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Guide e consigli
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Riassunto Cromorama, Dispense di Design

Parla dei colori facendo esempi reali ed è un libro interessante.

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 13/08/2019

morena---
morena--- 🇮🇹

3.9

(9)

11 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Cromorama e più Dispense in PDF di Design solo su Docsity! In questi termini la selezione seguita dalla filiera distributiva è a tutti gli effetti un operazione di design e perché progetto il modo in cui noi guarderemo quei frutti. Così facendo ling standard di zia la percezione e la serie ci fornisce degli strumenti mentali con cui pensare il mondo. Per esempio se un in un negozio via una penose getta e notiamo un errore o un difetto visibile queste visto con un indizio di qualcosa che non va. Eppure non è solo questo, e, l’errore estetico non vuol dire che l’oggetto non funzionerà in realtà siamo inclini a preferire sempre quello più uguale agli altri. Prendendo la serie e non l’eccezione vogliamo comprare non il singolo oggetto ma la sua idea o perlomeno si comporta così la maggior parte degli dei consumatori, visto che gli ho getti minimamente rovinati giacciono in venduti e vengono ritirate dal mercato. Negli ultimi anni sono nate gruppi di acquisto a km zero, che si riforniscono solo da coltivatori del territorio limitrofo. Propongono forme inconsuete, il regolari e queste sono valutate dai consumatori come segno di ingenuità. Il km zero è insomma perché è pensabile sono in relazione al supermercato, perché qualsiasi credenza abbiamo sulle cose non prescinde più dall’idea di standard. L’essenza del design e non consiste nella lavorazione tramite macchinari ma nella serializzazione dei processi. Del resto anche molto oggetti che appaiono industrialissime, sono sembrati a mano da operare sottopagati nelle fabbriche del terzo mondo. Un’arancia, una statuetta africano, un cellulare, se non accetti distanti ma oggi con una condizione simile vengono consumati quasi allo stesso modo. Quindi il design e, attraverso l’interazione di idee e di modelli, progetta anzitutto rappresentazioni, cioè cose che si mostrano al nostro sguardo, ma che finiscono per abitare la nostra mente. Per questo il design ancor prima che oggetti, produce discorsi, vale a dire un insieme di sapere, di miti, comportamenti di pratica sociale accomunate dalla scala di massa. Questo sia grazie ai mezzi di comunicazione, in primo luogo e tramite le invenzioni della grafica, del cinema della pubblicità che sono ormai un pezzo costruttivo della nostra esperienza della realtà. Ma anche grazie a Picasso e bracca 3112 inaugurano la rivoluzione cubista inserendo le loro dipinti scampoli di carta da parati, biglietti del treno e ritagli di giornale. Il pezzo di giornale star lì a significare proprio un giornale poggiato su un tavolo pezzi presi dalla realtà che finiscono dritti nella natura morta dando per scontato che nella società moderna ci siano tavoli, scodelle, frutta e Mass Media. Da questo si inizia a intuire come si costruisce l’immaginario cromatico: fare un oggetto di un certo colore può incontrare o meno il consenso del pubblico; ma se lo incontro, inizia vivere nella nostra fantasia e diventa una categoria con cui giudichiamo tutto il resto, come il giallo di una matita. L’aspetto cruciale del rapporto tricolore le cose sta proprio nel cercare di fargli ricordare rimanere nella memoria collettiva. Ma temo che notiamo anche che vi sono molte cose gialle, ormai famose, che contraddistinguono il nostro mondo culturale, come le pagine gialle che furono pubblicate quasi per sbaglio, perché è il primo editore aveva a disposizione solo carta di quel colore; oppure i girasoli di Van Gogh, il barattolo della Nisquik o i taxi newyorkesi. Tante abitudini comuni sono invenzioni, spesso determinate da necessità tecniche. Tutto questo avviene proprio negli ultimi 30 Milano e dove gli uomini più diversi sono gli interessati al colore costruendo ci so prendere visione del mondo. I dilemmi cromatici sono diversi di quello di un pittore settecentesco o di un dialogo contemporaneo. Ogni ambito a posto i propri problemi e costruito un lessico acconcio. Questo fa sì che oggi ci troviamo con sapevi spesso in conflitto tra loro e con una terminologia molteplice e a volte imprecisa. Per esempio un artista può definire stato un colore che nel linguaggio comune e chiamato vivace, per non dire che l’opinione pubblica dà per scontato che nell’arcobaleno ci sono tutti colori, ma la scienza recente dimostrato che il colore rosso-rosso nello spettro come cromatico non c’è. Queste contraddizioni sono un aspetto importante della storia del colore. La moltitudine di approcci, di studi nei secoli ha costruito conoscenza, ma anche prodotto molti detriti. Si tratta di materia viva dell’immaginario colorato. Chi ci dice che il rosso è legato all’amore e alla passione?? Per capire il colore dobbiamo lasciare da parte qualsiasi pretesa di affermarne l’intero o di arrivare a un’unica verità. In altre parole se vogliamo capire cos’è oggi il colore dobbiamo chiederci non solo come funziona, ma anche quali sono le idee che gli uomini se ne sono fatti: e va da sé che il convincimento dello specialista e quelli dell’uomo qualunque andranno considerati in parallelo, giacché la scienza e il mito sono due modi di guardare la realtà. Rosso unito Nell’arte e nel design i linguaggi che riscuotono maggior successo sono proprio quelli che si colgono in un baleno, a colpo d’occhio. Anche la tinta si fa capire all’istante, infatti dal punto di vista tecnico essa è l’aspetto uniforme di una superficie in cui riconosciamo lo stesso colore in ogni suo punto. Non è solo una caratteristica percettiva, una categoria con cui pensiamo il colore più in generale. Possiamo definirla come una rivoluzione dello sguardo. La frequentazione dei linguaggi industriale comporta infatti che del colore oggi predichiamo prevalentemente la tinta. Ossia quando diciamo tinta, diamo per scontato che sia unita. Insieme ai pigmenti sintetici, quest’idea di compattezza e forse la vera e più importante la vita del mondo moderno. La creazione di pezzi unici è per lo più contraddistinta da tinte non unite. Il gusto per il colore disomogeneo è una qualità costante negli artefatti del passato: nella pittura bizantina o nell’orificeria medievale. Nel caso delle pietre preziose, poi, l’invenzione dei vari tipi di taglio è servita a moltiplicare le possibilità tonali del materiale. Oppure nel cosiddetto Carbochon, cioè la pietra ovale segata a metà, in cui la parte sottostante può venire scavata così che la luce si riverberi per tutto il volume della gemma. Anche nelle vetrate gotiche incontriamo effetti dinamici lontani dall’uniformità moderna, come il cosiddetto doublé, in cui sono accoppiati uno sull’altro due strati di vetro, uno bianco e uno rosso, che producono effetti variabili a seconda dello spessore e dell’angolo di incidenza della luce. Queste invenzione artigiane che sfuggono la compattezza cromatica, ci permette di capire meglio la tipicità del mondo contemporaneo. È chiaro che il doublé è progettato per avere qualità lontane da una lastra di plexiglas come fece Philippe Starck per le sue sedie, ne apprezziamo la coerenza cristallina ma non ci troviamo l’emozione di una vetrata di Chartres. Sono linguaggi e scelte distanti, oltre che condizioni esistenziali diverse nella sostanza. Per ragioni simili, L’ invetriatura di una ceramica RAku della tradizione giapponese ha una interiorità colorica che la gente nel flusso magmatico della vita, mentre un piatto di Ikea si pone compatto e immobile sfidando il tempo con la sua inappuntabile liscezza di serie. In pittura vi sono molte differenze e queste si notano col modernismo. Infatti se esaminiamo da vicino la finitura di un dipinto classico, notiamo che il colore non si limita alla tinta, ma sembra penetrare nella tela come accade con una superficie organica. Oppure in quelli rinascimentali appaiono pastosi e articolati, ciò è dovuto alla cosiddetta tecnica delle velature, cioè quando il colore è steso per strati trasparenti e successivi, applicando mani fresche, magari diluite, sopra le campiture asciutte, così che traspaia il colore sottostante. Storicamente il vero cambiamento si ha con l’impressionismo, quando il colore si presenta come un corpo denso, dalla tinta precisa che ha solo rilievo. L’epoca degli impressionisti è quella dei nuovi pigmenti venduti pronti all’uso e anche per questo la materia può essere estesa così come esce dal tubetto, rompendo così la tradizione. Nel mondo antico, la tinta unita è impossibile produrla, però con la lavorazione in serie, le cose si ribaltano. Infatti fare un colore uniforme è più facile, dovuto all’industria che ha dovuto semplificare forme e finiture. Ma grazie anche ai pigmenti moderni creati in laboratorio che sono privi di impurità. Sotto molti aspetti, la tinta unita non è solo una scelta, ma una delle conseguenze della serializzazione produttiva, come un mattoncino lego, pennarelli, matite, gessetti, pastelli eccetera. L’industrializzazione ha trasformato insomma la tinta unita da evento eccezionale in fatto quotidiano, fino a farne il criterio in base al quale definiamo tutto il resto. La standardizzazione ha però provocato qualcosa di più. Proprio attraverso la consuetudine con le tinte unite ci ha portati a usare il colore come un’astrazione. Si consideri il campionario Pantone dove ci sono tutte le Nuance possibili, dando per assodato che il colore debba essere valutato tramite tasselli compatti. Al di là delle necessità produttive c’è comunque da chiedersi come mai la modernità si sia affezionata ai colori uniformi. Per rispondere proviamo a ribaltare il problema immaginando come sarebbe il nostro mondo se questi non esistessero. Pensando alle nostre case, i muri, tessuti, la prima cosa che ci viene in mente è che senza superficie uniforme apparirebbe tutto un po’ vecchio, rovinato o sporco. L’igiene, la regolarità, lo standard sono alcuni dei pilastri su cui si è basata la società moderna; sono forme di controllo che possiedono una retorica potente quanto invisibile, perché spesso è equiparata senza distinguo alle virtù del progresso. Cinquant’anni fa la cultura ottocentesca propone alle classi emergenti della piccola e media borghesia un modello alternativo, dove l’ordine è centrale. In questo universo le logiche del mercato invitano a buttare quello che è vecchio sostituendolo con qualcosa di nuovo. Il rinnovamento è un concetto incontestabile e chiunque vi si opponga viene bollato come reazionario. In breve lo sporco, il vecchio e rovinato sono tre concetti distinti e finiscono per equivalersi, condividendo una condanna morale. Se si vuole essere moderni si deve ambire all’uovo e a pulito. Tutte le cose si rovinano e si sporcano, è inevitabile; ma prima dell’ottocento non se n’era mai fatto un dramma. È stata l’industrializzazione a convincere che tutto ciò che è diverso bisogna cambiarla e prendere qualcosa che è esteticamente perfetta. Per salvarsi dalla dannazione questi strozzini e investono in cultura: con dipinti e opere di architettura, oppure sostenendo i cenacoli e gli studi umanistici. Il fine è esibire il proprio potere e risarcire la società di quanto si è preso, cercando di riguadagnarsi un posto in paradiso. Sono committenti attentissimi alle opere e la scelta di materiali di prestigio è vitale: l’arte deve mostrare talento e si deve vedere quanto è costata. Il tipo di colore può stabilire delle graduatorie dall’interno di uno stesso dipinto. Il più costoso viene raccomandato per dipingere il manto della Madonna, mentre quello più economico si può usare per cose di minore importanza. Ovvero il colore stabilisce attraverso il costo anche delle distinzione teologica. Ecco perché l’oltremare diventa presto non sono un mito ma un’ossessione. Il prestigio dell’oltremare cambia le sorti del blu, che da colore poco usato nell’antichità diventa dal Rinascimento in poi la tinta più nobile e apprezzata. Fino al punto da essere scelto come la virtù stessa del manto della Madonna. Fino al 400 l’abito ufficiale della vergine è scuro e simboleggia il lutto per la morte del figlio, come se lei già sapesse che quel figlio le sarà tolto. Poi nel 400 c’è un cambio, quando i committenti pretendono che Maria sia vestita col lapislazzulo. La statua è una, la stessa per quasi cinque secoli, sono i colori che le fanno dire cose diverse. Le convenzioni cambiano al cambiare della cultura. Desiderare che i segni abbiano a che fare con la realtà è più forte di noi ed è facile convincersi che una convenzione sia un fenomeno naturale. Quando suggeriamo ai bambini di colore del cielo usando pennarello blu crediamo di evocare un fatto fisico senza renderci conto che stiamo applicando una moda precisa, senza dubbio poetica, codificata dagli eleganti usurai del Rinascimento. Nell’immaginario della società industrializzata trasudano le tracce di una storia materiale vecchia di cinque secoli. Il passato cromatico continua a parlare negli usi e nelle abitudini moderne. Porpora simbolico Il mercato dei colori del 500 non mostra merci dai poteri straordinari, li nega. Accanto ai pigmenti più noti, alle terre e alle pietre macinate, vi sono pittori soliti a comprare una sostanza scura costosa e macabra: si tratta della riduzione in polvere di mummie egizie, il cui contrabbando risale in Occidente ai tempi delle crociate. La chiamano carnemonia , nome che ne rivela l’origine umana e mortuaria e il suo successo cresce nei secoli tanto che viene commercializzata addirittura come farmaco, da ingerire o da annusare, simile al tabacco. Vi sono alcuni che sostengono che la pittura abbia bisogno, insieme al talento, di un po’ di magia. Nei tempi antichi la maggioranza delle persone frequentava nella vita comune colori naturali o sbiaditi. Quindi tutto ciò che era colorato era per forza di cose eccezionale e miracoloso, non solo in senso metaforico. Molte delle idee sui colori sviluppate del l’uomo fin da tempi remoti interessano appunto le loro facoltà magica. Per la mentalità antica il colore è qualcosa che si dà insieme alle cose che lo possiedono e concerne l’ontologia della materia, cioè la sua essenza. Per esempio, dicendo porpora, assieme a una percezione si sta sempre indicando una cosa concreta, e quando in un testo leggiamo che una veste è di questo colore, ci viene fornito l’informazione su come quella stoffa è stata lavorata. Il pigmento, estratto da un mollusco, a seconda di come viene trattato, può tingere un tessuto di colore diverso. La porpora è dunque un colore, ma a cui corrispondono molte tinte e il cui effetto evoca prima di tutto meriti economici e spirituali. Bisogna sempre ricordare che non si sceglie una tinta perché si accorda a un’altra, tutto il pigmento devo avere proprietà ulteriori che giustificano l’impegno. Anche per questo tra le materie esiste una gerarchia, che sia mistica, morale o puramente economica. Oggi se in un negozio chiediamo del porpora siamo evocando solo una tonalità di rosso, possiamo acquistarlo come tubetto di tempera, come pennarello ma senza mai essere informati della sua origine , come invece accadeva nel mondo antico. Nel mondo antico la lettura simbolica dell’universo non spetta però solo a un’Élite erudita: è un insieme di saperi cui partecipa l’intera società. Il colore nel estetica medievale è una manifestazione dei misteri teologici e la luce è sempre metafora di Dio: un adagio afferma che come il sole attraversa il vetro facendolo risplendere senza infrangerlo, così lo spirito Santo è penetrato in Maria senza comprometterne la verginità. Aristotele dice che i colori sono il frutto della relazione dinamica della luce con il buio; tanto è vero che non sono visibili se ce n’è troppa o troppo poca. È il miscuglio di chiarezza e oscurità che li rigenera e dà loro consistenza. Associare le tinte alla quantità di luce che riflettono è una mossa essenziale per slegarle da oggetti concreti, per arrivare a una descrizione tramite attributi generali, come facciamo oggi distinguendo la chiarezza, la tinta e la saturazione. Ma Aristotele non si afferma non si ferma qui e sostiene che tra i due poli del buio e della luce si diano sette tinte fondamentali, sette colori a prescindere da cose precise, Sette qualità fenomeniche di cui una è la categoria di rossetto. In questo modo egli conclude che il colore è un “accidente”, cioè qualcosa di aggiunto alle cose, che appartiene a un oggetto in modo casuale senza però far parte della sua assenza. Quest’idea non è ancora il colore come lo conosciamo oggi: l’accidente è una dote della materia, mentre la grande rivoluzione del 900 sarà capire che il colore è un accidente della nostra psiche, ovvero qualcosa che si costruisce dentro il nostro cervello partendo dai dati forniti dalla realtà. Queste due lezioni verranno elaborate 20 secoli dopo da Girolamo Cardano, matematico, che indica la luminosità delle tinte per mezzo di numeri: sostiene che il bianco contiene 100 parti di luce, lo scarlatto 50 e il nero nessuna, e così via per ciascun colore. Le recenti neuroscienze hanno dimostrato che la capacità di scindere le caratteristiche luminose da quelli cromati è un aspetto centrale del modo in cui il nostro cervello pensa il colore. A ridosso della rivoluzione scientifica le diverse teorie cominciano però a confliggere tra loro. Artisti e filosofi sono in definitiva combattuti tra mescolanze tecniche e mescolanze teoriche. Solo l’esperimento di Isaac Newton stacca per sempre il colore dei materiali concreti che lo esibiscono. Da allora in poi per l’uomo moderno porpora diventa il momento di una sequenza percettiva simile all’arcobaleno: un punto della stessa importanza degli altri, senza gerarchie ne simbolismi, descrivibile in astratto tramite coordinate matematiche. Non vi è più bisogno di vestirsi di porpora per mettere in scena la sua condizione di comando e può significare il privilegio e la maestà vestendosi di qualsiasi colore le piaccia. Blu Bovary Quando in un’opera di invenzione un personaggio si veste di un certo colore la cosa non è mai senza importanza. Sono tanti i personaggi la cui identità è legata a una tinta precisa: il verde di Robin Hood, il rosso di cappuccetto, il nero di Herbour,il nero in colazione da Tiffany o il bianco della gonna di Marilyn Monroe. Se un narratore ci racconta che qualcuno è vestito in un determinato colore ci sta dicendo qualcosa che trascende la descrizione immediata. Tuttavia il blu non è solo qualcosa che si indossa, è innanzitutto qualcosa che si è. Ci sono teorie botaniche che associano ai colori il potere di emanare energia curativa; ma la ricerca del fiore e anche una metafora dello spasimare lirico per l’infinito, per l’assoluto, per il sublime, quello struggimento che in tedesco, con un termine intraducibile in altre lingue, viene chiamato Sehnsucht: il sentimento delle cose distanti, la nostalgia di qualcosa che c’è fisicamente lontano. Il fiore blu è insomma la poesia stessa, intesa qui come condizione esistenziale. All’inizio dell’ottocento il blu è un modo di sentire la vita. Vedere oggi una donna con un abito blu non significa comunque quello che significava un tempo. Il colore non si riduce al fatto percettivo, il colore comunica giudica, gerarchizzata. Quando un colore ha iniziato la sua storia, questa diventa presto un pezzo dell’immaginario, spesso senza che il pubblico ne sia consapevole. Per rendercene conto vediamo come vengono reimpiegati i valori cromatici del blu romantico in un cartone animato di centocinquant’anni dopo, la belle e la bestia, prodotto dalla Walt Disney nel 1991. Il tema è la contrapposizione tra l’amore intellettuale e quello passionale, tra mente e corpo, ma nelle intenzione dell’autrice si tratta di una storia edificante, un insegnamento per le giovinette di un’epoca di matrimoni combinati. Il film non tradisce il lotto settecentesco, ma sposta l’asse su una contrapposizione diversa, molto anglosassone e molto disneyana, quella tra natura e cultura.
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