante a Medeleine. Judy, però, è davvero la stessa donna, ma Scottie non lo sa. Si è trattato di una messinscena: Elster ha architettato un piano per far fuori la moglie (® la vera Madeleine). Ha assoldato Judy e le ha fatto recitare la parte della moglie debole di nervi per giustificarne in anticipo il suicidio. I due complici, poi, erano pronti a gettare dal campanile il corpo della vera moglie, stordita in precedenza. Scottie è ignaro di tutto, ma una mania lo pervade, come se sapesse. Corteggia Judy, insiste per conoscerla meglio e la convince a vestirsi, truccarsi e tingersi i capelli come l’altra, la donna ormai perduta. Judy accetta, perché nel frattempo si è innamorata anche lei. Una sera, Judy gli chiede aiuto per chiudere il fermaglio della collana: Scottie riconosce quel pendente, apparteneva a Carlotta Valdés, e così capisce di essere stato ingannato. Questa è la trama della Donna che visse due volte, capolavoro di Alfred Hitchcock nel 1956. Nel film, il colore ha un ruolo importante sia sul piano narrativo, sia su quello tecnico. Il rosso rubino e il verde smeraldo sono, infatti, usati per mettere in scena alcune antinomie che restituiscono sul piano formale i temi di doppiezza, gemellarità e menzogna che contrassegnano la protagonista. Per fare questo, Hitchcock attinge a 2 modelli molto amati nel dopoguerra: le teorie artistiche incentrate sulle contrapposizioni coloriche e il simbolismo psicanalitico. L’uso del colore è, quindi, molto distante dal cinema a cui siamo abituati oggi nel quale è il più delle volte una faccenda espressiva o di atmosfera. Nella Donna che visse due volte le tinte sono questioni simboliche in senso stretto, contrapposte secondo geometrie rigorose ed eleganti. Qui il colore va decifrato. Secondo gli storici della lingua, all’origine della parola “colore” ci sarebbe il verbo “celare”: le apparenze fenomeniche, seducendo lo sguardo, nasconderebbero la vera essenza delle cose. Il colore, dunque, si mette tra noi e la conoscenza. Di tutte le accezioni possibili, è questa la più aderente al significato profondo del film di Hitchcock. Il biondo di Madeleine è una tinta artificiale che cela la donna castana che c’è sotto. Parliamo di una tinta chiarissima, al limite del bianco. La caratteristica principale di questo biondo è l’aspetto apertamente finto, sintetico, moderno. Il rapporto tra le due donne del film è dunque basato su una serie di opposti: naturale e artificiale, vero e falso. Potremmo, però, aggiungere che, siccome quel biondo è prediletto nelle dive del cinema, il rapporto tra Judy e Madeleine è anche quello tra una donna comune e un’attrice. Madeleine è bionda perché sta interpretando una parte, ma è bionda anche perché tutte le protagoniste di Hitchcock devono esserlo. Questa tinta si configura così come una categoria psicologica, ma soprattutto erotica. In un’intervista, Hitchcock ha confessato a François Truffaut di aver sempre preferito le donne inglesi alle americane, giacché le americane, riguardo al sesso, hanno modi troppo espliciti pur essendo in realtà puritane, mentre le inglesi – all’apparenza gelide – non appena capita l’occasione rivelano un’indole disinvolta e appassionata. Ciò che lo rende speciale è la capacità di Hitchcock di trasformare un desiderio privato in un universale espressivo. Se il castano indica la spontaneità e la sessualità esibita, allora il platino è l’erotismo bloccato. Questo biondo, dunque, argina l’impeto passionale che ribolle sotto il visibile. Il platino è come una museruola che trattiene la sessualità dall’aggredire. I capelli di madeleine sono tirati su, fermi, controllati, si cristallizzano in una crocchia attorcigliata su sé stessa come una spirale: immagine simbolo del film, metafora della vertigine, vortice infinito che ruotando risucchia l’uomo che vi incappa. Quanto all’abbigliamento, la divisa ufficiale di Madeleine è un tailleur grigio, stretto in vita. è una forma misurata e tuttavia parlante, sensuale poiché castigata. Nell’immaginario erotico c’è una costante che accomuna psicologie spesso molto diverse: il fascino esercitato da tutto ciò che stringe, suggerendo una qualche sofferenza. In alcuni casi potremmo dire che, siccome i rapporti erotici sono anche e sempre rapporti di potere, il legaccio riafferma il disequilibro tra i partecipanti. Sul piano figurativo, però, l’indumento che fascia agisce come un evidenziatore. Si capisce allora che il biondo di Madeleine non è una semplice tinta, ma anch’esso un capo d’abbigliamento. Dissimula e contiene, finge e imprigiona, nasconde e sviluppa. Quel biondo e quel tailleur sono un tipo di bondage, ma spiritualizzato. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 40 In tutti questi ragionamenti c’è, però, un elemento che viene dato per scontato e che non ha a che vedere col colore in senso stretto, cioè la convinzione che il caldo sia sempre più “faticoso” del freddo. Un esperimento recente dice che lavorare in una stanza azzurra renderebbe più creativi, ma anche quest’affermazione risulta fragile. Da quanto spiegano, verrebbe fuori che stando in mezzo al blu si producano più idee. Delle idee conta la qualità, non il numero, e la qualità è giudicabile solo in ambito sociale, ossia in base alla forza di un’idea di essere accolta in modo positivo all’interno di una comunità. In certi dati, spacciati per ricerca scientifica, c’è purtroppo il pregiudizio che le azioni umane siano sempre inquadrabili in termini di efficienza – laddove la creatività è fatta di gesti sottili e le grandi idee possono essere turbinose e molteplici quanto silenziose e rarefatte. Insomma, una stanza non può rendere più creativi se il colore ce lo impone qualcuno. L’unica stanza davvero creativa è quella che ci siamo dipinti da soli. Tra gli esperimenti più stravaganti condotti sul potere de rosso e del blu ci sono quelli di John Ott, l’inventore della cinematografia timelapse. Negli anni Sessanta del Novecento, Ott alleva dei visoni dividendoli in 2 gruppi: alcuni li fa vivere sotto una luce rossa e altri sotto una luce blu, e conclude che i primi risultano più aggressivi e non si accoppiano con facilità, mentre gli altri fanno molti figli e diventano docili. La luce controlla molte funzioni biologiche, a cominciare dai ritmi del sonno e di veglia, e la luce blu è più simile per composizione a quella degli ambienti naturali. Poi Ott prova coi topi e li divide in 3 gruppi, alcuni allevati con luce bianca, altri rosa e altri ancora blu. Scopre che con la luce blu i figli dei topi sono al 70% maschi, con la rosa sono al 70% femmine e con la bianca sono metà maschi e metà femmine. La differenza tra rosa e celeste attribuita a maschietti e femminucce è, però, recentissima ed è quanto di più convenzionale si possa immaginare, tanto che fino all’Ottocento accadeva esattamente il contrario: • Il rosa spettava ai maschi perché era sentito come una versione addolcita del rosso; • Il celeste era il colore delle bambine, in omaggio al manto della madonna. La convenzione non è solo del colore, è proprio il ragionare per opposti cromatici che è caratteristico della modernità. Nel mondo antico non c’è traccia di un dualismo tanto forte nell’abbigliamento. C’è, però, un fatto biologico che ha probabilmente contribuito alla costruzione di questo mito. I difetti della visione cromatica (® il daltonismo e le sue varianti) riguardano solo gli uomini per un deficit della retina trasmesso tramite il cromosoma maschile, ed è appunto la gamma dei rossi e dei rosa quella che più spesso non viene riconosciuta. È chiaro che un dato del genere abbia partecipato a diffondere quei luoghi comuni per cui gli uomini sarebbero meno talentuosi nell’abbinare i colori. Non è un caso che i prodotti destinati al pubblico maschile abbondino di blu, perché tutti i maschi sono in grado di vederlo. Questa, però, è un’occorrenza meramente statistica. Non si può ignorare che il 92% degli uomini è in grado di vedere il rosso, il rosa, perfino il fucsia, e li trova spesso anche piacevoli. Le convenzioni cambiano tuttavia in maniera più veloce di quanto si creda. Oggi sono in tanti a rifugiarsi in vestire i neonati di rosa e celeste. Nondimeno la maggior parte dei prodotti rivolti ai 2 sessi continua a perpetrare questo stereotipo, come raccontano bene le opere di The Pink & Blue Project dell’artista coreano JeongMee Yoon, ribadendo i rapporti strettissimi che legano il consumismo alla costruzione degli stereotipi di genere. In realtà, dietro le ricerche sulla capacità del colore di influenzare la nostra psiche si annida un interrogativo più generale, ovvero se esistano significati cromatici dal valore universale, sovraculturale. Proprio riguardo al rosso e al suo portato caloroso e appassionato, i sostenitori di un possibile innatismo semantico fanno da sempre notare che questo colore caratterizza i genitali di molti mammiferi, le creste e i bargigli, la bocca, il sangue, il fuoco: tutti elementi che spiccano e dal forte peso segnaletico. Per tali ragioni il rosso sarebbe “naturalmente” legato al sesso, alla passione, all’irruenza, all’allarme e al pericolo per tutti gli uomini di qualsiasi epoca e latitudine. Sesso e pericolo sono concetti differenti e persino un freudiano ortodosso faticherebbe a giustificarne un possibile significato comune tra rosso passionale e quello di un divieto stradale. Inoltre, la constatazione che le virtù irruenti del rosso siano legate al sangue va presa con cautela. In realtà, il sangue è rosso solo se lo osserviamo in piccole quantità, mentre l’esperienza del sangue violento e che scorre a fiotti è più spesso quella di un fluido marrone, talvolta quasi nero. Se i significati fossero innati, allora il marrone dovrebbe farci pensare a un super-rosso e indicare extra-violenza – ma non è così. Molte cose rosse sono legate al sesso, al pericolo e all’irruenza, ma non tutte. Tra l’esperienza percettiva e quella significane deve porsi una scelta con cui ci soffermiamo su alcuni aspetti e non su altri. Dire che i significati dei colori sono una faccenda culturale non vuol dire tuttavia negare le caratteristiche fisiologiche con cui facciamo cultura o la potenza della nostra risposta emotiva al colore. Il malinteso è, in realtà, dovuto al ragionare per antinomie tipico della società attuale, cioè all’opporre in maniera netta “natura” e “cultura”. La cultura è tutto ciò che abbiamo appreso dal momento in cui siamo nati, anzi si può dire che è il modo stesso in cui funziona il cervello che, per svilupparsi, ha bisogno di una costante interazione con l’ambiente. La cultura è la natura del cervello. Per questo la distinzione tra innato e acquisito è troppo rigida per spiegare fenomeni complessi come quelli cognitivi. I significati che legano il rosso al sangue sono sempre culturali, ma allo stesso tempo motivati da condizioni inevitabili. È, però, l’associazione a essere inevitabile, non il significato che ne consegue. Del resto, in Cina l’amore più appassionato è rappresentato da nuance delicate, chiarissime, come il rosa o il celeste, e non c’è dunque il rapporto tra irruenza dei sensi e saturazione cromatica. Ne consegue che nella maggior parte dei casi si può far dire al colore tutto e anche il suo opposto. I colori vivaci ci permettono senza sforzo collegamenti con i sentimenti più allegri, perché la risposta psicologica alla luce è un aspetto fondamentale del nostro stare al mondo. Nulla ci vieta, però, di fare il contrario e costruire significati positivi con toni spenti o cupi. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 41 Gli esperimenti che comprovano i rapporti tra eccitabilità e tinte calde si sono dunque rivelati esili nelle argomentazioni e si possono trovare altrettanti controesempi che avvalorino il contrario. Sappiamo che i rossi, gli arancioni e i verdi si vedono meglio di altri colori in quanto possediamo un numero maggiore di fotorecettori in fondo all’occhio predisposti a elaborarli. Gli scienziati avanzano ipotesi, eppure un secolo di ricerche ed esperimenti non ha portato a una risposta conclusiva. Ancora non sappiamo quanto i cosiddetti aspetti culturali influenzino gli stati emotivi e metabolici, ed è probabilmente questo l’ambito di ricerca più interessante a cui dedicarsi. Bisognerebbe formulare un’antropologia della visione in cui i vecchi parametri che oppongono la biologia alla cultura fluiscano gli uni negli altri senza rigide distinzioni. Allo stesso tempo non bisognerebbe trascurare che ciò che sembra innato, organico o biologico non è mai staccato dalla Storia, dalla società e dalle sue pratiche. Il daltonismo viene diagnosticato solo nel 1794 poiché prima della diffusione massiccia di oggetti colorati passava per lo più inavvertito. Il daltonismo è, dunque, una condizione “innata”, ma che non esisteva concettualmente prima di un preciso momento storico. Il presupposto scientifico contemporaneo è che il colore sia un continuum, dal rosso al violetto, che attraversa ogni tonalità e che può essere segmentato: se ne può prendere ogni volta un pezzettino e parlarne. In questo spazio ogni tinta occupa un punto che è sempre in qualche rapporto di vicinanza o di lontananza con gli altri punti. Che un rosso possa essere definito “caldo” è possibile solo perché lo posso confrontare con un altro rosso, in un altro posto dello spettro, che mi appare meno caldo. Senza questo confronto interno all’insieme, la distinzione tra caldo e freddo non ha più senso. Difatti, nel Medioevo sia il rosso che il blu sono reputati caldi, perché brillanti e intensi, mentre il giallo è freddo perché affine a un metallo. Non si può, insomma, far finta che il mondo moderno sia radicalmente diverso rispetto allo scenario visivo in cui ci siamo evoluti. TURCHESE REGISTRATO Il copyright sulle percezioni Nel 1845, Charles Lewis Tiffany, il famoso gioielliere newyorkese, per la copertina del suo catalogo, sceglie una varietà di turchese diventata da allora distintiva del brand. Si tratta del colore delle uova del Turdus Migratorius (® merlo americano), ma la ragione della scelta è da ricercarsi nella moda, diffusa tra le spose vittoriane, di regalare ai collaboratori domestici una spilla con una pietra turchese. Se nel XIX secolo la tinta è realizzata in modo artigianale dai tipografi che stampano per Mr Tiffany, oggi il colore ha un suo codice di riferimento: il Pantone 1837. Eppure, se la cerchiamo nella mazzetta, la tinta non compare da nessuna parte. La ragione di quest’assenza è dovuta al fatto che in alcuni Stati il colore 1837 è un marchio registrato prodotto in esclusiva per la gioielleria. Una sofisticata idea di marketing: quel tassello turchese racconta il suo prestigio per assenza. Questa storia nasconde un inganno e pone una domanda: è possibile brevettare o registrare un colore? Di recente sono venuti alla ribalta delle cronache 2 processi in cui ci si è contesi un copyright cromatico: • La Bp, il colosso petrolifero, voleva proteggere dagli imitatori l’uso della sua accoppiata verde e gialla; • La maison francese Louboutin ha denunciato Yves Saint Laurent, Zara e Eden Shoes per avergli copiato le iconiche scarpe nere dalla suola rossa. Nel caso della Bp, i tribunali hanno respinto la richiesta come inaccettabile e insensata: una coppia di colori non è brevettabile. Nel processo Louboutin, lo stilista non si appella a un particolare rosso, ma al suo uso: rivendica il design cromatico della scarpa, che è divenuta in breve tempo un’icona del lusso contemporaneo. Dal punto di vista legale, però, basterebbe trovare un unico caso di scarpa con la suola rossa antecedente per smontare qualsiasi pretesa di brevettabilità da parte di Louboutin. Per i giudici, l’uso della suola colorata è affine ad altre idee che caratterizzano la moda, quindi l’unico divieto posto ai concorrenti per il momento è l’uso di suole rosse su scarpe nere. Viene, insomma, riconosciuto allo stilista francese il brand dell’accoppiata, ma non il colore in sé. È chiaro che Louboutin nella sostanza ha perso la sfida: se tutti si mettono a produrre scarpe dalle suole di colori diversi, nel giro di un decennio l’idea perderà smalto, riconoscibilità e paternità. In questi termini le pretese dei colossi commerciali dimostrano spesso una grande incompetenza su cosa sia possibile o lecito a proposito del colore. È possibile proteggere il colore? Se la risoluzione è spesso affidata a questioni legali, in realtà gli unici che possono rispondere sono gli scienziati e i filosofi. Quando diciamo che 2 cose hanno lo stesso colore, stiamo sottintendendo che questo sia vero in determinate condizioni, e non in assoluto. Questo fenomeno ha un nome scientifico: “metamerismo”, ossia quando 2 tinte appaiono uguali sotto un tipo di illuminante ma diverse sotto un altro. Dentro casa, con la luce a incandescenza, il blu ci appare davvero indistinguibile dal nero perché la radiazione delle lampadine è spostata verso i toni caldi, ma al sole, che ha una banda più ampia, si rivelano 2 tinte distinte. Di fronte a questi problemi, la multinazionale americana General Electric suggerisce che se 2 colori appaiono identici sia sotto una luce fluorescente, sia sotto quella a incandescenza, solo allora possono essere definiti uguali. Ecco come mai nelle procedure industriali le tinte vengono valutate di solito con una luce standard di 6500 kelvin. A tal proposito, spesso, nei negozi di tessuti i commessi accompagnano i clienti fuori, all’aperto, per far apprezzare loro meglio, al sole, la sfumatura esatta della stoffa che vorrebbero acquistare. Nella società attuale, però, GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 42 capita di passare più tempo in casa la sera, quindi uscire dal negozio per comprendere il colore del tessuto è francamente inutile. In tutte queste procedure c’è un malinteso che va sfatato, e cioè che esista un colore “vero” delle cose e che per vederlo si debba metterle sotto la luce giusta. Considerare la luce del sole più attendibile di quella di una lampadina, però, è una convenzione. Noi viviamo in un mondo in cui la luce cambia di continuo e possiede tante colorazioni a seconda dei momenti e dei periodi dell’anno. In fondo viviamo sotto la luce di mezzogiorno meno di ¼ della nostra vita. anche l’idea che esista un colore giusto delle cose è, dunque, solo una conseguenza della rivoluzione industriale. Una vecchia storia del mondo del design racconta di un ristoratore di New York che, negli anni Settanta del Novecento, decide di dare un tocco caldo e romantico al suo locale immergendolo in una morbida luce rossa, ma non va come immagina. All’inaugurazione l’effetto è superbo, ma l’entusiasmo cade di fronte alle prime pietanze: le verdure appaiono nere, quasi marcescenti. Il designer che ha progettato il locale, anziché scegliere delle lampadine rosse, ha deciso di usare lampadine bianche filtrate da gelatine rosse, col risultato che la luce irradiata è soltanto rossa e le verdure, non avendo radiazioni verdi da riflettere, rimangono mute, ossia nere come se nulla le illuminasse. Filtri e gelatine sono, difatti, modificatori di lunghezze d’onda, amati dal cinema e dal teatro per valorizzare alcune forme e annullarne altre. Il vetro rosso blocca completamente le radiazioni verdi, cosa che nel mondo naturale non si verifica mai, perché la luce del sole contiene sempre una briciola di tutte le lunghezze d’onda. Nel mondo contemporaneo abbiamo fatto dell’illuminazione un articolato codice di comunicazione. la luce è divenuta un modo di descrivere lo spazio e di arredarlo. Ad esempio, la ragione per cui i locali di lusso prediligono le luci calde è per solleticare la nostra vanità. Lo sanno bene i proprietari di hotel, ristoranti, teatri e bar alla moda: le luci soffuse, facendoci apparire più belli, ci fanno venir voglia di restare e di spendere. Al contrario, nei fast food la luce è sparata, viene dall’alto ed è bianca. La dominante bluastra amplifica i difetti e restituisce un colorito insalubre. Pure questa è, però, una scelta precisa: somiglia più al tono di un supermercato che di un ristorante e ci ricorda che siamo entrati per comprare qualcosa e, quindi, dobbiamo uscire una volta fatto. Lo squallore dei neon di tutti gli ambienti discount appiattisce volutamente lo spazio, perché se le luci fossero più sofisticate non riuscirebbero a convincerci che i prezzi sono bassi. La luce con cui abbiamo a che fare ogni giorno possiede un’altra caratteristica importante: è spesso una luce costante, regolare, disponibile in quantità che paiono illimitate. Il passaggio dall’illuminazione naturale a quella elettrica ha comportato un cambio di paradigma nelle percezioni e nella produzione di artefatti colorati: è la qualità della luce a determinare il tono, lo stile, il linguaggio estetico delle cose. Una delle differenze sostanziali tra noi e gli uomini delle epoche preindustriali è l’assenza di luce elettrica che ha regolamentato la percezione in una maniera che non ha precedenti. La pittura del Rinascimento ha una prerogativa a cui si presta troppa poca attenzione: nelle storie bibliche, i personaggi sono vestiti secondo la moda contemporanea, cioè abiti tipici del gusto quattrocentesco. Se oggi facessimo qualcosa del genere, l’effetto verrebbe catalogato come kitsch. Per i contemporanei di Botticelli è, invece, una cosa normale per almeno 2 motivi: • Da una parte, vestire gli antichi in abiti moderni ribadisce che il messaggio evangelico è sempre contemporaneo; • Dall’altra, nessuno ha abbastanza ragioni di pensare che il passato fosse poi così diverso dal presente riguardo agli usi e ai costumi quotidiani. Quest’ultima idea ci risulta inconcepibile: noi abbiamo la corrente elettrica. L’abitudine alla luce artificiale ha, infatti, comportato modi nuovi di rapportarsi allo spazio influenzando i nostri ritmi di sonno e di veglia e le nostre abitudini sociali. Oggi i dipinti del passato vengono ammirati nei musei, appesi a pareti bianche che li trasfigurano in concetti isolati e distanti. Chi dipinse quelle icone le inventava, al contrario, per uno spazio spesso buio o appena rischiarato da un lume di fiamma, una luce che trema, oscilla e propone repentini cambi d’intensità. Si capisce allora che l’idea di luce giusta e di colore sempre uguale, in questo contesto, è priva di senso. L’elettricità museale amplifica, perciò, la testimonianza figurativa, annullando però quella metafisica. È chiaro, allora, che è solo la standardizzazione della luce a consentirci di parlare di oggetti dello stesso colore, un’idea che per gli antichi era decisamente più sfuggente. Decidere di reputare la luce del sole il metro di giudizio processuale non ci garantisce nulla. Il colore delle cose è “vero” solo in relazione a come decidiamo di pensarlo. Tuttavia, il 19 maggio 1960, l’artista Yves Klein ottiene dall’ufficio brevetti la certificazione del suo International Klein Blue, un pigmento oltremare brillantissimo, steso col rullo in maniera tanto uniforme da mostrarsi disincarnato. Più di recente, la società britannica Surrey NanoSystems ha creato il Vantablack, una sostanza composta da nanotubi di carbonio che assorbe fino al 99,9% delle radiazioni, risultando il nero più nero mai guardato. In entrambi i casi, quella che viene brevettata è una procedura tecnica, non un colore. È, però, chiaro che la registrazione del colore non è tanto una forma di tutela quanto un gesto performativo. È necessario chiarire che un brevetto è una cosa diversa dal diritto d’autore: • Un brevetto è un fatto pratico, è la registrazione di una forma o di una procedura e può essere venduto o ceduto a terzi; • Il diritto d’autore implica che un individuo è il possessore morale di una certa idea ed è inalienabile, cioè non si può vendere, ma può essere lasciato in eredità. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 45 BLÉ OMERICO Un’ipotesi per la percezione Londra 1858. William Ewart Gladstone è un politico avviato a una radiosa carriera, ma oltre alla politica ha un’altra passione che lo mette al centro di attacchi feroci: ama in maniera appassionata Omero. In quegli anni, l’epica greca è considerata una grande narrazione patrimonio dell’umanità, ma frutto di fantasia. Solo nel 1872 saranno ritrovati da Heinrich Schliemann i resti del palazzo di Micene, che proveranno l’esistenza di Troia. Gladstone, in anticipo su questa scoperta, rivendica l’autenticità storica del mondo omerico e sull’argomento pubblica un’opera in cui mette a frutto la sua cultura classica. Scrive un capitolo destinato a far discutere: La percezione e l’uso del colore in Omero. Sostiene che i Greci dei tempi eroici non vedano alcuni colori per via di un’immaturità delle facoltà visive – affermazione che viene criticata con asprezza. C’è, difatti, chi osserva che la distanza che ci separa dagli antichi è un tempo troppo breve rispetto alla storia di homo sapiens perché la biologia dell’occhio possa essere mutata in maniera sostanziale. Riguardo al colore, Omero è parco di nomi. I contrasti di bianco e di nero, di chiaro e di scuro, sono presenti e costanti, ma di altre tinte ci sono poche tracce. In tutta l’opera il rosso compare solo 13 volte, ma soprattutto il blu non è mai nominato. Quando si trova a descrivere cose che noi chiameremmo blu, Omero usa delle perifrasi che, invece di chiarire, disorientano. Lo stesso vale per il mare, definito “color del vino”. C’è chi ha sostenuto che Omero parlasse del colore del mare all’alba, quando è cupo e denso; chi ha ipotizzato la presenza di alghe rosse che lo farebbero apparire simile a un bicchiere di Chianti; e pure chi ha provato a sostenere che il vino, quando è scuro, ha riflessi bluastri. Nel mondo industrializzato siamo così abituati a parlare di colore riferendoci alle tinte che fatichiamo a immaginare altri usi. Per noi i colori sono il rosso, il giallo, il blu, eppure per secoli il colore è stato, invece, la sembianza complessiva delle cose. Se per colore intendiamo l’insieme di queste proprietà fenomeniche, ecco che un mare color del vino non pare più tanto assurdo. Il mare e il vino sono entrambi casi di colore volume, cioè sostanze il cui effetto cromatico è dato dalla percezione della loro tridimensionalità. In sostanza, è possibile che Omero stesse confrontando non delle superfici, ma dei liquidi. Se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo prendere le distanze dai nostri usi moderni poiché il nodo è ancora tutto qui; il rapporto problematico tra ciò che vediamo e come decidiamo di nominarlo. A tal proposito, il filosofo Ludwig Wittgenstein porta una prova particolarmente significativa: di fronte a una fotografia in bianco e nero siamo sempre in grado di dire se qualcuno ha i capelli biondi, pure se quello che vediamo davvero è solo un grigio. Lo scarto tra come percepiamo le cose e come decidiamo di pensarle è una caratteristica fondamentale di tutta l’esperienza cromatica. Del resto proprio l’uso che facciamo dei termini “bianco” e “nero” nel linguaggio comune è rivelatore: chiamiamo bianco il vino anche se lo vediamo giallo, e diciamo che l’uva è nera anche se la vediamo viola. Bianco e nero sono dunque, ancor prima che fenomeni, concetti con cui parliamo del massimo chiarore e della massima scurezza all’interno di circoscritti sistemi di riferimento. Qualche anno fa, la rete è stata invasa da un gioco percettivo: si tratta della foto di un vestito che ad alcuni sembra blu e nero, ad altri bianco e oro. A incuriosire è il fatto che le persone di fronte al medesimo monitor sostengano di vedere 2 cose tanto diverse. La risoluzione dell’enigma deve prendere atto che ci troviamo di fronte a una foto ambigua in cui non si capisce bene da dove venga la luce. Se misurati, ci sono un celeste e un marrone e, se ne isoliamo un dettaglio, l’ambiguità scompare. Il cervello, però, può decidere di leggere questi dati come un abito bianco all’ombra oppure come un abito blu schiarito da troppa luce. Il marrone potrà essere interpretato come un oro in ombra o come un nero molto illuminato. A complicare il rapporto tra vedere e nominare si aggiunge, però, il fatto che le 2 attività funzionano in maniera radicalmente differente: mentre per la percezione il colore è un continuum di gradazioni in cui le tinte sfumano le une nelle altre senza fratture, per il linguaggio si tratta di segmenti isolati. L’occhio non vede interruzioni tra il cremisi e il carminio e tra i 2 ci sono indefinite percezioni intermedie. Per la lingua, invece, cremisi e carminio sono 2 colori separati dalle parole in modo netto. Non bisogna, inoltre, trascurare che ogni gruppo sociale parla del colore a modo proprio. Chi cresce in una famiglia in cui le pratiche artistiche o il gusto per la moda sono presenti è possibile che sviluppi un vocabolario e delle percezioni più articolate di chi viene educato in una famiglia che non ha questi interessi. Questo perché è abituato a nominarli in maniera dettagliata. Per esempio, la lingua giapponese antica possiede la parola ao con cui ci si riferisce a una gamma che comprende il nostro blu e parte del verde. Poi, a un certo punto, compare midori, un nuovo termine per indicare esclusivamente l’ambito die verdi, lasciando così ad ao campo libero per riferirsi al blu. La faccenda si complica, però, negli anni Trenta del Novecento, quando si installano i primi semafori stradali importandoli dagli Stati Uniti. Ao, infatti, nella lingua moderna significa “via libera” e quindi sembra perfetto per l’uso segnaletico, sennonché una convenzione internazionale vieta di fare i semafori blu. Alla fine, nel 1973, anziché cambiare la lingua, il Giappone interviene sulla realtà e decide di installare semafori di un turchese ineffabile che non è verde, ma non è ancora blu, aggirando con una percezione intermedia le suddivisioni del linguaggio. Nel 1969, Brent Berlin e Paul Kay hanno redatto uno degli studi più controversi e citati dell’intera storia del colore. Dopo aver intervistato parlanti di 98 lingue, i due antropologi arrivano alla conclusione che, tra le popolazioni che hanno GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 46 soltanto 2 parole per indicare i colori, queste sono sempre “bianco” e “nero”. Se le parole sono 3, allora la terza è rosso. Se sono 4 o 5, allora dopo il rosso compaiono il verde e il giallo. Berlin e Kay stanno cercando l’universale linguistico. Un dato del genere, però, è passibile di interpretazioni sfaccettate, e oltre agli entusiasmi ci sono state le inevitabili stroncature: • La prima obiezione che viene mossa all’indagine è che i soggetti intervistati provengono tutti dalla baia di San Francisco e sono, quindi, una generazione bilingue, già fortemente urbanizzata; • La seconda critica è rivolta all’uso di campioni di colore tratti dall’atlante Munsell, fatto di tassellini di tinta isolati e, quindi, appartenenti a un sistema specialistico, occidentale, espressione di un momento preciso della storia dell’industria, che contiene in sé un inevitabile punto di vista sulle cose. La presentazione di una sequenza graduata o la separazione della tinta della sua luminosità sono idee recentissime e sceglierle per parlare del colore è una semplice abitudine. Il biasimo rivolto ai 2 antropologi è quello di interrogare culture diverse partendo dall’assunto che nominare la tinta sia un dato universale, mentre è chiaro che popolazioni altre non per forza operano questa distinzione. Ci sono, tuttavia, alcuni aspetti della ricerca che non possono essere liquidati, come il fatto che la valutazione tonale (® bianco-nero) preceda il concetto di tinta e che, quindi, la luminosità sia la caratteristica che prima di ogni altra è sentita importante nel descrivere le sembianze del mondo. Il dato più suggestivo sta, tuttavia, nell’aver suggerito una successione incentrata su un primato del rosso di natura antropologica e non psichica. Molti termini per indicare il rosso vengono dal sanscrito rudhira, che significa “sangue”. Non è detto, però, che il termine abbia a che vedere con la tinta, potrebbe essere appunto una qualità visiva più generale. Se in alcuni contesti può significare rosso, in altri potrebbe significare soltanto colorato. Da un punto di vista storico, il rosso è il primo colore a essere stato “fatto” dall’uomo. Mentre per il blu o il verde bisogna aspettare la civiltà egizia e per il malva la rivoluzione della chimica, i pigmenti rossi si estraggono con facilità dalla terra e li si usa per dipingere fin dalla Preistoria. In quest’ottica, il ragionamento di Gladstone va recuperato. Gladstone sottolinea come nei tempi eroici l’arte della tintura stesse muovendo i primi passi e che, quindi, il non nominare il blu potesse essere legato all’impossibilità di produrlo. È probabile che l’occhio abbia bisogno di una familiarità con un sistema ordinato di colori per essere in grado di riconoscerne con precisione uno qualsiasi. L’immaturità visiva di cui parla Gladstone sarebbe una faccenda psicologica, ma in termini culturali. Il colore, in definitiva, assumerebbe importanza e cittadinanza linguistica solo di fronte a oggetti e vernici artificiali, giacché non basta vederlo, è solo nel momento in cui siamo noi a farlo, che questo si stacca dalle cose e diventa un concetto maneggiabile. Per capire meglio una tale situazione psicologica può aiutarci un paragone con i sapori: sul fronte gustativo, infatti, ancora oggi possediamo strumenti meno organizzati rispetto a quando accade per le tinte. È esperienza comune che il ferro abbia un sapore distintivo. Tuttavia non abbiamo una parola per chiamarlo e, quando serve, ci limitiamo a dire che qualcosa “sa di ferro”. Potremmo decidere di chiamare questa sensazione “metallezza”, ma è probabile che non avremmo molte occasioni di nominarla, soprattutto perché non è qualcosa che possiamo usare. La metallezza rimane ancorata al metallo e non siamo capaci di parlarne in maniera svincolata. Se nel prossimo futuro la metallezza fosse disponibile in un comune supermercato, è probabile che, solo allora, ci accorgeremmo che è una categoria più larga che non riguarda per forza i metalli e smetteremmo di trattarla come caratteristica di un materiale preciso. Gli antichi vedevano i nostri stessi colori, ma non erano sempre in grado di riassumerli in una categoria complessiva. Per astrarre il mondo bisogna prima averlo smontato, e i concetti vengono formulati solo quando le pratiche concrete lo reclamano. Quasi 2800 anni ci separano dall’Iliade. Se non è cambiata la biologia della retina, di certo sono cambiate le pratiche concrete con cui facciamo e usiamo il colore, e se possiamo conoscere davvero solo ciò che abbiamo fatto, allora la velocizzazione del fare agevolata dall’industria deve per forza aver cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Disporre di tante sensazioni ci ha permesso di maneggiare le percezioni in una maniera senza precedenti, cioè di pensare i colori in astratto a prescindere da oggetti precisi. In un certo senso, è l’industria che ha contribuito a staccare per sempre il blu dal mare, poiché è solo quando il blu diventa una cosa in sé che possiamo finalmente nominarlo. Non è cambiato, dunque, il nostro occhio, ma il nostro sguardo. GIALLO GIUDA La tecnologia e lo sguardo Da almeno 20 anni, la maggior parte delle immagini con cui abbiamo a che fare emette luce. Questo fatto ha provocato la sensazione che tutte le figure funzionino allo stesso modo, perché guardandole attraverso un unico medium se ne livellano molti aspetti specifici. La riproducibilità tecnica comporta, infatti, una modifica delle caratteristiche espressive delle opere del passato. Se ci limitiamo a giudicare la tinta su un monitor, il giallo usato da Giotto per dipingere il mantello di Giuda nella Cappella degli Scrovegni a Padova può apparire molto simile al giallo della pelle dei Simpson – eppure questi gialli sono ingranaggi di meccanismi lontanissimi. Provare a raccontare i contesti e i problemi che hanno dato vita a quei 2 gialli può, allora, farci comprendere meglio come nessun colore sia mai davvero uguale a un altro. GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 47 La giustapposizione di linguaggi e codici disparati è lo standard di tutti i social network, da Facebook a Pinterest, universi visuali in cui il sincretismo è la norma. Questa condizione può suggerire un’idea del colore fin troppo astratta: come pensare che ogni oggetto possa essere prodotto davvero in qualsiasi colore, cosa che è vera solo in parte. In realtà ogni materiale e ogni linguaggio permette solo alcuni effetti cromatici e non altri. Per comprendere il valore autentico del giallo di Giotto e di quello dei Simpson, è fondamentale chiedersi quasi siano le ragioni che hanno portato il mantello di Giuda a essere di quel giallo e non un altro, e la pelle di Homer a essere proprio di quella nuance. Capire il colore non è soltanto sapere cosa significa, ma più importante è sapere come funziona – visto che è la sua realtà materiale, tecnica o tecnologica, a determinarne l’aspetto. Secondo una tradizione che inizia nel XII secolo, il giallo è sinonimo di falsità, di inganno e di menzogna, poiché è sentito come una degenerazione delle qualità luminose e morali dell’oro. Nelle raffigurazioni medievali, i traditori, i musulmani e gli ebrei indossano spesso qualcosa di giallo. Una clausola obbligatoria per Giuda. Per dipingere il vestito del traditore, gli artisti hanno, però, a disposizione solo alcuni pigmenti e non qualsiasi giallo. All’epoca, i colori disponibili sono il giallorino, l’arzica o l’orpimento, e si tratta di polveri precise, nonché in numero limitato. Questo fatto pone un problema percettivo, che è anche una questione teologica. Se Giuda ha un suo colore necessario alla storia, non è così per Cristo, la cui iconografia non prevede una tinta prestabilita. La committenza pretende che sia vestito della tinta più preziosa, cioè il blu di lapislazzulo. Il giallo, però, è più luminoso del blu e spicca. Con la conseguenza che nell’insieme Cristo risulta meno importante di Giuda. È lo scontro tra 2 modelli forti: • Quello del colore come virtù economica; • Quello del colore come fenomeno visivo. Bisogna mettersi nella cultura del tempo, profondamente religiosa, per riconoscere che questo è un gruppo progettuale che pone un dilemma non da poco. Il pittore si trova, insomma, di fronte a un doppio vincolo. Alcuni artisti preferiscono relegare il giallo di Giuda solo a un pezzettino di stoffa che sbuca da una manica e far così trionfare l’azzurro salvifico del redentore; Giotto sceglie invece di esagerare al contrario. Il colore, dunque, deve fare i conti con le limitazioni tecniche, con le prescrizioni teologiche e con le regole interne al sistema artistico. Nel complesso, abbiamo un ordinamento colorico in cui qualcosa di giallo si oppone a qualcosa di blu, e qualcosa di luminoso si oppone a qualcosa di costoso. È l’interazione di questi 2 sistemi che dà senso e logica al giallo. Quel giallo è il frutto di complesse dinamiche sociali. Il giallo dei Simpson è tutt’altra faccenda. I personaggi nascono come protagonisti di uno show televisivo che debutta il 17 dicembre 1989. La novità è essere una sit-com, ma disegnata. I fumetti e i cartoni animati manifestano sempre nello stile le virtù e i limiti della tecnologia che li ha prodotti. Per esempio, i supereroi sono per tradizione vestiti di azzurro e di rosso non solo per ragioni patriottiche, ma perché sono i colori più facili da stampare anche su carta scadente. Infatti, si possono ottenere senza retinatura con gli inchiostri pieni. Non è un caso che questo sia lo standard per tutti i personaggi storici. Al contrario, un film d’animazione come Bambi è possibile nel 1941 poiché concepito per le sale cinematografiche all’interno di una prassi distributiva in cui la Technicolor controlla ogni singola copia prima di lanciarla sul mercato. Le tonalità di Bambi sarebbero impensabili per la Tv, che appiattisce, brucia e semplifica le sfumature. La Tv, inoltre, lascia sempre al pubblico la possibilità di decidere la saturazione, il contrasto e la luminosità dello schermo, e si deve prevedere a monte un margine di errore. Già Hanna & Barbera o Tezuka Osamu si erano confrontati fin dagli anni Sessanta con le difficoltà di cartoni costruiti per il piccolo schermo. I Simpson, però, vanno oltre e fanno esplodere il medium: adottano di proposito una tavolozza elementare rivendicando i limiti della Tv come virtù estetica. Sia i personaggi, sia le scenografie sono, infatti, riempiti a tinte piatte, scelta di fondo antidisneyana, nei cui cartoni da sempre i fondali hanno sfumature pittoriche a tempera o ad acquerello. A Springfield, invece, tutto è celluloide, tecnicamente e metaforicamente. La tavolozza è uno stereotipo allucinato in cui tutti i prati sono verdi, i cieli blu e le nuvole bianche. I Simpson sono, perciò, gialli per 2 ragioni: • Da una parte, per esplicitarne l’aspetto bilioso, acido e insalubre; • Dall’altra, per stare dentro a uno schema sgargiante, composto solo da primari ipersaturi. Poiché ogni telespettatore visualizzerà un giallo differente, possiamo dire che quella dei Simpson non è una tinta esatta quanto piuttosto una tinta di “sicurezza”. Il giallo Simpson è un prototipo di colore, abbastanza flessibile e resistente da apparire giallo anche una volta gettato nel turbine entropico della riproduzione televisiva. Al contrario, quella di Giotto è una tinta esatta, come in ogni opera d’arte fatta di un pezzo unico: se viene riprodotta male, Giotto non c’è più. Il modello teorico contemporaneo presuppone che le tinte siano momenti di una progressione sfumata che le contiene tutte. In questa sequenza, il giallo dei Simpson è una gamma, un segmento di gialli possibili. La mentalità trecentesca, invece, non prevede né un’idea di tutto, né tantomeno un’idea di continuum, e le tinte sono atomi isolati che intessono fra loro rapporti gerarchici e discontinui. Il blu oltremare si oppone agli altri colori in maniera netta e perentoria. Oggi, invece, un colore può essere più o meno simile all’oltremare, ovvero possiamo avere tanti step progressivi tra il viola e l’oltremare e il verde, ciascuno individuato in un punto dello spettro. Il “sistema Giuda” e il “sistema Simpson” presentano un giallo percettivamente simile, ma nell’insieme sono 2 matrici che, se accostate, non combaciano. Il confronto tra i 2 rivela, quindi, non solo che ogni cultura elabora un proprio universo di significati legati alle tinte, ma pure che può adoperare solo i colori concreti di cui dispone, e non altri. Ogni contesto pone limiti circostanziati alla GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 50 Designer e registi, artisti e restauratori hanno precise responsabilità nel contribuire alla costruzione delle idee correnti e di quelle future. Affermare che il ceruleo è “il colore dell’anno” può essere una prova meravigliosa della capacità umana di astrarre e concettualizzare, oppure un pessimo slogan detto tanto per dire dagli epigoni di un ufficio marketing. si tratta di sapere cosa si sta facendo e chi si vuole essere. Il pensiero critico può iniziare da fatti piccolissimi, anche dal colore, magari insegnando ai bambini che il verde si può fare mischiando il blu col giallo. Non è, però, l’unico modo di fare il verde, non è la verità. APPENDICE A CONCETTI SCIENTIFICI 1.0 Luce e lunghezza d’onda Circa metà dell’energia emessa dal Sole che arriva sulla Terra è luce visibile. La luce trasporta velocemente e a enorme distanza informazioni accurate sulla presenza delle cose e sulle loro caratteristiche. Si tratta di un tipo particolare di radiazione elettromagnetica le cui lunghezze d’onda sono visibili ai nostri occhi perché le cellule della retina sono in grado di trasformarla in un segnale elettrochimico con cui il cervello costruisce la sensazione di vedere. La luce come la vediamo è, dunque, un fatto psicologico. 1.1 Per 2 secoli i fisici si sono domandati se la luce fosse fatta di onde o di particelle. Isac Newton non ha dubbi che si tratti di particelle, perché la luce non si flette intorno agli ostacoli. Quando la luce si muove nello spazio può essere pensata sotto forma di onde, mentre quando incontra la materia conviene immaginarla come uno sciame di particelle che si sposta in linea retta. Nel 1905, Einstein chiama queste particelle fotoni. 1.2 Dal punto di vista fisico, non c’è differenza qualitativa tra tutta la radiazione elettromagnetica e la porzione che chiamiamo luce, quella cioè compresa tra i 380 e i 760 nanometri e che corrisponde percettivamente alla successione cromatica dell’arcobaleno. La ragione per cui vediamo solo questa parte come luce e colori potrebbe essere dovuta al fatto che discendiamo da creature che vivevano in acque torbide e tali radiazioni sono le uniche in gradi di attraversarle. 1.3 Ogni sorgente di luce emette fotoni di diverse lunghezze d’onda: quella che ci appare come tinta è la lunghezza d’onda dominante. Una tinta unica è, quindi, quella in cui non vediamo la presenza di altre tinte, non quella in cui le altre lunghezze d’onda sono assenti. Il nostro sistema nervoso non è in grado di percepire le singole lunghezze d’onda, ma solo la loro risultante psicologica. Una radiazione verde e una radiazione rossa sovrapposte ci appaiono come giallo, senza la possibilità di vederne i costituenti. 2.0 I recettori e lo spettro La percezione dell’intensità luminosa di una superficie è dovuta al numero di fotoni che colpiscono il fondo dell’occhio. Il segnale elettronico prodotto dalla retina è, infatti, proporzionale al numero di fotoni assorbiti. I recettori che tappezzano la retina sono divisi in 4 categorie: i bastoncelli (® sensibili alle basse illuminazioni) e 3 tipi di coni (® per le onde lunghe, medie e corte = macroaree di rossi, verdi e blu). I coni verdi sono il 60% del totale, i rossi sono il 30% e i blu solo il 10%. Tutti però rispondono a tutte le lunghezze d’onda. Il confronto di queste risposte permette la costruzione di quello che sentiamo come colore, per confronto e non per mescolanza. 2.1 La composizione spettrale di un certo colore può essere misurata tramite un analizzatore chiamato spettrofotometro e raffigurata come curva di riflettanza. Si tratta della rappresentazione di un dato fisico che non tiene conto della sensibilità particolare di coni e bastoncelli, la quale, al contrario, è disomogenea rispetto allo spettro. Nella realtà vediamo meglio i rossi e i verdi che le altre radiazioni. 2.2 Che la tricromia dei monitor Rgb sia la più affine al modo in cui vede l’occhio è una leggenda. I coni che ricoprono la retina sono in effetti di 3 tipi, ciascuno più sensibile a una gamma dello spettro. Tutti, però, rispondono a tutte le lunghezze d’onda. L’incrocio di queste risposte permette la costruzione di quello che sentiamo come colore per confronto. Il monitor è un sistema basato su miscele ottiche, mentre il cervello usa 3 misuratori per operare un confronto. Dunque, i coni non si comportano come un inchiostro o un led e non vanno pensati come tinte primarie. 2.3 L’elaborazione del colore è articolata in 3 tappe: valutazione delle lunghezze d’onda in V1 dai dati forniti dalla retina; poi si passa in V4 che pesa i rapporti tra tinte vicine garantendo la costanza cromatica, rendendosi indipendente dallo spettro (® v = “visione”). Infine, c’è un controllo dell’attribuzione cromatica che coinvolge più aree. A livello cellulare, il processo è il seguente: recettori vicini alla retina (® coni e bastoncelli) comunicano a un neurone sopra di loro che in quel punto sta accadendo qualcosa; il neurone fa una stima delle risposte che riceve e comunica a un grado sopra di lui quello di cui è venuto a conoscenza. Man mano che si sale, si incontrano neuroni che sovraintendono a un’intera area, fino a trovare neuroni che si eccitano quando vedono un volto umano. Non conta, dunque, la qualità del neurone, ma solo la sua posizione nel sistema. 3.0 Teoria dei segnali opponenti I due modelli classici che si sono contesi il campo fin dall’Ottocento sono la teoria tricromatica di Young e la teoria delle coppie opponenti di Hering. Young ipotizza che esistano 3 recettori nel fondo dell’occhio, uno per ciascuno dei 3 primari la cui combinazione produce la visione di tutti i colori. Hering sostiene, invece, che il giallo abbia una sua autonomia e ipotizza che la cosa importante siano le relazioni che si vengono a creare nei piani alti del cervello e che i colori psicologici di base non siano 3, ma 4. Young si concentra sul funzionamento della retina, Hering del cervello. Le scienze recenti hanno dato ragione a quest’ultimo: i 3 coni che rilevano le lunghezze d’onda sono solo dei misuratori, ma non partecipano alla costruzione del colore. I segnali provenienti da 2 o più coni confluiscono sulle cellule nervose superiori, eccitandole o inibendole. A questo punto, la retina invia alla corteccia una mezza dozzina di informazioni già elaborate in cui conta il segnale opponente. 4.0 La costruzione del colore Le prime riflessioni sulla costruzione psicologica del colore si devono, nel Settecento a Gaspard Monge, che chiede ad alcuni colleghi dell’università di osservare 2 fogli, uno bianco e uno rosso, attraverso una lastra di vetro rosso. I due fogli appaiono dello stesso colore: il foglio rosso si desatura e diventa luminoso come l’altro. Una volta schiarito dal vetro rosso, il foglio rosso risulta uno degli elementi più chiari della scena, e quindi bianco per la nostra mente. 4.1 Una verifica sperimentale di questo concetto è stata data alla fine degli anni Cinquanta da Edwin Land, a cui si deve anche la scoperta dei filtri polarizzanti e l’invenzione della Polaroid. Land scatta 2 diapositive di uno stesso soggetto attraverso 2 filtri (® rosso e verde). Le immagini risultanti sono prive di colori perché la pellicola usata è in bianco e nero, però nella prima le zone rosse del soggetto hanno dei grigi più chiari, mentre nella seconda accade l’opposto. A questo punto Land proietta le 2 diapositive GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 51 sovrapponendole perfettamente: l’immagine che si ottiene è in bianco e nero. Poi però mette davanti al primo proiettore lo stesso filtro rosso con cui aveva scattato l’immagine: questa appare a colori. Land dimostra che non è necessario che nella scena ci sia il colore per vederlo. Le cellule che rispondono a una lunghezza d’onda reagiscono a una superficie di qualunque colore, basta che contenga una quantità minima di quella lunghezza d’onda. 5.0 Le tinte postume e complementari Teorizzate anzitutto da Goethe, le tinte postume si spiegano scientificamente grazie all’interazione tra la retina e i processi che hanno luogo nella parte di corteccia visiva denominata V4. I gruppi di cellule coinvolti al livello retinico (® coni) tendono a mandare alla corteccia un segnale più debole; questo inganna le cellule superiori (® V4), che finiscono per costruire la sensazione del colore complementare. 5.1 Un colore complementare può essere definito in 4 modi distinti, secondo ragionamenti neurobiologici, fisici oppure artistici: • Psicologicamente, è la percezione postuma che compare dopo aver fissato per qualche secondo una certa tinta; • Nelle mescolanze, sono detti complementari 2 colori che ne producono uno acromatico (® bianco o grigio); • Nel diagramma delle cromaticità Cie, sono complementari 2 colori che si trovano in punti opposti del perimetro passando per il centro del bianco; • Nei cerchi cromatici della teoria artistica, sono complementari le tinte opposte sulla circonferenza – anche se si tratta spesso di un dato impreciso. Un uso pratico del contrasto di complementari è quello di rivelare una tinta di cui non ci eravamo accorti. 6.0 Le mescolanze Le mescolanze cromatiche sono di 3 tipi: additive, sottrattive e partitive. 6.1 Sono additive le mescolanze che usano luci colorate. Il termine si riferisce, appunto, al sommare luce con luce. 6.2 Sono sottrattive le mescolanze in cui si sottrae luce, quelle in cui uso colori solidi, come i tubetti o gli inchiostri da stampa. 6.3 Sono, invece, partitive quelle mescolanze che giustappongono i colori facendo sì che la miscela sia un prodotto della percezione, anche dette mescolanze in media spaziale. L’effetto dipende dalla soluzione della retina, cioè dalla quantità di coni coinvolti: se guardo da vicino, la proiezione retinica è più grande e distinguo le 2 tinte; a distanza, la proiezione è più piccola e le 2 tinte si fondono in una nuova sensazione (® ad esempio, il mosaico). Un altro tipo di mescolanza partitiva è quella generata da un movimento, come la rotazione delle trottole di Maxwell: la velocità fa sì che l’occhio non veda più le campiture sorgenti, ma la loro miscela, e anche per questo è detta mescolanza in media temporale. 7.0 Nomenclatura I colori sono percepiti in modi diversi a seconda delle condizioni, e vengono nominati tramite attributi psicologici. 7.1 Si parla di colore isolato quando questo è visto da solo, senza nient’altro intorno. Il colore isolato è, dunque, un’esperienza particolare in cui un singolo colore omogeneo è circondato dal nero. Tutti i colori, quando sono visti isolati, appaiono saturi e luminosi. Nella vita di ogni giorno, i colori sono, quindi, sempre non isolati, ovvero li vediamo insieme ad altri colori. Del resto, la corteccia celebrale costruisce la percezione del colore confrontando la composizione spettrale di aree adiacenti. Un cerchio di luce colorata al buio è, perciò, solo un caso limite, una relazione spaziale semplice, scelta come oggetto di studio in laboratorio. 7.2 I modi principali e più comuni con cui appare il colore sono i cosiddetti modi oggetto, cioè come esso si mostra nelle cose con cui abbiamo a che fare nel mondo. Questi modi sono 3 e sono chiamati: • Modo superficie ® quello di un qualsiasi oggetto colorato, come un pezzo di carta o di plastica. È un modo sempre non isolato, ovvero visibile in un contesto accanto ad altri colori; • Modo volume ® il colore è percepito grazie al passaggio della luce attraverso la massa dell’oggetto; • Modo illuminante ® quello di una sorgente luminosa, come una lampadina colorata; può apparire isolato o non isolato. Ci sono poi i modi non oggetto, rispettivamente: • Modo illuminazione ® il colore attribuito alla luce che predomina in una scena, come quando parliamo in un ambiente dalla luce calda; • Modo riduzione. ® il colore che viene percepito guardando da un’apertura abbastanza piccola da farlo apparire omogeneo, come attraverso un tubo con un solo occhio. 7.3 Il colore può essere descritto attraverso attributi psicologici. I principali sono la tinta, la luminosità e la saturazione. Altri sono la percezione di lucido, di opaco, di diafano, ecc. Non si tratta di grandezze misurabili, ma di modi di apparire al nostro sguardo (= valutazioni qualitative). 7.3.1 La caratteristica di un colore di apparire diverso da un altro si chiama tinta: rosso, giallo, blu sono tinte. “Tinta” è il termine che distingue quello che correntemente chiamiamo “colore” quando sentiamo che c’è colore. Tutte le differenze di tinta sono differenze di lunghezze d’onda, ma non tutte le differenze di lunghezze d’onda comportano differenze di tinta. Composizioni spettrali diverse possono provocare nel cervello percezioni uguali. Alcune tinte vengono definite spettrali (= quelle contenute nell’arcobaleno), altre invece non spettrali (® viola o magenta). 7.3.2 Ogni superficie percepita ha una precisa riflettanza, ovvero la quantità di luce che questa riflette e che può essere misurata tramite un fotometro. Oggetti di riflettanza sotto il 10% ci appaiono neri. La riflettanza apparente (= quella percepita dall’occhio umano) è detta brillantezza, o luminosità, ed è anch’essa un attributo psicologico non misurabile. La tinta è, dunque, un attributo cromatico (® riguarda il tipo del colore), mentre la luminosità è un attributo tonale (® riguarda la quantità di luce). Si chiama, invece, chiarezza la percezione relativa a un colore non isolato. Ne consegue che la chiarezza è una luminosità relativa al contesto. 7.3.3 Il termine saturazione si riferisce alla quantità di tinta percepita. Per i colori isolati, questa presenza di tinta viene chiamata pienezza, per un colore non isolato, e quindi in relazione a una scala, si parla di croma. In generale, questi termini vengono sostituiti con “saturazione”, che invece dovrebbe indicare la pienezza in relazione alla luminosità. Trattandosi di un valore vincolato alla quantità di luce, la saturazione riguarderebbe solo la luce colorata e non le superfici riflettenti. 8.0 Luminosità percepita dei colori I colori possono essere ordinati in sequenza cromatica come accade nello spettro o in sequenza tonale, secondo la quantità di luce che riflettono e alla quale il nostro occhio è più sensibile. Se convertiamo un’immagine a colori in scala di grigi, vediamo che ogni tinta alla sua massima saturazione possiede una precisa qualità luminosa che dipende anche dalla sensibilità del nostro apparato visivo. A monte c’è una qualità strutturale della retina. La percezione della luminosità intrinseca alle tinte e la capacità di confrontarle fra loto è una delle caratteristiche fondamentali della mente per valutare volumi, profondità e qualità cromatiche. Ciò comporta anche una maggiore capacità di discriminazione all’aumentare degli scarti cromatici e luminosi. Nonché la capacità fondamentale di discernere soglie più o meno alte all’interno dei GRAFICA MULTIMEDIALE E APPLICATA Riassunto 52 passaggi tonali. Tinte e luminosità sono qualcosa che esperiamo come un tutt’uno, ma la luminosità è anche una qualità precisa che leghiamo ad alcune tinte. 8.1 I rapporti tra tinte e luminosità svolgono un ruolo chiave nei sistemi segnaletici e informativi. Quello che conta è, infatti, la capacità dei coloro di creare uno scarto con ciò che hanno intorno che sia sufficientemente decifrabile dal nostro occhio. Nel sistema cromatico, le tinte permettono di differenziare, ma non di ordinare. Le tinte distinguono le diverse linee, ma non sono in grado di stabilire nessun tipo di sequenza o di gerarchia. L’unico modo di creare ordinamento è appoggiandosi a una sfumatura in cui siano riconoscibili una serie di step successivi. Il colore, però, ha sempre bisogno fi una legenda per poter significare. Il colore ha la capacità di attrarre l’attenzione, la scelta di tinte più o meno sature o più o meno luminose dipende, quindi, da quanto si vuole che un certo elemento “salti all’occhio”. 9.0 La stampa in quadricromia È anche nota come Cmyk – dalle iniziali dei 3 inchiostri (® cyan, magenta, Yellow) + la k che sta per key, perché la lastra del nero è la “chiave” che permette di allineare fra loro le altre. I vecchi tipografi usavano dire che ciano e magenta fanno l’immagine, il giallo gli dà trasparenza e il nero profondità. Il meccanismo, in teoria, si basa sulla scelta di 3 colori, ciascuno dei quali non rifletta nessuna delle due lunghezze degli altri 2, così da garantire la gamma più ampia possibile una volta mescolati tra loro. Nella realtà, invece, gli inchiostri riflettono un po’ di tutte le lunghezze d’onda, ed è per questo che i 3 primari non permettono di restituire tutti i colori percepibili. Tre inchiostri ideali potrebbero fare a meno del passaggio di nero. 10.0 Il diagramma delle cromaticità Cie Nel 1931, la Cie (® Commission Internationale de l’Éclairage) propone un modello cromatico su basi matematiche che permette di definire, per mezzo di 3 coordinate, tutti i colori visibili all’uomo. Qui abbiamo una forma irregolare, simile a una campana, che concede molto spazio ad alcuni colori (® gialli e verdi) e meno ad altri, in quanto tutti i colori visibili sono descritti tarando le lunghezze d’onda rispetto alla sensibilità retinale umana. La Cie, nel 1924, ha infatti standardizzato la curva di sensibilità dei coni, valutando la radiazione elettromagnetica in relazione alla sua capacità di stimolare l’occhio. Qui si tiene conto di ciò che è davvero visibile, il colore come cosa vista. Sul perimetro della campana sono distribuite le lunghezze d’onda dello spettro in maniera non omogenea per assecondare la maggior propensione della retina verso la gamma dei verdi. Il segmento dritto che forma la base della campana (® “linea dei porpora”) spetta, invece, ai rossi non contenuti nell’arcobaleno a cui corrisponde il frutto della somma delle radiazioni agli estremi dello spettro. Come tutti i modelli, anche il Cie è in grado di definire solo un colore isolato e non può rendere conto della reale percezione in atto, in quanto fenomeni come la costanza cromatica o il contrasto simultaneo comportano troppe variabili per poter essere matematizzati. Si tratta, però, di un modello esclusivamente teorico: infatti, un punto sul piano non indica nulla di concreto. Non esiste una tecnologia in grado di visualizzare o produrre i colori del modello, ma allo stesso tempo non c’è oggi una tecnologia che possa farne a meno. L’idea del modello nasce da numerosi studi effettuati nel 1° dopoguerra, quando fu notata l’impossibilità di riuscire a riprodurre per sintesi additiva tutti i colori. Per costruire il diagramma vengono così individuati 3 primari immaginari a cui corrispondono i vertici di un triangolo che contiene la campana, e che servono come riferimento matematico per poter esprimere il resto dei valori. Scegliendo 3 primari reali, cioè 3 luci monocromatiche nell’intervallo dello spettro, ci si accorge infatti che alcuni colori non potranno mai essere ottenuti da nessuna loro combinazione. Ogni colore spettrale può essere la somma di 3 primari a patto che alcuni di questi possano essere espressi da un numero negativo. 11.0 Sistema Munsell Nell’albero di Munsell, il fusto indica la luminosità e, salendo dal basso verso l’alto, si procede dal buio alla luce. Intorno a questo tronco sono disposte circolarmente le tinte, mentre i rami rappresentano i differenti gradi di saturazione, e più si va verso l’esterno, più abbiamo tinte piene. La regola che regge il sistema è che gli scarti da un tassellino all’altro sono percettivamente uniformi. È dunque un modello costruito sulle capacità di discernimento dell’occhio che definisce il percepibile attraverso le 3 coordinate di luminosità, tinta e saturazione in maniera numerica. Quella di Munsell è la prima struttura basata su scarti percettivi omogenei, quindi sul colore come appare al nostro sguardo. Lo scarto percepito tra 2 colori in verticale (® asse della luminosità) è tassativo che appaia uguale allo scarto tra 2 tinte in orizzontale (® asse della saturazione, “chroma”). Questo comporta che la distanza delle tinte sature dal centro sia diversa per ciascun colore. In questo modo, l’albero ha rami di lunghezze diverse e il volume risultante è irregolare e non semplicemente cilindrico. Pantone non è basato, invece, su nessuna teoria generale: è un semplice protocollo di comunicazione, non stabilisce relazioni tra tinta e tinta e definisce il colore soltanto in base alla quantità di miscela di 18 inchiostri di base. Un degno erede di Munsell è il sistema svedese Ncs, Natural Color System, che articola i rapporti partendo da 4 tinte base secondo le idee sull’opponenza formulate da Hering. Un analogo di Pantone per applicazioni industriali e architettoniche, invece, è il Ral. APPENDICE B PRINCIPALI MODELLI CROMATICI Ricostruzione dei modelli formulati a partire dal Seicento, secolo in cui si pone il problema della razionalizzazione cromatica. Di particolare rilievo il cerchio di Hölzel, sviluppato a partire da Goethe. Hölzel è stato un educatore che ha influenzato tutto il novecento, determinando molte delle idee di Itten, suo allievo.
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