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La letteratura italiana del Cinquecento, Appunti di Letteratura Italiana

Appunti esaustivi da manuale del periodo della letteratura italiana che va da inizio secolo-Ariosto fino a Tasso. E' escluso Boiardo.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 16/02/2022

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Scarica La letteratura italiana del Cinquecento e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! IL CINQUECENTO PARTE ISTITUZIONALE IL RINASCIMENTO: QUADRO STORICO E CULTURALE 1. L’EUROPA NEL PRIMO CINQUECENTO Con l’inizio del Cinquecento si chiude definitivamente il Medioevo europeo e inizia l’età moderna: 1492. Se da un lato il primo Cinquecento sul piano letterario e artistico è ancora strettamente legato al secolo precedente, in quanto ne riprende il pensiero e ne realizza splendidamente gli ideali di bellezza, dall’altro è segnato da forti mutamenti storici, sociali e politici che sconvolgono non solo l’Italia ma tutta l’Europa. Le scoperte geografiche e la colonizzazione del Nuovo mondo grandi scoperte geografiche che determinano nuove prospettive per le nazioni europee. - 1488: il portoghese Bartolomeo Diaz doppia l’estrema punta meridionale del continente africano, dandogli in nome di Capo di Buona speranza. - 1497-98: il navigatore portoghese Vasco da Gama supera il Capo di Buona speranza e approda a Calcutta, in India. - 1519-20: il portoghese Ferdinando Magellano effettua la prima circumnavigazione del mondo. - Dopo Cristoforo Colombo si hanno in rapida successione i viaggi di esplorazione nel Sud America di Amerigo Vespucci (che ipotizza che il nuovo continente non si identifichi con le Indie) e le conquiste militari del Messico (Fernando Cortes) e del Perù (Francisco Pizarro). Alla colonizzazione e spartizione del Nuovo mondo partecipano dapprima la Spagna e il Portogallo, seguite poi dall’Inghilterra e dalla Francia. - determinante per l’Italia lo spostamento dell’asse economico e mercantile europeo dal Mar Mediterraneo all’Oceano Atlantico, con inevitabili ricadute sui commerci e sull’economia dei nostri stati. I conflitti in Europa nel Cinquecento. Le grandi monarchie nazionali europee tendono nel corso del Cinquecento a consolidarsi al proprio interno, tramite un processo di accentramento del potere che le va trasformando in potenti e moderni stati assoluti. Le grandi potenze europee entrano in conflitto l’una con l’altra per ottenere l’egemonia sul continente. Nella prima parte del secolo i contendenti sono la Francia e la Spagna, e l’Italia è il loro campo di battaglia: guerre della penisola. Nel 1559 la pace di Catau Cambresis sancisce un incontrastato predominio spagnolo sull’Italia che durerà oltre un secolo e mezzo. Il Ducato di Milano e il Regno di Napoli e di Sicilia sono sottoposti direttamente alla corona di Spagna. Umanesimo europeo, Riforma protestante, Controriforma. Il Cinquecento in Europa si apre sotto il segno della diffusione nel continente dei principi dell’Umanesimo e del Rinascimento nati in Italia. Thomas More e Erasmo da Rotterdam: possono essere considerati i principali eredi dell’Umanesimo italiano quattrocentesco L’Europa cristiana si scinde però in due meta, a seguito del dilagare della Riforma protestante. Essa è innescata nel 1517 dal monaco Martin Lutero. Occasione della protesta è la vendita delle indulgenze, che la Chiesa andava facendo in Germania: concezione della remissione dei peccati a chiunque pagasse una sostanziosa elemosina. Il tentativo riformistico di Lutero e la sua ribellione al pontefice sono appoggiati, per motivi di ordine non solo religioso ma soprattutto economico e politico, da una parte consistente del mondo tedesco: intellettuali, principi, borghesia urbana, ceti inferiori. Sostenendo la Riforma, molti tedeschi esprimono la propria insoddisfazione nei confronti dello strapotere economico del clero. Il Protestantesimo luterano dunque, a differenza dei movimenti religiosi medievali, ha quindi anche un preciso carattere nazionale, che lo porta a combattere l’autorità universalistica della Chiesa, e in parte anche quella dello stesso impero. Nel corso della prima metà del secolo sorgono e si affermano altre tendenze riformatrici, tra cui le principali fanno capo allo svizzero Zwigli e al francese Calvino. Le chiese riformate si affermano in buona parte dell’Europa, attraverso sanguinosi conflitti e persecuzioni, mentre la Chiesa Cattolica cercherà di fare argine attraverso la Controriforma promossa dal Concilio di Trento. Il Rinascimento in Europa e in Italia. Già a partire dal Quattrocento l’arte e la cultura umanistico-rinascimentale iniziano ad estendersi dall’Italia al resto d’Europa. Nei vari paesi l’arte e la letteratura umanistico-rinascimentale si innestano sulle radici culturali nazionali, producendo così originali sviluppi e straordinarie fioriture artistiche, differenziate e al tempo stesso unificate dalla comune matrice classicistica. Il Rinascimento letterario si afferma, sia pure in tempi diversi, in tutta l’Europa: - In Spagna esso si esprime, con un certo ritardo, soprattutto nelle opere degli autori del primo Seicento: Miguel de Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca - In Inghilterra il Cinquecento maturo coincide con l’età elisabettiana, rappresentata da Christopher Marlowe e soprattutto da William Shakespeare - In Francia la nuova letteratura si manifesta in molteplici forme: dal classicismo di Ronsard, al razionalismo di Miguel de Montaigne e al caustico umorismo di Francois Rabelais. Per tutto il Cinquecento l’arte, la letteratura e la filosofia europea continuano ad essere influenzate da quelle italiane. Grandi scrittori come Machiavelli, Ariosto e Tasso lasciano una traccia indelebile nella letteratura del secolo e dell’epoca successiva; il petrarchismo si diffonde come modello poetico in vari paesi; architetti come Bramante, pittori come Raffaello, artisti come Michelangelo realizzano opere di ineguagliabile bellezza; la corte papale, soprattutto al tempo di Leone X, si afferma come il centro mecenatesco più importante d’Europa. 2. L’ITALIA NEL CINQUECENTO: IL CONTESTO STORICO Il Cinquecento per gran parte dell’Italia è il secolo della massima fioritura culturale, ma anche della perdita dell’indipendenza politica. Lo spostamento dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico determina una lenta ma inesorabile decadenza economica delle città italiane, a vantaggio dei porti europei che si affermano sull’Oceano. Roma. - 1492 e il 1503: Alessandro VI Borgia, un papa appartenente a un casato di origine aragonese; - 1503 al 1513: Giulio II della Rovere - 1513 al 1521: Leone X Medici Grandissimi mecenati cui il Rinascimento deve molto, ma non hanno la possibilità di affermare la potenza dello Stato della Chiesa sul piano politico. Il contrasto con il Protestantesimo indebolisce ancor più il potere della Chiesa in ambito europeo. Nel 1527 vi è il saccheggio di Roma da parte dei lanzichenecchi di Carlo V che assume un valore emblematico da questo punto di vista. La politica dei pontefici diventerà sempre più subalterna a quella di Filippo II. Gli ultimi pontefici del secolo si distingueranno per il loro regime controriformistico (Paolo IV, Indice paolino 1559) pur contribuendo anche in modo rilevante allo sviluppo delle arti e allo splendore architettonico di Roma (Gregorio XIII e Sisto V). Nel corso di tutto il Cinquecento in effetti la Roma dei grandi papi mecenati è il centro più importante della civiltà rinascimentale nel periodo della sua più alta fioritura artistica (Raffaello, Michelangelo, Bramante). Firenze. La repubblica di Firenze, alleatasi con il re di Francia Luigi 12, viene attaccata dagli spagnoli, che impongono la restaurazione del dominio mediceo: 1512. Subito dopo il sacco di Roma (1527), la parte repubblicana (francia) riprende il sopravvento in città: i Medici potranno rientrare a Firenze solo 3 anni dopo con l’appoggio delle truppe pontificie. Da Signoria il dominio dei Medici si trasforma in Principato e successivamente con Cosimo I detto il Grande in Granducato. Il governo del Granduca e dei suoi successori si rivela equilibrato e saggio: essi proteggono artisti e letterati e arricchiscono ulteriormente le bellezze architettoniche e pittoriche della città, che si conferma per tutto il secolo come uno dei centri più importanti della cultura e dell’arte rinascimentale europea. Michelangelo, Vasari, Accademia della Crusca, Machiavelli, Guicciardini. Venezia. LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533) Nella figura e nell’opera di Ludovico Ariosto si realizza in maniera esemplare la saldatura tra Umanesimo e Rinascimento. Ariosto è il prototipo dell’artista rinascimentale. L’ambiente di Ferrara. Nello scenario politico e culturale di Ferrara si riflettono in maniera emblematica i caratteri della società italiana del Rinascimento. La città, in cui si svolge quasi interamente la vita di Ariosto, è culla di una straordinaria fioritura artistico-culturale, cui fa riscontro sul piano politico una condizione di tensione e di frequente instabilità. Il periodo d’oro di Ferrara ha inizio con Borso d’Este (1450-71) e si protrae fino agli ultimi decenni del Quattrocento con Ercole I (1471-05), che consegna nel 1505 al successore Alfonso I una città tanto ricca e vivace sul piano artistico e culturale quanto piena di problemi in politica estera, primo fra tutti quello rappresentato dai difficili rapporti con lo Stato pontificio. Questo guardava con particolare interesse al Ducato di Ferrara come baluardo strategico contro la Repubblica di Venezia. Ferrara si inserisce nella contesa avvicinandosi al papa Giulio II nella speranza di riottenere alcuni territori passati sotto il dominio della Serenissima. Alla fine della guerra, nel 1509, Giulio II ottiene ciò che desidera, la Romagna, mentre Ferrara insoddisfatta si allea coi francesi contro il papa, che ha proclamato contro di loro la Lega Santa; il papa non lancia soltanto la scomunica contro il Duca ma entra in guerra arrivando ad annettersi Modena, Reggio e Piacenza. Alla fine del secolo Ferrara passerà per ‘devoluzione’ sotto la diretta sovranità dello Stato pontificio, 1598. Nonostante una simile realtà politica e le vicende che rendono precaria l’esistenza stessa dello stato estense, notevole è l’importanza della Ferrara cinquecentesca, che nella perfezione stessa della sua struttura architettonica e urbanistica, pare riprodurre fedelmente quell’armonia ideale a cui tutta la cultura rinascimentale aspira Nello scenario di una città abbellita e ingrandita, ad opera soprattutto degli interventi urbanistici, si svolgono anche feste eleganti e mondane e spettacoli di giostre e tornei, molto frequentati. Il dinamismo culturale della città è testimoniato inoltre dalle attività di studio della prestigiosa Università e dalla presenza all’opera di numerosi poeti e scrittori, che a Ferrara trascorrono brevi o lunghi periodi. Importante anche l’ambito della musica. È in questo contesto, fervido intellettualmente e ricchissimo di stimoli culturali ed artistici, che si inserisce l’esperienza umana e poetica di Ariosto, dagli anni spensierati della giovinezza a quelli della piena maturità. La vita. Ludovico Ariosto nasce nel 1474 a Reggio Emilia. Dapprima la famiglia è a Rovigo, in occasione della guerra tra Ferrara e Venezia; poi nel 1484 si trasferisce a Ferrara. Dopo aver compiuto privatamente i primi studi di grammatica sotto la guida del precettore Domenico Catabene e dell’umanista Luca Ripa, il giovane Ariosto viene spinto dal padre a seguire le lezioni di diritto, cui si dedica malvolentieri e senza trarne alcun frutto. In realtà i suoi interessi sono già tutti rivolti alla letteratura, e dopo aver ottenuto il titolo di giurisperito abbandona l’università e inizia a dedicarsi interamente alla sua vocazione. Dal 1494 è sotto la guida del monaco agostiniano Gregorio da Spoleto, coltissimo umanista. Mentre viene acquistando rapidamente una buona formazione umanistica entra in contatto con Pietro Bembo, che negli stessi anni frequenta Ferrara. Frutto di questo tirocinio umanistico sono i 67 carmina in latino, ispirati soprattutto a Orazio, Tibullo e Virgilio, tre poeti che per lo stile e l’equilibrata visione della vita rappresenteranno sempre un punto di riferimento fondamentale per Ariosto. Il sogno del giovane Ariosto di dedicarsi interamente alla letteratura viene però improvvisamente stroncato dalla morte del padre, nel 1500, quando il poeta è 26enne. Egli è costretto a interrompere bruscamente gli studi umanistici: essendo il primo di dieci figli cade su di lui la responsabilità di curare il dissestato patrimonio familiare e soprattutto di provvedere al sostentamento della madre e all’educazione e sistemazione dei nove fratelli. Per questo motivo, sia pur a malincuore, decide di farsi funzionario di corte. Nel 1503, dopo aver ricevuto gli ordini minori così da poter godere di alcuni benefici ecclesiastici, decide di entrare al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca di Ferrara. Per conto del cardinale inizia a svolgere numerosi incarichi. Nel 1516 viene pubblicata la prima edizione dell’Orlando furioso in 40 canti, mentre il poeta si dedica più attivamente alla stesura delle Rime. Nel 1517 si verifica una svolta nell’esistenza del poeta: il cardinale Ippolito decide infatti di raggiungere la propria sede arcivescovile di Budapest in Ungheria, e propone ad Ariosto di seguirlo. Il poeta rifiuta: vuole rimanere a Ferrara e spera in una sistemazione che gli conceda più tempo per dedicarsi all’attività letteraria. Ippolito lo priva dello stipendio di cortigiano, ma il poeta viene assunto al servizio del duca Alfonso d’Este, assai meglio disposto del fratello verso la cultura e la poesia. Fra il 1517 e il 1525 l’autore comporrà le sette Satire. Nel 1521 viene pubblicata intanto la seconda edizione dell’Orlando furioso, riveduta sul piano linguistico per uniformare l’opera alle teorie del Bembo. Anche l’attività di commediografo procura fama ad Ariosto: i Suppositi vengono rappresentati in Vaticano. Nel 1522, in conseguenza delle ricorrenti difficoltà finanziarie, il poeta deve accettare, per conto del duca Alfonso, l’ingrato incarico di governatore della Garfagnana, una regione da poco tornata agli Estensi ed infesta dai briganti. L’attività di governatore lo impegna a tal punto che, finchè opera in Garfagnana scriverà solamente due Satire. Nel 1525 perciò, appena ne ha l’occasione, abbandona l’incarico e torna definitivamente a Ferrara, potendo ormai usufruire di una dignitosa rendita. Resta ancora al servizio del duca Alfonso ed assume anche vari impegni amministrativi, ma, di gran lunga più libero, può dedicarsi serenamente ad un’intensa attività letteraria. Gli ultimi anni sono impegnati, oltre che nel servizio del duca Alfonso, soprattutto nella revisione del capolavoro che nel 1532 viene pubblicato nella terza e definitiva edizione. Dal 1531 Ariosto inizia a manifestare i sintomi di una grave malattia intestinale. Secondo la testimonianza del figlio il poeta trascorre gli ultimi mesi di vita lavorando ancora alla proprie opere e dedicando attente cure al giardino della casa. Muore nel 1533. La personalità. Un’esistenza come quella di Ludovico Ariosto, in nessun modo segnata da avventure e da gesti clamorosi e spettacolari, tutta rivolta alla sfera intima degli affetti familiari, ad alcuni obblighi di natura politica assunti in malavoglia ma soddisfatti comunque con impegno e diligenza, dedita costantemente agli studi letterari e alla poesia, vissuta entro i confini in qualche modo angusti di una città che è da lui sentita come patria ideale e sempre agognata nei pochi momenti di lontananza. Idea dell’opera poetica dell’Ariosto che abbia il valore di una semplice e facile evasione, una rivalsa della fantasia sulle difficoltà umane e sulle ristrettezze della vita quotidiana: alla formulazione di una tale ipotesi ha certamente contribuito la riflessione critica del De Sanctis, che ha in qualche misura autorizzato la distinzione tra un Ariosto ‘uomo’ e un Ariosto ‘artista’. Tuttavia, le notazioni autobiografiche delle Satire parrebbero confermare, ad una lettura superficiale, l’immagine di una personalità tutt’altro che straordinaria, intesa a perseguire il sogno di un pacato otium letterario, anteponendo la quiete domestica, la semplicità e il calore degli affetti privati ai fastidi delle incombenze politiche e alle stesse promesse di onore e di gloria. Una personalità che non ricerca l’eccezionale, ma che predilige e coltiva sopra ogni cosa la dimensione privata e che ritrova e realizza se stessa nello studio e nell’attività letteraria. Sappiamo, da una testimonianza del figlio, che il poeta, appassionato di giardinaggio, non lasciava crescere le piante perché le spostava continuamente: un minimo indizio da cui possiamo dedurre che l’atteggiamento di equilibrio e moderazione che il poeta rivela nelle sue opere non fosse in lui naturale, ma piuttosto il punto di arrivo di una forse anche faticosa conquista. I modi tranquilli e sereni con cui Ariosto governa ogni momento e situazione della sua esistenza non sono in alcun modo il segno di una pigra e rassegnata resa alla mediocrità del vivere, ma invece il frutto di una scelta matura e meditata. Sforzo del poeta di difendere la propria libertà e di affermare il proprio ruolo di letterato all’interno dei ristretti confini consentitogli e con gli unici mezzi possibili. Conflitto costante tra attività intellettuale e condizioni materiali ed economiche della vita cortigiana. Sono proprie dell’Ariosto una concezione concreta della vita e una disposizione mentale profondamente saggia e realistica: questo atteggiamento ariostesco, che in passato è apparso remissivo e rinunciatario è invece dettato da una razionalità sempre vigile e operante, che sa ricavare l’utile da ogni situazione, tenendo conto con grande lucidità ma anche con sereno distacco della realtà contingente. Un’intelligente capacità di adattamento fondata su una saldissima forza interiore, conquistata e maturata anno dopo anno, nonostante innegabili disagi e difficoltà di ogni sorta. I fondamenti culturali e letterari. Già nel gusto di delineare personaggi di fantasia, di rappresentare paesaggi irreali e di rifarsi ad atmosfere magiche si avverte la presenza dei modelli dell’arte ferrarese. Ferrara lo introduce anche nel clima di quella tradizione che le è propria e che egli stesso proseguirà e rinnoverà: è la tradizione della letteratura cavalleresca, che ha soprattutto un nome, Boiardo, e un modello l’Orlando innamorato. Non è da escludere che la conoscenza diretta e personale di Boiardo abbia contribuito ad accrescere nel giovane poeta l’interesse per questo filone letterario. Tuttavia più precisa e documentata risulta l’influenza della tradizione letteraria francese, romanzesca e cavalleresca, attraverso testi in lingua originale e in traduzioni. autori del mondo classico: i suoi scrittori preferiti sono gli autori della poesia erotica latina (Catullo e Ovidio), di quella elegiaca (Tibullo e Properzio), di quella epica (Virgilio). Ma sopra ogni altro autore Ariosto mostra di apprezzare il pensiero e l’arte poetica di Orazio, un poeta che egli sente congeniale anche sul piano della personalità e delle scelte di vita, che in particolare imiterà nelle Satire. modello di Francesco Petrarca, già in parte accostato attraverso la mediazione di Pietro Bembo. Ariosto trarrà invece da Dante lo schema metrico della terza rima per le Satire e dal Boccaccio il gusto del raccontare in modo spigliato e senza alcuna remora moralistica. L’educazione umanistica e il culto degli auctores classici inducono il giovane Ariosto a rivisitare anche altri generi classici, come la commedia e la satira; quanto al teatro la città e la sua corte offrono lo sfondo e l’occasione più naturale e stimolante. Ariosto si presenta, oltre che come autore di testi, anche come allestitore e responsabile degli spettacoli di corte. Il classicismo di Ariosto è insomma qualcosa di creativo e vivace, che travalica i limiti libreschi dell’erudizione umanistica e si lega strettamente alla realtà culturale ferrarese. Tra gli intellettuali e la vita cittadina si viene a creare una circolazione viva di esperienze e il contatto diretto con la realtà quotidiana favorisce negli scrittori, e in particolare in Ariosto, la conoscenza non libresca della società e degli uomini. La visione dell’uomo nuovo nella sintesi fra neoplatonismo e naturalismo. I due poli del suo pensiero sono il neoplatonismo e il naturalismo: questi sono le generali linee di tendenza della cultura rinascimentale, quella idealistica/idealizzante e quella realistica e naturalistica  la prima tende a delineare un modello perfetto, la seconda a rappresentare, con spirito a volte giocoso e a volte amaramente politico, il mondo reale e quotidiano anche nei suoi aspetti più bassi. Questi due atteggiamenti mentali si intrecciano e si fondono nella visione ariostesca e trovano riscontro nello stesso ambiente di corte: signoria di Alfonso I d’Este, nello splendore della corte ferrarese c’è davvero una traccia esteriore di quella «corte ideale», spazio del primato dell’arte e della cultura, che Ariosto vagheggia. in essa Ariosto scopre anche la realtà meschina delle ambizioni, delle invidie e degli intrighi, che denuncia a più riprese nelle Satire e anche nell’Orlando. All’inizio del Cinquecento nel pensiero rinascimentale si va facendo strada sempre più la componente realistica, in alternativa al dominante idealismo: si tratta di un realismo da intendersi come un’accettazione, inquieta o serena, della vita. Ariosto riconosce ed esalta tutte le potenzialità dell’«uomo nuovo» teorizzato dal pensiero umanistico- rinascimentale, ma al contempo ne denuncia i limiti e insieme i rischi di follia. Gli obiettivi perseguiti senza la conoscenza di sé e delle proprie reali potenzialità, l’agire sprovvisto di misura morale possono produrre un salto nella pazzia. L’uomo folle si perde nella frenetica ricerca di una felicità illusoria, perché identificata con mete irraggiungibili che continuamente appaiono, simili a miraggi, e subito si allontanano e scompaiono. L’uomo nuovo è veramente tale solo se possiede la mediocritas, una misura interiore che lo connetta in modo armonioso al mondo. Di questa sua disincantata visione dell’uomo Ariosto trova le basi e le conferme nella letteratura classica, negli auctores suoi maestri e modelli (commedia). Già portato di suo all’osservazione disincantata e ironica dell’umanità, egli cerca di adeguare al gusto del proprio pubblico, e quindi di commisurarli alla realtà contemporanea, gli elementi che ritrova nei modelli antichi. La poetica: l’arte come massima espressione della dignità umana. Da una parte quindi la letteratura permette di sollevarsi oltre la contingenza storica e di giungere a un mondo di limpida bellezza, creato dalla fantasia. D’altra parte, lo scrittore, con animo pacato e con sereno intento narrativo, può piegarsi a osservare la realtà quotidiana, e mentre la osserva riuscire anche a distaccarsene, per rimanere in una dimensione letteraria e proprio per questo garantisce ed esalta la libertà interiore. Già in questa luce si collocano le Satire segno di disincantata e autoironica osservazione della realtà quotidiana. La letteratura appare ad Arioso come unico strumento per realizzare pienamente se stesso, per sfuggire al condizionamento della storia, della società in generale e dall’ambiente cittadino e di corte in particolare. La La circonferenza privata di questi temi è solo in apparenza chiusa e fine a se stessa; in realtà Ariosto, utilizzando se stesso come termine di paragone, suggerisce un modello di valore generale, verifica e teorizza una concezione dell’uomo e del mondo. E di questo la Satira I è un esempio probante. Impostate come vere e proprie lettere private, si rivolgono sempre a destinatari reali, con i quali il poeta instaura un vivace rapporto dialogico. In questi dialoghi l’autore confida agli amici i propri sentimenti e le proprie delusioni, mentre condanna con toni pacatamente ironici i cattivi costumi ed esprime il proprio insopprimibile desiderio di otium, l’aspirazione cioè a dedicarsi liberamente all’attività letteraria senza troppi pesi e fastidi legati alle faccende pratiche. L’asse tematico, stilistico e ideologico delle Satire è costituito dal motivo della mediocritas, dell’equilibrio e della moderazioni di accenti e toni come espressione di un superiore equilibrio della mente. La mediocritas è la sostanza dell’umanesimo di Ariosto e la sintesi della lezione che egli trae dal mondo della classicità e da Orazio in primo luogo. Essa è la misura di sé che possiede l’uomo autenticamente capace di conoscersi, di valutarsi, di limitarsi, l’uomo che è padrone di sé in quanto responsabile delle proprie scelte. Questa saggezza, continuamente inseguita e sempre messa a rischio dall’invadenza degli obblighi e delle finzioni sociali, non pretende di imporsi nelle forme di una lezione morale assoluta, astratta e severa, ma si dà come rivendicazione pacata e però ferma. Gli errori vengono stigmatizzati ma senza acredine e con bonaria ironia: l’atteggiamento del poeta resta antidogmatico e improntato sempre al buon senso; di qui i numerosi proverbi, gli apologhi, le similitudini, che variano e colorano il tono uniforme del discorso. Anche il linguaggio, volutamente prosastico, dai toni colloquiali e piani, condito costantemente dall’ironia, conferma la mediocritas del poetare ariostesco, dando ad esso l’apparenza di una straordinaria semplicità e leggerezza. Ma si tratta di una semplicità stilistica tutt’altro che immediata e facile, in realtà frutto di una paziente opera di raffinamento letterario e di maturazione umana, espressione di un raggiunto equilibrio spirituale che trova le forme idonee in cui esprimersi. Nelle Satire viene discusso più di una volta il difficile problema del rapporto fra intellettuale e potere, che anche Ariosto, come già il suo modello Orazio, è chiamato ad affrontare e risolvere, pur in una diversa situazione socio culturale. I motivi sono: deplorazione dei costumi delle corti, ripudio di ogni speranza nel favore dei principi, il desiderio di una vita indipendente e lontana dallo sfarzo e dalle convenzioni signorili. Orazio crede di essere un intellettuale libero e ha fiducia nell’assoluta autonomia della cultura, anche quando su di essa agiscano il patrocinio della politica e le regole del mecenatismo. Ariosto invece giudica con maggiore disincanto il grave peso della propria sottomissione al cardinale Ippolito prima e al duca Alfonso poi; ma date le circostanze storiche e le concrete esigenze di vita, egli accetta il ruolo di poeta cortigiano come un male minore che, entro certi limiti può essere sopportato e gestito col buon senso. Il contenuto. Satira 1 (1517): indirizzata al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno, entrambi funzionari di Ippolito. L’autore spiega i motivi per cui rifiuta di accompagnare il cardinale, esalta la libertà e la dignità dell’individuo, traccia un arguto ritratto di Ippolito, avaro e insensibile all’arte, e denuncia l’adulazione e l’ipocrisia vizi delle corti. Ariosto, in quanto poeta, è disposto a servire il potere solo con opere di inchiostro; il cardinale lo vorrebbe invece cortigiano a pieno titolo; non è quindi disposto ad imparare la nuova arte della cortigianeria che lo condizionerebbe troppo nella sua attività letteraria e ne limiterebbe insopportabilmente la libertà. Satira 2 (1517): indirizzata al fratello Galasso. Vi si tratta, prendendo spunto da un imminente viaggio a Roma, della corruzione della corte papale. Satira 3 (1518): indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi. Ariosto spiega qui la sua nuova condizione di stipendiato al servizio del duca Alfonso. Dopo aver affermato che fora meglio a nessuno esser sotto, dice che nella sostanza non è cambiato molto e che farebbe anche volentieri a meno del nuovo servizio se non vi fosse costretto dalle condizioni economiche e familiari. Tuttavia il duca Alfonso è più sedentario e meno assillante di Ippotilo e dunque è, tutto sommato, un padrone sopportabile perché non interferisce eccessivamente nel regime privato di vita del poeta. Satira 4 (1523): indirizzata al cugino Sigismondo Malaguzzi. Racconta l’esperienza del governatorato in Garfagnana: oltre che esprimere in modo struggente la nostalgia del poeta per Ferrara, il componimento illustra le difficoltà del compito che Ariosto ha dovuto assumersi per motivi economici. Satira 5 (1519-1523): indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi. Prendendo spunto dall’imminente matrimonio del destinatario, Ariosto disserta, spesso in tono scherzoso, sulle donne e sui vantaggi e svantaggi dell’essere ammogliati. Satira 6 (1524-1525): indirizzata a Pietro Bembo. Il poeta gli chiede di trovare un insegnante di greco per il figlio Virginio, studente a Padova. L’autore introduce poi alcune considerazioni sull’educazione umanistica, che egli considera spesso discutibile sul piano morale, e rievoca con tono sospeso tra malinconia e ironia, la propria giovinezza, gli studi dolorosamente interrotti a causa della morte del padre e il conseguente servizio presso Ippolito, con i continui e sgraditi viaggi. Satira 7 (1524): è indirizzata a Bonaventura Pistofilo, segretario del duca Alfonso. Il poeta vi motiva il rifiuto di diventare ambasciatore presso il papa Clemente VII, riaffermando il proprio desiderio di vivere serenamente nell’amata Ferrara. L’ORLANDO FURIOSO LA STRUTTURA DELL’OPERA L’Orlando furioso vuole presentarsi già dal titolo come la continuazione del poema di Matteo Maria Boiardo, l’Orlando Innamorato. In realtà si tratta di un’opera autonoma, e il titolo manifesta inoltre lo scarto che il poema ariostesco realizza rispetto all’opera boiardana e al genere cavalleresco. I termini Orlando e furioso infatti costituiscono un vero e proprio ossimoro, che contiene, come in una sorta di inaugurale dichiarazione programmatica, una prima fondamentale chiave interpretativa del poema: Orlando, il paladino campione di onore, fedeltà e soprattutto di saggezza, diventa pazzo a causa dell’amore, e si presenta dunque come emblema di tutta la saggezza-follia dell’uomo moderno. L’inizio della composizione dell’opera si colloca intorno al 1505, quando l’autore ha già manifestato il suo interesse per il genere eroico abbozzando un poema in terzine, l’Obizzeide, in onore di Obizzo IV d’Este (che si apre con: Canterò l’arme, canterò gli affanni / d’amor, ch’un cavalier sostenne gravi). L’impossibilità di proseguire l’opera sembra dipendere dalla scelta di una materia storica troppo recente (fine 1200), difficilmente conciliabile con il gusto favoloso dello stesso poeta, e dal fatto che la terza rima si sarebbe posta in contrasto con la consolidata abitudine di usare l’ottava come metro del poema cavalleresco. Alla composizione dell’opera Ariosto si dedica con straordinario impegno e con precisa volontà di costruire un ampio e perfetto organismo narrativo e stilistico. Numerosi sono i documenti che attestano la continuità del lavoro e la scrupolosa diligenza con cui opera il poeta. Le tre edizioni. Frutto di questo grande lavoro sono le tre edizioni: 1516, 1521 e 1532. 1) Edizione del 1516: in 40 canti; viene subito ritenuta provvisoria dall’autore, che si accinge a correggerne la forma e ad apportarvi alcune aggiunte in vista di una seconda edizione. 2) Edizione del 1521: essa presenta, salvo la variazione e lo spostamento di qualche ottava, una revisione essenzialmente linguistica: si passa infatti da una lingua che, pur sempre a base toscana, è ricca di forme emiliane e genericamente settentrionali, ad una lingua più rigorosamente e in modo omogeneo toscana. 3) Edizione del 1532: il poema viene rivisto non solo linguisticamente e stilisticamente, ma c’è una revisione sul piano strutturale: i canti diventano 46 con l’aggiunta di 4 nuovi episodi. Ariosto però rivede anche stilisticamente: vengono limitati gli eccessi sia nella direzione del popolare sia in quella del sublime. Parallelamente si accentua la tendenza ad una lingua più regolare e uniforme (vengono ridotti dialettismi, forestierismi e termini tecnici) e quindi ad un adeguamento più rigoroso al modello toscano , per influenza soprattutto delle tesi espresse nel 1525 da Pietro Bembo. L’accettazione sostanziale della teoria bembiana, sta a significare che Ariosto è consapevole di aver ideato e realizzato un’opera rivolta ad un pubblico non solo provinciale e ferrarese, ma italiano e nazionale. 4872 è il numero complessivo delle ottave, per un totale di 38816 versi. I Cinque canti. A parte rispetto agli altri materiali introdotti da Ariosto nell’Orlando furioso, si collocano i cosiddetti Cinque canti, pubblicati per la prima volta in appendice ad un’edizione del 1545. Si tratta di cinque canti in ottave, palesemente scritti per il poema ma poi non inseriti in alcuna edizione di esso. È un fatto che vi appaiano delle tematiche sostanzialmente estranee rispetto al mondo equilibrato del poema: da una parte vi si trova il tema della magia, vista non più come inganno astuto, ma come elemento inquietante ed orribile; dall’altra emergono motivi religiosi e sapienziali, come nella vicenda di Ruggiero inghiottito dalla balena (secondo il modello biblico del Giona). Sia per la loro evidente impronta pessimistica e irrazionale, sia per le forti inquietudini e i turbamenti psicologici dei personaggi, i Cinque canti di fatto stridono con il resto dell’opera; anche lo stile è diverso, con ottave frante che sembrano anticipare certi modi del Tasso e un ritmo narrativo non lento e pacato, ma asciutto e privo di indugi. Si può pensare che queste caratteristiche dei Cinque canti risalgano agli ultimi anni della sua vita, che nel poeta, parallelamente forse alla crisi sociale e politica dello Stato estense, si siano accentuati, dalla fine degli anni 20 in poi, certi aspetti di cupo pessimismo e irrazionalismo, che avrebbero minacciato di mettere seriamente in crisi l’universo armonico dell’Orlando furioso. LA MATERIA DELL’OPERA Il contenuto narrativo. È difficile, per non dire impossibile, fare un riassunto dell’Orlando furioso. Innumerevoli situazioni, vicende, episodi continuamente si susseguono, si intrecciano, si interrompono, si riprendono, si concludono o restano in sospeso, in un labirinto senza fine di azioni, personaggi e segmenti narrativi. Si può osservare tuttavia che tre grandi filoni narrativi emergono: - Quello epico: la guerra contro i Mori - Quello avventuroso-cavalleresco: le imprese dei cavalieri e l’amore di Orlando - Quello encomiastico: la storia di Ruggiero Dopo la protasi e la dedica alla famiglia d’Este il racconto prende avvio dal punto in cui lo aveva interrotto Boiardo, cioè dall’assedio di Parigi da parte dei Saraceni e dalla sconfitta da questi inflitta all’esercito cristiano. Canto 1. Angelica, figlia del re del Catai, approfitta della sconfitta dei cristiani per sfuggire al vecchio Namo, duca di Baviera, alla cui custodia l’ha affidata Carlo Magno per sedare la discordia che l’amore per lei ha suscitato fra i due più valorosi guerrieri cristiani, Orlando e Rinaldo. Inseguita da Rinaldo e da Ferraù, che per lei vengono alle mani, Angelica incontra un altro cavaliere innamorato di lei, Sacripante, e ne accetta la protezione. Sacripante viene sfidato e sconfitto in duello però da un misterioso cavaliere, che si rivela poi essere Bradamante, sorella di Rinaldo, che in abiti virili va in cerca dell’uomo amato, il saraceno Ruggiero. Canti 2-3. Approfittando di un duello che si accende tra Rinaldo e Sacripante, Angelica fugge nuovamente. Bradamante, dal canto suo, sempre sulle tracce di Ruggiero, si imbatte in Pinabello, col quale si dirige alla volta del castello incantato dove il mago Atlante tiene prigioniero Ruggiero. Ma Pinabello fa precipitare Bradamante in una caverna, in fondo alla quale incontra la maga Melissa, che l’accoglie e la conduce presso il sepolcro di mago Merlino, il cui spirito profetizza a Bradamante il matrimonio con Ruggiero e una nobile discendenza, quella degli estensi . Dalla maga inoltre apprende come rendere vani gli artifici magici dello scudo di Atlante Canti 4-5. Bradamante sfida a duello il mago, che si presenta sul suo cavallo alato, l’ippogrifo, portando con sé lo scudo e un libro magico. Dallo scontro esce vincitrice Bradamante che però non riesce a ricongiungersi con Ruggiero poiché il mago Atlante, con un inganno, fa salire il guerriero sull’ippogrifo, che si alza in volo lontano dall’Europa. Canti 6-8. Ruggiero, portato dall’ippogrifo sulla bellissima isola di Alcina, ascolta la voce di uno spirito nascosto in un mirto che lo mette a conoscenza degli inganni e degli incantesimi della maga Alcina e che gli consiglia di recarsi dalla sorella di costei, la saggia Logistilla. Ma Ruggiero cede alle lusinghe d’amore di Alcina. Dopo vane ricerche intanto Bradamante ritorna dalla maga Melissa per avere notizie di lui. La maga si offre di andare a liberare Ruggiero e il suo All’interno del poema troviamo anche vere e proprie novelle: ad esempio quella di Astolfo e Iocondo, che l’oste racconta a Rodomonte. Si tratta di nuclei narrativi minori, spesso in sé conclusi, che si diramano dalle linee delle azioni principali per concorrere, ognuno con le sue peculiari caratteristiche, a creare il movimentato e variopinto caleidoscopio del poema. I personaggi. Ariosto non mirava a creare personaggi dalla complessa psicologia e neppure figure autonome in cui riversare liricamente la propria autobiografia. Era invece sua intenzione dare vita a caratteri che, di volta in volta, riflettessero soltanto un aspetto tipico della natura umana , senza esaurirne l’infinita varietà . In vista di questo obiettivo il poeta lavora per sottrazione e semplificazione egli evita che l’approfondimento introspettivo di una singola figura blocchi il movimento narrativo e accentua invece «un’intensa vita di relazione, cioè di rapporti continui tra ciascun personaggio e gli altri personaggi»(Caretti). Per questo motivo non vi è nel poema un personaggio centrale intorno al quale ruotino tutti gli episodi o che riassuma in sé lo spirito dell’epoca. - Orlando ha però un’importanza superiore a quella di altri personaggi, ma questo anche perché il titolo dell’opera fa riferimento proprio a lui. Egli è presentato come l’ultimo erede dei grandi eroi medievali della cortesia. - Il personaggio di Angelica sembra essere una parodia delle donne angelicate della tradizione stilnovistico- petrarchesca. Fragile ma volitiva, sempre in fuga, consapevole del proprio potere di seduzione, che costei sfrutta ora in maniera cinica e calcolatrice (come con Sacripante), ora sentimentalmente, ardentemente passionale (con Medoro). Si tratta di un personaggio complesso e affascinante. Considerata dai suoi innamorati un oggetto del desiderio, Angelica è in realtà una donna coraggiosa, che alla fine saprà scegliere personalmente e liberamente il proprio marito e il proprio destino; ma con ciò verrà trasformandosi, da quell’ideale immagine che sembrava essere, in una sorta di eroina ‘borghese’. - Ruggiero ha un’importanza centrale dal punto di vista encomiastico, in quanto dal suo matrimonio con Bradamante ha origine la famiglia estense. Egli è protagonista, nel corso del poema, di una sorta di romanzo di formazione: da giovane incostante e avventuroso, tutto fantasia e desiderio di avventura, saprà lentamente maturare, giungendo infine, attraverso l’esperienza della caduta e della degradazione morale, all’accettazione matura e lucida delle proprie responsabilità e del proprio destino. Bradamante, Rinaldo, Astolfo, Rodomonte. Appr La psicologia dei personaggi ariosteschi non è mai astratta, ma sempre colta attraverso le azioni e i gesti. Il poeta guarda a tutti loro con affettuosa simpatia, siano essi cristiani o saraceni, ma anche con distacco e imparzialità, nel tentativo di costruire una sorta di atlante dei caratteri e dei sentimenti umani. LE FONTI La materia del Furioso non si rifà soltanto all’Innamorato di Boiardo, di cui il nuovo poema si presenta esplicitamente come la naturale continuazione. Già nella calcolatissima disposizione chiastica dei primi versi della protasi «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto» si ritrovano fusi in estrema sintesi:  i temi tipici del ciclo bretone: le donne e gli amori  e i temi tipici del ciclo carolingio: i cavalieri e le armi sollevati ad una più alta dignità letteraria mediante un duplice riferimento:  da un lato alla tradizione del poema epico latino (Virgilio, «Arma virumque cano»)  dall’altro a quella del poema volgare (Dante, «Le donne e’ cavalieri, li affanni e li agi» Purgatorio) Tra le fonti narrative vi sono quelle: - romanze: Reali di Francia di Andrea da Barberino, Palamades, Tristan. - umanistiche: Intercenali di Leon Battista Alberti - antiche: Metamorfosi e Eroidi di Ovidio, Farsalia di Lucano, Carmi di Catullo, L’asino d’oro di Apuleio; ma si possono anche citare: Giustino, Valerio Massimo, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, Strabone, Claudio Tolomeo, Solino, Diogene Laerzio, Plutarco. Non mancano infine tracce del Milione di Marco Polo e del Dittamondo di Fazio degli Uberti. Alla fine dell’Ottocento, il grande erudito Pio Rajna si propose di studiare tutte le fonti del poema: ne venne fuori un’opera vastissima che ancor oggi è consultata utilmente e basta da sola a dare l’idea dell’infinita ricchezza letteraria del capolavoro di Ariosto: Le fonti dell’Orlando furioso. Rajna ci mostra che per quasi ogni passo del Furioso si possono trovare dei precedenti, ma riplasmati in maniera originale dalla fantasia del poeta. Non si tratta, per Ariosto, di racchiudere una sapienza classico-romanza in una sintesi dottrinale, come aveva fatto Dante con la Commedia. Si tratta piuttosto di utilizzare un vasto repertorio retorico e stilistico secondo l’intento e i disegni di un ‘poeta creatore’. La curiosità del poeta per le fonti più varie e disparate non viene meno con gli anni. Sembra anzi che proprio gli ultimi episodi aggiunti al poema e quelli che non vi furono mai introdotti, ossia i Cinque canti, siano caratterizzati ancor più dal gusto della varietà e dall’uso di materiali eruditi e di fonti insolite e rare. È comunque il mondo letterario delle avventure cavalleresche raccontate dai canterini quello da cui Ariosto attinge più largamente. È un lavoro di trasformazione della tradizione cavalleresca, che potremmo definire condotto con un certo gusto della rievocazione storica. E infatti Ariosto è ben consapevole della distanza storica che separa irrimediabilmente il mondo della cavalleria dalla realtà sociale e culturale del suo tempo: proprio questa lucida coscienza è alla base della sua spregiudicatezza nel modificare e manipolare letterariamente la materia delle antiche avventure dei paladini. Già nell’opera del Boiardo, pur con una certa venatura nostalgica, la cavalleria, intesa nel senso medievale, risulta svuotata dai contenuti etico-religiosi originari e considerata come espressione, pur serissima, di valori affatto moderni. La cristi degli Stati e delle strutture feudali è alla base di questo atteggiamento di distacco. Ma è con Ariosto che la «dissoluzione della cavalleria» raggiunge quella perfezione di rappresentazione che poi sarà ereditata da Cervantes e Shakespeare. Mondo cavalleresco e modernità. Come si è visto, il rapporto di Ariosto con il mondo cavalleresco è problematico e piuttosto ambiguo.  Da una parte, egli si presenta come narratore perfettamente e totalmente calato in quel mondo, di cui sembra quasi voler essere l’espressione e quasi la voce naturale.  Dall’altra, con i suoi interventi in prima persona, si mostra ben cosciente della distanza infinita che lo separa, in quanto uomo del Cinquecento, dalle avventure dei cavalieri medievali. Il senso di questa distanza si manifesta nell’ironia: un atteggiamento che, anche se non esclude una qualche nostalgia nei confronti degli antichi valori, gli fa osservare quel mondo con superiorità e sostanziale indifferenza, nella consapevolezza che si esso sopravviva solamente un ricco e fascinoso repertorio letterario. Ariosto non vuole dunque celebrare nel suo capolavoro il mondo cavalleresco, che per lui è completamente perduto, ma dare vita ad una finzione poetica, dietro la quale si nascondono i significati veri del poema, quelli della cultura rinascimentale. Il mondo variopinto e meraviglioso della cavalleria è solo un pretesto letterario per tradurre ed esprimere valori ideali propri di un uomo del Rinascimento. I personaggi sono in verità uomini del Cinquecento travestiti da cavalieri e il vero palcoscenico su cui si muovono personaggi e vicende è il mondo stesso , quello del Cinquecento ma anche il nostro. In questa direzione si muove la finalità ambigua dell’opera, che è sì l’evasione e il divertimento ma la realtà non è cancellata, e anzi il poema restituisce un’immagine concreta della vita e del mondo. È come se la rappresentazione fantastica nell’Orlando furioso si realizzasse sotto forma di una grande metafora del mondo, e il poeta, mentre presenta e descrive un mondo fittizio e tutto letterario, quello cavalleresco, allude ad un altro mondo a lui contemporaneo, ben riconoscibile. Siamo di fronte a un materiale che esteriormente non è originale, ma che lo è interiormente. I personaggi sono oggettivamente figli di una precisa tradizione letteraria, ma risultano svuotati dei loro caratteri tradizionali e soggettivamente trasformati dall’autore in rappresentati dell’umanità moderna. Mentre crede di evadere dal proprio tempo entrando nello spazio di una remota dimensione letteraria, il lettore si ritrova invece tra uomini che gli assomigliano e che pensano e agiscono come lui. E dunque l’Orlando furioso è da considerarsi come poema del Rinascimento. Di impronta rinascimentale è effettivamente la filosofia che muove i personaggi, tesi verso una nuova libertà; rinascimentale è la concezione estetica dell’autore, fondata sull’idea dell’artista come demiurgo e dell’opera come creazione; rinascimentali sono la lingua e lo stile, per le loro doti di chiarezza, simmetria e armonia. Ma nel poema è presenta anche la coscienza della crisi dei valori umanistici: la ragione è costantemente messa in scacco (episodio di Astolfo sulla Luna). La modernità rappresentata nel poema va dunque al di là dello stesso Rinascimento. Ariosto dipinge i mille percorsi dell’uomo nuovo proposto dalla civiltà a lui contemporanea, ma ben sa che quest’uomo andrà molto lontano, oltre il presente. L’uomo ariostesco è già l’uomo della nostra modernità, forte della sua autonomia, privo di punti di riferimento, preda dei suoi desideri e dalla casualità degli eventi. E dunque, a questo punto, viene da chiedersi che poema sia l’Orlando furioso, a quale genere appartenga, visto che la sua veste epico-cavalleresca è solo un abito di scena. Sembra da questo punto di vista che il poema possa essere considerato come il prototipo del romanzo moderno. Per un verso infatti la sua struttura romanzesca anticipa quella del romanzo popolare, che è il vero erede del poema cavalleresco (Tre moschettieri Dumas); per l’altro verso esso decreta la fine del genere epico-cavalleresco, e apre la strada per una narrativa nuova, più realistica, nella quale le strutture formali della letteratura cavalleresca vengono usate come contenitori di una materia del tutto originale e gli eroi antichi fanno posto agli uomini comuni della realtà quotidiana. UNA NARRAZIONE APERTA L’Orlando furioso è un’opera aperta, nel senso che è senza principio e senza fine, quasi rifiutasse di iniziare e di terminare (Calvino).  Da una parte infatti si ricollega alle vicende dell’Orlando innamorato e le continua di fatto, dall’altra si interrompe su un episodio, il duello tra Ruggiero e Rodomonte, che tutto sommato non è diverso da altri episodi simili.  Manca oltretutto quella conclusione encomiastica che ci si poteva attendere. Le stesse nozze di Ruggiero e Bradamante, invece di dar luogo alla celebrazione degli estensi di cui sono i capostipiti, sono seguite dalla sfida da parte di Rodomonte, che riapre il ciclo narrativo che sembrava essere arrivato alla fine.  È inoltre singolare che i due tradizionali protagonisti del poema escano di scena ben prima della conclusione: Angelica sparisce al canto 29, mentre Orlando una volta recuperato il proprio senno ha un ruolo abbastanza marginale. La struttura generale del poema è aperta: le vicende e i personaggi non si lasciano racchiudere in un tempo e in uno spazio ben definiti e circoscritti, ma si muovono tra tanti centri narrativi, senza basarsi su punti stabili e senza seguire una trama coerente e lineare. A differenza delle grandi costruzioni letterarie medievali, la Commedia di Dante e il Decameron di Boccaccio, nell’Orlando siamo di fronte a dimensioni spazio-temporali non assolute e neppure storicizzate in chiave realistica. La surreale varietà degli spazi e il mutare continuo delle durate temporali valgono a suggerire quella sensazione di una geografia sconfinata e fantastica, che è tipica del poema. Come sembrano non fissarsi mai i luoghi, così sembrano non finire mai le avventure. La straordinaria libertà di movimento dei personaggi ariosteschi negli spazi e nei tempi di questo mondo irreale non dà luogo però a un risultato di disordine, di frammentarietà e di anarchia narrativa. Anzi le vicende non cessano mai di essere saldamente guidate e dominate dalla mente dell’autore, che governa con fermezza il complesso meccanismo della narrazione. LA TECNICA NARRATIVA Ariosto adotta nell’Orlando furioso una tecnica narrativa derivata dalla tradizione dei canterini, cioè degli autori- interpreti dei cantari popolari, i cui modi narrativi erano legati alla necessità pratica di coinvolgere il pubblico. Essa consiste in un articolato sistema di abilissimi procedimenti narrativi. dei diversi generi letterari della tradizione, dall’uso dei più svariati toni e registri allo sfruttamento delle più varie risorse retoriche. Nell’adozione della lingua la scelta di Ariosto è in linea con le teorie espresse da Pietro Bembo, che additano come modello ideale il toscano letterario di Petrarca e di Boccaccio. La scelta di Ariosto di una lingua omogenea, capace di imporsi sulla miriade di linguaggi locali che caratterizzavano la situazione italiana, diventa necessaria per un’opera che, grazie anche alle nuove possibilità offerte dalla stampa, vuole diffondersi oltre i confini municipali entro cui è stata concepita. Il bembismo di Ariosto, tuttavia, non è rigidissimo, in quanto non esclude prelievi lessicali anche al di fuori dell’area strettamente petrarchesca. Le sue scelte linguistiche e stilistiche si ispirano anche alla tradizione volgare della letteratura epico-canterina, senza dimenticare le presenze burlesche e pulciane e quelle dantesche, a volte usante anche con finalità parodistiche, con il risultato di una feconda e felice fusione tra elementi più popolari ed elementi più dotti. Nell’Orlando furioso si attua un «accordo tra gli opposti». Ne deriva un linguaggio limpido e chiarissimo, che oppone all’irrealtà e all’indeterminatezza dei contenuti fantastici un’impeccabile precisione lessicale, una straordinaria naturalezza espressiva e un cristallino nitore stilistico. Quanto ai generi letterari utilizzati e assorbiti nell’ambito del poema, siamo anche qui di fronte a un principio di medietas, cioè di equilibrio nella fusione di modelli diversi, che si compongono con armonia, pur accogliendo ognuno di essi la materia che gli è propria. - Quando, ad esempio, la narrazione si sofferma sulle vicende amorose dei personaggi, l’autore mette a frutto motivi, temi e linguaggi propri della lirica, facendo riferimento soprattutto al modello petrarchesco e a tutto quel repertorio che il petrarchismo del primo Cinquecento stava fissando. - Alcuni segmenti che tratteggiano scorci di natura o di campagna, o che collocano le vicende su uno sfondo pastorale, come quello dell’amore tra Angelica e Medoro, risentono della poesia e della narrazione bucolico- pastorale, in auge tra Quattro e Cinquecento (Arcadia di Sannazzaro) - Né manca in alcuni episodi, un’approfondita analisi psicologica dei personaggi, che si richiama direttamente alla tradizione di certe novelle boccacciane. Oltre che nelle scelte linguistiche di fondo e nella mescolanza dei vari generi, l’equilibrio formale del poema è realizzato attraverso la molteplicità di toni e di registri e la ricchezza di espedienti retorici, tutti intesi a disporre armonicamente le numerose e incessanti avventure e situazioni in cui i vari personaggi vengono a trovarsi. A volte la variazione di registro si verifica nel breve giro di poche ottave, addirittura in una stessa ottava. Quasi sempre il passaggio da un tono all’altro avviene per opposizione e col preciso intento di abbassare il racconto ad una dimensione più realistica ed umana. I registri principali del poema sono: l’encomiastico, l’ironico e il serio, l’epico e l’elegiaco, il comico e il burlesco: tutti concorrono a creare, pur nella loro varietà, quel tono medio generale della narrazione che costituisce una delle ragioni del fascino del poema. L’ottava. Nella sua storia, da Boccaccio e i cantari popolari al poema ariostesco, la struttura dell’ottava subisce non poche trasformazioni. Nei testi popolari risulta divisa in quattro parti, ciascuna costituita da un distico, e presenta una andamento sintattico prevalentemente paratattico, con l’impiego di rime facili, consolidate dalla tradizione. Il superamento di molti elementi convenzionali si verifica già con Pulci e Boiardo, con i quali la struttura dell’ottava diviene più complessa, fino a giungere alla raffinata eleganza descrittiva delle Stanze di Poliziano. Ma è con l’ Orlando furioso che l’ottava raggiunge una perfezione di struttura e di ritmo . Fra le peculiarità della strofa ariostesca si può ricordare in primo luogo la tendenza alla fusione e compenetrazione degli elementi sintattici con quelli ritmici, con una perfetta coincidenza tra il movimento logico e il movimento ritmico; e infatti gli enjambements ricorrono con parsimonia e ancor più rari sono i legami fra ottave diverse. Un’altra importante caratteristica è la circolarità, legata ad un crescendo del ritmo nei primi sei versi a rima alternata che viene chiuso, nei due versi finali a rima baciata, da una ripresa del movimento del primo verso. Altre volte, invece che da un movimento circolare, l’ottava è caratterizzata da un energico impulso dinamico indirizzato verso una conclusione che, invece di ritornare indietro, spinge bruscamente in avanti l’azione. L’ottava ariostesca, per la sua perfezione, è definita da Luigi Blasucci un microcosmo armonico. Il poeta è riuscito a far scaturire dalla strutturale discontinuità di ritmo dell’ottava un’unità armonica superiore, forma ed emblema delle tensioni e delle contraddizioni che costituiscono il mirabile ed equilibrato dinamismo narrativo del poema. FORTUNA DELL’ORLANDO FURIOSO Grande è stato, in ogni tempo, il successo dell’Orlando furioso, dal Cinquecento sino ai nostri giorni: un successo davvero singolare e completo, se si pensa che, accolto subito con favore dagli ambienti colti di tutta Europa, il poema diventa anche un’opera largamente popolare, apprezzata da un pubblico culturalmente meno preparato. La ragione di tale fenomeno è da ricercare nel fascino della materia trattata, nella varietà e nella ricchezza narrativa, più che nei valori formali della lingua e dello stile. Per comprendere il valore e l’importanza dell’opera ariostesca nel contesto della cultura europea basta l’esempio del Don Chisciotte dello spagnolo Miguel de Cervantes, che trova nell’Orlando furioso un modello privilegiato, di cui condivide anche l’atteggiamento ironico nei confronti del mondo cavalleresco. Non a caso, nell’opera di Cervantes, il poema ariostesco è tra i pochi libri che si salvano dalle fiamme con cui il curato e il barbiere distruggono la biblioteca che aveva reso folle Don Chisciotte. Dopo le alterne vicende critiche cui va incontro nel secolo dei Lumi, Ariosto diviene oggetto di particolare attenzione e di studi accurati a partire dall’Ottocento. All’opera di Ariosto non è insensibile la cultura del Novecento. I primi anni Settanta, in particolare, vedono realizzarsi trasposizioni teatrali e riduzioni televisive e radiofoniche che contribuiscono all’approfondimento del dibattito critico. Possono essere ricordate in particolare le trasmissioni radiofoniche sul terzo programma a cura di Italo Calvino e Edoardo Sanguineti. Quanto a Calvino, la sua rappresentazione radiofonica dell’Orlando furioso è espressione di un autentico amore letterario. Del poema ariostesco Calvino cura anche un’antologia e alla sua materia, alla sua poetica e alla sua tecnica narrativa si ispira per la composizione di romanzi come Il cavaliere inesistente (1959) e Il castello dei destini incrociati. NICCOLO’ MACHIAVELLI 1469-1527 Il quadro storico. La vita e l’opera di Machiavelli non possono essere comprese senza fare riferimento agli avvenimenti storici che scuotono drammaticamente la Firenze e l’Italia del suo tempo. > Machiavelli vive la propria giovinezza sotto il governo di Lorenzo il Magnifico, attraversa il confuso e drammatico periodo del potere di Girolamo Savonarola (1492-1497) e si affaccia alla vita politica operando a favore del governo della Repubblica. Assiste poi al ritorno al potere dei Medici e muore nell’anno in cui la Repubblica si afferma per l’ultima volta a Firenze. La signoria di Lorenzo non sopprime formalmente le istituzioni repubblicane, che riemergono, dopo la sua morte nel 1492 e la fuga del suo successore Piero de’ Medici, il potere passa nelle mani di Savonarola a seguito di un’insurrezione popolare. Il governo della repubblica guidato da Savonarola si ispira a un’idea di libertà democratica concepita come incarnazione politica della libertà cristiana del peccato. L’avventura religiosa e politica di Savonarola e dei piagnoni si conclude pochi anni dopo. Il frate, osteggiato sia dall’aristocrazia sia dai ricchi banchieri fiorentini legati alla curia romana, viene scomunicato da papa Alessandro VI e condannato a morte e arso sul rogo nel 1498. Dopo un periodo di aspri conflitti politici, nel 1502, viene affidata la carica di gonfaloniere a vita a Pier Soderini, il quale resterà a capo del governo della città fino al 1512, quando sarà costretto alla fuga dall’arrivo delle truppe spagnole che riporteranno al potere la dinastia dei Medici. Le sorti della Repubblica sono legate al conflitto tra il re di Francia, Luigi XII e il nuovo papa Giulio II. Nel 1511 Giulio II promuove la Lega santa, alleandosi con Venezia, Spagna, Inghilterra e Cantoni svizzeri contro re Luigi XII e costringe i francesi ad abbandonare la penisola, a tutto vantaggio degli Spagnoli. Può quindi accordarsi con loro allo scopo di punire Firenze e di ripristinare in città il potere mediceo. Francesco I, re di Francia, crea la Lega di Cognac rivolta contro Carlo V e formata da Venezia, Genova, Firenze e dal papa Clemente VII, che ha rovesciato la precedente alleanza. La città di Firenze è minacciata dalle truppe di Carlo V e intanto nel 1527 i lanzichenecchi di Carlo V saccheggiano Roma. L’umiliazione subita da Clemente VII, papa della famiglia Medici, determina il rovesciamento della signoria medicea e la rinascita della Repubblica, che però durerà solo 3 anni. La pace di Cambrais del 1529 sancisce la vittoria sulla Francia e la lega di Cognac. Carlo V viene personalmente in Italia e in un solenne congresso viene incoronato imperatore e re d’Italia: è la fine dell’indipendenza degli stati italiani e l’inizio del predominio spagnolo sulla penisola. Nel 1530 Firenze torna così sotto il potere dei Medici con la nomina a Duca di Alessandro de’ Medici. La vita. Nel 1469, nello stesso anno in cui Lorenzo il Magnifico diventa signore della città, a Firenze nasce Niccolò Machiavelli. Sulla giovinezza di Machiavelli abbiamo scarse informazioni. Sappiamo che ricevette una buona educazione umanistica, rivelando presto uno spiccato atteggiamento antispiritualistico: fra i suoi autori preferiti c’è il materialista latino Tito Caro Lucrezio, di cui traduce il De rerum natura. La fine di Savonarola coincide con l’esordio della carriera politica di Machiavelli: solo cinque giorni dopo il supplizio del frate, nel maggio del 1498, egli è infatti designato a ricoprire la carica di segretario alla Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina, cui spettava la direzione della politica interna e militare. Gli vengono affidati diversi incarichi, alcuni anche importanti, soprattutto dopo che ha conquistato la fiducia di Pier Soderini, gonfaloniere a vita dal 1502. A partire dal 1503 Machiavelli riflette a lungo su un progetto di riforma dell’esercito fiorentino, la cui necessità si era già avvertita al tempo del Savonarola. Machiavelli voleva sostituire i mercenari con uomini del contado, più portati secondo lui a difendere la loro proprietà e la propria terra, sul modello dell’esercito dell’antica Roma repubblicana. Questo impegno dà i suoi frutti nel 1509, quando Firenze riconquista Pisa, ma la riorganizzazione militare resta limitata alla fanteria. Ma l’impegno maggiore di Machiavelli è legato in questi anni all’attività diplomatica. Per conto della signoria medicea partecipa a diverse legazioni e ambascerie, svolgendo il suo compito con intelligenza e saggezza. Nel 1512, dopo che per punire la scelta antipapale e filofrancese di Firenze l’esercito spagnolo riporta al potere la famiglia dei Medici, cominciano le epurazioni contro i fautori della Repubblica: Machiavelli viene esonerato dai suoi incarichi e mandato al confino. Non solo, nel 1513 viene messo in carcere, con l’accusa di aver partecipato alla congiura antimedicea; viene anche torturato ma alla fine dell’inchiesta non vengono scoperte prove a suo carico. Amnistiato dunque nello stesso anno in occasione dell’ascesa al soglio pontificio di Leone X, è comunque obbligato ad allontanarsi da Firenze, e si reca quindi all’Albergaccio > stesura delle grandi opere. Escluso brutalmente dall’attività politica, è così forzato a riversare la sua passione politica nell’ attività teorica , mai trascurata in precedenza ma che ora diviene il suo impegno prevalente ed esclusivo.  Compone così, in pochi mesi, il Principe, ed entro il 1517 completa anche i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, interrotti per scrivere il Principe. A partire dal 1516 Machiavelli torna a frequentare Firenze, partecipando al cenacolo umanistico che si raccoglie negli Orti Oricellari, i giardini del palazzo della famiglia Rucellai. I suoi membri, che sono in gran parte estimatori dello scrittore, hanno un orientamento esplicitamente repubblicano e sono fautori della libertà di Firenze e dell’Italia. Machiavelli inizia a stendere le Istorie fiorentine , nelle quali esamina la storia italiana dalla caduta dell’Impero romano fino al 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico. Fra il 1519 e 1520 compone i sette libri dell’Arte della guerra, un trattato in forma dialogica su argomenti di politica militare. Negli stessi anni ultima il suo capolavoro teatrale, la Mandragola, che viene rappresentato con grande successo a Venezia già nel 1522. Nel 1525 scrive poi una nuova commedia, la Clizia. Gli ultimi anni. Machiavelli si avvicina sempre più ai Medici. Nel 1525 l’interdizione a coprire uffici pubblici gli viene revocata e gli sono affidati nuovi incarichi e missioni militari e diplomatiche, che lo mettono in contatto anche con Francesco Guicciardini, luogotenente generale della Chiesa. Quando, nel 1527, Firenze si allea con il papa contro Carlo V nella lega di Cognac, Machiavelli viene nominato cancelliere dei Procuratori alle mura e si occupa di rafforzare le difese della città. Ma poco dopo, come contraccolpo al sacco di Roma subito dal papa Medici, la città ripiomba nel caos e viene restaurata la Repubblica. A causa delle sue ultime attività svolte a favore dei Medici, Machiavelli viene così nuovamente allontanato da ogni incarico politico. Muore pochi mesi dopo, in quello stesso 1527. La lettura e l’influenza degli auctores classici nell’azione politica bisogna agire nel modo più efficace possibile perché solo così sarà possibile raggiungere la conservazione dello Stato. I mezzi dovranno essere valutati solo tenendo conto di questo fine primario. Dunque è sbagliato sostenere che qualunque fine giustificherebbe qualsiasi mezzo, ma solo e precisamente il fine politico per eccellenza, ossia il bene dello Stato. Non si deve pensare a un Machiavelli insensibile a istanze morali. «amoralità come legge necessaria della politica». Machiavelli fa derivare il termine «religione» da re-ligare, ma non nel senso abituale secondo il quale la religione “lega gli uomini a Dio”, bensì nel senso che “lega gli uomini tra di loro”. Egli riduce dunque la religione a un fenomeno politico-sociale. Istituzione ecclesiastica: condanna senza mezzi termini gli errori e i vizi, in contrapposizione alla purezza e alla santità originarie. La storia romana mostra che la religione pagana ha svolto sempre una funzione positiva quale fattore fondamentale di aggregazione e coesione sociale e politica. Diversamente la Chiesa attuale tende a disgregare anziché ad unire. Machiavelli condanna la corruzione della Chiesa, non tanto da un punto di vista strettamente morale, quanto piuttosto come causa prima della decadenza etico- politica dell’Italia e della sua frammentazione politica. La Chiesa è ritenuta dunque responsabile della frammentazione dell’Italia, del perpetuarsi delle lotte interne e della dissolutezza dei costumi. La religione cattolica, glorificando gli uomini inattivi e contemplativi, esalta invece l’umiltà e il dispregio delle cose umane, con l’effetto negativo di rendere l’uomo debole, più portato alla sopportazione che all’azione. effetti storici concreti prodotti dall’esercizio della religione nel tempo: funzione sociale e al suo ruolo di strumento di governo e di potere. Machiavelli distingue chiaramente il cristianesimo delle origini dalla Chiesa come istituzione storica quale si è venuta affermando nel tempo. IL PRINCIPE Il titolo, la dedica, la composizione. Il titolo che è prevalso nella tradizione e che sottolinea la centralità della figura del governante è il volgarizzamento di quello originale dato dall’autore, De principatibus, più riferito dunque alla forma di governo. Il Principe è in primo luogo un pamphlet militante ispirato a una circostanza storica ben precisa > rapidità della composizione, scritta praticamente di getto nel 1513 > È uno scritto d’occasione: a spingere Machiavelli alla scrittura è l’ascesa al potere di Giovanni de’ Medici, che diventa appunto papa in quell’anno col nome di Leone X, e la possibilità che costui attribuisca a Giuliano de’ Medici, suo fratello, uno Stato in Emilia; Giuliano avrebbe potuto così operare, con l’appoggio del papa, un forte Stato unitario, in collegamento con Firenze. Ma dopo che Leone X rinuncia all’idea di mettere a capo di uno stato Giuliano, Machiavelli decide di dedicare l’opera a Lorenzo de’ Medici che in quell’anno diventa signore di Firenze. Il genere dell’opera > Nella lettera al Vettori del 10 dicembre 1513 Machiavelli parla del Principe come di un semplice opuscolo: si tratta di un testo molto breve, che è condensato in 26 capitoli e vuole essere un sunto agile e maneggevole. È scritto d’occasione, tuttavia costruito secondo il modello di un importante genere letterario, il trattato politico di tipo didascalico. Machiavelli infatti si rifà a una tradizione che risale alla cultura medievale e in particolare agli specula principis, ma al contempo ne prende nettamente e polemicamente le distanze: egli non intende infatti delineare le virtù ideali per insegnare al principe ad essere buono in senso morale, ma piuttosto le virtù politiche reali entro i limiti di un’azione politicamente autonoma. Del trattato politico, il Principe ha la struttura e il rigore dello svolgimento e dell’argomentazione: benchè scritta di getto, l’opera si presenta infatti come una trattazione sistematica: il titolo è breve e coinciso, l’esordio con indicazione dell’argomento e del procedimento, la suddivisione in capitoli della materia, la titolazione in latino dei capitoli. Quest’ultima segue due moduli fondamentali: la definizione dell’oggetto-argomento oppure un’espressione problematica sotto forma generalmente di interrogativa indiretta. La struttura > Dal punto di vista tematico si possono individuare nell’opera quattro sezioni. 1) 1-11: si tratta dei vari tipi di principati. Contrapposti i principati alle repubbliche, Machiavelli prende in esame i vari generi di principato. Successivamente tratta il comportamento che il principe deve tenere nelle diverse situazioni politiche, spiegando i modi in cui si acquistano, si perdono e si conservano i principati stessi. Passa prima in rassegna i principati di natura ereditaria, poi i principati nuovi. Tra i principati del tutto nuovi sia sotto il profilo costituzionale sia sotto il profilo dinastico, si analizzano quelli che «s’acquistano con le armi e la fortuna di altri»: qui il personaggio chiave è Cesare Borgia, detto duca Valentino (figlio del papa Alessandro VI), indicato come modello di principe nuovo. Si parla poi dei principati ottenuti con la crudeltà e la scelleratezza, come quello di Oliverotto da Fermo, poi fatto ammazzare dal duca Valentino. Segue poi il principato di natura civile, ottenuto col favore dei concittadini e mantenuto attraverso un’intelligente e prudente politica di alleanze e di consenso popolare. Il capitolo X è riservato al tema dei conflitti che un principato deve sostenere contro i nemici esterni e delle forze che a tale scopo deve mettere in campo. Sono poi considerati i principati ecclesiastici, di natura anomala: l’esempio storicamente realizzato è lo Stato della Chiesa, per il quale non sono applicabili le regole indicate per tutti gli altri principati. 2) 12-14 E’ preso in esame il problema della milizie e del loro ordinamento. Secondo la tipologia proposta dallo scrittore, le milizie possono essere «proprie», «mercenarie», «ausiliarie», «miste». Di fondamentale importanza sono quelle proprie che uno stato deve darsi; le milizie ausiliarie, che si dicono tali «quando si chiama uno potente che con le armi sue ti venga ad aiutare e a difendere», sono ritenute inutili e «quasi sempre dannose»; le milizie mercenarie possono essere molto pericolose; si tratta poi anche delle milizie miste. Da parte sua il principe deve dedicarsi ad una continua e adeguata preparazione alla guerra, da curare specialmente in tempo di pace, sia mediante esercitazioni militari sia attraverso la conoscenza dell’arte bellica, che deriva dallo studio diligente della storia e degli esempi eccellenti. 3) 15-23 L’autore vi tratta delle qualità personali che sono richiese ad un principe nuovo. Machiavelli accenna alle qualità per le quali tutti gli uomini, ma «specialmente i principi sono laudati», a partire dalla liberalità e dalla parsimonia: la parsimonia sa suscitare l’apprezzamento del popolo ed è da preferire alla liberalità, che per poter essere coltivata e mantenuta, può spingere a gravare sul popolo allo scopo di ottenere mezzi e ricchezze. Seguono la crudeltà e la pietà, con l’interrogativo se sia meglio «essere amato che temuto, o più tosto temuto che amato»: la crudeltà, che da tutti è biasimata sul piano morale ma che può tornare utile, come dimostra l’esempio del Valentino; esercitata al momento giusto, può risultare più efficace di una pietà imbelle, perché procura al principe il timore e il rispetto dei sudditi. Si tratta poi della fedeltà o dell’infedeltà alla parola data: sulla base del mito del centauro Chirone, precettore di Achille, si esorta il principe a «sapere bene usare la bestia e l’uomo», cioè la duplice natura di politico, bestiale e umana. Il principe deve ricorrere alle virtù della volpe e del leone, ossia all’uso dell’astuzia e della forza. Inoltre egli deve evitare tutte le cose che possano renderlo odioso e degno di disprezzo, come usurpare i beni e le donne dei sudditi, oppure mostrarsi mutevole, leggero, effemminato, pusillanime. Si tratta poi dell’utilità di fornire o meno il popolo di armi e della funzione e il valore delle fortificazioni. Vengono poi esaminate le azioni che un principe deve compiere per conquistare il cuore dei sudditi ed essere da questi stimato, le qualità che devono possedere i ministri e i consiglieri del principe e infine il comportamento che il principe deve tenere nei confronti degli adulatori. 4) 24-26. I tre capitoli conclusivi pongono in primo piano il problema della situazione dell’Italia contemporanea. Machiavelli si interroga sul motivo per cui «li principi di Italia hanno perso li stati loro» e afferma che esso non va cercato nei capricci del caso o nell’avversa fortuna, ma nell’inettitudine dei principi stessi. Lo scrittore tratta poi della fortuna, del suo potere sulla vita degli uomini e di come possa, almeno in parte, essere contrastata dalla virtù. Il capitolo finale si risolve in una retorica exhortatio, cioè in un’esortazione appassionata rivolta ad un principe virtuoso e redentore affinchè riscatti l’Italia, desolata da guerre e rovine, dal dominio degli stranieri, restituendole la libertà perduta. - due coordinate fondamentali: la «continua lezione delle cose antique» e «l’esperienza delle cose moderne». Lo studio e l’interpretazione della storia antica, di quella romana in particolare, attraverso il magistero di Tito Livio, servono a Machiavelli per formulare le leggi generali dell’agire politico e per interpretare la realtà presente, mentre l’esperienza diretta, frutto di quindici anni di servizio pubblico nei vari uffici e incarichi, alimenta e consolida in lui la conoscenza di persone e situazioni della politica contemporanea fiorentina e di quella, più vasta, italiana ed europea. L’analisi e la denuncia delle cause reali della crisi della politica italiana sfocia nella prospettiva di una soluzione inattuale, fuori dal tempo e dunque utopistica: la creazione di un principato forte, in grado di porre termine alla decadenza italiana e di dar vita in Italia ad uno stato unitario moderno. - presunto cinismo di Machiavelli Il grande tema che domina Il Principe è la figura del principe-eroe che combatte contro la fortuna: un tema che è sostanzialmente mitico-letterario, ma anche profondamente tragico, in quanto l’eroe rischia in ogni momento di soccombere alla sorte. Ma accogliere una visione fatalistica della realtà significherebbe ammettere l’inutilità della propria opera e in generale della politica Visione individualistica dell’agire umano. La storia è per lui una successione di lotte in cui l’uomo vince o perde soltanto grazie alla sua capacità di dominare eroicamente la fortuna. Machiavelli non fa che ricorso ad una figura di un eroe solitario e tragico. Lo stile e il linguaggio. Realismo e idealismo, le due facce del pensiero machiavelliano, sono evidenti anche nella veste linguistica del trattato, in particolare nelle scelte lessicali e nelle strutture sintattiche. Nella Dedica a Lorenzo de’ Medici, Machiavelli sostiene esplicitamente di voler adottare nel Principe un registro tragico, quale appunto è richiesto dalla gravità del subietto, cioè dal contenuto elevato, che è appunto quello proprio del genere della tragedia. - Il linguaggio è estremamente sobrio quanto ad aggettivazione, assai rapido ed incisivo, segnato da interruzioni e da passaggi bruschi da un soggetto all’altro. - Il tessuto lessicale è caratterizzato da una singolare mescolanza di termini o espressioni latine, di vocaboli popolareschi e talvolta persino dialettali, accanto ad altri di natura cancelleresca, diplomatica e militare. - commistione stilistica - La struttura sintattica è netta ed essenziale, modellata sul procedimento argomentativo di tipo dilemmatico. Si tratta di un procedimento fondato su uno schema dualistico che, partendo da un enunciato a due membri, indica due soluzioni alternative ed estreme, delle quali una delle due viene abbandonata, mentre l’altra si suddivide a sua volta in due membri alternativi, fino a giungere all’asserzione conclusiva. I DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO I Discorsi sono un’opera in 3 libri, preceduti da una Dedica e un Proemio. > Si tratta di una serie di commenti e divagazioni sui primi dieci libri della storia di Roma dello storico latino Tito Livio, una serie di riflessioni personali sulla politica che nascono a margine di una serie di passi scelti del testo liviano. L’opera è dedicata ai giovani Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, frequentatori degli Orti Oricellari nonché accesi esponenti della ‘fronda’ antimedicea. La datazione è tuttora oggetto di discussione da parte degli studiosi. Secondo alcuni Machiavelli li avrebbe iniziati nel 1513, per poi interromperli con la stesura del Principe e riprenderli e concluderli nel 1516-1517. Secondo altri l’autore avrebbe iniziato l’opera soltanto nel 1516, sollecitato dagli amici e discepoli Rucellai e Buondelmonti. In ogni caso è fra il 1516 e il 1517 che vi lavora intensamente. Inoltre singole parti vengono certamente lette e discusse, una volta composte, nelle riunioni presso gli Orti Oricellari. L’opera conosce fin da subito una grande circolazione manoscritta e uscirà a stampa nel 1531. Il contenuto. L’opera è suddivisa in 3 libri: il primo è dedicato alla politica interna, il secondo a quella estera e ad argomenti vari, e il terzo si propone di dimostrare «quanto le azioni degli uomini peculiari facessono grande Roma e causassino in quella città molti buoni effetti». - manca un coerente disegno architettonico e si presenta come una raccolta di riflessioni varie e slegate l’una dall’altra. Libro 1. Dopo aver analizzato il modo in cui si succedono le diverse forme di governo, Machiavelli identifica la migliore organizzazione statale in quella repubblicana realizzatasi nell’antica Roma. Si trattava di una repubblica mista, capace di fondere insieme le tre forme principali di governo: il potere regio (consoli), l’aristocrazia (il senato) e la democrazia (i comizi e i tribuni della plebe). Le lotte intestine, avvenute al tempo della repubblica romana, vengono considerate un fattore positivo: non miravano alla divisione ma al bene comune. Dopo aver tessuto le lodi della religione pagana, l’autore introduce una delle argomentazioni centrali dell’opera: l’accusa alla Chiesa di avere, attraverso la corruzione, fatto diventare gli italiani «senza religione e cattivi». Esistenza dello Stato della Chiesa: causa della mancata unificazione italiana e della frantumazione del paese. Nella decadenza della religione pagana e 2. la seconda parte del capitolo è caratterizzata da una forte partecipazione emotiva dell’autore, con momenti di ironia e sarcasmo di sapore dantesco. Gli italiani devono essere “riconoscenti” alla chiesa di Roma, in senso antifrastico ovviamente, per la propria decadenza morale.  La Chiesa non è stata «si potente né di tanta virtù» da assumere la signoria dell’Italia, e neppure ha «permesso che un altro la occupi». Machiavelli addebita alla Chiesa la responsabilità della mancata nascita in Italia di una monarchia nazionale sul modello di quelle europee. L’ARTE DELLA GUERRA Si tratta di un dialogo in forma dialogica di 7 libri. Viene composto tra il 1519 e il 1520 e pubblicato nel 1521, con immediata fortuna e numerose ristampe. Il dialogo, impostato secondo il modello ciceroniano, è ambientato negli Orti Oricellari. Gli interlocutori sono Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonti, Battista della Palla e Luigi Alamanni. Su di loro emerge, nell’esplicita funzione di portavoce dell’autore, Fabrizio Colonna, anziano e stimato condottiero della famiglia principesca romana. Se si tiene presente che il portavoce dell’autore proviene da una famiglia avversa ai Medici e che i suoi interlocutori sono tutti giovani fiorentini di ordinamento repubblicano, se ne deduce che l’opera non è allineata al regime mediceo. Ampliando le tesi già sostenute nel Principe e nei Discorsi, Machiavelli discute molteplici problemi militari, affermando in particolare la necessità di formare un esercito di cittadini. Sostiene la superiorità della fanteria rispetto alla cavalleria e ribadisce la sua ferma opposizione alle truppe mercenarie. Parla anche di argomenti più tecnici, come l’arruolamento dei soldati, la disposizione da tenere sul campo di battaglia, o l’allestimento degli accampamenti. L’antico esercito romano viene indicato come modello. Il tono è molto più pessimistico di quello delle altre opere: gli uomini moderni appaiono ormai del tutto privi della virtù degli antichi, e le mutate condizioni politiche e sociali rendono difficile la ripresa dei modelli romani. Il Colonna sostiene che il problema di un esercito di cittadini non potrà mai essere risolto finchè non compaia sulla scena italiana un principe all’altezza del compito che l’attende, in grado di suscitare entusiasmo e arruolare migliaia e migliaia di giovani. Ma ciò non è possibile in un’Italia divisa e lacerata, ma solo in un moderno stato nazionale. Il discorso dunque sfuma nell’astrattezza, negandosi qualsiasi possibilità di tradursi in azione; lo stesso Colonna del resto si lamenta dell’ostilità del destino, che non gli ha offerto l’occasione di mettere alla prova dei fatti il suo valore e le sue teorie. L’unica azione possibile in quest’opera è quella fantasticata, così che l’opera assume la forma quasi di una visione utopistica. Ma il prezzo di questa visione idealizzata è la rinuncia all’azione concreta. La conclusione del dialogo riporta il discorso dall’utopia alla realtà, riprendendo alcuni argomenti polemici già trattati nel Principe e nei Discorsi. I principi sono accusati, per bocca del Colonna, di essersi occupati di «ornarsi di gemme e di oro» e dello splendore delle loro corti, senza rendersi conto del pericolo incombente su di loro e sull’Italia tutta. I principi si sono dedicati in genere ad attività vuote e insulse e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il quadro delineato dall’autore è di sferzante quanto desolata ironia. In particolare colpisce l’accusa senza riserve nei confronti delle illusioni umanistiche, nelle quali si sono persi i principi abili soltanto nella diplomazia e nella retorica, ma del tutto incapaci di assolvere i compiti politici e militari. Machiavelli accenna agli antichi condottieri portandoli come esempio di corretto agire: la lezione degli antichi purtroppo viene recepita dai principi italiani soltanto a parole. Lo stile dell’opera, in conformità al modello ciceroniano, è più elevato rispetto ad altri testi di Machiavelli, ed è segnato da una patina sapientemente letteraria: la sintassi è ampia e composta e il lessico particolarmente selezionato. LE ISTORIE FIORENTINE L’incarico di scrivere quest’opera viene affidato al Machiavelli nel 1520 dal cardinale Giulio de’ Medici, al quale l’opera è dedicata. La composizione termina nel 1525. Si tratta di otto libri in cui si narra la storia di Firenze dalle origini al 1492, anno di morte di Lorenzo il Magnifico; probabilmente l’autore non ritenne prudente spingersi fino alla trattazione del successivo periodo repubblicano, considerandolo argomento troppo scottante. L’opera non è adulatoria nei confronti dei Medici: Machiavelli vi ribadisce la propria preferenza per la repubblica e dice di non voler evitare di mettere in luce aspetti sgraditi al governo mediceo: «quello che non vorrò dire io, lo farò dire ai suoi avversari», ossia inserendolo nei discorsi retoricamente attribuiti ad alcuni personaggi della narrazione. Tuttavia Clemente VII apprezzò moltissimo il lavoro di Machiavelli. Il nucleo centrale dell’opera è costituito dalla narrazione delle civili discordie, cioè delle lotte tra fazioni che segnano la storia di Firenze. A differenza di quanto sostenuto sia da Dante sia dai suoi predecessori quattrocenteschi Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini, Machiavelli è convinto che le civili discordie siano state utili all’affermarsi della potenza della città, per quanto, rispetto agli scontri nell’antica Roma, abbiano avuto degli inconvenienti, come gli esilii, le violenze e le vendette. Lo scopo dell’opera, del resto, non è veramente storico, ma politico, e deve servire da stimolo e da monito nei confronti dei signori italiani attuali. Machiavelli, poiché non vuole o non sa separare la ricerca storica dalla passione politica, rinuncia all’obiettività e non esita a lanciarsi spesso in polemiche anche aspre sulla base di valutazioni personali, distaccandosi nettamente dal modello della storiografia umanistica, che invece era molto attenta ai documenti. Non solo riduce in sostanza la storia alle vicende politico-militari, ma dedica scarsissime attenzioni alle fonti archivistiche. Le sue indicazioni cronologiche sono spesso approssimative e in certi casi ci si trova di fronte a vere e proprie falsificazioni di dati storici. Per Machiavelli, come per Cicerone, la storiografia è infatti un’opera oratoria, mirante più a fini pratici e persuasivi che alla ricerca della verità. Un altro elemento di novità delle Istorie è costituito dalla rinuncia all’uso del latino in favore del volgare. Anche da questo punto di vista l’opera di Machiavelli si distacca dalla storiografia umanistica, che prevedeva rigorosamente l’uso del latino, e si accosta semmai alla tradizione della storiografia municipale in volgare, che non aveva peraltro alcuna pretesa letteraria e obbediva soltanto a esigenze pratiche e immediate. LE OPERE LETTERARIE Le opere letterarie del Machiavelli si ricollegano in gran parte alla tradizione comico-realistica e popolare fiorentina, con un gusto spiccato per il sarcasmo e l’osceno, anche se l’autore vi introduce spesso spunti di carattere politico. Dunque sostanziale differenza di tono rispetto alla produzione alta di materia politica. - Fin dalla gioventù Machiavelli scrive sonetti e rime di vario genere, per lo più di carattere occasionale ed encomiastico, che tuttavia non mancano di vivaci spunti polemici o satirici. - Probabilmente in carcere, nel 1513, compone tre Capitoli in terza rima: Di fortuna, Dell’ambizione e Dell’ingratitudine; ne scriverà più tardi un quarto, Dell’occasione: si tratta di testi di mediocre valore letterario, che si segnalano per il risentito moralismo e l’impietosa rappresentazione della meschinità degli uomini. - Di argomento storico sono i Decennali, due poemetti in terzine. - Forse negli anni 1515-1516 viene iniziato l’Asino, poema in terzine ispirato all’Asino d’oro di Apuleio, che in base ad un’allegoria di tipo dantesco, tratta del destino umano. Il poema, rimasto incompiuto, è legato alla tradizione carnevalesca, evidente nel tema della trasformazione degli uomini in bestie e nell’elogio da parte di un maiale della superiorità degli animali sugli uomini, parodia esplicita delle celebrazioni umanistiche della dignità dell’uomo. Sull’esempio del modello di Apuleio, il narratore si sarebbe dovuto trasformare in asino, percorrendo quindi una sorta di cammino iniziatico alla rovescia. - Molto vivace è la novella Favola, più nota con il titolo di Belfagor arcidiavolo. La trama, decisamente misogina, ha per protagonista un demonio he viene sulla terra e si sposa, e dopo una serie di vicende buffe e grottesche, impara a proprie spese quanto sia più difficile sopportare le grinfie di una moglie che i dolori dell’Inferno. - Sarebbe stato scritto, nel 1524, il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Lo scrittore si pronuncia per una lingua letteraria basata sul fiorentino vivo (attuale), che è considerato superiore ad ogni altro volgare, sia per la finezza e ricchezza del lessico, sia per l’armonia della pronuncia. In polemica con le proposte avanzate dal Trissino, sulla base del De vulgari eloquentia dantesco, in favore di una lingua italiana sovraregionale, l’autore immagina di dialogare con lo stesso Dante, il quale mette in burla la tesi trissiniana e addirittura sconfessa il proprio libro sull’eloquenza volgare. L’opera prefigura, nell’ambito delle cinquecentesche discussioni sulla lingua, una tesi opposta a quella che sarà sostenuta dal Bembo nelle Prose della volgar lingua, che raccomanderà l’uso del fiorentino letterario di due secoli prima, quello di Petrarca per la poesia e quello di Boccaccio per la prosa. LA MANDRAGOLA Questa commedia viene scritta probabilmente nel 1518 e il titolo rimanda ad una radice, la mandragola appunto, che si riteneva fosse dotata di poteri afrodisiaci. È strutturata in cinque atti in prosa, preceduti da un Prologo in versi secondo lo schema della dalla canzone petrarchesca. L’interesse di Machiavelli per il teatro non nasce con la Mandragola: già prima si era occupato di commedie, Davico Bonino parla di sei commedie in particolare. La letteratura comica, tuttavia è per Machiavelli un genere inferiore, che può essere praticato soltanto quando l’avversità della fortuna obbliga a «fare el suo tristo tempo più suave». La scrittura della Mandragola è dunque soltanto un intermezzo rispetto al lavoro di storico e teorico della politica; ma è pur sempre un modo di mostrare la propria virtù, con tutto ciò che il termine implica per Machiavelli. L’impianto generale dell’opera mescola elementi del teatro di Plauto e di Terenzio con altri della tradizione novellistica e in particolare boccacciana. La vicenda è ambientata a Firenze; la scena è sempre fissa e rappresenta una piazza della città. Messer Nicia, il beffato, è l’incarnazione stessa dei difetti dei fiorentini: egoismo, scarsa cultura, presunzione, pigrizia, incapacità di agire. È per questo che, per facilitare l’identificazione fra Nicia e i fiorentini contemporanei, Machiavelli gli fa parlare un linguaggio ricco di ribomboli, ossia motti proverbiali arguti e concettosi, ed espressioni tipiche di Firenze, diverso da quello di tutti gli altri personaggi. Il giovane Callimaco ritorna a Firenze da Parigi per conquistare la bella e virtuosa Lucrezia, moglie del vecchio e stolto messer Nicia. Per aiutare il focoso Callimaco interviene il parassita mezzano Ligurio, che sapendo che Nicia e Lucrezia non possono avere figli progetta un inganno. Callimaco, seguendo i suoi consigli, finge di essere un medico e propone all’ingenuo Nicia di usare, come rimedio contro la sterilità, la radice magica della mandragola. Lucrezia, bevendone un infuso, avrà un figlio, ma l’uomo che per primo si unirà con lei dovrà morire. Per persuadere Lucrezia, entrano in scena la madre della donna, Sostrata, e frate Timoteo, il cui unico scopo è lucrare elemosine. Traviato da Ligurio con argomentazioni sofistiche, il frate convince infine la riluttante giovane, della quale è confessore, ad accettare l’indegna proposta. Frate Timoteo si traveste da medico, Callimaco si traveste a sua volta e si presenta nei panni del giovani che deve giacere con Lucrezia. Il babbeo Nicia, soddisfatto, offre infine le chiavi di casa a Callimaco e Ligurio. Callimaco può così soddisfare il proprio desiderio mentre Lucrezia prova anche lei un tale piacere che decide di continuare a incontrarsi segretamente con il giovane amante. I personaggi, come in Plauto, hanno nomi parlanti ma per antifrasi: Nicia “il vincitore” è in realtà il beffato; Callimaco, il guerriero “dalla bella battaglia”, senza Ligurio non combinerebbe nulla; frate Timoteo “colui che onora Dio” ha il culto solo del denaro; Lucrezia infine non muore per difendere la sua castità, come l’omonima eroina della storia romana repubblicana, ma trova soddisfazione nella relazione adulterina. I personaggi sono tutti molto ben caratterizzati e differenziati, soprattutto a livello linguistico: - Nicia è l’anziano marito ingannato, un uomo volgare, piuttosto sciocco e prevedibile, che si esprime con proverbi toscani e formule stereotipate. - Callimaco, l’innamorato, parla in modo artificioso ed elevato. - Ligurio, il regista di tutta la vicenda, è un lucido e spietato tipico parassita; le sue parole, di prevalente tono assertivo, sono spesso velate di ironia e percorse da doppi sensi; i suoi ragionamenti sono logici e ben strutturati. - Fra’ Timoteo, è un personaggio fortemente caratterizzato: parla con accenti ecclesiastici e quasi avvocateschi; egli incarna i vizi, dalla cupidigia all’ipocrisia, che secondo l’autore sono propri della Chiesa romana. - Sostrata simboleggia invece l’autorità della famiglia e contribuisce in maniera decisiva a chiudere le maglie della trappola di Ligurio attorno alla figlia. - Lucrezia: il suo è l’unico nome di origine latina e simboleggia la virtù: è una donna pia e rigorosa e, in un primo momento, incorruttibile. Lucrezia non riesce però a mantenere salda la propria identità e finisce per accettare ciò che ci si aspetta da lei; d’altronde mostra di non amare le situazioni ambigue e, quando cede, lo farà fino in fondo, anche più radicalmente di quanto gli altri, tranne Callimaco, desiderino. La Mandragola, sotto l’apparenza comica, cela un fondo amaro: già lo lascia intuire il Prologo. Questa ambiguità attraversa tutta l’opera, che se, per un verso, mette in scena una vicenda divertente e giocosa, per un altro verso, e più profondamente, rivela gli aspetti peggiori e più turpi del comportamento umano. Anche la conclusione dell’opera è problematica: da una parte abbiamo il lieto fine con la realizzazione del desiderio di Callimaco e il successo della burla, dall’altra il definitivo corrompimento di quello che poteva apparire l’unico personaggio positivo. apparente rispetto delle istituzioni, dimostra una sorprendente energia e abilità e instaura un potere rigidamente assolutistico. Guicciardini, sempre più pessimista circa la possibilità di agire sugli eventi storici, abbandona la politica attiva e si ritira definitivamente. Negli ultimi anni lavora con tutte le proprie energie alla Storia d’Italia, ma nel 1539 è colpito da un attacco di apoplessia, senza aver avuto il tempo di ultimarla e pubblicarla. Muore nel 1540. IL PENSIERO Una letteratura legata all’esperienza concreta. Dei tantissimi scritti di Guicciardini, nessuno (tranne la Storia d’Italia) è destinato alla pubblicazione: sono tutte opere rivolte ad un pubblico ristrettissimo o addirittura scritte esclusivamente per se stesso. Ciò significa che per Guicciardini la letteratura non ha un valore autonomo. Se anche un politico appassionato e pragmatico come Machiavelli aveva potuti, sia pure soltanto per disacerbare l’animo ferito da tante delusioni, volgersi alla poesia e al teatro, Guicciardini non è uomo da indulgere in tali considerazioni; inoltre, quando si manifesta tragicamente il fallimento del suo disegno politico, egli si dedica piuttosto alla scrittura storica, per meglio comprendere e illustrare il significato degli avvenimenti da lui vissuti nel ruolo di protagonista. La letteratura per Guicciardini è discorso sempre concreto e autobiografico: - O nasce nel vivo di una realtà storico-politica in cui egli stesso è attore e spesso protagonista, e a questa realtà si rivolge per esaminarla e interpretarla - O tratta di questioni ed eventi personali, giungendo magari per loro tramite a considerazioni generali, ma mai così astratte da essere avulse da quegli eventi. Spirito attento e riflessivo egli è portato sempre a raccogliersi in se stesso e ad interrogarsi sul significato delle proprie azioni e della propria vita, per ricavarne massime di valore universale. Se gran parte di questa riflessione è concentrata negli aforismi dei Ricordi anche le opere politiche e storiche presentano frequenti pause riflessive: soprattutto nella Storia dell’Italia, cui lo scrittore lavora negli ultimi anni di vita, troviamo vere e proprie massime e riflessioni che talora riprendono puntualmente quelle dei Ricordi, e talvolta potrebbero quasi essere estrapolate dal discorso storico e venire inserite nella precedente antologia di aforismi. È una sorta di osmosi che lega la parte personale e riflessiva dei Ricordi con le altre opere, ossia lega il Guicciardini auto-riflessivo al Guicciardini storico- politico, sulla base di un comune atteggiamento di lucidissima e attenta adesione all’esperienza concreta. La politica e la storia. La visione del mondo di Guicciardini trova radice nella sua esperienza di uomo politico. In quanto tale, come Machiavelli, riconosce con lucidità le debolezze e le incongruenze delle istituzioni fiorentine, nell’ambito di una dissestata realtà politica italiana, e disegna e vagheggia una possibile riforma, che possa adeguare lo Stato di Firenze al modello di una Repubblica aristocratica, capace di evitare da una parte i rischi della monarchia e dall’altra quelli della democrazia. Ma Guicciardini non tarda a rendersi conto che simili schemi astratti non possono essere imposti nella realtà: troppe sono le variabili e i mutamenti imprevedibili. Spirito assai più freddo e più lucido di Machiavelli, conoscitore profondo dei meccanismi politici e dei sistemi di potere degli Stati del tempo, Guicciardini sa bene che non avrebbe senso alcuno fare ricorso allo slancio eroico individuale: non c’è spazio per un principe coraggioso e virtuoso. La storia è per lui una realtà complessa e inafferrabile, fatta di infiniti elementi che mutano in continuazione e si dispongono in aggregati sempre nuovi e quindi sostanzialmente imprevedibili. E se anche, come pensava Machiavelli, la sostanza umana resta sempre la medesima, ciò che è contingente, ossia l’insieme degli eventi concreti che si svolgono nella storia, è in tal modo mutevole, che non è possibile trarre alcun insegnamento dal passato o formulare alcuna previsione per il futuro. Viene così a cadere il significato profondo che assumeva per Machiavelli lo studio dell’antichità classica, che secondo Guicciardini non può valere più come modello sicuro per comprendere i fatti del presente. Cade anche la sostenibilità di qualunque schema che pretenda in astratto di dare un senso agli eventi storici, sottraendoli alla casualità. Si può dire che nel pensiero di Guicciardini si consumi per la prima volta la crisi dei sistemi ideologici di interpretazione del mondo. Ciò non significa che si debba rinunciare alla conoscenza in ambito storico: essa però non potrà che basarsi su un impegno rigoroso di analisi dei singoli fatti; ogni situazione dovrà essere valutata in se stessa, e non in riferimento a vicende precedenti o a modelli astratti  questo con quel particolare discernimento, frutto di razionalità, intuito, esperienza, saggezza, che Guicciardini chiama «discrezione». L’etica e la religione. Anche sul piano etico-religioso il rifiuto di ogni modello ideale di riferimento porta lo scrittore a basarsi soltanto sulla propria esperienza personale. La religione viene così vista secondo una prospettiva sostanzialmente agnostica. Guicciardini tuttavia non nega l’esistenza di Dio. Ma l’etica guicciardiniana non oltrepassa un orizzonte individuale e sostanzialmente utilitaristico. Pur senza mai scadere in un gretto egoismo, ciò che lo scrittore chiama «particulare» esprime bene quell’insieme di valori concreti, non fondati su un codice assoluto ma legati ad un’esperienza individuale, per i quali è possibile realizzare se stessi e affermare la propria dignità in un mondo dominato da forze troppo potenti perché sia possibile, sotto la loro pressione, una libertà più ampia e più alta. LE OPERE MINORI Tutti gli scritti minori di Guicciardini non sono destinati alla pubblicazione; spesso lo scrittore non si curò neppure di dar loro un titolo preciso. Questi scritti sono in numero notevole, e spesso di modesto interesse letterario. Essi possono essere raggruppati in due grandi categorie: a) gli scritti connessi con le funzioni politiche di Guicciardini b) gli scritti personali, volti a chiarire a sé e ai propri famigliari questioni e situazioni private Del primo gruppo:  Diario del viaggio in Spagna, 1512  Relazione di Spagna  Scritti sul governo di Firenze  Tre orazioni fittizie composte dall’autore subito dopo i fatti drammatici del 1527: l’Accusatoria, dove lo scrittore immagina che un anonimo esponente politico repubblicano lo accusi davanti al tribunale dei 40; la Defensoria, in cui Guicciardini si difende dalle accuse rivoltegli; la Consolatoria, ispirata al De consolatione philosophiae di Severino Boezio, dove, parlando a se stesso, trova motivi di consolazione nell’essersi ritirato dalla politica attiva. Si tratta di tre testimoni importanti perché, oltre a rivelare la cultura giuridica e la straordinaria capacità argomentativa dello scrittore, mostrano bene come egli si servisse della letteratura a scopi eminentemente pratici, per meglio comprendere e giustificare le proprie scelte e le proprie azioni. Del secondo gruppo:  Ricordanze  Memorie di famiglia  Lettere, moltissime, inviate a famigliari e amici, tra le quali sono particolarmente significative quelle con Machiavelli  A se stesso: breve testo privato di una certa importanza, steso in Spagna nel 1513. Qui rivolgendosi appunto a se stesso parla dei propri propositi di dedicarsi, invece che ai beni vani di questo mondo, ad azioni buone che possano fargli meritare il Paradiso. Questo scritto dunque testimonia una certa influenza della spiritualità savonaroliana sul giovane Guicciardini, la cui fede in Dio, che pure non esclude anche aspre e dure polemiche nei confronti della Chiesa, non verrà mai smentita in alcuna opera. Gli scritti sul governo di Firenze. Un gruppo significativo di scritti riferibili alla carriera politica dell’autore sono quelli che riguardano il governo di Firenze.  Discorso di Logrono o Del modo di ordinare il governo di Firenze (1512): qui, tratteggiando per la prima volta un proprio progetto politico, lo scrittore afferma che si deve evitare sia la tirannide sia il radicalismo democratico e apertamente ipotizza per Firenze un governo di «savi», gli ottimati, ritenendo che solo un’oligarchia possa rappresentare un valido modello di governo per la città, intermedio tra la Signoria medicea e la Repubblica popolare. È innegabile che si affermi qui un’istanza di classe, ma c’è pure l’idea che pochissimi, anche tra i nobili, siano davvero onesti e lungimiranti; in particolare l’onestà, insieme al rigoroso rispetto delle leggi, è considerata dallo scrittore la qualità essenziale di chi governa lo Stato.  Dialogo del reggimento di Firenze (1521-1526): si tratta di due libri in cui l’autore immagina che nel 1494 si svolga una conversazione alla quale partecipano il padre dello scrittore, Piero Guicciardini, Piero Capponi (rappresentante degli ottimati), Bernardo del Nero (di parte medicea) e Paolantonio Soderini (fautore del governo popolare). Mentre a Piero Guicciardini viene riservato il ruolo di moderatore, ai tre contendenti spetta la funzione di evidenziare i contrapposti punti di vista e sostenerli con adeguate argomentazioni. Il dialogo considera dapprima le tre principali forme di governo, cioè la monarchia (in cui il potere è detenuto da un uomo solo), l’aristocrazia (il potere di pochi) e la democrazia (il potere di molti), facendo prevalere in ultimo la seconda soluzione, in riferimento anche al modello della Repubblica di Venezia. L’ipotesi istituzionale proposta prevede un gonfaloniere a vita paragonabile al Doge, ma anche la concentrazione del potere decisionale nelle mani di un ristretto gruppo di ottimati, in modo che possa essere evitata la tirannica concentrazione del potere nelle mani di un’unica persona. Secondo il disegno del Guicciardini, una funzione essenziale viene attribuita al Senato, cui spetterebbe creare le leggi e trattare gli affari politici più importanti, mentre un Consiglio Grande avrebbe il compito di eleggere le magistrature, che dovranno far rispettare le leggi. Tale concezione politica non si realizzerà mai nella storia fiorentina, nella quale in modo sempre più aspro lo scontro si polarizzerà invece tra le tendenze assolutistiche dei Medici e l’estremismo dei fautori della Repubblica popolare. In effetti questa è l’opera più utopica di Guicciardini, come denuncia già la scelta della forma umanistica del dialogo: è un testo svincolato da un progetto politico immediato e tutto teso a delineare quel modello di Stato perfetto.  Del governo di Firenze dopo la restaurazione dei Medici, scritto dopo la restaurazione medicea del 1512.  Del modo di assicurare lo Stato alla casa de’ Medici (1516).  Discorsi del modo di riformare lo Stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro (1530): in quest’opera Guicciardini rinuncia ormai a qualsiasi riproposizione della florentina libertas e accetta l’assolutismo dei Medici, consigliando tuttavia di temperarlo attraverso la presenza, accanto al principe, di un elite di savi consiglieri. Guicciardini cercherà di imporre questo progetto nel 1533, quando si troverà a far parte della commisione incaricata di redigere una nuova costituzione. Le opere storiche.  Nel 1508 Guicciardini inizia a scrivere le Storie fiorentine dal 1378 al 1509, rimaste poi incompiute. Nelle prime parti dell’opera egli analizza rapidamente le vicende di Firenze dal tumulto dei Ciompi alla caduta della signoria medicea nel 1494; esamina più in modo più accurato gli avvenimenti successivi, già rivelando quell’interesse per i dettagli che contraddistingue la sua storiografia e non nascondendo la propria simpatia politica per l’ipotesi di un governo oligarchico di ottimati. In questa chiave lo scrittore dà un giudizio profondamente negativo sia su Lorenzo il Magnifico, che è presentato come un tiranno, sia su Savonarola, sia su Pier Soderini, del quale vengono stigmatizzate la debolezza e le incertezze politiche. L’opera costituisce un esempio di superamento della concezione umanistica, che intendeva il trattato di storiografia come un’elegante testo letterario; qui lo sviluppo delle argomentazioni è logico e lo stile conciso.  Cose fiorentine, che trattano del periodo dal 1375 al 1441  Commentari della luogotenenza, sulle vicende del biennio 1525-1526, che costituiscono a tutti gli effetti un primo nucleo della Storia d’Italia. Le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli Le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sono scritte probabilmente tra il 1528 e il 1530. In quest’opera, rimasta incompiuta, Guicciardini analizza i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio dell’amico appena deceduto e critica la concezione della politica e della storia espressa dal Machiavelli. Guicciardini rifiuta di condividere l’entusiasmo di Machiavelli per il mondo e le istituzioni romane; la storia per lui non è nient’altro che un intreccio casuale di eventi e quindi non può avere alcun valore educativo, in quanto le circostanze contingenti, inevitabilmente mutevoli, risultano sempre decisive: il dominio della fortuna è molto più forte di quanto pensasse Machiavelli. In tale contesto non è possibile trarre dal passato insegnamenti validi per la realtà contemporanea. Ciò non impedisce allo scrittore di accogliere con favore alcune tesi di Machiavelli: per quanto riguarda la questione dell’unità d’Italia, egli concorda pienamente individuando anche lui nello Stato della Chiesa il principale ostacolo ad un superamento del frazionamento politico della penisola. Guicciardini tuttavia mette in luce anche i pregi derivanti dalla frammentazione politica. L’opera, che non ha un carattere organico e sistematico, è però assai significativa poiché si trova a vivere in balia dei mutamenti della fortuna e della occasioni che lo invitano al male. All’instabilità della natura umana è strettamente collegata la necessità di un potere severo e violento. Benchè Guicciardini abbia condiviso in gioventù il modello oligarchico, nei Ricordi ripudia tale convinzione in base ad un’analisi attenta del contesto e del particulare. La concezione guicciardiniana della politica è in altri termini, sintomatica di un periodo storico in cui l’individuo non può commisurarsi con l’ideale, ma deve confrontarsi con il reale. Alla frattura tra pratica e teoria, tra virtù e fortuna, tra politica e ideologia, s’accompagna la scissione tra comportamento e norme morale. L’unico movente delle azioni umana è l’interesse particulare, inteso non in base ad un’ottica di arricchimento personale, ma in una prospettiva aristocratica di conseguimento dell’onore. Non si evitino dunque la simulazione e la dissimulazione se necessarie, si faccia «ogni cosa per parere buoni», si tollerino i difetti altrui, e soprattutto non ci si stanchi di agire in maniera laica per il bene del proprio simile. LA STORIA D’ITALIA Unica fra le opere di Guicciardini ad essere concepita per la pubblicazione, viene iniziata nel 1535, dopo la morte di Clemente VII e la definitiva emarginazione dello scrittore dall’attività politica. L’autore non riuscirà a compiere la revisione finale dell’opera, che tuttavia presenta un solida compiutezza formale che manca ad altri suoi scritti. Nell’opera, che è strutturata annalisticamente e divisa in 20 libri, Guicciardini esamina, alla luce delle concezioni espresse nei Ricordi, la storia italiana dalla scomparsa di Lorenzo il Magnifico nel 1492 alla morte del papa nel 1534. La materia tratta riguarda quindi la storia di Firenze nel contesto della crisi dell’Italia, considerata nel più ampio orizzonte europeo. La concezione tragica della storia italiana. La motivazione che induce l’autore a iniziare la stesura è probabilmente l’esigenza personale di riflettere sugli avvenimenti che, dopo il 1525, hanno determinato conseguenze tanto infauste per l’Italia, cancellando la possibilità di realizzare a Firenze l’ipotesi di governo che lo stesso Guicciardini aveva delineato in precedenti scritti. Ma poi, sempre più lucidamente, Guicciardini si rende conto che, per capire questi eventi, occorre risalire all’inizio del processo storico che li ha causati, ossia alla discesa in Italia di Carlo VIII nel 1494, al di fuori di qualunque pregiudizio personale. La scelta di raccontare gli eventi anno per anno, secondo un taglio di tipo annalistico, può essere interpretata come una rinuncia a sovrapporre ai fatti uno schema interpretativo, per analizzarli separatamente in modo rigoroso e obiettivo. Dalla lettura del testo emerge così la sua concezione della storia come insieme di avvenimenti specifici ed irripetibili, da esaminare nei loro dettagli sulla base di una documentazione, non acritica, delle fonti. Emerge così il ruolo dello storico e il fine della istoria  «Ma se avessimo considerato che con la lunghezza del tempo si spengono le città e si perdono le memorie delle cose e che non per altro sono scritte le storie che per conservarle in perpetuo, sarebbero stati più diligenti a scriverle, in modo che così avessi tutte le cose innanzi agli occhi chi nasce in una età lontana, come coloro che sono stati presenti: che è proprio el fine della istoria». Se l’informazione dettagliata e basata su dati, documenti e testimonianze è il fine della storiografia, si individua però nella Storia d’Italia anche una lucida e razionale interpretazione sottintesa della crisi italiana, che emerge dalla narrazione degli eventi: Guicciardini collega tali casi al venire meno dell’equilibrio tra gli stati italiani e alla contesa per il dominio della penisola tra Spagna e Francia. Secondo Guicciardini alla rottura di un equilibrio spesso non corrisponde un miglioramento, ma un deterioramento della situazione, giacchè il caos conduce all’affermazione di individui più potenti e privi di scrupoli. Le vicende narrate nella Storia d’Italia si dispongono così secondo lo schema di una grandiosa tragedia, che fa a poco a poco precipitare l’Italia dall’equilibrio pacifico dell’età di Lorenzo il Magnifico a tante guerre e violenze, fino al disastro conclusivo del sacco di Roma del 1527. Gli elementi di novità dell’opera. Già nella vastità del contenuto sono impliciti gli elementi di novità che fanno dell’opera la più originale esperienza storiografica del Rinascimento. In precedenza infatti, l’ambito della storiografia era sempre stato nettamente municipalistico (e lo stesso Guicciardini da giovane aveva scritto due testi concentrati soltanto sugli eventi relativi alla propria città); ma lo scrittore ha ormai compreso che il senso degli eventi può essere colto soltanto entro una prospettiva più ampia, poiché le vicende di Firenze dipendono da quelle italiane e queste, a loro volta, dalla politica dei grandi Stati europei. Un altro elemento di novità è che l’opera si occupa di storia contemporanea: le opere dei predecessori erano incentrate quasi sempre sulle origini remote e sulla storia antica. Guicciardini al contrario vuole capire e interpretare il presente, poiché a suo parere il passato è caratterizzato da una configurazione storica peculiare e diversa, e quindi non ha nulla da insegnarci. Significativa è anche l’ampiezza in relazione ad un periodo tutto sommato breve, soltanto 40 anni. È dunque evidente una volontà di analisi accuratissima e di adesione ai dettagli anche minimi. La stessa struttura annalistica dell’opera si spiega anche sulla base della convinzione che ogni singolo evento, ogni singolo anno, vada studiato in se stesso in ogni particolare. Notevole per l’epoca è poi il largo uso che lo scrittore fa degli archivi e delle fonti documentali. Vengono utilizzate anche le opere precedenti, spesso confrontate tra loro e apertamente discusse. In genere Guicciardini fa però riferimento all’esperienza diretta dei fatti, che ebbe modo di conoscere tutti in prima persona, trovandosi spesso anzi ad agire come fondamentale protagonista. Conoscenza diretta. Non mancano tuttavia i limiti: il principale è legato forse alla visione parziale della storia, che è concepita soltanto in chiave politico-militare, mentre mancano del tutto gli aspetti socio-economici. Il mondo della politica viene presentato come il luogo degli intrighi: e se anche qualche grande capitano emerge con il suo valore, i politici sono tutti visti, alla maniera tacitiana, come degli eroi del male. In ogni caso secondo Guicciardini la storia è fatta solo dai potenti: non c’è quasi traccia del popolo, e quando lo scrittore ne parla si nota un evidente disprezzo. La psicologia dei personaggi e la fortuna. Una significativa caratteristica di quest’opera è la fittissima presenza di discorsi e di sentenze, secondo il modello di Tucidide. La storia, per Guicciardini, è fatta da singoli individui e i loro discorsi hanno un significato importante per chi voglia comprendere gli eventi; coloro che parlano ci fanno capire le loro intenzioni, le debolezze, le paure e i desideri: tutta questa complessa e individuale realtà psicologica che in ultimo determina le scelte e le azioni dei protagonisti. Se la storia è fatta da singoli individui, la loro psicologia diventa decisiva: lo scrittore si chiede ad esempio perché il sistema dell’equilibrio nell’Italia del secondo Quattrocento sia entrato in crisi: la spiegazione proposta è la debolezza caratteriale di Piero de’ Medici, amante del lusso e della magnificenza. Le decisioni dei singoli protagonisti non bastano però a spiegare la dinamica storica: questo a causa dell’ineliminabile presenza della fortuna che, per Guicciardini come già per Machiavelli, è in grado di sovvertire del tutto anche i più saggi e lungimiranti progetti degli uomini. Secondo Guicciardini, nell’episodio del sacco di Roma del 1527 ad esempio, la Lega di Cognac aveva fatto la scelta migliore impegnandosi a difendere prima di tutto Milano e Firenze; ma il Conestabile di Borbone, anziché ritirarsi rendendosi conto di non poter entrare in queste città, aveva tentato un colpo di mano disperato, decidendo di attaccare Roma con i suoi lanzichenecchi, e l’azione era riuscita per una serie di casi fortuiti. In un evento come questo insomma, la casualità e la fortuna avevano sovvertito ogni previsione basata sulla logica o anche solo sul buon senso. Lo stile e la lingua. La prosa dell’opera, controllata stilisticamente secondo i canoni umanistici, riflette la felice integrazione tra la sintesi e l’accurata analisi. Sono da mettere in evidenza la struttura fortemente ipotattica della sintassi, con la quale lo scrittore tende a organizzare logicamente in periodi anche complessi la svariata mole di elementi che si condensano intorno a un fatto, e l’uso molto frequente delle strutture disgiuntive causali (o perché…o perché), che mirano a indicare la molteplicità delle possibili cause o alternative che possono aver determinato un evento. La lingua tende ad applicare gli insegnamenti del Bembo, ma più per un’esigenza di chiarezza che per una rigida adesione ai canoni bembeschi. Alla tensione appassionata, all’argomentazione serrata e all’espressività mossa del Machiavelli si contrappongono le considerazioni bilanciate attraverso cui il Guicciardini tende a risolvere in pacatezza i contrastanti aspetti della realtà, inaugurando una storiografia al tempo stesso attenta ai dati reali e di impianto razionalistico. L’opera non è introdotta da un proemio vero e proprio né da un’epistola dedicatoria; la funzione introduttiva è svolta dal capitolo iniziale, nel quale l’autore presenta l’argomento e il fine dell’opera. Guicciardini intende raccontare le vicende italiane contemporanee, a partire da un avvenimento cruciale (la discesa in Italia di Carlo VIII re di Francia nel 1494) che, favorito dalla condotta e dagli errori dei sovrani italiani, segna l’inizio delle «calamità» dell’Italia del Cinquecento. Al racconto storico si intrecciano le riflessioni personali dell’autore, per il quale hanno un ruolo centrale nella crisi italiana da un lato i turbamenti prodotti dalla fortuna , dall’altro le responsabilità dei governanti nella penisola. Nella prima parte del capitolo, esponendo l’argomento e il fine dell’opera, l’autore pone subito in primo piano la questione del rapporto tra virtù e fortuna: diversamente da Machiavelli, per il quale i due termini sono in rapporto dialettico, Guicciardini proclama la supremazia della fortuna sulla virtù. Egli affida ai fatti narrati un ruolo di dimostrazione esemplare, per affermare non la possibilità di azione degli uomini, ma al contrario la totale imprevedibilità del destino. Ad ulteriore dimostrazione del pessimismo guicciardiniano si può notare come l’unico aspetto della virtù messo in luce sia quello negativo dei cattivi regnanti, la cui condotta, ingiustificabile a livello razionale, è una delle cause principali della catastrofe italiana. Petrarca, Carlo Bembo risponde che avrebbe fatto meglio a mettervi meno dottrina e a perfezionare invece la propria lingua e il proprio stile. Il libro 3 infine costituisce una sorta di grammatica normativa della lingua volgare, corredata da precise ed appropriate regole. Viene offerta una vera e propria guida alla composizione in prosa e in versi. La teoria dell’imitazione secondo Bembo. Già nell’ambito dell’umanesimo quattrocentesco era stato largamente affermato il principio dell’imitazione, ma di solito soltanto in riferimento alla letteratura latina: nell’ambito del volgare invece, non esistendo modelli precisi o poetiche rigorose, gli scrittori si servivano direttamente ognuno della propria lingua, benchè andasse già manifestandosi in diverse regioni d’Italia una sempre più evidente influenza del toscano. Così molti rimatori quattrocenteschi si rifacevano già al Canzoniere di Petrarca, ma non sistematicamente e quasi mai pedissequamente. Nelle Prose egli sostiene con decisione la tesi secondo cui per imitare proficuamente è necessario basarsi su un unico modello, individuato come il più valido nel suo genere. Se per la prosa latina indicava come modello Cicerone e per la poesia Virgilio, in modo analogo Bembo propone qui l’imitazione di Boccaccio per la prosa e di Petrarca per la poesia. Questa proposta è rigorosamente normativa: Bembo non si limita a dare delle valutazioni critiche sui grandi scrittori del passato, ma disegna un preciso modello linguistico-stilistico che dovrà essere seguito da ogni scrittore. Dunque conformità ad una norma precisa, che rende impossibile qualunque arbitrarietà da parte di chi ne utilizzi il modello. Dalla lingua bembiana, che si caratterizza per l’armonia, l’eleganza e la raffinatezza, è escluso drasticamente il lessico realistico, popolare e tecnico. L’importanza del capolavoro del Bembo. Solo dopo le Prose di Bembo è ormai lecito riferirsi ad una lingua e ad una letteratura davvero italiane: la sua opera dà inizio ad una sostanziale unificazione letteraria dell’Italia, che si andrà rafforzando nei secoli a venire e finirà inevitabilmente per surrogare quella politica, che mancherà ancora a lungo. Il risultato è una lingua fondata non sul parlato, ma sulla letteratura, che se da un lato permette la comunicazione tra gli intellettuali, dall’altro costituirà un importante fattore di esclusione per larga parte della popolazione. Nell’ambito della letteratura del Cinquecento l’influenza delle Prose è enorme, anche perché le tesi del Bembo non fanno che dare chiarezza e sistematicità teorica ad un petrarchismo latente già nella poesia di fine Quattro e inizio Cinquecento. Basti pensare alle correzioni apportate da Ariosto nella seconda e nella terza edizione dell’Orlando furioso, che sono in gran parte di tipo linguistico e si giustificano in base ad un’esplicita accettazione delle norme bembesche. A confermare ed anzi a rafforzare le indicazioni teoriche delle Prose si aggiunge poi l’esempio concreto della produzione lirica bembiana: le Rime (1530) dimostrano efficacemente come si potesse imitare la poesia petrarchesca. Accanto alle poesie costruite su un meccanico calco petrarchesco, o che insistono sui topoi famosi (come la dialettica dei contrari ad esempio) ci sono composizioni più mature, che rivelano una disposizione ad imitare non tanto la forma estetica e superficiale ma i motivi profondi della poesia petrarchesca. Le Rime ottengono un grande successo e danno la spinta decisiva al sorgere del petrarchismo. Possiamo prendere come esempio il dittico formato dai sonetti V e VI, che costituisce uno degli esempi più evidenti del petrarchismo del Bembo. In una fittissima trama di calchi, citazioni, richiami, rivivono in questi componimenti i modi della lirica del Petrarca, con esiti anche di esemplare manierismo. Nel sonetto V, il famoso Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, sono enumerate le bellezze e le virtù della donna. Con un procedimento che ricorda il plazer provenzale e attraverso un fittissimo intreccio di citazioni petrarchesche, l’autore enumera le caratteristiche fisiche e morali che fanno della sua donna un modello di perfetta bellezza. Il riferimento è al Eran i capei d’oro a l’aura sparsi del Petrarca. Dei modi petrarcheschi rileviamo in particolare: - Il senhal («l’aura» del verso 2), che è lo pseudonimo, il nome fittizio con cui viene chiamata la donna - Le metafore - Il lessico, non solo a livello di singole parole ma anche di immagini - Le antitesi - Il ritmo binario e dunque le dittologie Il sonetto successivo, il VI, è strettamente legato a questo, in quanto si passa poi a descrivere gli effetti dell’amore della donna sul poeta. LA POESIA PETRARCHISTA La maggior parte della produzione lirica del Rinascimento è di stampo classicistico ed è ispirata, secondo le norme codificate dal Bembo nelle Prose, al modello del Canzoniere del Petrarca, già assunto come punto di riferimento da molti rimatori in volgare del secolo precedente, che però erano assai meno rigidi ed ammettevano anche altri modelli. Le caratteristiche della lirica del Cinquecento rinviano così da vicino all’esempio del Bembo che i suoi cultori vengono anche chiamati bembisti. > Sul piano contenutistico, un elemento importante è la concezione spiritualistica e platonica dell’amore, derivata in particolare dagli Asolani. > Sul piano formale abbiamo la tendenza a raccogliere a disporre ordinatamente le liriche nella struttura di un organico canzoniere , entro la quale viene spesso definito, in conformità con il modello petrarchesco, un itinerario spirituale che si conclude generalmente col pentimento del poeta. Le forme metriche usate sono poche, e sono quelle dell’ambito di quelle rese canoniche dal Petrarca: il sonetto, poi la canzone e più raramente il madrigale. > Ma è sul piano linguistico e stilistico che l’imitazione di Petrarca, tramite le indicazioni e gli esempi di Bembo, diventa addirittura pedissequa: vengono ripresi puntualmente moduli stilistici e retorici (antitesi, ritmo binario), schemi sintattici, nessi metaforici, scelte lessicali del RVF. L’aspetto deteriore del petrarchismo è legato proprio a questa mancanza di originalità, che porta addirittura certi epigoni ad una sterile e meccanica ripresa dell’originale petrarchesco. Contro tale abuso delle teorie bembesche, trasformate presto in una sorta di moda tanto raffinata quanto artificiosa, si indirizzerà la vivace polemica di autori anticlassicisti come Aretino e Berni. Il petrarchismo si afferma praticamente in tutta Italia: i centri più importanti li troviamo in area veneta (più direttamente influenzata dal Bembo) (Gaspara Stampa), padana (Matteo Maria Bandello, Bernardo Tasso), romana (Michelangelo Buonarroti, Vittoria Colonna), e meridionale. Si può dire che intorno alla metà del secolo tutti gli intellettuali e i cortigiani sapessero comporre delle rime petrarchesche. Il dominio del petrarchismo tenderà poi lentamente a declinare: l’equilibrio fra la «gravità e la piacevolezza» teorizzato nelle Prose bembesche si spezzerà in coincidenza con la crisi dei valori rinascimentali. Luigi Tansillo. 1510-1568. Compie gli studi a Napoli e qui è cortigiani presso varie famiglie nobili. È coinvolto in viaggi e vicende belliche e negli ultimi anni di vita riveste la carica di capitano della giustizia. Scrive: - I due pellegrini Un’ecloga amorosa di ispirazione classicistica - Il vendemmiatore poemetto erotico in ottave dove emergono anche toni licenziosi, ma senza malizia, dettati da una sensibilità popolare che avvicina l’opera alle raccolte di strambotti - Alcuni Capitoli in terza rima - La balia e Il podere due poemetti sempre in terza rima - Le lagrime di san Pietro, poema religioso di 15 canti in ottave dove sono mescolati, come avverrà poi nel poema del Tasso, toni epici e lirici - Canzoniere è il suo capolavoro, di stampo petrarchista, comprendente ben 426 componimenti, soprattutto sonetti. Tansillo è considerato il caposcuola dei petrarchisti napoletani. Pur accettando sostanzialmente, sul piano linguistico, la proposta di Bembo, egli scrive testi che si distinguono per una forte accentuazione della sensualità e della passionalità, per i toni a volte cupi, per un intenso pittoricismo, e sul piano stilistico per un gusto dei netti contrasti, per sottigliezza concettuale e per le forti allitterazioni  si tratta di tutta una serie di elementi che sembra indirizzare la poesia di Tansillo già verso una sensibilità prebarocca. Galeazzo di Tarsia. 1520-1553. Nasce a Napoli ma vive in Calabria. Il suo Canzoniere piacerà molto a Foscolo, che ne riprenderà alcuni versi nelle proprie poesie. Personalità molto forte e appassionata, Galeazzo si esprime in uno stile vigoroso e drammatico, con toni spesso gravi e severi. Nella sua poesia, lontanissima dell’idillio, emergono accenti platonici di derivazione bembiana, ma vi si esprime soprattutto una forte e plastica immaginazione, la quale dà corpo a metafore spesso intensamente drammatiche, che rielaborano in modo originale gli spunti di Petrarca. Reminiscenze petrarchesche abilmente rifuse in espressioni decorosamente patetiche e dolenti troviamo anche nei tenerissimi versi per la giovane moglie morta. Particolarmente significativi per la loro originalità nell’ambito del petrarchismo cinquecentesco sono anche i versi che Galeazzo dedica all’Italia, dove si rivela un’implicita e dolorosa consapevolezza della decadenza politica che essa sta attraversando. Bernardo Tasso. 1493-1569. Bernardo Tasso, padre del Torquato, nasce a Venezia. Entrato al servizio dapprima di Guidobaldo II della Rovere ad Urbino, poi dagli Estensi a Ferrara e infine dei Gonzaga a Mantova, viene nominato dal principe Guglielmo Gonzaga governatore di Ostiglia, dove muore nel 1569. Importante per la storia del genere epico-cavalleresco è il poema di 100 canti di ottave Amaldigi, derivato da un romanzo spagnolo in prosa, l’Amadis de Gaula, pubblicato a Venezia nel 1560. Qui Bernardo Tasso, in ossequio alle esigenze di unità affermate dalle poetiche aristoteliche, cerca di evitare l’eccessiva proliferazione di avventure e personaggi propria della tradizione cavalleresca, incentrando la narrazione sulle vicende di un solo personaggio, Amadigi appunto, e coniugando le azioni romanzesche con i principi dell’epos classico. Il suo capolavoro è però costituito dall’ampia raccolta di versi, le Rime, suddivisa in 5 libri a seconda dei temi e delle forme metriche, pubblicata in forma definitiva nel 1560. Il petrarchismo del Tasso, che nelle rime giovanili era più marcatamente bembesco, si caratterizza in seguito per una forte impronta classicista, sia a livello metrico sia contenutistico. È una lirica più varia e inquieta rispetto al compatto organismo del petrarchismo classico di origine bembiana: - Viene dissolta la forma stessa del canzoniere, cioè della raccolta organica e unitaria di poesie, sostituita da una serie di testi distinti in base ai temi e al metro - Emergono poi temi nuovi e inediti, come quello dell’amore coniugale - Molto spazio è dato poi alla produzione encomiastica ed occasionale, rispondente alle esigenze di committenza dell’ambiente cortigiano. Nonostante il petrarchismo e l’ostentato classicismo dello scrittore, si rivela in questi versi una sensibilità ormai non più pacatamente umanistico-rinascimentale, ma già così tesa ed inquieta che si è portati a scorgervi un preannuncio di quella che sarà la poesia drammatica del figlio Torquato. MICHELANGELO BUONARROTI Celebrata già dai contemporanei come il punto culminante dell’arte del Rinascimento, l’opera di Michelangelo ne rappresenta anche, per molti aspetti, la conclusione. Le sculture, i dipinti e le architetture di Buonarroti sono grandemente ammirati nel Cinquecento, proprio in quanto considerati superiori ai modelli classici e alle creazioni della natura stessa. La lunga durata della sua vita (90 anni), eccezionale per quei tempi, gli permette di percorrere il lungo arco di storia che va dalla Firenze di Lorenzo il Magnifico all’età della Controriforma; Michelangelo, educato nell’ambiente neoplatonico fiorentino di fine Quattrocento, andrà continuamente e tormentosamente rinnovando la propria arte, giungendo ad esprimere sia la piena maturità del Rinascimento, sia in ultimo il dramma della sua crisi. Il suo Canzoniere, pubblicato postumo nel 1558, sostituisce il tradizionale schema oppositivo delle rime in vita e in morte dell’amato a una bipartizione che distingue le rime d’amore in memoria del marito dai componimenti spirituali, pur conservando una profonda armonia interna. Tutte le poesie, che sono in prevalenza sonetti, rivelano uno spirito malinconico e una profonda e intensa religiosità; in toni di forte e vigorosa ispirazione cristiana, i versi della Colonna anticipano i modi solennemente religiosi di certa poesia dell’età della Controriforma. Nel sonetto 6 ad esempio, la poetessa sviluppa il tema della notte come momento positivo che, attraverso il sogno, le consente di ritrovare il marito defunto, in opposizione all’alba, che ridona luce e calore al mondo, ma riporta lei alla realtà del dolore per la morte dell’amato. Per lei la notte non «appanna» gli occhi, ma porta luce. L’antitesi più profonda è tra il «sonno» che mitiga il dolore e apre le porte all’incontro in sogno con l’amato, e la coscienza che dolorosamente si risveglia all’alba riportando l’autrice alla realtà del lutto. La notte e la morte sono invocate come «porte» che conducono all’aldilà in cui brilla il «sol» dell’amato: dalla sua luce, che è la luce spirituale della salvezza, la poetessa desidera essere illuminata. È da notare che il v. 11 «odiar la vita e desiar la morte» ricorda e ricalca il v. 6 del sonetto 332 del RVF di Petrarca: «odiar vita mi fanno, et bramar morte». Gaspara Stampa (1523-1554). Di ispirazione e stile assai diversi da quelli della Colonna sono le liriche dell’’altra maggiore poetessa del secolo, Gaspara Stampa. Nata a Padova da famiglia milanese, si trasferisce a Venezia; praticando il canto e la musica, conduce un’esistenza libera ed elegante, probabilmente da cortigiana, frequentando letterati e gentiluomini. Muore colta da una grave malattia. Le sue Rime sono 331 liriche pubblicate a Venezia nel 1554, senza essere particolarmente apprezzate dai contemporanei. Anche in questo caso la distinzione delle rime in vita e in morte viene meno, e al suo posto troviamo la contrapposizione tra i momenti felici della passione amorosa e il dolore dell’abbandono. Il mito di Gaspara Stampa esploderà in epoca romantica, nutrito anche dalla morte in giovane età della poetessa, e farà sì che ella venga ritenuta una donna infelice ed esclusivamente dedita, nella propria breve vita, all’amore. Letture più recenti ed attente vedono nelle rime della poetessa l’effusione di un’anima sensibile, lontana da profondi problemi spirituali, che si esprime secondo gli stilemi del tempo, ma anche con inconsueta sincerità e immediatezza. Il pregio maggiore dei suoi versi è forse da ricercare nella loro tenue e malinconica musicalità: segno evidente di una precisa attenzione al rapporto tra parola e musica è la fitta presenza di madrigali, componimenti poetici appositamente predisposti per essere cantati, dove la Stampa manifesta appeno la sua raffinata abilità compositiva. Notevoli anche alcuni sonetti, sospesi tra il petrarchismo e un delicato sentimentalismo di gusto quasi popolare. Nel sonetto 3 delle Rime la Stampa sviluppa il tema dell’amore non corrisposto. Un crudele destino la costringe ad amare chi la disprezza e a odiare chi la ama: questo del resto è un tratto tipico dell’amore. Veronica Gambara (1485-1550). Nasce nei pressi di Brescia. È al governo anche del piccolo stato di Correggio. Fra i suoi corrispondenti e amici si annoverano personaggi di rilievo come Bembo, Bandello, Aretino, Bernardo Tasso. I suoi 67 componimenti poetici, alcuni dei quali appaiono già sparsamente in alcune sillogi del secolo, verranno per la prima volta riuniti e stampati in un unico volume di Rime nel 1759 a Brescia. Per la finezza dell’elaborazione formale la Gambara dimostra di avere pienamente assimilato le indicazioni e il modello petrarchista di Bembo. Forse i suoi testi più validi non vanno ricercati nelle liriche d’amore rivolte al marito, ma nei componimenti in ottave, che costituiva una forma metrica assai raramente usata nella poesia lirica, dove la poetessa affronta temi abbastanza inconsueti, come quello della patria. Tullia d’Aragona (1510-1556) Singolare è la figura di questa poetessa che nasce a Roma e riceve una raffinata educazione letteraria e musicale, ma che ben presto intraprende la professione di cortigiana. Nel 1547 pubblica a Firenze le proprie Rime. Trascorre gli ultimi anni a Roma, dove appunto muore. I suoi versi trattano soprattutto dell’amore, considerato nei suoi diversi aspetti, ora felici ora infelici, ora sensuali ora spirituali. Spesso la poetessa adotta un tono di sapiente e misurata civetteria, che si spinge talora fino all’impudenza, come nella critica al rigorismo morale di un predicatore che aveva chiesto di vietare le feste in maschera e i balli. Notevole è anche il Dialogo dell’infinità d’amore, che rivela una buona conoscenza della trattatistica amorosa del tempo (Bembo, Equicola) da parte della scrittrice: dialogando con Benedetto Varchi, qui sostenitore di una teoria aristotelica dell’amore, Tullia, pur facendo spesso riferimento alla propria esperienza di cortigiana, prende posizione per una teoria platonica, distinguendo tra l’amore mondano che mira a soddisfare semplicemente il desiderio e quello dei nobili spiriti, il quale è «tal che di due diventino un solo» IMITAZIONI E RIFACIMENTI DEI TESTI DEL MONDO CLASSICO Se l’autorità del Bembo determina in chiave di imitazione petrarchesca le caratteristiche della lirica cinquecentesca, negli altri generi letterari i modelli sono cercati, anche in connessione con la Poetica di Aristotele, nelle letteratura greca e latina, sulla base della quale vengono codificate regole precise e normative. Una conseguenza di questo rinnovato interesse per i classici è la tendenza non solo a imitare ma anche a riscrivere o tradurre in volgare i testi classici: si tratta di una tendenza che ha il merito di ripristinare e rendere nuovamente fruibili opere e generi in auge e successivamente abbandonati. Vengono così composti: - poemi epici, - poemetti idillici e didascalici, - ecloghe, - epigrammi, - commedie e tragedie destinate alla rappresentazione teatrale. Intanto si fa a gara nel tradurre o riscrivere in forma nuova le opere classica. La maggior parte di questi volgarizzamenti sono frutto quasi esclusivamente di erudizione, così che assai di rado il loro livello qualitativo supera la mediocrità. I maggiori autori sono:  Giovanni Rucellai (1475-1525), fiorentino, è autore di una tragedia, Rosmunda, ma è noto soprattutto per un raffinato poemetto didascalico in endecasillabi sciolti, Le api, modellato sulle Georgiche virgiliane, che inaugura un genere poetico che godrà di una certa fortuna nel corso del Cinquecento.  Luigi Alamanni (1495-1556), frequenta da giovane gli Orti Oricellari ed è amico di Machiavelli (che lo pone tra i partecipanti al dialogo L’arte della guerra). Dopo il 1522, per aver partecipato ad una fallita congiura antimedicea, si rifugia in Francia, dove è accolto presso la corte del re. Oltre a cimentarsi nel genere del poema eroico (Girone il cortese e l’Averchide) abbiamo la sua opera più significativa, il poemetto didascalico in endecasillabi Della coltivazione, dove sono descritti i lavori agricoli nel corso delle quattro stagioni dell’anno.  Annibal Caro (1507-1566), a vent’anni si reca a Firenze, dove lavora come precettore e diventa amico di intellettuali e letterati. Nel 1530 si trasferisce a Roma, dove scrive il romanzo in prosa Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, dove si narra dell’innamoramento di due giovani ingenui, sullo sfondo di una natura ricca di vita e colori. È un testo che si colloca tra la traduzione e il rifacimento dell’opera di Longo Sofista, scrittore di età ellenistica. Compone intanto versi burleschi nei quali si prende gioco della pedanteria dei dotti. Scrive poi la commedia Gli straccioni e nel 1558 l’Apologia contro messer Ludovico Castelvetro, nel quale risponde con violenza polemica alle critiche mosse a una sua canzone che celebrava la casa regnante di Francia. Caro, contro il rigido razionalismo propugnato da Castelvetro, rivendica il diritto del poeta alla libertà di invenzione, rifiutando una poesia che sia costruita freddamente a tavolino. Nel frattempo lo scrittore va componendo le oltre ottocento Lettere, nelle quali rivela una colorita vivacità espressiva e una certa vena comica. Negli ultimi anni di vita, si ritira in un podere presso Frascati, dedicandosi al completamento del suo capolavoro: la traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide, che sarà pubblicata postuma nel 1581. La traduzione del capolavoro virgiliano era stata iniziata dal Caro come lavoro preparatorio in vista della stesura di un proprio poema epico , per dimostrare la possibilità del volgare anche nel campo dell’epica . Ma la versione dell’opera finisce per impegnarlo e appassionarlo a tal punto da assorbire tutte le sue energie creative, tanto che il poema progettato non verrà di fatto mai scritto. La traduzione tuttavia non è affatto letterale, ma riproduce con grande libertà l’originale virgiliano, evidenziandone ad esempio gli aspetti patetici e drammatici o accostando forme auliche ad espressioni più consuete  l’opera verrà definita pertanto «la bella infedele». Del resto questo approccio disinvolto alla traduzione dei testi classici è caratteristico di gran parte degli autori del Cinquecento, che risolvono la questione della maggiore o minore fedeltà all’originale anteponendo la libertà espressiva del traduttore alla pura e semplice conformità al testo tradotto. IL TEATRO CLASSICISTA DEL PRIMO CINQUECENTO La nascita del teatro umanistico-rinascimentale. Fino alla fine del Quattrocento non sono molte le rappresentazioni profane. Soltanto in occasione delle feste di Carnevale sono tollerati dalla Chiesa spettacoli di argomento profano. Ma gli studi umanistici sui testi teatrali dell’antichità si fanno sempre più approfonditi, così da spingere alcuni intellettuali a sognare una ripresa della tradizione teatrale greco-latina nell’ambito della letteratura volgare. Nel frattempo l’apparizione della Fabula di Orfeo di Poliziano segna una svolta decisiva, mostrando come sia possibile, pur entro le convenzioni ancora della sacra rappresentazione, uno spettacolo della tematica esclusivamente profana e classicista. E così, nel corso dei primi decenni del Cinquecento, si assiste alla nascita di nuovi generi letterari in volgare, dapprima la commedia e poi la tragedia, ad imitazione delle grandi opere latine (Plauto, Terenzio, Seneca) e greche (Eschilo, Sofocle, Euripide). Anche l’allestimento delle rappresentazioni diventa più elaborato: le scenografie si fanno più complesse, fino a comprendere ad esempio piccole costruzioni in legno. Nella corte cinquecentesca la rinascita del teatro non religioso conosce uno straordinario impulso. Le sale di rappresentanza, i portici, i cortili e i giardini dei palazzi signorili, forniti dei necessari apparati, diventano luoghi adatti alla rappresentazione, mentre i cortigiani ne costituiscono il pubblico. L’autore è di solito, contemporaneamente, scrittore e registra; alla realizzazione delle scenografie lavorano grandi pittori, come Mantegna e Raffaello. Le motivazioni delle rappresentazioni, che vengono allestite in occasione di nozze, ricevimenti, visite di personaggi importanti e festività pubbliche o private, sono squisitamente edonistiche. Uno dei primi e più importanti eventi legati a questa nuova concezione del teatro profano è la rappresentazione, avvenuta nel 1508, della Cassaria di Ariosto, per il diletto della corte ferrarese degli Estensi: in tale circostanza viene preparato il primo sfondo prospettico di cui si abbia notizia. In occasione dell’allestimento nel 1513 della Calandria del Bibbiena sono dipinti scenari che raffigurano un’intera città e, forse per la prima volta nel teatro rinascimentale, vengono introdotti l’arco di proscenio e una decisa separazione fra il palcoscenico e lo spazio per il pubblico. Classicismo e teatro. Un primo apporto della civiltà umanistico-rinascimentale italiana alla rinascita del teatro riguarda la costruzione di edifici teatrali di gusto architettonico classico. Come per la letteratura, anche per il teatro è decisiva l’imitazione dei classici, che forniscono i modelli basilari, sia sul piano strutturale, sia su quello tematico e stilistico. Da questo punto di vista è possibile distinguere due fasi nella storia della letteratura teatrale cinquecentesca. 1. Nella prima metà del Cinquecento, pur ispirandosi ai testi antichi e rispettando spesso le regole del teatro greco- latino, gli autori del Rinascimento italiano non concentrano i loro interessi sulla codificazione rigida delle norme, così che la loro imitazione dei classici non è sempre rigorosissima. Tipica in questo senso è la Mandragola di Machiavelli, vero e proprio capolavoro del genere, ricca di vivacità e di libertà inventiva. Anche le commedie di Aretino e del Bibbiena appartengono a tale fase. 2. Successivamente, la diffusione e lo straordinario successo della Poetica di Aristotele, che alla definizione dei generi teatrali e delle loro regole dedica ampio spazio, accrescono l’interesse per la produzione destinata al palcoscenico, ma determinano anche un’eccessiva e a volte ossessiva attenzione al rispetto delle norme aristoteliche a scapito della creatività. La ripresa del teatro antico da parte degli autori italiani, al di là del livello artistico delle opere prodotte, ha importanti conseguenze nella storia del teatro europeo, tra cui la diffusione anche all’estero della commedia e della tragedia. Abbandonando le forme medievali, sommi autori come Shakespeare, i grandi dei Seicento francese (Racine, Un’altra importante tragedia del primo Cinquecento è Rosmunda di Giovanni Rucellai, dove si narra la celebre vicenda della giovane costretta del re longobardo Alboino a bere nel teschio del proprio padre; anche se l’ambientazione è medievale, non mancano i riferimenti al teatro classico, in particolare all’Antigone di Sofocle. Giovan Battista Giraldi Cinzio e Sperone Speroni si rivolgeranno, nella loro ricerca di effetti orrorosi e raccapriccianti, al modello del latino Seneca, piuttosto che a quello dei tragici greci, manifestando così in qualche modo i primi segni di una crisi di valori estetici rinascimentali. Si può dire comunque, in generale, che nessuna tragedia italiana cinquecentesca spicca per i suoi valori poetici, tranne forse Re Torrismondo di Torquato Tasso (1587). Giovan Battista Giraldi Cinzio. Il ferrarese G B G Cinzio, oltre a scrivere importanti opere di teoria letteraria e soprattutto la raccolta di novelle Ecatommiti, si dedica anche al teatro greco: nel 1541 scrive la tragedia Orbecche, e nessuna delle sue successive tragedie verrà apprezzata ugualmente a questa, che resta l’unica opera significativa dell’autore in questo genere. Si tratta di una tragedia di impianto rigorosamente classico in cinque atti, ed è la prima ad essere non solo scritta ma anche recitata. Giraldi è molto attento, nel comporre la tragedia, non solo alle esigenze letterarie e al rispetto delle unità aristoteliche, ma soprattutto alla possibilità della rappresentazione scenica. La trama dell’opera si ispira al Tieste di Seneca per la tematica truculenta e raccapricciante. Gli elementi spettacolari dell’opera, che le assicureranno un buon successo presso il pubblico, sono legati in gran parte alla crudeltà estrema ed orrorosa delle vicende rappresentate; d’altra parte l’Orbecche rispecchia puntualmente la regola aristotelica delle unità e punta anzi manifestamente a soddisfare l’esigenza di un effetto catartico sul pubblico, che dovrà identificarsi con «l’acerba e intollerabil doglia» dei personaggi, per purificarsi così dalle loro passino colpevoli.  in questo senso essa può essere considerata come una tipica opera dell’età controriformistica, in quanto, sulla base di un classicismo rigoroso legato alle norme di Aristotele, mira ad educare moralmente il pubblico. Le azioni umane non sono soggette alla fortuna, ma ad una severa e fatale giustizia superiore, che punisce il malvagio uso del libero arbitrio. L’orrore insomma viene usato con funzione pedagogica, come appunto faceva Seneca in riferimento all’etica stoica. Possiamo dunque definire Giraldi come un moderato innovatore, in quanto, in nome delle esigenze degli spettatori, critica l’imitazione troppo rigorosa del teatro antico, ammette la tragedia a lieto fine e il doppio intreccio e sostiene la necessità di introdurre elementi moderni, nonché la possibilità di inventare i soggetti, anziché ricavarli pedissequamente dai classici, in maniera tale da suscitare attenzione e maraviglia nello spettatore . Sperone Speroni. Sulla scia di Giraldi, nel 1546, Speroni pubblica la Canace, tipica espressione di tragedia dell’orrore di ispirazione senechiana. Nato a Padova nel 1500, Sperone Speroni, legato al cenacolo di Cornaro e amico personale di Ruzante, è fertile letterato e si cimenta in molti generi: le opere più originali sono i Dialoghi, pubblicati a Venezia nel 1542, e fra questi soprattutto il Dialogo delle lingue, in cui è sostenuta la pari dignità di tutte le lingue, con la conseguenza che il volgare ha la stessa dignità del latino, e quindi anche le opere scientifiche e filosofiche, tradizionalmente riservate al latino, dovrebbero essere composte in volgare. Questa tragedia nasce nell’ambito delle discussioni sulla Poetica di Aristotele, che venivano condotte nell’accademia degli Infiammati a Padova. Viene composta attorno al 1542 e pubblicata nel 1546. Si tratta di una tragedia in versi di varia misura, strutturata in cinque atti preceduti da un prologo, che si ispira ad un episodio ovidiano delle Eroidi, con riferimenti anche a Virgilio. La dea Venere vuole vendicarsi del dio Eolo, che ha perseguitato Enea. Poiché Eolo ha due figli, i gemelli Macareo e Canace, Venere li spinge, tramite Amore, a peccare d’incesto. Eolo scopre però l’accaduto e fa uccidere Canace, Macareo si trafigge a morte con il pugnale, e il neonato, frutto della colpa, viene dato in pasto ai cani. Una prima novità della tragedia di Speroni consiste nel fatto che essa si spinge ancora oltre rispetto a quella del Giraldi Cinzio, sulla via del «teatro dell’orrore» ispirato a Seneca. Una seconda novità è di tipo metrico: Speroni rinuncia all’endecasillabo sciolto, considerato il verso naturale della tragedia, a favore di una libera alternanza di settenari, quinari ed endecasillabi rimati in maniera irregolare. Molto interessante è la polemica sorta intorno all’opera, considerata immorale e poco rispettosa delle norme aristoteliche, in quanto l’incesto dei due, essendo consapevole, non renderebbe possibile da parte del pubblico né un’identificazione coi personaggi né la successiva catarsi. Attorno al 1555 Speroni difende la propria tragedia con un’Apologia rimasta incompiuta, nella quale rivendica per i poeti il diritto ad una certa libertà nei confronti di Aristotele. Tale polemica dimostra che, a partire dal 1540 e per parecchi decenni, non fosse possibile discostarsi, anche solo in minima parte, dai rigorosi precetti degli aristotelici senza inevitabilmente incorrere nella loro severa condanna. LA TRATTATISTICA E LA PROSA NARRATIVA DEL CINQUECENTO Fra i generi di derivazione classica più diffusi nel 1500 è da includere sicuramente il trattato, già usato dagli umanisti quattrocenteschi, benché quasi unicamente in latino, e poi ripreso così largamente ma in volgare dagli scrittori del primo Cinquecento, da poter essere considerato quasi il genere per eccellenza del Rinascimento. Il trattato vede una grande fortuna poiché, da un lato risponde alla vocazione educativa di una vasta parte della cultura umanistico-rinascimentale, nonché alla sua aspirazione ad una sintesi armoniosa del sapere, dall’altro, soprattutto nella sua forma dialogica, permette bene di esprimere la dimensione sociale-cortigiana entro cui tale cultura nasce e si diffonde. La maggior dei trattati cinquecenteschi ha in effetti la forma del dialogo, in conformità ai due grandi modelli classici degli scritti di Platone e di Cicerone. I trattati rinascimentali si rivolgono agli argomenti più diversi e finiscono di fatto col coprire i molteplici aspetti dell’intera cultura del tempo. Senza contare i tipi principali di trattato o dialogo, come quello politico, quello sul comportamento, quello morale, quello sull’amore e la bellezza, troviamo anche trattati militari, trattati scientifici, trattati di arte, trattati sulla lingua e sulla critica letteraria. 1. BALDASSARRE CASTIGLIONE Nel trattato Il libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione emerge a tutto tondo l’ideale morale dell’uomo del Rinascimento, ispirato agli stessi valori di equilibrio, razionalità e decoro che orientano l’estetica classicistica. Nello scritto si delinea un ritratto altamente idealizzato del perfetto cortigiano: si tratta di un’immagine che, nel momento in cui l’opera viene pubblicata, per molti versi è già stata smentita sempre più apertamente dalla realtà di grave crisi in cui versano sul piano politico e culturale le corti italiane. Nondimeno nel trattato si realizza splendidamente l’ideale della pedagogia umanistico-rinascimentale, al cui centro è l’uomo aperto al pieno sviluppo delle proprie facoltà fisiche, intellettuali e morali, nei diversi campi del sapere e delle arti: un uomo le cui stesse forme esteriori del comportamento appaiono inscindibili dalla nobiltà interiore dell’animo, che esse rivelano e manifestano. La vita e le opere Baldassarre Castiglione nasce nel 1478 in provincia di Mantova; studia greco e latino a Milano da maestri di prim’ordine e nella splendida corte sforzesca di Ludovico il Moro compie la propria educazione di gentiluomo. Dopo la morte del padre nel 1499 torna a Mantova ed entra al servizio del marchese Francesco Gonzaga, portando a termine diverse missioni diplomatiche e militari. Nel 1504, probabilmente per entrare in contatto con una corte ancora più raffinata ed elevata culturalmente, lascia i Gonzaga e si trasferisce ad Urbino, al servizio di Guidobaldo da Montefeltro e dopo la morte del duca del successore Francesco Maria della Rovere. In questi anni partecipa a missioni diplomatiche e fatti militari importanti. Nel frattempo, insieme con il cugino Cesare Gonzaga, scrive l’egloga pastorale Tirsi (1506), vari testi poetici in versi latini e in volgare e numerose epistole. Nel 1513 cura, scrivendone un prologo, la prima rappresentazione ad Urbino della Calandria del Bibbiena e intanto lavora ad una prima elaborazione del Libro del Cortegiano. Dal 1514 soggiorna sempre più frequentemente a Roma come ambasciatore del duca, conoscendo artisti come Michelangelo e Raffaello. Nel 1520 Castiglione vive il tragico lutto della morte per parto della moglie. L’anno successivo prende gli ordini minori abbracciando lo stato ecclesiastico. Nel 1528, in Spagna, fa stampare a Venezia la prima edizione del Libro del cortegiano. Colto da una violenta febbre, muore l’anno successivo a Toledo. La storia compositiva del Libro del Cortegiano L’opera è un trattato in 4 libri in forma dialogica, dedicato ad Alfonso Ariosto (cugino del poeta) e preceduto da una lettera dedicatoria al vescovo Miguel da Sylva. Benchè lo scrittore immagini di raccontare un dialogo che si era svolto ad Urbino, presso la corte di Guidobaldo da Montefeltro nel 1507, i tempi della composizione sono di molto posteriori a questa data. L’idea dell’opera inizia a delinearsi nella mente dell’autore forse già poco dopo la morte di Guidobaldo nel 1508, ma - una prima redazione viene ultimata soltanto tra il 1513 e il 1516. - Tra il 1520 e il 1521 Castiglione stende una seconda redazione, nella quale fonde i primi due libri della redazione precedente in un unico libro e aggiunge nel terzo una prima trattazione dell’amore platonico. - Al 1524 risale la terza e definitiva edizione, che vede l’aggiunta di un quarto (ultimo) libro. Dopo aver fatto revisionare il testo sul piano linguistico Castiglione affida la propria opera alla stampa: l’editio princeps esce a Venezia nel 1528 per i tipi degli eredi di Aldo Manuzio. La lunga storia compositiva del testo e la lontananza tra la data di ambientazione (il 1507) e quella di pubblicazione (il 1528), hanno fatto ipotizzare che l’idea dell’opera sia venuta via via trasformandosi nel corso dell’elaborazione, anche sulla scorta dei drammatici mutamenti politici intervenuti nel frattempo Molte cose in effetti erano cambiate dall’inizio del secolo al 1528 ed in particolare era irrimediabilmente declinata l’autonomia politica e culturale delle piccole corti come quella di Urbino. Nell’arco di pochi anni praticamente tutti i principali intellettuali italiani sono ormai entrati al servizio della Chiesa, l’unico Stato in grado di portare avanti una politica autonoma e di garantire agli scrittori la possibilità di dedicarsi in modo quasi esclusivo alla cultura. Al potere e al prestigio della Chiesa sempre più fa riscontro il declino delle altre corti e quindi la scomparsa della figura del cortigiano quale era stata vagheggiata da Castiglione. E dunque, benchè si presenti come una proposta di modelli di comportamento concreti, esso è rivolto piuttosto alla mitizzazione nostalgica di un passato ormai tramontato, come pare dimostrare la Dedicatoria, dove è ricordata malinconicamente la morte della duchessa di Urbino e di «molti altri dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita». Nello stesso tempo tuttavia il Libro del Cortegiano si propone come portatore di un ordine chiaro ed equilibrato e di regole precise di comportamento nella realtà cortigiana, anche a motivo della caotica e difficile situazione dell’Italia del primo Cinquecento. Probabilmente entrambi gli intenti convivono nel trattato, che è al tempo stesso una nostalgica rievocazione di un ambiente cortigiano migliore e una proposta per il rinnovamento delle corti italiane del tempo. Personaggi e contenuti del dialogo Al dialogo partecipano vari personaggi: Pietro Bembo, Bernardo Bibbiena, Giuliano de’ Medici, Cesare Gonzaga, Ottaviano e Federico Fregoso. Animatrice è la duchessa di Urbino Elisabetta Gonzaga; assente è il duca, ammalato.  si può vedere nell’assenza di Guidobaldo il segno della progressiva perdita di importanza della figura del signore, già evidente agli inizi del Cinquecento, legata alla trasformazione della corte da concreto organismo politico ad una sorta di superiore istituto culturale. Da questo punto di vista assume invece particolare significato l’ importanza sociale della donna come vivace e sensibile animatrice culturale delle corti del tempo, un’importanza testimoniata anche dalla grande diffusione di un petrarchismo tutto femminile. Non solo Guidobaldo, ma anche lo stesso Castiglione è assente nel dialogo, che si finge avvenuto in un momento in cui lo scrittore si trovava in missione in terra inglese. Tale espediente narrativo fa sì che la voce di Castiglione non emerga rispetto alle altre; e inoltre il dialogo, invece che a presentare tesi divergenti in contrasto tra loro, ambisce alla realizzazione di un progetto comune, ad una sintesi tra i diversi punti di vista. Castiglione immagina che una sera del 1507, in una sorta di gioco di società, Federico Fregoso proponga che si cerchi di « formar con parole un perfetto cortigiano, esplicando tutte le condicioni e particulari qualità, che si richieggono a chi merita questo nome ». L’avvio è dunque analogo a quello di altri trattati dell’epoca, come gli Asolani o le Prose del Bembo: negli spazi sereni di una corte raffinatissima un gruppo di aristocratici intellettuali decide di impostare un dialogo, allo scopo di passare il tempo in modo piacevole e insieme culturalmente fruttuoso. Il dialogo così iniziato risulterà tanto interessante che non si interromperà il primo giorno, ma continuerà per altre tre sere: ad ognuna delle quattro serate del dialogo corrisponde uno dei quattro libri dell’opera. 2. GIOVANNI DELLA CASA Il capolavoro di Giovanni Della Casa, il Galateo, si ricollega indirettamente al Libro del Cortegiano di Castiglione, ma allo stesso tempo lo ridimensione e ne indebolisce il messaggio, abbandonandone gli alti ideali per dare peso a un insieme di norme pratiche tutto sommato esteriori. Nel trattato di questo autore domina la tendenza alla normativa minuta, pragmatica, priva di un disegno alto e totalizzante: l’etica si avvia a diventare etichetta, ovvero salvaguardia della forma dei rapporti e dei comportamenti, allo scopo di insegnare a non far nulla che possa dispiacere ai gentiluomini. La vita Giovanni della Casa nasce nel 1503 da nobile famiglia. Dopo aver iniziato gli studi a Firenze si trasferisce a Bologna per dedicarsi agli studi giuridici, ma ben presto li abbandona per quelli letterari, che completa poi a Firenze. Mentre continua gli studi umanistici va scrivendo versi giocosi, amorosi e anche licenziosi, vari capitoli berneschi in terzine, parte dei testi che confluiranno nelle Rime (pubblicate postume) e il trattatello in forma dialogica Quaestio lepidissima an sit uxor ducenda (“Se si debba prender moglie”). Della Casa è legato da anni alla famiglia Farnese, che lo stima e lo protegge: dopo che un membro della famiglia, il cardinale Alessandro Farnese, viene eletto papa col nome di Paolo III egli decide, forse più per calcolo che per vocazione, di intraprendere la carriera ecclesiastica. È di questi anni un trattatello in latino, il De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, poi volgarizzato col titolo Trattato degli uffici communi tra gli amici superiori e inferiori, dove la divisione della società in ricchi e poveri è spregiudicatamente spiegata in base all’utile, anche se viene lasciato spazio anche ai valori dell’amicizia e il merito individuale. Dopo l’elezione del nuovo pontefice, Giulio III, nel 1549, la famiglia Farnese ha perso molto del proprio potere e lo scrittore, privato dei propri incarichi, lascia Roma e dopo un breve soggiorno a Venezia si ritira nell’abbazia di Nervesa, vicino Treviso, dedicandosi alla composizione del Galateo e scrivendo alcune tra le sue rime più significative. Richiamato a Roma nel 1555 dal nuovo papa Paolo IV e nominato segretario di Stato, accetta senza turbamento di ritornare nel «sempre burrascoso mare della Corte». Muore qui nel 1556. Il Galateo La parola galateo, oggi di uso comune, deriva proprio dal capolavoro del Della Casa, il Galateo ovvero dei costumi. Si tratta di un trattato suddiviso in 30 capitoli, composto nel raccoglimento a Nervesa tra il 1552 e il 1555. Esso è ricco di precetti di carattere pratico, impartiti da un anziano «idiota», cioè illetterato, a un giovane discepolo, per insegnarli a conformare abitudini e comportamenti alle usanze dell’ambiente frequentato, allo scopo di non esserne emarginato. Tale opera, a differenza di quella di Castiglione, ha fini immediatamente pratici poiché non propone modelli ideali di comportamento, ma solo concrete regole per adeguarsi alle usanze condivise e non arrecare dispiacere agli altri; d’altra parte, come già per Castiglione, le norme pratiche non sono che la naturale conseguenza e manifestazione esteriore dell’armonia e del senso della misura interiori. Benchè la struttura del trattato, secondo le intenzioni enunciate dall’autore, sia impostata in ragione di un ordine preciso (ossia - Trattazione delle abitudini che offendono i sensi - Trattazione delle abitudini che nuocciono ai desideri altrui - Trattazione delle abitudini che risultano sgradevoli all’immaginazione e all’intelletto) di fatto, nei trenta capitoli dell’opera, la materia è considerata in modo più fluido, tanto che le notazioni precettistiche si alternano a pagine narrative, spesso ispirate al Decameron. Dal capolavoro boccacciano tuttavia non vengono tratti quegli spunti avventurosi e licenziosi che tanto piacciono ai novellisti cinquecenteschi, ma i modelli di buone maniere che si possono frequentemente ricavare dalle novelle  è soprattutto lo spirito di superiore autocontrollo e decoro proprio della lieta brigata boccacciana ad incarnare l’ideale umano perseguito dall’autore. Lo stile dell’opera varia a seconda delle diverse parti dell’opera: dopo un esordio alto, attestato dal celebre e latineggiante conciossiacosaché con cui il trattato inizia, oscilla tra la medietà di un discorso didascalico e taluni spunti più vivaci e umoristici, che prevalgono in quelle pagine dove sono descritti i vizi e i comportamenti scostumati. La fortuna dell’opera L’opera incontra subito una straordinaria fortuna. Significativo è il fatto che il trattato incontra sia ammiratori entusiasti (come Parini, che lo definisce «uno de’ capi d’opera della nostra lingua») sia aspri detrattori (come De Sanctis) che vedono l’opera una testimonianza del ripiegamento del libero pensiero rinascimentale in un conformismo ideologico già tipico dell’età della Controriforma. TESTO Nei primi due capitoli del Galateo l’autore definisce lo scopo della propria opera, ossia trattare la diritta via del comportamento senza pretese filosofiche e dando per scontata la prospettiva etica. Si mette subito in evidenza il taglio didascalico e la prospettiva sociale dell’opera, che si presenta come un insieme di precetti impartiti da un vecchio a un giovane, senza pretese teorico-filosofiche ma con un fine pratico, ossia insegnare le regole dei comportamenti che si devono tenere quotidianamente in società («essercitare ogni dì in comunicando ed in usando con le genti»), per conformarsi alle usanze correnti e non risultare sgradevoli.  Essere graditi agli altri è di fondamentale importanza: non bisogna fare quello che si vuole ma ciò che gli altri si aspettano. Utile come obiettivo implicito: la prospettiva etica non è esclusa, ma data per scontata, ossia non si ragiona su un piano di modelli e principi ideali, dei quali si riconosce la superiorità, ma su un piano di pratica utilità sociale. Base dell’antropologia umanistico-rinascimentale: per Della Casa, come per Castiglione, le regole pratiche di comportamento sono conseguenza ed espressione dell’armonia e del senso della misura interiori. La prima parte dell’opera è in stile dignitoso e solenne, e il trattato prende avvio con il famoso Conciossiacosachè; è da notare qui l’elaborata costruzione del discorso, con periodi complessi, frequenti inversioni e incisi, e la ricercatezza del lessico, anche con ricorso a parole desuete e a citazioni varie. LE RIME Si tratta di 64 componimenti, in gran parte sonetti, scritti in vari momenti della propria vita e pubblicati postumi nel 1558. Si tratta sicuramente di uno dei più originali canzonieri del Cinquecento, sia sul piano dei contenuti sia sul piano formale questo è caratterizzato in particolare da un frequente ed originale ricorso all’enjambement (inarcatura), che interrompe il ritmo non solo dei singoli versi, ma persino spesso delle strofe. In generale si rileva un frequente ricorso alle figure retoriche (similitudini, prosopopee, allocuzioni), che conferiscono all’opera un tono di solenne gravità, che talvolta rischia di scivolare nell’enfasi. Le rime giovanili, pur connotate da un petrarchismo di più stretta osservanza, già si distinguono per il rigore formale e la solennità stilistica. La poesia del Della Casa gravita intorno al tema centrale dell’inquietudine interiore, da cui il poeta aspira senza successo a liberarsi, diviso sempre tra una realtà quotidiana dolorosa e insoddisfacente e un ideale di serenità difficilissimo da raggiungere. Tutto sommato marginale, rispetto alla maggior parte dei canzonieri coevi, è invece il tema dell’amore. Molti letterati del secondo Cinquecento, tra cui Tasso, considereranno il poeta un maestro, distinguendolo dai molti epigoni e continuatori di Bembo e più di due secoli dopo Ugo Foscolo si volgerà alla poesia di Della Casa come ad un modello privilegiato per i propri componimenti. TESTO Il sonetto 36 è uno degli esempi più significativi della perfezione formale della poesia di Della Casa e, in generale, della lirica italiana nel quadro del petrarchismo cinquecentesco. L’autore si rivolge alla nobildonna veneziana Isabella Quirini per tessere le lodi della sua bellezza in un’atmosfera di mitologica serenità e armonia, in cui non hanno spazio voluttà e contingenza. A livello sintattico, nei 14 versi non abbiamo un punto e tutto il discorso si regge su una sola proposizione principale, che ha diversi e successivi soggetti e un predicato che appare solo alla fine del verso 12. Le costruzioni alla latina (verbo in fine frase) sono di regola anche negli incisi. Si rifanno inoltre al latino l’uso del verbo al singolare con più soggetti e l’espressione giudice lui che ricalca l’ablativo assoluto. I riferimenti al mito sono sempre indiretti: non si citano mai i nomi dei personaggi, bensì si ricorre a perifrasi che ne evochino in sintesi l’identità e la vicenda. TESTO Il più celebre componimento di Della Casa è l’invocazione al sonno, il sonetto 54. Esso testimonia il gusto per la poesia alta, oratoria, formalmente ricercata che caratterizza come sappiamo la produzione dell’autore, e nello stesso tempo introduce alcune novità a livello metrico-ritmico rispetto alla tradizione petrarchesca e petrarchista. Il taglio oratorio è visibile, a livello logico-sintattico, nella sequenza di esortative, interrogative retoriche, esclamative, che caratterizzano l’intero sonetto. Da notare inoltre l’accumulo delle figure: ripetizione, iperbato, metafora, personificazione, litote, sineddoche, dittologia. Sul piano lessicale abbondano i termini di derivazione latina e di registro alto; a livello tematico l’invocazione al sonno è un topos antico, presente anche in Virgilio e Ovidio, nelle tragedie di Seneca e nelle Selve di Stazio, come anche in molti autori moderni come Sannazaro. Originale è invece la struttura metrico-ritmica del sonetto, che abbandona la tradizionale corrispondenza tra metro e sintassi e soprattutto tra distribuzione dei temi e misura delle strofe, in particolare nelle due quartine, costruite da un’unica sequenza logica. Ne deriva una singolare opposizione tra unicità-fluidità melodica e continue inarcature, con un ritmo sospeso e rallentato che ben si adatta al motivo di fondo del componimento, l’attesa trepidante del sonno. 3. LA NOVELLISTICA La novellistica è molto coltivata nel Cinquecento, poiché risponde alla diffusa esigenza di allietare con piacevoli racconti i banchetti, le serate e gli incontri mondani. Le raccolte si ispirano soprattutto al Decameron di Boccaccio, indicato dal Bembo come modello per i prosatori. In genere però i novellieri, soprattutto quelli di origine toscana, tendono a privilegiare una lingua d’uso, o comunque a richiamarsi ad una pluralità di modelli stilistici, anche quattrocenteschi (Pulci). Fra i numerosi novellieri del secolo emerge la figura di Matteo Bandello, mentre tra gli altri scrittori più significativi abbiamo: Il Firenzuola (1493-1543) Agnolo Giovannini nasce nel 1493 a Firenze. Per volontà del padre si trasferisce dapprima a Siena e poi a Perugia per studiare legge; dopo essersi laureato si trasferisce a Roma, dove ha modo di conoscere scrittori come Berni e Aretino, Della Casa e Annibal Caro. Innamorandosi di una donna sposata che indica con lo pseudonimo di Costanza Amaretta inizia a scrivere delle rime d’amore. Al genere della trattatistica appartiene invece l’unica opera pubblicata in vita dallo scrittore, il Discacciamento delle nuove lettere (1524), in cui polemizza con il vicentino Trissino che aveva proposto una nuova ortografia per la lingua italiana. Fra il 1523 e il 1525 scrive i Ragionamenti d’amore, nei quali inserisce in una cornice di stampo boccacciano una serie di novelle che si possono considerare fra i suoi scritti meglio riusciti. Pur accettando il modello boccacciano e senza alcuna volontà polemica Firenzuola lo trasforma sostanzialmente: in primo luogo non sceglie per la cornice una situazione di partenza eccezionale ma un evento del tutto banale (una vacanza in campagna); in secondo luogo adotta, sul piano stilistico, un livello elegante e raffinato, ma medio, proponendosi di fondere narrazione e conversazione: combinazione del genere novellistico con quello dialogico/trattatistico. La lingua, vicina al fiorentino parlato, diventa uno strumento duttile, capace di adattarsi sia alla discussione che alla narrazione. Sempre negli anni 20 scrive Dell’asino d’oro, una libera versione in dieci libri delle Metamorfosi di Apuleio. Nel 1541 scrive La prima veste dei discorsi degli animali, efficace e libero rifacimento di un’antica opera narrativa indiana, il Panciatantra, già tradotta in latino nel Medioevo e in spagnolo nel Quattrocento e per la prima volta vestita in lingua toscana. L’ambientazione del lungo racconto, nel quale sono inserite diverse storie minori ed apologhi, è trasferita dall’India alla campagna toscana. Protagonisti delle vicende sono gli animali, i cui comportamenti svelano come il mondo sia governato dalle leggi machiavelliane dell’utile, della violenza, del raggiro e della simulazione. Firenzuola presenta queste verità con un rassegnato distacco, senza entusiasmo ma anche senza sdegno. Scrive inoltre nello stesso periodo due commedie, alcune novelle linguisticamente assai vivaci e altre opere minori, come il Dialogo delle bellezze delle donne. Il Lasca (1503-1584) Anton Francesco Grazzini, cultore e difensore della tradizione linguistica fiorentina, è nel 1540 tra i fondatori dell’Accademia degli Umidi (poi Accademia fiorentina) e nel 1582, insieme a Salviati e altri dà vita alla famosa Accademia della Crusca, che diventerà presto un’istituzione nota in tutta Italia per la sua difesa e garanzia di purismo linguistico. Grazzini scrive 21 novelle, che verranno pubblicate solo nel 1700, con il titolo Le cene. L’opera è incompleta, in quanto comprende solo la prima e la seconda “cena” e parte della terza. I racconti si fingono narrati durante tre serate, negli ultimi 3 giovedì di Carnevale, e sono ambientati in una calda e animata atmosfera cittadina. Predominano i temi delle beffe e degli amori, anche se ci sono novelle orrorose, che già anticipano certi motivi narrativi che si affermano nel secondo Cinquecento. C’è un vivace gusto giocoso, con una brillante rappresentazione caricaturale della realtà fiorentina, in cui sono dominanti i toni di un humour grottesco e a tratti surreale. Giovan Battista Giraldi (1504-1573) nasce a Ferrara e studia nell’Università della propria città, laureandosi in medicina; a partire dal 1537 comincia a dedicarsi alla letteratura, assumendo l’appellativo umanistico di Cynthius, Cinzio. Ottenuta la cattedra di retorica, scrive la tragedia Orbecche (1541). Nel 1543 scrive il Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie e successivamente il Discorso intorno al comporre dei romanzi, nel quale rivendica l’indipendenza dei poemi cavallereschi dai modelli classici. Nel 1545 viene rappresentato un suo dramma satiresco, l’Egle che può anche essere considerato il primo esempio di un genere che godrà di molta fortuna nel secondo Cinquecento, ossia il dramma pastorale. Giraldi Cinzio è un importante studioso di retorica e uno degli intellettuali più significativi presso la corte estense alla metà del secolo.  Nella sua vasta opera si esprime già una mutata condizione spirituale rispetto all’equilibrio del primo Rinascimento: egli vede il mondo in forma «laberintiche» e sconvolte, come appare soprattutto nelle sue tragedie, cupe e cruente e che imitano, piuttosto che i tragici greci, il modello di Seneca. Nell’ambito del genere novellistico egli scrive gli Ecatommiti (1565), una raccolta di novelle suddivisa in dieci giornate, ognuna con dieci novelle, preceduta da un proemio e da un’introduzione, la quale contiene altre dieci novelle (vi sono poi le tre novelle raccontate alla fine di alcune giornate, per cui si arriva ad un totale di 113 novelle). Il proemio, che ricalca quello del Decameron, descrive il sacco di Roma del 1527 e racconta come la brigata dei LA LETTERATURA NON CLASSICISTA 1. L’ANTICLASSICISMO Un’area rilevante della letteratura cinquecentesca, cui appartengono scrittori spesso assai significativi, si colloca al di fuori dei parametri classicisti. In tale variegato ambito letterario rientrano sia quegli autori che si oppongono, più o meno apertamente, alle regole e agli ideali del classicismo, sia coloro che senza precisi intenti polemici si muovono al di fuori dei canoni bembeschi, e infine quegli scrittori (come gli artisti), la cui formazione non è letteraria. Alcuni scrittori si rendono protagonisti di un’esplicita e coraggiosa polemica contro gli aspetti deteriori delle poetiche classicistiche, come l’imitazione pedissequa dei modelli, l’applicazione pedante delle regole, l’adeguamento alla moda e agli stereotipi del petrarchismo. Gli anticlassicisti sono accumunati anche dal rifiuto dell’idealismo di matrice platonica, cui contrappongono un’attenzione verso gli aspetti meno nobili dell’esistenza. 2. ANTON FRANCESCO DONI (1513-1574) Fra le figure più complesse e anomale del Rinascimento italiano vi è Anton Francesco Doni, poligrafo, autore di testi di vario genere improntati a un gusto burchiellesco o comunque controcorrente rispetto all’imperante classicismo. Nasce a Firenze non da nobile famiglia ma da un umile forbiciaio. Dopo essere stato per qualche tempo al servizio del vicario ducale di Arezzo prende la decisione di entrare nell’Ordine dei Serviti, nel quale rimane fino al 1540, quando all’improvviso lascia il convento e inizia una vita errabonda per l’Italia. Dopo essere stato a Genova, Alessandria, Pavia e Milano, dal 1543 abita per qualche tempo a Piacenza, coltivando svogliatamente studi di diritto e restando in contatto con i letterati della città che, riuniti nell’Accademia degli Ortolani, si dedicano soprattutto al genere comico e giocoso. Si trasferisce poi a Venezia, contando di vivere a contatto con i tipografi e con i proventi dell’attività di scrittore: pubblica in un breve volgere di anni opere quali la Libraria prima e seconda, le Rime del Burchiello commentate, la Zucca, I Marmi e I Mondi. A Venezia Doni è l’anima dell’Accademia dei Pellegrini, ed entra in relazioni di amicizia con grandi artisti come Tiziano e Sansovino; controverso invece il suo rapporto con Pietro Aretino. Le opere principali Le Lettere 1543. Non costituiscono un vero e proprio epistolario, né tanto meno un epistolario nobile, quanto piuttosto un’opera letteraria originale e bizzarra, in cui lo scrittore proclama i propri vizi e rifiuta i valori religiosi, sferrando un violento attacco contro la società contemporanea, che viene accusata di guardare solo le apparenze; alle pagine segnate da un forte sdegno morale si alternano spunti umoristici e comici, in un linguaggio ricco di costrutti e termini propri del parlato. L’opera figurerà tra i libri messi all’Indice nel 1559. Zucca 1551. Si tratta di una bizzarra miscellanea di notizie, abbozzi di novelle e ritratti, che vuole essere fin dal titolo una presa in giro delle opere vacue e pretenziose del classicismo rinascimentale. Mondi 1552-1553. È presentato un vagheggiamento utopico, tra Platone, i Vangeli e Thomas More, di una città perfetta, dove vige la comunione dei beni e ciascuno contribuisce all’economia generale; non c’è né potere né governo, e l’unica legge è la legge di natura, che la storia e la società nel mondo reale hanno invece corrotto. TESTO L’autore immagine che Giove e Momo (personaggio mitologico che impersona il biasimo e la satira, già protagonista dell’opera satirica Momus di Leon Battista Alberti) partecipino ad una seduta dell’Accademia dei Pellegrini e che dopo averne «udito i ragionamenti» prendano per mano due accedemici, un «Savio» e un «Pazzo», e li inducano a visitare un «mondo nuovo, diverso da questo», espressione appunto dell’utopia politico-sociale di Doni. Marmi 1552. È forse l’opera più significativa di Doni. Il titolo si riferisce ai gradini di marmo del Duomo di Firenze, sui quali i fiorentini si soffermano per svolgere le loro discussioni e scambiarsi a vicenda novelle, pettegolezzi e motti arguti. L’autore finge di essersi trasformato in un uccello e di aver volato su Firenze, potendo ascoltare, non visto, questi discorsi dei suoi concittadini, che vengono puntualmente riportati. Si tratta di un testo esemplare per la straordinaria varietà degli argomenti trattati e per l’assenza di un vero centro unificatore. L’opera vuole essere innanzitutto una celebrazione dell’intelligenza, che si manifesta attraverso lo strumento della parola e della conversazione. Libraria. Si tratta di un catalogo commentato delle opere in volgare allora circolanti, che oltre a testimoniare la rapida diffusione della cultura del libro (sia manoscritto sia a stampa), costituisce il primo tentativo di compilare una bibliografia organica della letteratura italiana. TESTO. “Contro l’imitazione”. In un passo del Proemio al trattato secondo della Libraria Doni polemizza con il classicismo prendendo di mira la pratica dell’imitazione. Qui la verve polemica dell’autore mira al bersaglio non attraverso un linguaggio diretto ed essenziale, ma ricorre all’ironia e ad uno stile brillante e ricco di elementi retorici: - Serie di colorite metafore - Giochi di parole - Climax - Accumuli - Lessico: tende al registro basso e produce nell’insieme un effetto di parlato vivace e arguto, anche in virtù dell’impianto deduttivo del discorso. Una nuova figura di letterato di mestiere. Oltre che per le sue opere, che spiccano per la loro originalità nel panorama culturale del tempo, Doni merita di essere ricordato per la nuova figura di letterato di mestiere che egli incarna. Lontano per gran parte della sua vita vagabonda dalle corti e dagli ambienti in cui si diffonde la letteratura classicista, egli lavora a richiesta dei tipografi ma, con il suo caratteristico sarcasmo, condanna la propria stessa fatica e il mestiere dello scrittore, che si ritroverebbe a manipolare inutilmente il già detto, trasformando l’imitazione in plagio di basso livello per soddisfare i gusti del pubblico. La povertà e la solitudine in cui Doni vive questa nuova condizione di letterato professionista contribuiscono ad inasprire il suo umorismo: lo scrittore finisce col proiettare i propri sogni nell’immagine utopica e tutta letteraria di un mondo fuori dalla storia, come avevano fatto tanti intellettuali umanistico-rinascimentali. 3. PIETRO ARETINO (1492-1556) Rimasto celebre più per l’oscenità delle proprie pagine che per i non pochi pregi letterari delle sue opere, anche Pietro Aretino appartiene, come Doni, alla categoria degli scrittori che, per la prima volta nella letteratura italiana, cercano di conquistare l’indipendenza economica con i frutti della loro stessa professione, rivolgendosi ad un pubblico più vasto di quello cortigiano e sviluppando una produzione per lo più estranea ai canoni del classicismo. Egli impronta molti suoi scritti ad una spregiudicata vena comico-realistica, pur dimostrandosi capace di scrivere testi conformi alle regole letterarie più rigorose (come la tragedia Orazia) e altri basati addirittura su tematiche religiose. La vita. Nasce ad Arezzo nel 1492. Il cognome paterno, che egli rifiutò per contrasti con il genitore, ci è ignoto e quello tradito gli deriva dalla città natale. Il giovane Pietro lascia presto i genitori e le sorelle: già nel 1506, quattordicenne, vive a Perugia, dove entra in contatto con ambienti di letterati e scrive le sue prime opere. Conosce anche artisti ed egli stesso si dedica alla pittura, rivelando assai precocemente quella sensibilità coloristica che si sarebbe manifestata anche nelle opere letterarie. Nel 1517 lascia Perugia e si trasferisce a Roma, dove riesce a farsi un nome e a ricevere la protezione di papa Leone X Medici. L’ambiente romano, in quegli anni, coniugava in felice sintesi il classicismo ufficiale con la tolleranza e anche la simpatia per una cultura burlesca, fatta di scherzi e relazioni umane all’insegna del divertimento. Alla morte di Leone X, durante il conclave, parteggia per il cardinale Giulio de’ Medici, ma dopo che al soglio pontificio sale invece Adriano VI, che tenta un’azione riformatrice della curia in senso rigidamente morale, Aretino, facendosi interprete del generale malcontento, compone sonetti ferocemente satirici, a causa dei quali deve lasciare la città. Nel 1523 divenuto pontefice Giulio con il nome di Clemente VII, Aretino torna a Roma; si inimica però il cardinale Gian Matteo Giberti, che aveva fatto arrestare Marcantonio Raimondi, autore di alcune incisioni tratte da 16 disegni erotici di Giulio Romano, sui quali Aretino aveva scritto quelli che vengono definiti Sonetti lussuriosi. Giberti diventa così bersaglio delle provocazioni del poeta, che nel 1525 viene pugnalato in un agguato da un sicario. Creduto morto, Aretino riesce a salvarsi, ma lascia per sempre la città. Nel 1526 si trasferisce a Venezia, che diventa poi la sua residenza stabile; con il successo della sua copiosa produzione letteraria e i favori dei potenti si arricchisce sempre di più; fa vita signorile con le proprie due figlie, ha molte amanti e fra i suoi amici si annoverano pittori come Sansovino e Tiziano, che lo ritrae in un famoso dipinto. A Venezia muore nel 1556. Le opere di Aretino. Tutte le opere più importanti di Aretino sono pubblicate dopo il trasferimento a Venezia; durante il periodo romano si hanno soprattutto scritti d’occasione, legati a circostanze effimere e di scarso impegno. Si tratta di una produzione letteraria che può essere definita anarchica, sia per gli atteggiamenti spregiudicati e ribelli che per i temi aspramente polemici nei confronti dell’autorità ecclesiastica. La produzione Veneziana è invece attenta al mercato editoriale: si tratta spesso di una letteratura di consumo, che mira a raggiungere il più ampio pubblico possibile. Addirittura sembrerebbe che Pietro Aretino fosse arrivato al punto di creare un gruppo di collaboratori che scrivano per lui e con lui (naturalmente i rapporti con gli aiutanti potevano non essere sempre semplici, come ad esempio Niccolò Franco, prima amico e segretario e poi aspro avversario dell’Aretino). Le Lettere e la poetica. Nel 1538 viene stampato a Venezia il primo libro delle Lettere, cui ne seguiranno altri cinque. Il successo editoriale delle Lettere è straordinario: con grande abilità e spregiudicatezza infatti lo scrittore rende leggibile il proprio epistolario al più largo pubblico, rivoluzionando la tradizione epistolare umanistica, basata sulla dignità culturale e l’eleganza. In primo luogo le lettere sono scritte in italiano e non in latino, e lo stile, abbandonato il modello ciceroniano, appare libero ed immediato, brioso e ricco di estro. L’intero progetto delle Lettere si fonda sulla volontà dell’Aretino, perseguita per tutta la vita, di fare un’accorta politica culturale costruita sul proprio personaggio. Egli cerca il successo attraverso la letteratura, ma non puntando a scrivere opere sublimi e che si impongano per se stesse, ma attraverso l’instaurazione di rapporti personali legati ad una letteratura di consumo. Per cui nella produzione epistolare Aretino si pone al centro, in virtù della fittissima rete di relazioni che viene intrattenendo. In una epistola del terzo libro Aretino afferma con orgoglio la novità della propria scrittura epistolare, e contro chi gli rimprovera di non imitare i classici dichiara polemicamente che uno scrittore deve scrivere cose nuove ed originali. Coloro che praticano le teoria dell’imitazione sono esplicitamente definiti «rubatori» di opere altrui. La poetica anticlassicistica di Aretino è ancora più chiaramente espressa in una lettera del 1537 a Niccolò Franco: «Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la natura, se volete che gli scritti vostri faccino stupire le carte dove son notati e ridetivi di coloro che rubano le paroline affamate» (famose, ossia dei classici). Al rifiuto dell’imitazione si accompagna, nella poetica dell’Aretino, la scelta del mondo nella sua multiforme varietà e della natura come fondamento dell’arte. I Ragionamenti. Sotto il titolo comune di Ragionamenti sono compresi tradizionalmente due testi che costituiscono forse l’opera più originale e interessante di Aretino. Si tratta di due dialoghi, divisi ognuno in tre giornate: sono due scritti crudamente realistici, che deformano parodisticamente in chiave grottesca ed oscena il genere, così fortunato nel primo Cinquecento, del trattato in forma dialogica. - Il Ragionamento della Nanna e dell’Antonia (1530-1534) - Il Dialogo (1534-1536) Nel primo dialogo, due cortigiane (Nanna e Antonia), discutono su quale sia lo stato migliore per la donna e in particolare per la Pippa, la giovane figlia della Nanna. Dopo aver considerato lo stato della monaca e della moglie esse concludono che lo stato preferibile sia quello della cortigiana. Nel secondo entra in scena la Pippa, alla quale la Nanna insegna un vero e proprio “galateo” della cortigiana, spiegandole come debba comportarsi con gli uomini nelle più diverse situazioni. L’universo che qui si delinea è un universo in continuo contrasto, con la lotta di tutti contro tutti, in nome del piacere e dell’interesse: la donna deve sapersi inserire con abilità e spregiudicatezza, approfittando senza pudore di ogni occasione. La produzione teatrale. Per quanto riguarda la produzione teatrale vanno citati i tentativi abortiti di creare un poema cavalleresco (Marfisa e Due primi canti d’Angelica) ed eroicomico (Orlandino e Astolfeida). Poi abbiamo le opere scritte nell’ambito dei due generi canonici del teatro classicista, ossia la commedia e la tragedia. Fra il 1533 e il 1546 egli compone cinque commedie in prosa, dove la tradizione plautina si mescola a quella novellistica di ascendenza boccacciana nel dar luogo a vicende spesso ingarbugliate e confuse: - Il Marescalco: è la storia di una beffa ordita dal duce di Mantova ai danni di un maniscalco omosessuale - La Cortigiana: una vicenda di beffe e inganni - La Talanta: si racconta la storia di una donna spregiudicata concupita da quattro uomini diversi per età e condizione sociale - Lo Ipocrito: un vecchio padre, per sposare al meglio le sue cinque figlie, è aiutato da un parassita, chiamato significativamente Ipocrito - Il Filosofo: è la storia di un grottesco filosofo, di nome Plataristotele, che viene tradito dalla moglie. Nel 1546 Aretino pubblica la sua opera più decisamente conforme ai modelli classicisti, Orazia, una tragedia regolare in cinque atti in endecasillabi sciolti. La vicenda, desunta dallo storico Tito Livio, è quella del famoso scontro tra i tre con puntuali riprese degli stessi moduli petrarcheschi usati dal Bembo. Se si legge tale sonetto senza soffermarsi sul significato si ha l’impressione di leggere il tipico sonetto di un petrarchista Berni chiaramente ricalca i moduli classici del sonetto per rovesciarne il senso attraverso diversi espedienti e l’esito finale è un’implicita denuncia del petrarchismo come puro esercizio verbale. - Uso delle stesse metafore del Bembo, ma applicate ad oggetti diversi , così che le qualità positive si trasformano in negativo: d’oro non sono i capelli, ma il viso (ed è dunque un viso giallastro); crespa è la fronte (che dunque è rugosa) e non la chioma; le perle non sono i denti ma gli occhi. - Uso dell’antifrasi : ad esempio l’argento è usato nella poesia d’amore come segno di bellezza rara e raffinata, ma qui indica che la donna è canuta - Uso dell’ossimoro : il bel viso, le dita e man dolcemente grosse e corte - Ricorso al ritmo binario , che come sappiamo è tipico della poesia petrarchesca e petrarchista. Chiome d’argento fino, irte e attorte Senz’arte intorno ad un bel viso d’oro; fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro, dove spunta i suoi strali Amor e Morte; occhi di perle vaghi, luci torte da ogni obietto diseguale a loro; ciglie di neve, e quelle, ond’io m’accoro, dita e man dolcemente grosse e corte; labra di latte, bocca ampia e celeste; denti d’ebano rari e pellegrini; inaudita ineffabile armonia; costumi alteri e gravi: a voi divini servi d’Amor, palese fo che queste son le bellezze della donna mia. 5. LA LETTERATURA FIDENZIANA E MACCHERONICA Una delle caratteristiche fondamentali dell’anticlassicismo cinquecentesco è il rifiuto delle proposte linguistiche di Bembo, che finisce con il produrre nella letteratura del tempo una straordinaria varietà degli usi linguistici, dai dialetti alle lingue straniere fino al ricorso ai gerghi. Ciò avveniva preferibilmente nel teatro comico, dove spesso in una stessa commedia diversi personaggi parlano lingue diverse. Ma il culmine dello sperimentalismo si registra nella poesia, dove sono tentate soluzioni linguistiche singolarissime o addirittura vengono inventate lingue nuove: è il caso del fidenziano e del maccheronico. Si tratta di due lingue complementari ed esattamente speculari: per quanto riguarda la morfologia, la sintassi e la metrica il fidenziano è conforme all’italiano e il maccheronico al latino, mentre per il lessico il fidenziano si basa sul latino mentre il maccheronico ricorre all’italiano e ai dialetti.  questa mescolanza tra elementi latini e volgari fa capire che non si tratta di forme linguistiche ingenue proprie degli incolti, ma di esperimenti letterari dotti, basati sul gioco linguistico e spesso sulla parodia. Fra gli scrittori che fanno uso di linguaggi eccentrici rispetto al canone fiorentino vanno ricordati: Camillo Scroffa, che nei Cantici di Fidenzio rielabora a livello letterario la lingua pedantesca, quella lingua di cui si servivano certi maestri di scuola, fieri delle loro nozioni umanistiche di seconda mano e portati ad usare un volgare infarcito di latinismi al punto da risultare grottesco. Nasce così la «letteratura fidenziana», con evidenti intenti caricaturali nei confronti del classicismo umanistico. Michele Odasi, detto Tifi, padovano vissuto nella seconda metà del Quattrocento: egli si era rifatto la latinus grossus, il “latino grossolano”, zeppo di strafalcioni e contaminato col volgare, usato da incolti predicatori e notai, per elevarlo a strumento di un gioco letterario nella sua Macaronea, un poemetto in esametri latini. È a quest’opera che si rifà Teofilo Folengo arrivando a creare il «latino maccheronico» con cui sarà scritto uno dei testi più nuovi e affascinanti del Cinquecento. Tale fenomeno, che ha molti cultori specialmente nell’Italia settentrionale, non avrebbe oltrepassato i confini delle mode se dello strumento non si fosse appunto appropriato il Folengo. TEOFILO FOLENGO (1491-1544) Girolamo Folengo, che assumerà il nome di Teofilo all’atto della monacazione, nasce nel 1491 a Mantova da una famiglia di nobili decaduti. Nel 1508 entra nel convento benedettino di Sant’Eufemia a Brescia; importante è però il successivo trasferimento nel convento di Santa Giustina a Padova, dove Folengo ha la funzione di aiuto-dispensiere, e dunque entra spesso in contatto con i contadini, di cui può conoscere gli usi, le tradizioni e le superstizioni. Padova inoltre è proprio la città dove aveva operato Tifi Odasi e dove era praticata la letteratura maccheronica soprattutto nell’ambiente universitario: il giovane frate ne è subito affascinato e già nel 1517 pubblica una prima raccolta di scritti in latino maccheronico, il Liber macaronices. Modesta importanza hanno le opere in volgare e in latino classico di Teofilo Folengo. Qualche interesse ha l’Orlandino, un poema cavalleresco in volgare in ottava rima sull’infanzia di Orlando. Un’opera che merita di essere citata è il Caos del Triperuno del 1527, un racconto autobiografico nel quale si narrano in forma allegorica le vicende di Merlino, Limerno e Fulica, tutte e tre espressioni diverse dell’autore, che parlano ora in maccheronico, ora in latino umanistico, ora in linguaggio petrarchesco. Si tratta di uno scritto molto complesso e di non facile interpretazione dal quale risulta una contorta allegoria del mondo come gran labirinto di parole che l’autore si sforza di condurre ad unità. Le Maccheronee Le opere maccheroniche di Folengo sono note con la denominazione Opus macaronicum o Maccheronee e vengono pubblicate in quattro edizioni: la Paganini, la Toscolana, la Cipadense e postuma la Vigasio Cocaio. Il titolo completo di quest’ultima edizione sarebbe «Merlini Cocaii poetae mantuani Macaronicorum poemata», ossia Poemi maccheronici del poeta mantovano Merlin Cocai, che è lo pseudonimo dell’autore.  Nella prefazione alla prima edizione così l’autore parla di questo personaggio fittizio: «Dichiara anche il nostro poeta di essere nato da genitori contadini e che sua madre, quando era incinta di lui, cercando il tappo (cocaium) di un barile, lo mise alla luce e da questo avvenimento gli venne il nome. Si chiama Merlino per il fatto che una merla ogni giorno gli portava il cibo nella culla, perché sua madre era annegata in una botte di vino quando era ancora un neonato» Già in queste poche righe risultano chiari i due aspetti fondamentali dell’opera: il realismo contadino e l’invenzione fantastica di matrice cavalleresca (epica). A conferma che secondo Folengo il latino maccheronico possiede tali potenzialità e tale duttilità espressiva da poter essere usato un po’ per tutti i generi letterari, dal poema all’elegia alla lirica, le Maccheronee comprendono opere molto diverse tra loro: la Zanitonella, una sorta di parodia del genere dell’elegia pastorale, la Moschaea o Moscheide, poema epico caricaturale che ha come argomento una guerra fra le mosche e le formiche (il modello remoto è la Batracomiomachia dello pseudo-Omero), gli Epigrammata, 32 epigrammi maccheronici e latini e infine il Baldus, ritenuto unanimemente il capolavoro del Folengo. IL BALDUS Il Baldus è un poema in lingua maccheronica in esametri, che narra la storia di Baldo, figlio di Guidone (discendente del paladino Rinaldo) e di Baldovina, figlia del re di Francia. Il protagonista nasce a Cipada, paesino del contado mantovano, nella capanna di Berto Panada, un contadino povero che ha accolto Baldovina, che era giunta lì dopo una serie di disavventure in compagnia di Guidone, ben presto ripartito per compiere altre gesta. Fino al libro X il poema è ambientato a Cipada e narra le imprese del giovane Baldo e dei suoi bizzarri compagni, come Falchetto, metà uomo e metà cane, il furfante Cingar e il gigante Fracasso, discendente di Morgante. Cresciuto, Baldo sposa Berta e vive alle spalle di Zambello, figlio di Berto Panada e dunque contadino poverissimo. Istigato da Zambello, il podestà di Cipada Tognazzo fa arrestare e rinchiudere Baldo nel carcere di Mantova. Riuscito ad evadere con l’aiuto di Cingar, il protagonista affronta con gli amici, nella seconda parte del poema, le forze del male, rappresentate da maghi, incantesimi e streghe, in mirabolanti e fantastiche avventure che si concludono infine all’Inferno, dove si svolge una battaglia coi diavoli. Baldo finisce poi nell’antro della Fantasia, dove penetra in un’enorme zucca, destinata a contenere tutti coloro che raccontano frottole e che sono condannati a vedersi strappare i denti: fra costoro c’è lo stesso autore Merlin Cocai, che deve subire anch’egli la pena e interrompe così la narrazione. Nella prima parte del poema viene soprattutto rappresentato il mondo plebeo e contadino: appaiono personaggi rudi e grossolani, espressione di un’umanità fatta di istintività e generosità, di sensualità immediata e di bisogni materiali elementari. La rappresentazione accurata e incuriosita del mondo rurale non è tuttavia accompagnata da alcun segno di simpatia o di affetto. D’altra parte lo scrittore guarda al mondo rurale con un interesse vivissimo per quelle che chiameremmo tradizioni popolari: dalle abitudini alimentari all’abbigliamento, fino anche alle credenze superstiziose.  Tuttavia, anche nei primi libri, nonostante questo interesse per il mondo contadino, l’opera è ben lontana da una rappresentazione pienamente realistica o anche soltanto verosimile: basta a dimostrarlo la presenza di personaggi come Falchetto o Fracasso.  L’elemento fantastico diventa poi del tutto predominante nella seconda parte. L’opera è per così dire incorniciato dal trionfo della fantasia: si apre con la parola stessa («Phantasia mihi plus quam phantastica venit», ossia Mi viene una fantasia più che fantastica) e si chiude con l’immagine della zucca gigantesca e vuota, simbolo della fantasia poetica. Folengo sembra voler affermare che la letteratura è libera creazione fantastica, capace di muoversi entro spazi sempre più ampi, ed è continua riproposizione giocosa e parodica dei grandi modelli della tradizione. L’elemento carnevalesco è centrale nel Baldus, evidente sia nella «visione del mondo dal basso», con il trionfo del cibo e l’ossessiva presenza dello scatologico e dell’osceno, sia nel sovvertimento delle convenzioni sociali, con l’irrisione della cultura alta e della religione. TESTO. Le Muse maccheroniche di Folengo. La protasi, l’avvio dell’opera è una gustosa parodia delle protasi dei poemi epici: l’autore dichiara la propria poetica, fondata sulla fantasia e invoca le muse maccheroniche, non le divinità protettrici della poesia classica ma le «grasse Camene», affinché lo assistano nell’impresa di cantare la storia di Baldo; le Camene sarebbero divinità romane corrispondenti alle Muse greche, ma qui hanno i nomi delle contadine bresciane. Lo schema della protasi è proprio quello canonico, con la strutturazione in propositio (la presentazione del contenuto dell’opera) e l’invocatio. Dopo viene descritto il paese di Cuccagna, dove vivono le sue Muse, un’alta montagna da cui sgorgano «fiumi di broda» a formare laghi di «guazzetto» e dove abbondano leccornie di ogni genere. Il mondo di Folengo non è quello reale dei campi, ma un mondo alla rovescia, obbediente all’unico principio del godimento fisico. La comica e fantastica eccezionalità di questo mondo non può che esprimersi con l’iperbole e l’accumulo, tratti distintivi dello stile del Baldus: la montagna tanto alta da arrivare alla luna, i fiumi di broda, il lago di zuppa. È presa di mira soprattutto la letteratura classica: l’epica latina arcaica (le Camene rimandano a Livio Andronico), l’allitterazione in t del verso 4 richiama il famoso verso di Ennio (O Tite tute Tati, tibi tanta, turanne, tulisti!) e il viaggio sulla luna della Vera storia di Luciano di Samosata. TESTO. La beffa di Cingar contro i pecorai. Cingar, l’astuto e malandrino compagno di avventure di Balbo, beffa alcuni pastori provocando l’annegamento delle loro pecore: è un episodio noto soprattutto poiché viene ripreso da Rabelais nel quarto libro del Gargantua e Pantagruele (La beffa di Panugro). Baldo e Cingar si sono imbarcati a Chioggia per un viaggio alla volta della Turchia; sulla grossa nave da trasporto salgono anche 30 pecorai, con relativi greggi, per un totale di 3000 pecore, che subito iniziano a lamentarsi della presenza degli altri passeggeri; quando la nave è al largo Cingar si fa vendere un montone e lo scaraventa in mare, e così tutte le pecore automaticamente lo seguono nonostante i richiami dei pastori e affogano. Questo episodio è esemplare dell’atteggiamento di irrisione e disprezzo con cui Folengo guarda al mondo dei contadini. Nel prosieguo Cingar apostrofa i pastori con epiteti di ogni genere: sono così concentrati in pochi versi i motivi salienti della satira contro il villano: la superiorità del mondo cittadino (cui appartengono i colti lettori del Baldus) che è razionale, evoluto, operativo, rispetto all’irrazionalità, alla grossolana superbia e alla pigrizia del mondo contadino. In Folengo tuttavia l’aspetto giocoso prevale su quello polemico, sicchè la satira cede volentieri al gusto della beffa. La beffa è celebrata come espressione di intelligenza, e infatti Cingar porta a compimento un piano in cui l’astuzia intelligente vince sulla stupida arroganza. È particolarmente in luce in questo episodio la sapienza tecnica e retorica dei versi di Folengo: il suo latino maccheronico è già di per sé una beffa linguistica a doppio taglio, ossia sia nei confronti del latino classico, comicamente contaminato dal lessico dialettale-maccheronico, sia del volgare, altrettanto comicamente travestito con gli abiti della morfologia e della sintassi classiche. Notevole è anche l’uso spregiudicato della poesia colta: ripresa di Ovidio nella descrizione del diluvio e occorre sottolineare anche il fatto che alla fine l’intero episodio si rivela uno scherzoso esemplare di aition, tipico della letteratura alessandrina, ossia ricerca delle cause, in questo caso l’origine del nome Bebbe. 6. IL TEATRO POPOLARE E RUZANTE Benchè, per le sue caratteristiche, il genere della commedia rinascimentale sia assai vicino alla letteratura popolare, generalmente viene coltivato da autori dotti, che vi applicano le regole del teatro latino e rientra quindi nella produzione classicistica che caratterizza il periodo. Appartengono invece decisamente al teatro popolare: - I mariazi (maritaggi) in dialetto padovano (pavano) che venivano recitati in occasione di feste nuziali e rappresentavano una contesa tra prendenti rivali - Le farse senesi, rappresentate dalla Congrega dei Rozzi, costituita nel 1531 in polemica opposizione all’aristocratica Accademia degli Intronati e riservata esclusivamente ai membri delle arti. Essa praticava due generi di farse: la farsa rusticale, caratterizzata soprattutto dalla satira contro il villano, e un incrocio tra farsa la Vita di Cellini e le Vite di Vasari sono opere tipicamente rinascimentali: non si possono però definire classiciste, in quanto stile e linguaggio non corrispondono affatto ai precetti codificati da Bembo. BENVENUTO CELLINI La vita Nasce a Firenze nel 1500. È orafo e scultore ed è ritenuto uno dei maggiori artisti del Cinquecento, a metà strada tra il Rinascimento maturo e un incipiente manierismo. All’età di 13 anni comincia ad apprendere l’arte dell’oreficeria presso le botteghe di Bandinelli e di Marcone, ma già a sedici anni rivela la propria indole violenta, e coinvolto in una rissa, viene confinato per qualche tempo a Siena. Nel 1523, ancora a causa di una rissa, deve lasciare Firenze e si stabilisce a Roma, esercitando con crescente successo l’attività di orafo, sotto la protezione di papa Clemente VII. A Roma viene nominato “maestro delle stampe” della Zecca pontificia; studia anche, per trarne ispirazione, le opere e i reperti classici e la scultura di Michelangelo. Negli anni tra il 1531 e il 1534 pugnala a morte un archibugiere, assassino di suo fratello, e l’orafo milanese Pompeo de Capitaneis, suo rivale. Per tale omicidio, e per il sospetto di furto di gioielli al tempo del sacco, viene incarcerato a Castel Sant’Angelo. Rimane qui fino a quando il cardinale Ippolito d’Este non ne ottiene la liberazione nel 1539 e lo ospita a Ferrara. Nel 1540 l’artista abbandona l’Italia e si reca in Francia alla corte del re Francesco I, per il quale cesella il suo capolavoro, la Saliera, e realizza la Ninfa di Fointainebleau; il capriccioso e bizzarro amore per il dettaglio già attesta il passaggio dall’arte rinascimentale a quella manieristica. Nel 1545 ritorna a Firenze, dove nel 1549, per incarico di Cosimo de’ Medici, ultima il Perseo in bronzo e realizza successivamente altre importanti sculture. Gli ultimi anni di vita sono tormentati da rivalità artistiche, difficoltà finanziarie e traversie giudiziarie. Fra il 1558 e il 1567 scrive la propria autobiografia e lavora anche ai due Trattati sull’oreficeria e sulla scultura, ai Discorsi e ai Ricordi intorno all’arte. La figura di Cellini, assai ammirata dai Romantici, anticipa il modello dell’artista geniale e sregolato, che ritiene se stesso al di sopra di qualunque norma morale. Vasari lo definisce animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo. L’autobiografia La stesura dell’autobiografia, intitolata Vita scritta per lui medesimo, viene iniziata dopo il ritorno a Firenze, in un periodo in cui il duca Cosimo de’ Medici gli preferisce altri artisti, costringendolo ad una forzata inattività. L’opera impegna lo scrittore per molti anni e viene conclusa soltanto nel 1567, senza però essere stampata: il manoscritto è conservato oggi nella Biblioteca Laurenziana di Firenze; l’editio princeps vedrà la luce soltanto nel 1728. A partire dall’Ottocento il testo verrà suddiviso in libri e capitoli, secondo una scelta editoriale che non ha riscontro nella redazione manoscritta. La Vita è un’opera decisamente innovativa. I precedenti modelli del genere avevano infatti come punto di riferimento soprattutto le Confessioni di Agostino, puntando a tratteggiare l’evoluzione spirituale del protagonista- narratore. Cellini invece racconta le proprie gesta in modo egocentrico, iperbolico e romanzesco, ponendo il proprio io alla base della narrazione; e dunque, poiché ogni episodio viene ingigantito a scopo autocelebrativo, l’opera è sostanzialmente inattendibile come documento veritiero. L’opera attesta un disagio nel rapporto tra l’artista e la società, che dipende dal temperamento di Cellini, sempre portato ad anteporre se stesso agli altri e il proprio io ad ogni regola morale, ma nello stesso tempo descrive una nuova realtà in cui l’opera d’arte si avvia sempre più a diventare merce, con ciò determinando una diversa collocazione sociale dell’artista. Ne deriva uno dei motivi centrali, quello della solitudine e dell’incomprensione dell’artista, nonché dell’inevitabile scontro tra la sua virtù e l’ostilità del destino e degli altri uomini, che assume spesso toni di superstizioso pessimismo. Cellini, essendo un autodidatta, si esprime in modo immediato e assai vivace, facendo ricorso ad espressioni popolaresche ed elaborando strutture sintattiche spesso irregolari e zeppe di anacoluti, lontanissime dai canoni classicisti; l’autore, consapevole dei limiti della propria lingua, avrebbe voluto far rivedere l’opera dal letterato toscano Benedetto Varchi. GIORGIO VASARI Nasce ad Arezzo nel 1511; riceve una buona educazione letteraria e svolge il proprio precoce tirocinio artistico nella città natale; nel 1524 si trasferisce a Firenze, dove rimane per tre anni, frequentando botteghe di artisti. Alla cacciata dei Medici nel 1527 ritorna ad Arezzo e nel 1531 viene invitato a Roma dal cardinale Ippolito de’ Medici e ha occasione di conoscere personalmente artisti e letterati. Nel 1541, invitato dall’Aretino, vive per un anno a Venezia, dove conosce Tiziano e altri pittori. Nel 1546, a Roma, si incontra con l’anziano Michelangelo, che lo incoraggia a dedicarsi maggiormente all’architettura. Nel 1550 pubblica la prima edizione delle Vite. Nel 1554 viene chiamato a Firenze da Cosimo de’ Medici, che gli affida importanti compiti architettonici, fra cui il rinnovamento degli interni del medievale Palazzo Vecchio. L’artista affresca anche i nuovi locali, creando il celebre corridoio vasariano, che consente un collegamento segreto attraverso il Ponte Vecchio con Palazzo Pitti. Negli anni successivi Vasari viaggia ancora molto, per raccogliere la documentazione necessaria in vista della seconda edizione delle Vite (1568). Muore nel 1574 mentre sta affrescando il soffitto della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. L’opera Pur avendo scritto altre opere, Vasari deve la propria importanza in campo letterario alla stesura delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed echitettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, pubblicate una prima volta nel 1550 e poi, ampliate e perfezionate, una seconda volta nel 1568. L’opera rappresenta il primo organico tentativo di scrivere una grande storia dell’arte italiana. La narrazione poggia in gran parte sulla biografia degli artisti, secondo il concetto umanistico-rinascimentale che pone al centro di ogni creazione umana l’individuo dall’ingegno superiore, appunto l’artista. La materia dell’opera è divisa in tre parti, ciascuna dedicata ad un periodo storico significativo e preceduta da un’introduzione che ne delinea le caratteristiche: - La prima inizia da Cimabue e giunge fino al Trecento - La seconda considera il Quattrocento - La terza tratta il Cinquecento. Queste tre fasi sono viste come tappe di un continuo progresso delle tecniche artistiche nell’imitazione della natura: un progresso che con Michelangelo giunge ad una tale perfezione da rendere l’immagine artistica quasi più viva della natura stessa. Nella seconda edizione, pur senza correggere questo schema di base, Vasari inserisce le biografie di molti artisti suoi contemporanei, constatando con lucidità l’esaurimento del classicismo e introducendo efficacemente il concetto di «maniera», riferito all’arte di metà Cinquecento che, attraverso la ricerca minuziosa del particolare e l’allungamento delle proporzioni della figura, realizza un ideale di varietà, complessità e ricercatezza che si differenzia dalla rigorosa imitazione della natura che era tipica del precedente periodo. Vasari usa per primo il termine rinascita nell’accezione moderna e ha inoltre il merito di riprendere, entro una visione storica sistematica, nozioni già sparsamente avanzate da altri studiosi, per quanto riguarda ad esempio il primato della tradizione fiorentina, il ruolo determinante di Cimabue e Giotto e l’identificazione della triade Ghiberti, Brunelleschi, Donatello come asse portante della maturità della rinascita. Vasari è inoltre convinto della superiorità del disegno sulla pittura, e dunque della tradizione toscana su quella veneta. L’importanza delle Vite non consiste però nelle teorie estetiche che vi sono esposte, ma nel carattere unitario e organico dell’opera, che è in grado di presentare con uno sguardo d’insieme un’intera epoca della storia dell’arte, successiva alla decadenza prodotta dalle invasioni barbariche. La narrazione è vivacissima, ricca di spunti aneddotici e novellistici, ma anche, in genere, accuratamente documentata. Nella descrizione delle opere d’arte l’autore, da una parte, tende ad un uso frequente di iperboli e dall’altra insiste con particolare attenzione sugli aspetti tecnici e sui dettagli. Privo di una cultura specificamente letteraria, Vasari scrive con una tale originalità e vivacità espressiva e linguistica da distinguersi rispetto ai prosatori legati ai canoni bembeschi e in generale alla letteratura di derivazione classicista. LA CRISI DEL RINASCIMENTO Il secondo Cinquecento è contrassegnato dalla crisi e dal tramonto della civiltà rinascimentale. Gli Stati italiani perdono definitivamente la propria autonomia politica, passando in gran parte sotto il dominio diretto o indiretto della monarchia spagnola, sancito dalla pace di Cateau-Cambresis del 1559. La Spagna esercita un indiscusso predominio: i suoi possedimenti comprendono il Ducato di Milano, il Vicereame di Napoli, quello di Sicilia, la Sardegna e lo Stato dei Presidi, una zona costiera della Toscana che era appartenuta alla Repubblica di Siena. L’egemonia spagnola si manifesta anche attraverso l’esistenza di Stati satelliti: poiché Cosimo de’ Medici deve a Carlo V il proprio potere, anche la politica del Granducato di Toscana diventa subalterna a quella ispano-asburgica. Parzialmente al di fuori dell’influenza spagnola restano solo la Repubblica di Venezia, la cui potenza economica si va però indebolendo a causa del progressivo spostamento dei commerci lungo le rotte atlantiche e della pressione turca sul Mediterraneo, e il Ducato di Savoia, ricostruito da Emanuele Filiberto dopo un lungo periodo di dominazione francese. Poiché dunque la Spagna diventa di fatto l’arbitra della vita politica della penisola, non può non diffondersi in tutti gli Stati italiani l’assolutismo che caratterizza il suo regime, con la conseguenza di una dura repressione non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale e religioso. Tuttavia, almeno sotto il profilo economico, “l’Italia e le sue città si trovano anch’esse a beneficiare della prosperità della congiuntura e a partecipare della ricchezza della nuova Europa atlantica”. Di tale crisi del Rinascimento è evidente segno l’involuzione del classicismo, che si trasforma sempre più in arida precettistica e tende ad esprimersi, nell’ambito letterario e, più in particolare in quello delle arti, come manierismo, riprendendo cioè gli ideali artistici dell’età umanistico-rinascimentale attraverso delle “maniere”, ossia degli schemi irrigiditi di tecniche e norme tradizionali. Al radicale mutamento degli orizzonti culturali, artistici e letterari contribuisce l’inizio della Controriforma (Riforma cattolica), i cui presupposti entrano in aperto e drammatico conflitto con il pensiero degli ultimi filosofi e teorici tardo-rinascimentali, il più importante dei quali è Giordano Bruno. L’età della Controriforma prende avvio con il Concilio di Trento, convocato nel 1542 da papa Paolo III Farnese e aperto nel 1545. I lavori si protraggono per un ventennio, durante il quale la sede è provvisoriamente spostata a Bologna e si chiude definitivamente nel 1563, e l’anno successivo papa Pio IV ne ratifica i decreti. Sul piano dottrinale il Concilio ribadisce i principi della fede cattolica, condannando ad una ad una le tesi luterane; la dottrina cattolica viene sintetizzata nel documento della Professio fidei tridentina, l’adesione al quale viene resa obbligatoria non solo a tutto il clero, ma anche agli esponenti di molte altre professioni per poter svolgere le loro mansioni. Sul piano istituzionale, vengono assunte importanti decisioni per contrastare la corruzione e il malcostume da tempo diffusi nella Chiesa; si pongono condizioni per impedire il cumulo dei benefici ecclesiastici e combattere il nepotismo e la simonia; viene anche contrastata la tendenza, tipica di molti intellettuali e scrittori rinascimentali, ad intraprendere la carriera ecclesiastica per ricavarne benefici, in assenza di una vera vocazione. Nello stesso tempo sono stabilite anche misure di carattere repressivo: già nel 1542 viene riorganizzato da Paolo III un tribunale religioso, l’Inquisizione romana, secondo il modello dell’inquisizione spagnola, che ha l’incarico di indagare e processare chiunque non accetti l’ortodossia cattolica. Viene inoltre istituito nel 1559 l’Indice dei libri proibiti (Indice paolino), l’elenco ossia di quei testi basati su teorie incompatibili con quelle cattoliche, mentre viene instaurata una severa vigilanza sulle nuove pubblicazioni. La controriforma determina le nuove caratteristiche della cultura nella seconda metà del Cinquecento: alla fiducia umanistico-rinascimentale nell’uomo e all’esaltazione delle sue virtù e della sua capacità di essere creatore e fabbro del proprio destino, si sostituiscono un angoscioso senso del limite, della colpa e del peccato e all’esaltazione del libero pensiero si sovrappone un atteggiamento di rispettosa obbedienza nei confronti delle autorità, non solo il Pontefice e le gerarchie della Chiesa, ma anche i grandi autori da essa riconosciuti (Aristotele, Tolomeo). Il conflitto tra Controriforma e tardo Rinascimento fa da sfondo anche alle tensioni e alle inquietudini che turbano la vita di Torquato Tasso. La letteratura religiosa del secondo Cinquecento. La produzione di opere di argomento religioso va rapidamente accrescendosi e mutando caratteristiche nella seconda metà del Cinquecento. All’inizio del secolo e fino all’apertura del Concilio in tale produzione prevalgono i motivi del rinnovamento della vita cristiana secondo lo spirito evangelico, mentre dopo si diffondono soprattutto opere che si legano alle controversie dottrinali e dogmatiche e polemizzano apertamente con i movimenti protestanti, sulla base di una ormai chiara consapevolezza delle distinzioni tra i Luterani, i Calvinisti, gli Anabattisti e i seguaci delle teorie ritenute eretiche. Anche durante gli anni della Controriforma si esprime tuttavia una letteratura religiosa cattolica di alta dignità e per certi versi, sul piano ad esempio dello stile equilibrato e classicamente sostenuto, erede della tradizione umanistico rinascimentale. Tra gli altri occorre almeno citare il fiorentino Filippo Neri, fondatore nel 1564 dell’Ordine degli Oratoriani o Filippini, autore di Rime di carattere religioso e di Lettere. Uno dei suoi seguaci prediletti è Cesare Baronio, autore degli Annales ecclesiastici in dodici volumi, scritti per confutare l’Ecclesiastica historia dell’autore protestante Flacco Illirico, che in bella prosa umanistica espone la storia della Chiesa dalle origini fino al 1198. La letteratura politica: la ragion di stato e il tacitismo coniugale, e la forza dirompente del personaggio di Corisca, proiettino un’ombra equivoca su tutta l’opera, al punto che il cardinal Bellarmino sostenne che il Pastor fido danneggiò il cattolicesimo quanto Lutero e Calvino. Per quanto riguarda infine lo stile, si può osservare che il temperamento di Guarini è più lirico che drammatico, e quindi l’opera è percorsa da una melodia avvolgente, che anticipa il tono che sarà poi del melodramma. Dopo le polemiche di fine Cinquecento il successo dell’opera non farà che crescere nel corso del Seicento e del Settecento, non solo in Italia ma in tutta Europa. Solo in epoca romantica il gusto radicalmente mutato porterà ad accomunare nella condanna il Pastor fido e l’Arcadia di Sannazaro, accusate entrambe di aver influenzato negativamente la poesia italiana fino a tutto il Settecento: le due opere saranno considerate infatti capostipiti di quelle «pastorellerie arcadiche», false e artificiose, contro cui si batterà, in nome della spontaneità sentimentale, la cultura romantica ottocentesca. TESTO: il mito dell’età dell’oro. Si tratta del coro che segue l’atto IV del Pastor fido, ed è composto «a concorrenza» del primo coro dell’Aminta del Tasso, di cui riproduce la struttura metrica e riprende tutte le parole-rima, per rovesciarne tuttavia completamente il significato. Come quello del Tasso, anche questo coro è in forma di canzzone di cinque stanze di 13 versi e un congedo di 3 versi. Nell’edizione veneziana del 1602 il testo dell’opera è corredato di Annotazioni dell’autore, fra le quali particolarmente articolata è proprio quella che accompagna questo coro: per esplicita dichiarazione dell’autore, il coro ricalca perfettamente quello dell’Aminta sotto l’aspetto formale, al solo scopo di dire «tutto ‘l contrario di quello che disse il Tasso»; proprio nella capacità di usare gli stessi elementi linguistici, stilistici e tecnici per produrre un significato completamente opposto consistono, secondo Guarini, i pregi «di maggior fatica e maggior arte» del proprio testo e quindi le ragioni della sua superiorità rispetto al testo tassiano. La ragione profonda di questa rivendicazione di superiorità è però relativa al contenuto: i concetti del coro tassiano «sono presi in gran parte dalla quarta ecloga di Virgilio», mentre quelli guariniani si propongono come originali. Nella prospettiva moralistica e controriformistica di Guarini il vero piacere dell’amore è quello legittimo del matrimonio, in cui non c’è distinzione tra marito e amante e vigono le leggi della fedeltà e dell’onestà. Nell’ultima stanza e nel congedo del coro Guarini, in forma di autentica preghiera, invoca l’Onor, signore «de le grand’alme» e «regnator de’ regi», affinché discenda a portare la pace tra gli uomini, distogliendoli dal «mortal sonno» del peccato. Esorta infine alla virtù teologale della speranza, ribaltando ancora una volta il senso del coro tassiano, che si chiudeva col presentimento dell’«eterna notte» della morte. Nuove forme di teatro: il melodramma e la commedia dell’arte. Tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento prendono vita due nuove forme teatrali destinate a grande fortuna. Esse sono accomunate dal fatto di attribuire minore peso al tradizionale testo teatrale: a vantaggio del canto e dell’accompagnamento musicale nel caso del melodramma, e per lasciare spazio all’estro e all’improvvisazione degli attori, nel caso della commedia dell’arte. Il melodramma. Si tratta di una composizione drammatica destinata al canto e alla musica; sulla base di presupposti derivanti dallo studio della tragedia greca ed in parte ispirandosi ad alcune caratteristiche del nascente dramma pastorale, gli esponenti della Camerata fiorentina (detta anche de’ Bardi) inventano un genere del tutto nuovo, basato sul principio dell’ imitar col canto chi parla , ovvero del recitar cantando. L’innovazione viene concretizzata accompagnando con un contrappunto musicale il canto, intonato da una sola voce per volta. Il primo melodramma è la Dafne di Ottavio Rinuccini, realizzata nel 1594: l’argomento di carattere mitologico e bucolico (Dafne è la ninfa che per sfuggire ad Apollo ottiene di essere trasformata in alloro) è indizio della stretta parentela, almeno sul piano dei contenuti, fra i primi melodrammi e i drammi pastorali. Con il grande compositore cremonese Claudio Monteverdi, il cui capolavoro è La favola di Orfeo del 1607, il melodramma si arricchisce sul piano tecnico. Fin dalle origini, il problema del peso da attribuire, rispettivamente, al testo da cantare, alla musica e alla spettacolarità dell’azione scenica è centrale nel melodramma: Monteverdi riesce a raggiungere un sostanziale equilibrio tra questi diversi elementi e addirittura il livello di perfezione è tale che il genere si diffonde non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. Non bisogna tuttavia dimenticare che nella seconda metà del Seicento sempre più esplicitamente il melodramma verrà affermandosi come una forma di spettacolo piuttosto che come una realizzazione letteraria, così che la musica da una parte e la scenografia dall’altra acquisteranno sempre più rilievo ed importanza, a scapito del testo poetico; spetterà poi nel secolo successivo a Pietro Metastasio il merito di restituire prestigio e autonomia al “libretto”, ossia alla parte letteraria del melodramma. La commedia dell’arte. Si tratta di una forma teatrale recitata da interpreti professionisti (arte proprio nel senso di mestiere, professione) girovaghi che riducono il testo scritto ad un semplice abbozzo di trama, definito «canovaccio», opportunamente modificato e arricchito con l’improvvisazione durante lo spettacolo. I comici dell’arte si esibiscono nelle piazze, in occasione di fiere e mercati, o vengono invitati dai Signori a recitare nelle sale dei palazzi e dei castelli; sono dei professionisti e istituiscono un rapporto economico con il pubblico. Possono essere sia uomini sia donne ed è anche per questo motivo che la Chiesa condannerà aspramente la commedia dell’arte. Grande spazio è riservato al virtuosismo dell’attore, che possiede un repertorio di «generici», ossia di scene preconfezionate in cui il personaggio dà prova del proprio carattere; talvolta, come era già accaduto a Ruzante, si crea una vera e propria identificazione tra l’attore e il personaggio stesso, al punto che l’interprete viene chiamato con il nome del personaggio. Le maschere appaiono abbastanza tardi: inizialmente la compagnia è composta da pochi attori, cui spetta l’assunzione di vari ruoli di personaggi basilari. Nel corso degli anni viene creandosi una progressiva specializzazione. Si determinano quindi delle maschere fisse e codificate, con un costume, un modo di parlare e un carattere che sono loro propri. Le trame dei canovacci, tratte con estrema libertà dal repertorio classico, ma anche da quello contemporaneo. Nella commedia dell’arte si esprime più fortemente ed esplicitamente che nella commedia rinascimentale una struttura carnevalesca, con l’energica affermazione della vita e il trionfo dell’Amore che vince sull’opposizione della Vecchiaia. Determinante, per la nascita del nuovo genere, è il successo delle farse popolari e più ancora delle commedie dialettali di Angelo Beolco detto Ruzante. Precursore del genere viene ritenuto il veneziano Andrea Calmo, proveniente da una famiglia di pescatori, autore e attore di opere teatrali comiche in dialetto veneziano. Nello sviluppo della commedia dell’arte possono essendere individuate 4 fasi: 1. Nella seconda metà Cinquecento nascono libere associazioni di comici che si accordano per un tempo breve, in genere un anno, programmando spettacoli e tournees, con reciproci impegni, anche economici. 2. Fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento alcune compagnie cominciano a prendere le distanze dal teatro popolare e scelgono nomi che alludono agli ambienti accademici, con cui aspirano a nobilitare la loro professione. Si affermano comici di cultura più elevata, raffinata maestria tecnica e gusto dello spettacolo. 3. Nella seconda metà del Seicento alcuni Signori, soprattutto dell’Italia settentrionale, danno la loro protezione ad una o più compagnie, non solo per ragioni di prestigio, ma anche per motivi economici: nascono così le compagnie ducali. È un momento di forte involuzione e stanchezza del genere, che viene ormai soppiantato nel favore del pubblico dal melodramma. 4. In seguito a questo momento di crisi, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento le compagnie sopravvivono sempre più faticosamente, raccogliendosi intorno ai pochi interpreti di maggior successo. È in questo stato che Goldoni troverà la commedia dell’arte. GIORDANO BRUNO Nel secondo Cinquecento, quando la cultura rinascimentale è ormai in crisi e il clima politico e religioso non permette più alcuna libertà di pensiero, operano importanti scrittori che si segnalano, oltre che per la loro produzione letteraria, per un coraggioso impegno di ricerca filosofica. Il maggiore tra costoro è Giordano Bruno, figura centrale della filosofia rinascimentale. Del pensiero neoplatonico egli conserva l’idea panteistica che la divinità sia l’anima stessa del mondo e una grande fiducia nelle facoltà dell’uomo, nel suo intelletto e nella sua volontà. Partendo poi dall’ipotesi elaborata nei primi decenni del secolo dall’astronomo polacco Niccolò Copernico, Giordano Bruno rifiuta il geocentrismo tolemaico, contrapponendo ad esso la concezione di un universo infinito e privo di centro. Per la sua lotta contro l’aristotelismo e per la sua stessa drammatica vicenda biografica molti hanno visto in Giordano Bruno un estremo e tragico rappresentante del Rinascimento, perseguitato e alla fine ucciso per la difesa intransigente delle idee e dei valori di un’epoca ormai irrimediabilmente tramontata. Sul piano letterario invece, i testi di Bruno non si adeguano al gusto rinascimentale dell’equilibrio, ma tendono all’espressione energica del pensiero più che alla cura della forma, con un linguaggio forte e aspro e costrutti irregolari, che talora anticipano il gusto barocco. La vita Filippo Bruno, che assumerà il nome di Giordano all’atto della monacazione, nasce nel 1548 a Nola, in Campania; compiuti gli studi, nel 1565 veste l’abito di novizio domenicano in san Domenico Maggiore, dove rimane 11 anni, durante i quali viene nominato sacerdote e nominato dottore di teologia; nel 1576 i superiori istituiscono contro di lui un processo, accusandolo di aver approvato tesi eretiche, e il giovane si dà alla fuga. Inizia così la sua inquieta esistenza nomade per l’Europa: è nella Ginevra calvinista, dove aderisce alla Chiesa riformata, poi si reca in Francia, dove ottiene il ruolo di pubblico lettore di filosofia; è a Parigi che scrive la commedia Il candelaio; negli ambienti cattolici tuttavia non è visto di buon occhio e Giordano decide di trasferirsi, nel 1583, in Inghilterra, dove insegna pubblicamente ad Oxford; finisce poi col trovarsi coinvolto nell’aspra polemica che oppone gli aristotelici ai sostenitori della teoria eliocentrica di Copernico; si recherà poi nella Germania luterana: in questi anni scrive importanti opere filosofiche in latino, dove chiarisce le proprie tesi panteistiche, alcuni testi mnemotecnica e diversi opuscoli sulla magia. Nel 1581 compie il passo che determinerà la sua sorte: accetta l’invito rivoltogli dal patrizio veneziano Giovanni Mocenigo a recarsi presso di lui; l’anno successivo però, in seguito ad un litigio a proposito dell’intenzione del filosofo di tornare a Francoforte, Mocenigo lo fa improvvisamente arrestare e consegnare all’Inquisitore veneto, con l’accusa di avergli udito pronunciare numerose proposizioni eretiche.  Il processo a Giordano Bruno è oggi conosciuto nei minimi dettagli, in seguito alla pubblicazione degli atti; le imputazioni che gli vengono rivolte concernono in sunto i seguenti punti: la credenza nella trasmigrazione delle anime, l’infinità dei mondi, l’eternità dell’universo, la condanna del culto delle immagini e del valore delle reliquie, la natura di maghi e impostori attribuita a Mosè e a Cristo. Nonostante Bruno attenui nella deposizione le tesi evidentemente più panteistiche espresse nelle sue opere filosofiche, viene ugualmente fatto oggetto della richiesta di estradizione che il Santo Uffizio romano inoltrò alla repubblica di Venezia. Nel 1593 il prigioniero giunge a Roma ed è rinchiuso nel palazzo del Santo Uffizio presso il Vaticano, dal quale uscirà sette anni dopo per salire sul rogo. Nel 1599 il cardinale Bellarmino sottopone a Bruno una lista di otto affermazioni giudicate eretiche tratte dalle sue opere: se egli abiurerà sarà accolto come penitente, in caso contrario, trascorsi i quaranta giorni per la riflessione, verrà trattato come impenitente pertinace. Giordano Bruno, dopo aver in un primo momento mostrato disponibilità ad abiurare, alla fine sceglie una linea di coerenza e dichiara di non aver nulla di cui doversi pentire e dunque di non voler abiurare. Nel febbraio del 1600 viene arso vivo. Il Candelaio Si tratta di una commedia in cinque atti che possiamo definire l’opera letteraria più importante di Giordano Bruno. Viene composta tra il 1581 e il 1581. È preceduta da ben tre Prologhi, con beffardo riferimento all’uso invalso tra i commediografi di scrivere lunghe introduzioni ai loro testi. L’azione, molto complessa e ricca di personaggi, è ambientata a Napoli, presso il convento di San Domenico Maggiore, nel quale Bruno aveva vissuto. L’intreccio ha la peculiarità di non essere unitario, ma spezzato in tre vicende autonome, ognuna basata su una beffa rivolta ad un personaggio che incarna una passione smodata e innaturale: il pedante Manfurio che aspira alla sapienza, l’alchimista dilettante Bartolomeo che desidera la ricchezza e il candelaio messer Bonifacio, che vuole soddisfare le proprie smanie amorose. I tre si esprimono in un linguaggio inautentico e sclerotizzato (Manfurio in quello pedantesco, Bartolomeo in quello della scienza e Bonifacio in quello del petrarchismo), cui si contrappone la vivacità e la naturalezza del dialetto napoletano di cui si servono i popolani che organizzano le beffe. L’autore inventa il personaggio di Manfurio al preciso scopo di attuare, attraverso di lui, la deformazione parodica del latino pedante: la commedia è caratterizzata da uno straordinario gioco di invenzione e dissacrazione dei linguaggi, alla cui origine c’è la ferma coscienza della sostanziale incapacità conoscitiva e comunicativa dei linguaggi propri della cultura ufficiale. La lingua pedantesca di Manfurio non produce soltanto equivoci verbali per il contrasto tra forme latine o pseudo- latine e parlato popolare, ma è anche strumento di invenzioni tanto creative quanto polemiche poiché volte a rappresentare il volto assurdo della comunicazione dotta, della pretesa universalità della filosofia ridotta a Francesco, una notte fugge da Ferrara e raggiunge Sorrento, dove, travestito da pastore si presenta alla sorella Cornelia, rimasta nel frattempo vedova con tre figli. Si mette però subito in viaggio e inizia a vagare senza pace per l’Italia; nel 1579 viene preso da nostalgia e fa ritorno a Ferrara, proprio mentre fervono i preparativi per le nozze tra Alfonso e Margherita Gonzaga. Forse irritato nel vedersi trascurato da tutti nella confusione del momento, il poeta, con la mente ormai offuscata, ingiuria pubblicamente Alfonso, che ordina di rinchiuderlo nell’ospedale Sant’Anna, dove rimarrà per 7 anni. Nonostante le sofferenze mentali, qui Tasso lavora intensamente: scrive molte rime e lettere e la maggior parte dei Dialoghi. Intanto porta anche avanti la revisione della Liberata, che tuttavia, contro la sua volontà, era già stata pubblicata. Attorno al nuovo poema si accende subito un’aspra polemica, che vede schierati da un lato i sostenitori della Gerusalemme liberata, dall’altra i fautori dell’Orlando furioso dell’Ariosto. Durante la prigionia del poeta sono molti gli intellettuali che ne chiedono la liberazione: tra questi il grande saggista francese Michel de Montaigne e il principe Vincenzo Gonzaga. È soprattutto grazie all’intercessione di quest’ultimo che finalmente, nel 1586, il poeta viene liberato e ospitato a Mantova. Durante l’anno trascorso presso il Gonzaga Tasso porta a termine la tragedia che aveva lasciato incompiuta nel 1574 e la pubblica nel 1587 con il titolo di Re Torrismondo. Cadrà tuttavia vittima di nuove inquietudini e nel 1587 lascia Mantova per una nuova serie di peregrinazioni. Durante un breve soggiorno a Roma, pubblica nel 1593 la Gerusalemme conquistata, rifacimento della Liberata. La salute intanto si va facendosi sempre più precaria. Il poeta, andando incontro alla morte con serenità, quale appunto liberazione dalle angosce di una vita tormentata e infelice, spira il 25 aprile 1595. La personalità Il dramma di Tasso ha le sue radici negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, nei traumi psicologici della separazione dalla madre e della morte premuta di lei, ferite che non saranno mai rimarginate. Si è sottolineato ad esempio l’ambiguo rapporto con la sorella Cornelia, vista come figura sostitutiva della madre perduta, e il legame edipico con il padre: un intreccio di nodi psicologici irrisolti dal quale possono forse avere origine le difficoltà amorose del poeta e infatti egli non vivrà mai un concreto rapporto amoroso. I turbamenti e le angosce dell’infanzia non fanno che accentuarsi negli anni della giovinezza e della maturità, esprimendosi ad esempio nelle continue peregrinazioni che segnano tutta l’esistenza del Tasso. In ogni luogo egli giunge credendo di potervisi stabilire e poi regolarmente ne fugge: è affetto da quello che il poeta francese Baudelaire definirà “l’horreur du domicile”. Ma questa irrequietezza, per quanto sembri preludere al tormento dell’amore romantico e allo spleen (malinconia-noia) dell’antieroe decadente, è profondamente legata ai caratteri specifici della biografia del poeta e alla concreta situazione storica in cui si trovò a vivere. Tasso si sente, per tutta la vita, orfano ed esule: egli cerca incessantemente i surrogati della famiglia, della casa, delle radici che non ha e ci cui avverte l’insopprimibile esigenza. A volte sembra credere che casa e famiglia possano diventare per lui le corti alle quali chiede accoglienza e protezione e delle quali sembra pretendere quei riconoscimenti e soprattutto quella sicurezza e stabilità che gli mancano. La fase più dolorosa e tormentata è quella degli anni 1576-1586, quando ai sintomi della follia si aggiunge un sempre più assillante scrupolo religioso e morale. Sulle condizioni psicologiche del poeta abbiamo la testimonianza di Montaigne, che dalla visita a recluso del novembre del 1580 riporta un’impressione di doloroso squallore. Ancora oggi, nell’ambito della critica, si discute sui caratteri e sulla gravità della malattia di Tasso, e non manca chi sostiene che il poeta non fosse passo, ma che i sintomi che egli stesso descrive fossero in realtà causati dalle cure cui al tempo venivano sottoposti i presunti malati di mente (in particolare veniva usato il laudano, un composto a base oppiacea e alcol). Ma se si ammette che Tasso fosse sostanzialmente sano di mente allora lo si può considerare come vittima di un sistema che deliberatamente tentava di soffocare le ultime voci di libertà e autonomia, costringendo gli estremi eredi del Rinascimento al conformismo e alla devianza. L’Aminta, secondo tale prospettiva, sarebbe l’ultimo frutto del Rinascimento e l’unica opera autenticamente tassiana, mentre la Gerusalemme liberata sarebbe un’opera già piegata, almeno in parte, alle restrittive e conformistiche esigenze dell’età della Controriforma. Viceversa un Tasso davvero pazzo sarebbe da leggere come l’espressione di un intimo contrasto tra tendenze opposte e inconciliabili, che ha il suo alimento nelle contraddizioni dell’epoca storia e dell’esperienza personale (nella dipendenza dalla madre e dall’incapacità di superare il trauma della perdita di lei). Tutta la vita del poeta è inoltre segnata da atteggiamenti ambivalenti di fascinazione e repulsione: per la corte, per l’accademia, per l’ortodossia religiosa. Da una parte si manifesta un bisogno profondo di sicurezza, di solide certezze e di protezione, dall’altra al contrario da un desiderio irreprimibile di libertà e un rifiuto di qualsiasi regola. Se è vero che Tasso è continuamente alla ricerca di un luogo che gli faccia da casa e da famiglia, è anche vero altrettanto che egli cerca soprattutto una sicurezza ideologica, che gli permetta di definire, secondo misure stabili, la propria identità profonda: una ricerca, anche questa, destinata a restare in gran parte senza risposta. Tasso vive in pieno il travaglio epocale del suo tempo, con un totale coinvolgimento e grande tormento interiore. È un erede dell’Umanesimo e del classicismo, ma è un erede insicuro, problematico, insoddisfatto. Lo spaventa l’indefinito orizzonte dell’autonomia umana prospettata dal pensiero laico; lo turba il peso della responsabilità interamente lasciata nelle mani dell’uomo. Sente dunque in sé un bisogno di superiori certezze. Non sapendo rinunciare completamente all’orizzonte umanistico e non sapendo approdare completamene a quello post- rinascimentale, resta sospeso tra l’uno e l’altro. La formazione culturale Già durante i primi studi a Napoli (12 anni circa), alla scuola dei Gesuiti, il giovane Torquato si distingue subito per vivacità di ingegno, risultando tra i più promettenti alunni della scuola. Questa prima educazione letteraria viene ampliata e perfezionata nelle corti di Ravenna, di Pesaro, e specialmente di Urbino. Tappe ulteriori della formazione di Tasso sono legate ai soggiorni, sempre al seguito del padre, prima a Venezia e quindi a Padova, dove frequenta i corsi universitari di diritto. Ma il poeta non tarda ad abbandonare gli studi giuridici, che aveva abbracciato solo per compiacere il padre, rivolgendosi con passione crescente alla letteratura e alla filosofia, grazie soprattutto alle lezioni sulla Poetica di Aristotele di Carlo Sigonio e all’assidua frequentazione di eruditi e letterati. Già intorno al 1560 prendono forma le prime prove del genio poetico tassiano: dapprima il Gierusalemme, un primo abbozzo di poema epico, e poi il Rinaldo pubblicato nel 1562. Gli anni dal 1564 al 1574 sono quelli della maturità letteraria e poetica: vivendo già intensamente il contrasto fondamentale della sua età, quello tra un sentimento ancora fiducioso della vita e la nuova visione, severa e rigorosa, proposta dalla Controriforma, Tasso tenta di conciliare queste nuove esigenze nel capolavoro che va componendo, La Gerusalemme liberata, oltre che nell’Aminta e nella riflessione critica che accompagna il lavoro creativo. In particolare, il lavoro creativo e quello teorico procedono in due direzioni fondamentali, quella epico-eroica e quella lirica, campo di maggiore impegno la prima, ma oggetto di puntigliosa attenzione anche la seconda. Se nell’ambito epico-eroico e in quello teatrale Tasso è legato soprattutto a tradizioni che affondano le loro radici nel mondo greco-romano, nell’ambito della lirica deve pagare il doveroso tributo ad un autore “moderno”, Petrarca: questo è piuttosto il segno di una profonda affinità spirituale che lega Tasso ad una personalità lacerata da un profondo dissidio interiore e che nella perfezione e nell’armonia della forma letteraria cerca la via del rasserenamento e della pacificazione. Anche nel campo della lirica, come abbiamo già accennato, la produzione si accompagna ad un continuo lavoro di riflessione critica, nel quadro del più vasto e generale dibattito sui generi letterati. I teorici del Cinquecento si occuparono soprattutto della codificazione formale in chiave petrarchesca del genere lirico; Tasso si sforza di chiarire a se stesso la natura e i caratteri che la lirica deve avere, al di là delle norme, per dare un senso alla propria sperimentazione letteraria. La tradizione cinquecentesca viene così a poco a poco dissolta: le forme petrarchesche lasciano il posto ad un’elaborazione originale dove la metrica, il lessico e lo svolgimento stesso del discorso poetico si adeguano agli stati d’animo e alla sensibilità del poeta, pur restando entro una cornice, sovente, di tesa sostenutezza retorica. La riflessione teorica sul poema epico Il lavoro teorico più approfondito svolto dal Tasso riguarda però il genere letterario che fin dalla giovinezza agli ultimi anni di vita è al centro dei suoi interessi e dei suoi sforzi creativi: il poema epico. Esso trova il suo compimento più maturo nel Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, iniziati nel 1561-62 e pubblicati nel 1587. Essi procedono di pari passo con la genesi di questi poemi, nelle loro varie fasi e forme. Ciò dimostra come in Tasso l’artista e il teorico, il letterato e il critico, coesistano in una inscindibile unità.  sta qui la differenza rispetto a molti trattati sulla letteratura del Cinquecento: non si tratta di un discorso astratto sulle forme della poesia, ma una riflessione intorno ad un’esperienza concreta, che è contemporanea a questa riflessione. Le questioni discusse nell’opera costituiscono il momento più alto di un lungo e ampio dibattito sul genere del poema epico, che viene svolgendosi nel corso di tutto il Cinquecento. Alla base della discussione ci sono le perplessità avanzate da alcuni letterati circa la struttura dell’Orlando furioso dell’Ariosto, al quale viene rimproverata, nonostante il successo, la mancanza di una rigorosa unità strutturale. Da un lato gli aristotelici affermano l’esigenza di comporre un poema rigorosamente unitario e basato sui modelli classici, in primis l’ Iliade, dall’altro c’è chi afferma il valore del poema cavalleresco, considerandolo rispondente ai gusti del pubblico. Una posizione improntata all’equilibrio e alla moderazione è quella di Giraldi Cinzio che suo Discorso intorno al comporre dei romanzi (1544), pur riconoscendo la legittimità del genere cavalleresco, sostiene che la molteplicità delle azioni narrate dovrebbe ordinarsi, trovando così la sua unità, attorno ad unico personaggio. Il giovane Tasso, che pure, come dimostra il Rinaldo, si adegua inizialmente alle indicazioni di Giraldi, non tarda a riconoscerne i limiti e a ripensare l’intera questione in modo originale e incomparabilmente più approfondito. Discorsi dell’arte poetica 1587 L’opera si inserisce nel genere della trattatistica cinquecentesca, con la quale condivide la struttura tripartita e l’impostazione teorica e argomentativa. L’opera tratta in genere della poesia e in particolare del poema eroico, che è secondo Tasso la forma assunta dal poema epico nell’età moderna, ossia il poema epico di argomento cristiano. Tasso è ben attento a conformare le proprie tesi a quelle contenute nella Poetica di Aristotele, sforzandosi di reinterpretare alcuni concetti per piegarli alle proprie esigenze. In particolare la filosofia aristotelica li serve come supporto teorico sulla base del quale tentare un difficile equilibrio tra reale e ideale, tra storia e fantasia, tra vero e invenzione. I Discorsi sono suddivisi in tre libri: nel primo si tratta della materia del poema eroico, nel secondo della favola, ossia della forma e nel terzo dell’argomento, ossia dello stile. Libro I: si afferma che la materia del poema deve essere storica , senza però che le vicende trattate siano troppo recenti, perché non sarebbe possibile inserirvi dei fatti meravigliosi, ma nemmeno troppo antiche, perché la verità storica rischierebbe di sfumare nel fantastico. Tasso spiega poi che l’epopea è diversa dalla tragedia, non solo nel modo in cui si rapporta al vero, poiché l’epopea narra mentre la storia rappresenta, ma anche nei personaggi, che nel poema eroico sono esempi sommi di virtù e vi vizio, e nella finalità, che nel poema è quella di sollevare il lettore ad una dimensione di sublime grandezza e nella tragedia quella di suscitare orrore e insieme compassione. Libro II: si distingue la storia, che ha come oggetto il vero, dalla poesia, che ha invece come oggetto il verisimile. Tuttavia, anche se il poema eroico si deve piegare alla necessità della verisimiglianza, esso può lasciar spazio a invenzioni che destino la meraviglia nei lettori: questo meraviglioso tuttavia non deve poggiare su gratuite fantasticherie, ma, in ultima analisi, sopra le verità della fede, ossia deve essere un meraviglioso cristiano. La presenza del meraviglioso permette di arricchire l’unità di azione, legata alla verosimiglianza, con una varietà di episodi e avventure che non potranno non affascinare il lettore. Libro III: si parla dello stile. Tasso riprende il tradizionale schema tripartito, analogo a quello proposto da Dante nel De vulgari eloquentia, in base al quale gli stili poetici fondamentali sono quelli magnifico, mediocre e umile. Lo stile magnifico è proprio della tragedia e della poesia eroica, quello mediocre è proprio della poesia lirica, e quello umile è proprio della poesia comica. Secondo Tasso però, lo stile del poema eroico, è più complesso di quello della tragedia, poiché deve accogliere in sé anche certe modalità dello stile mediocre, per evitare che la magnificenza diventi fredda gonfiezza. I Discorsi dell’arte poetica cominciano a prendere forma contemporaneamente alle prime sperimentazioni letterarie tassiane: l’abbozzo del poema epico Gierusalemme (1559) e il poema cavalleresco Rinaldo (1562). La consapevolezza delle difficoltà da superare per raggiungere un compiuto poema eroico spiega l’interruzione del primo tentativo, mentre il giovanile poema cavalleresco svolge una funzione di apprendistato nella direzione finale dell’epica eroica. Nella prefazione al Rinaldo l’autore, dopo aver chiesto ai lettori di considerare la sua opera come «parto di un - Le cose sacre, o almeno in laude de’ prelati - Le rime irregolari Tra il 1591 e il 1593 appaiono però solo i primi due, mentre del terzo resta una copia manoscritta. Tasso, nel lavoro di revisione e riordino, elimina tantissimi testi, soprattutto quelli più moderni, togliendo quasi completamente i riferimenti a eventi contemporanei. Rinuncia inoltre al tradizionale schema del canzoniere , preferendo una suddivisione per temi che sarà poi quella prediletta dai poeti dal Seicento. Tutte le poesie del Tasso sono rime d’occasione, nel senso più largo del termine, poiché nascono da circostanze concrete, in genere da situazioni o eventi della vita di corte, e dunque abbiamo per lo più raffinati omaggi galanti rivolti alle cortigiane o encomi di personaggi illustri. Nelle rime d’amore Tasso esprime un erotismo che si traduce spesso in una contemplazione voyeuristica, concentrata sugli abiti e le acconciature, i minimi oggetti concreti, come uno specchio o un laccio di seta, del mondo femminile. Più artificiose e impostate in chiave retorica sono le rime encomiastiche, che hanno anch’esse nel mondo della corte il loro preciso e diretto riferimento. Lo stile è spesso teso e solenne, prevale un gusto scenografico e sfarzoso, con il ricorso frequente alla mitologia in chiave di idealizzazione e sublimazione. Le rime sacre e religiose appaiono maggiormente condizionate dalle convenzioni dell’epoca: vi emergono i motivi tipici della religiosità controriformistica, come il timore angoscioso del peccato e il senso della vanità delle cose umane. Manca tuttavia in questi versi un sincero e profondo spirito religioso. Rispetto ai canzonieri cinquecenteschi, il cui principale se non unico modello era Petrarca, le rime di Tasso sono invece straordinariamente innovative per la molteplicità dei riferimenti letterari: oltre a Petrarca e i petrarchisti troviamo echi di ascendenza classica (Saffo, Anacreonte), di una tesa solennità eroica (Pindaro, Orazio), di un gusto della natura in linea con la tradizione idillica (Teocrito, Mosco) ed elegiaca (Virgilio). La lirica di Tasso, in questo senso, è una specie di ponte tra la tradizione precedente, soprattutto petrarchesca, e lo sperimentalismo barocco. Quanto allo stile, sono da mettere in risalto la grazia, la leggerezza e soprattutto la straordinaria musicalità di molti testi, in particolare dei madrigali. Spesso tuttavia emerge il gusto della metafora preziosa e dell’antitesi arguta, e il poetare si fa concettoso ed epigrammatico. In altri casi viene ripresa dal Della Casa la tecnica dell’enjambement, che utilizza con grande maestria. Il madrigale è una delle forme poetiche più congeniali al gusto del Cinquecento cortigiano. I poeti cinquecenteschi fanno riferimento al modello dei madrigali di Petrarca, sviluppandolo però liberamente sotto il profilo metrico e tematico. Il madrigale petrarchesco prevede solo endecasillabi, ed è suddiviso in due o tre terzine e uno o due distici. Il madrigale cinquecentesco invece alterna endecasillabi e settenari secondo vari schemi di rime. L’argomento amoroso, già prevalente, diventa in Tasso esclusivo; si accentua progressivamente la tendenza al gioco raffinato dell’intelligenza, al concetto prezioso, allo scherzo galante e malizioso. Aminta L’Aminta è un dramma pastorale, che Tasso definisce una favola boschereccia, ovvero una rappresentazione teatrale di argomento bucolico, composta in endecasillabi e settenari, in cinque atti, conclusi ciascuno da un coro (sul modello della tragedia greca). L’opera viene composta nel 1573 e recitata il 31 luglio dello stesso anno sull’isoletta di Belvedere sul Po, nei giardini della villa estense, alla presenza di tutta la corte; sarà stampata da Manuzio nel 1581. Al centro dell’azione, ambientata in un favoloso mondo arcadico, è la storia dell’amore del pastore Aminta per la bella ninfa Silvia, insensibile al corteggiamento e dedita soltanto alla caccia. Aminta si confida con l’esperto Tirsi, mentre l’anziana Dafne cerca invano di persuadere Silvia ad accettare l’amore del suo spasimante. Tirsi convince Aminta a raggiungere la ninfa presso una fonte e a dichiararle il suo amore, ma nel frattempo Silvia viene aggredita da un satiro, che sta per violentarla. Aminta giunge alla fonte appena in tempo per salvarla, ma la fanciulla fugge poi nel bosco. Poco dopo però la ninfa Nerina racconta che Silvia è scomparsa durante la caccia ad un lupo: di lei è rimasto soltanto un velo insanguinato. Disperato, credendo che la giovane sia morta sbranata, Aminta si butta da una rupe. Ma Silvia è ancora viva, e dopo essere stata informata del folle gesto del pastore si pente amaramente della propria crudeltà: Aminta però non è morto, perché un cespuglio ne ha frenato la caduta, e quando ha aperto gli occhi ha trovato Silvia piangente che lo colmava di baci. I due si abbracciano felici, mentre il coro celebra il piacere dell’amore. A prima vista l’Aminta sembra essere una tipica opera cortigiana, scritta per un’occasione mondana. Anche la morale edonistica che è sottesa alla narrazione può essere giustificata dal fatto che l’opera si rivolge ad una ristretta elite sociale e intellettuale che sta trascorrendo una piacevole vacanza. La corte è presente nell’opera anche nel modo di dialogare, di atteggiarsi e di comportarsi dei personaggi.  da una parte dunque il poeta è presente dentro il mondo cortigiano che non può non riprodurlo nella sua poesia, ma d’altra parte aspira a presentarlo stilizzato e idealizzato, adeguandolo ad un paesaggio naturale luminoso e incontaminato, fuori dalla storia e dalle sue disarmonie. Il dramma pastorale non ha modelli antichi ed è quindi assai più libero e flessibile rispetto alla commedia e alla tragedia. Tasso pertanto adegua la propria “favola” allo schema canonico della tragedia di derivazione classica, basato sulle regole aristoteliche: cinque atti, preceduti da un prologo, e seguiti ognuno da un coro che, come nel teatro greco, negli ultimi tre atti partecipa direttamente all’azione. L’Aminta è colma di riferimenti eruditi sia alla tradizione classica sia a quella volgare. La ritrosia amorosa motivata dal culto di Diana risale all’antichità. L’ambientazione pastorale, sempre di derivazione classica, rimanda all’Orfeo di Poliziano e all’Arcadia di Sannazaro e all’antico idillio pastorale dei greci Teocrito e Mosco e alle Bucoliche di Virgilio. C’è l’influenza anche dei poeti erotici latini Catullo, Ovidio e Tibullo. La natura prevalentemente lirica dell’opera è evidenziata da parecchi elementi: esilità della trama, relativa staticità dell’azione scenica, stilizzazione dei personaggi, predilezione per il settenario rispetto all’endecasillabo, che rende musicale il procedere del discorso e la prevalenza del tema amoroso. Il lirismo di fondo del dramma sta infatti nella costante presenza dell’amore, visto nelle sue varie espressioni e manifestazioni: desiderio sensuale, dolorosa rinuncia, riflessione razionale, appagamento dei sensi ecc. Nel coro l’amore è opposto polemicamente all’onore, ossia alla norma morale, e non è un caso che infatti l’opera non si conclude con la celebrazione del matrimonio. E sarà anche per correggere questa visione edonistica e libera dell’amore che Guarini concluderà il suo Pastor fido con la celebrazione di ben due matrimoni. L’Aminta è un’opera profondamente ambigua e difficile da interpretare nel suo complesso: da una parte celebra la libertà e l’assenza di costrizioni del mondo pastorale, dall’altra persegue regole e norme, collocandosi nel solco del classicismo accademico. Proprio il coro dell’atto I esalta la mitica età dell’oro come metafora di una visione edonistica e felicemente naturalistica della vita, in opposizione alla storia e alla civiltà, dominate dalle catene dell’onore e della morale. Ma l’epoca moderna non è l’età dell’oro: l’ambiguità del coro sta nel fatto che viene celebrato il ritorno alla natura in opposizione all’inautenticità della vita di corte, ma i protagonisti di questo ritorno sono in realtà dei cortigiani in vacanza. Forse Tasso qui, nel periodo più sereno della sua vita vuole celebrare la corte di Ferrara come una corte ideale, ultima superstite dell’edonismo rinascimentale: l’opera è infatti il frutto delle breve stagione felice trascorsa dal poeta presso la corte estense, quando forse potè balenargli come possibile la ricostruzione del sogno edenico, mira autentica di tutta la civiltà umanistico rinascimentale. La prosa teorica e autobiografica Tasso non ebbe mai l’idea di raccogliere tutti i suoi dialoghi: il titolo è infatti moderno e si riferisce a 26 testi di argomenti diversi, relativi per lo più a termini etici ed estetici, risalenti per la maggior parte al periodo di carcerazione al Sant’Anna. Nello scritto teorico Dell’arte del dialogo (1585) lo scrittore stesso parla di un genere «quasi a mezzo tra il poeta e il dialettico», cioè tra la letteratura e la filosofia. Oggi l’opera è considerata più letteraria che propriamente filosofica. Il modello è il dialogo platonico, con la sua mescolanza di elementi poetici e filosofici. Sul piano dei contenuti i Dialoghi, sebbene privi di una visione filosofica organica e originale, tendono a conciliare i superstiti elementi del platonismo rinascimentale con l’aristotelismo di impronta controriformistica. Dal punto di vista stilistico invece l’impianto dialogico cede spesso il posto a un tono oratorio e solenne che talvolta scivola nell’artificiosità. L’opera è, insieme un affresco di costume e un prontuario di norme del “vivere civile”, in cui grande attenzione è dedicata agli aspetti più vari della vita di corte; essa oscilla tra la critica e l’ossequiosa celebrazione del mondo cortigiano. Le lettere Ci sono rimaste oltre 2000 lettere di Tasso, che però sono solo una parte del suo immenso epistolario: mancano quasi del tutto le lettere giovanili, ossia anteriori al 1574. Quello di Tasso è un epistolario reale, ossia non pensato per la pubblicazione: le lettere infatti sono scritte in uno stile immediato e sono sempre legate a situazioni concrete. La lingua è quanto mai composita: si passa da citazioni erudite al lessico quotidiano e basso. Solo negli ultimi anni, pensando ad una scelta antologica in vista dell’edizione delle sue opere. Tasso comincerà a raccogliere una parte delle lettere, ricopiandole sui quaderni facendosele restituire dai destinatari. Occorre tenere conto del fatto che molte lettere sono state alterate e manipolate dagli editori: i motivi sono principalmente l’esigenza di costruire un’immagine ideale dello scrittore, quella che darà luogo al mito romantico del poeta esule, ramingo, solitario, perseguitato ingiustamente dai potenti, e la necessità di non offendere i potenti, spesso attaccati nelle lettere, o di entrare in contrasto con l’ortodossia cattolica. Fra i temi più frequenti: elogi dei potenti (praticamente tutti: da ciò emerge un ingenuo opportunismo, e il poeta mostra di non saper molto calibrare una vera strategia in proposito, e sembra appunto muoversi a casaccio); celebrazione della corte; indifferenza per la realtà sociale e politica esterna e la volontà di evasione; la religione, intesa come sfarzo, rituale o mero apparato di potere; il meraviglioso e la magia. Il Re Torrismondo Probabilmente verso il finire del 1573, Tasso avvia la tragedia nota come Galealto re di Norvegia, poi interrompendola. Solo dopo la liberazione dal Sant’Anna nel 1586 il poeta rimette mano al progetto e riscrive la tragedia, pubblicandola nel 1587 con il titolo appunto di Re Torrismondo. Il suo obiettivo è quello di comporre una perfetta tragedia in lingua italiana, secondo i principi aristotelici; l’opera è divisa in cinque atti conclusi ciascuno da un coro. Il modello classico è l’Edipo re di Sofocle, dal quale viene ripreso il tema dell’incesto inconsapevole seguito dall’agnizione che prepara il finale tragico. Si rifà però anche ad Euripide e Seneca. Tra le tragedie moderne sono tenute in conto soprattutto la Sofonisba di Trissino, la Cenace di Speroni e l’Orbecche di Giraldi Cinzio. La scelta di ambientare l’azione nei gelidi e deserti paesaggi del Nord Europa dipende dall’esigenza di una più larga libertà di invenzione, senza peraltro tradire il principio della verisimiglianza, poiché le conoscenze storiche di quei mondi remoti erano ancora vaghe e indefinite. Protagonista della tragedia è Torrismondo, re della Gotia, che si è recato in Norvegia per chiedere in moglie la principessa Alvida, che però è già promessa sposa al re di Svezia, intimo amico di Torrismondo, il quale ha promesso di condurre da lui illibata la donna. Ma durante il viaggio i due sono presi da una passione improvvisa. Già sconvolto per aver tradito la fiducia dell’amico Torrismondo viene poi a scoprire che Alvida è sua sorella: ancora bambina era stata rapita dai corsari, che l’avevano consegnata al re di Norvegia e da questi era stata allevata come una figlia. Inorridito Torrismondo allontana da sé la giovane, che ignara del motivo di questo ripudio si uccide per il dolore. Disperato anche Torrismondo si toglie la vita. La tragedia si fonda una serie di laceranti opposizioni: tra il dovere morale e la passione amorosa, tra il sapere e l’ignoranza, tra l’autenticità dei sentimenti e la forza del destino. Alvida si uccide non per l’orrore dell’incesto, ma perché non si crede più amata, mentre Torrismondo si toglie la vita non tanto per aver trasgredito la legge morale ma perché appunto non più godere dei frutti della trasgressione e non sa vivere senza Alvida. Il suicidio di Torrismondo è tuttavia anche un necessario e consapevole atto di purificazione, che ristabilisce con la morte l’ordine infranto. Ma tutti i personaggi avvertono oscuramente la presenza di un destino di inevitabile dolore: l’azione umana è sempre destinata al fallimento. In questo senso Re Torrismondo è complementare all’Aminta, poiché nel dramma pastorale è rappresentato il trionfo dell’illusione, mentre qui la fine di questa. Lo stile, drammatico e teso, è tutto giocato su un periodare franto, pieno di interiezioni e di interrogazioni. LA GERUSALEMME LIBERATA Le fasi della composizione Canti XI-XII. Dopo la battaglia i crociati, su esortazione di Pietro l’Eremita, vanno in solenne processione sul monte Oliveto, così da ottenere i favori divini, e il giorno seguente muovono all’attacco delle mura di Gerusalemme, servendosi di una grande torre di legno per aprirsi un varco. Il combattimento dura fino a sera. Insieme con Argante, Clorinda decide di uscire di nascosto dalla città, durante la notte, per appiccare il fuoco alla torre dei cristiani. Clorinda si avvia, turbata però, poiché il servo Areste manifesta tristi presentimenti e le racconta la sua vera storia, ossia di figlia di cristiani, affidatagli ancora prima di essere battezzata. Clorinda e Argante riescono ad incendiare e a distruggere la torre, ma sono scoperti e subito inseguiti: Argante fa in tempo a riparare in città, mentre Clorinda viene raggiunta da Tancredi, che non la riconosce a causa dell’armatura nera. I due si affrontano in un lungo e crudele duello, e alla fine la donna soccombe: ferita a morte, chiede all’avversario di essere battezzata. Solo allora Tancredi, dopo averle alzato l’elmo riconosce la donna amata, e dopo averla battezzata si abbandona alla disperazione. Canti XIII-XVII. Il mago Ismeno incanta la selva di Saron, per impedire ai cristiani di poterne ricavare il legno necessario a ricostruire la torre. Goffredo vi manda una schiera di soldati per tagliare gli alberi necessari a costruire una nuova torre, ma gli uomini fuggono via, spaventati da immagini demoniache. Pietro l’Eremita sentenzia che soltanto un altro cavaliere, ossia Rinaldo, è predestinato a vincere gli incantesimi della selva. Goffredo, dopo un sogno premonitore, invia Carlo e Ubaldo alla ricerca di Rinaldo. I due si recano dal mago di Ascalona, il quale li informa che Rinaldo, irretito dalle arti seduttive di Armida, che si è innamorata di lui, è prigioniero della donna nelle isole Fortunate. Vinti gli spaventosi incantesimi che si frappongono riescono infine a penetrare nello spazio illusorio creato dalla maga e fanno specchiare Rinaldo nello scudo, che, riconosciuta di colpo la propria vergognosa condizione, non esita a seguire i due. Benchè impietosito, Rinaldo lascia la donna, che, adirata per il rifiuto e l’offesa, manifesta propositi di vendetta contro Rinaldo e i cristiani. Con Carlo e Ubaldo Rinaldo approda ad una spiaggia in Palestina dove, appese ad un albero, trova delle nuove splendide armi. Canti XVIII-XX. Ottenuto da Goffredo il perdono per la diserzione, Rinaldo ascolta il consiglio di Pietro l’Eremita e sale a pregare sul monte Oliveto per purificarsi delle proprie colpe. Poi si reca nella selva di Saron, supera indenne ogni minaccia demoniaca e, benchè gli appaia l’immagine tentatrice di Armida, taglia risolutamente un mirto: quando l’albero cade al suolo cessano di colpo gli incantesimi e la selva magica torna ad essere una naturale foresta. I cristiani possono così far provvista di legname e con esso costruire nuove macchine da guerra. Goffredo, avvertito da un messaggio segreto, decide di anticipare l’attacco decisivo alla città. Inizia dunque la terribile battaglia che deciderà le sorti di Gerusalemme. I cristiani assaltano in massa le mura e, nonostante la strenua difesa dei pagani, la conquistano di slancio e iniziano a dilagare nella città. Argante e Tancredi si ritrovano di nuovo l’uno contro l’altro: dopo un lungo e violentissimo combattimento, Argante viene ucciso. Tancredi, ferito, cade svenuto, me viene ritrovato da Erminia, che era stata rapita da alcuni ladroni nel suo rifugio tra i pastori, che lo soccorre e lo medica. Viene poi portato a Gerusalemme, insieme al cadavere di Argante, che riceverà per suo volere una degna sepoltura. Continua intanto ad infuriare la lotta nella città e i guerrieri pagani superstiti, con Solimano e Aladino, si sono rifugiati nella torre di David. Dopo aver concesso ai suoi una notte di riposo Goffredo, alle prime luci del sole, schiera l’esercito in campo aperto e lo manda all’attacco degli egiziani. Rinaldo semina terrore e distrazione ovunque, e lo stesso Goffredo combatte eroicamente. Solimano si rende conto che l’esercito egiziano è ormai sconfitto e decide di tentare una disperata sortita dalla torre: fa così strage di cristiani, ma viene poi ucciso da Rinaldo. Goffredo dunque, coronando la vittoria dei cristiani sull’esercito del Califfo uccide Emireno, il comandante degli egiziani. Armida, dopo un vano tentativo di colpire Rinaldo perde i sensi, ma viene soccorsa da costui che le promette di salvarle la vita e di restituirle il trono. Terminata la battaglia, Goffredo si reca subito coi suoi al Tempio per adorare il Santo Sepolcro. Le fonti del poema Allo scopo di rispettare la verità storica, che è a fondamento della sua costruzione poetica, Tasso si documenta con cura sulle vicende della prima crociata, attraverso varie fonti storiografiche. Si rifà soprattutto alle cronache medievali, in particolare alla Historia belli sacri verissima di Guglielmo di Tiro, che da poco tempo era stata tradotta in lingua italiana. Per la descrizione dei luoghi, in particolare della Palestina, il poeta si basa essenzialmente sulle informazioni contenute negli antichi repertori geografici e sui dati forniti dalle carte geografiche del Cinquecento. Quanto ai modelli letterari dell’opera, in vario modo e varia misura si spazia dagli autori classici ai poemi cinquecenteschi. Abbiamo innanzitutto l’Iliade di Omero e l’Eneide di Virgilio. Da Omero Tasso deriva innanzitutto la scelta di non rappresentare la guerra interamente ma solo in parte, di modo da non dilatare troppo la narrazione. Riprende inoltre anche singoli episodi, come quello dell’immagine della Vergine rubata (che ricorda il furto del palladio), l’episodio di Clorinda rimasta fuori dalle mura della città (simile a quello di Ettore fuori dalle mura di Troia) o la descrizione dello scudo di Rinaldo (analoga a quella dello scudo di Achille). Molti poi sono i riferimenti al Virgilio: basti pensare alla sortita notturna di Clorinda e Argante che ricorda quella di Eurialo e Niso. Fra i poemi cinquecenteschi Tasso guarda soprattutto all’Amadigi del padre Bernardo e all’Italia liberata dai Goti di Trissino, tenendo presente anche la tradizione cavalleresca: Orlando innamorato di Boiardo, il Morgante di Pulci, Orlando furioso di Ariosto. La fuga di Erminia ricorda in qualche modo la fuga di Angelica, e la figura di Armida a quella della maga Alcina. Nell’attingere a questo vasto materiale Tasso intende attuare una generale rifondazione del genere epico, ossia attualizza le regole e i modelli antichi adeguandoli alle aspettative e ai gusti contemporanei, ma soprattutto vuole trasformare l’epos classico in epos cristiano. Per questa ragione guarda con particolare attenzione alla Divina commedia di Dante, il primo e più alto modello di poema cristiano, disseminando numerosi e significativi riferimenti danteschi nei versi del suo poema. Il debito poi di Tasso nei confronti del Canzoniere di Petrarca, certo più evidente nelle Rime, è però innegabile anche nel poema, sia sul piano stilistico sia su quello psicologico e ideologico. Nelle parti più liriche della Gerusalemme si ripropone infatti, quasi nei medesimi termini, lo stesso dissidio interiore che era stato di Petrarca: quella tensione tra impulsi edonistici ed esigenze morali, tra valori religiosi e valori laici, che anzi nell’animo di Tasso si fa ancora più lacerante. I temi e i motivi Tasso costruisce il disegno narrativo della Gerusalemme liberata mediante la fusione di una molteplicità di elementi, eroici e romanzeschi, storici e fantastici, pagani e cristiani, antichi e moderni, nella volontà costante di conciliare e armonizzare le diversità e le opposizioni. Il modo in cui viene realizzato l’intreccio narrativo non è determinato tanto da elementi esterni ai personaggi, quanto piuttosto dai loro percorsi psicologici, dai loro drammi intimi: i personaggi sono dunque stati definiti giustamente «nodi di confluenza» degli impulsi fondamentali su cui il poema regge. Sul piano della materia narrativa invece, la Gerusalemme liberata, in quanto appartenente al genere epico, è prima di tutto un poema di eroismo e di guerra. Il tema della guerra è evidentemente legato alla civiltà del Rinascimento. Anch’essa, nel sistema ideologico tassiano assume un valore profondamente etico: il tema della legge morale è centrale nel poema: essa impone agli eroi cristiani la virile accettazione delle prove più dolorose, la virtù della rinuncia e del sacrificio, la lotta coraggiosa contro il male che è fuori e dentro di noi, generato dalle passioni terrene. Nel poema troviamo la generale rappresentazione della sofferenza della condizione umana, dell’ “aspra tragedia dello stato umano”: sia il destino dei cavalieri cristiani, protesi nella loro ideale missione di conquista e pure umanamente combattuti da passioni terrene, sia quello dei guerrieri pagani, sui quali pesa nonostante gli sforzi il destino amaro e ineluttabile della sconfitta, è accompagnato sempre dalla drammatica constatazione della precarietà delle cose terrene. Di fronte a questo senso tragico dell’esistenza la religione sembra essere l’unica via offerta all’uomo per affrontare e vincere gli ostacoli che la realtà gli oppone. Nella visione pessimista di una storia fondata sulla violenza solo una profonda religiosità sembra essere in grado di dare un senso alle coste e giustificare l’impegno eroico necessario per affrontare la lotta. La tentazione alle passioni è sempre in agguato, sia per l’uomo cristiano sia per quello pagano. Tra tutte le passioni quella dell’amore nella Gerusalemme liberata è forse la più forte e dolorosa e svolge un nucleo narrativo profondo. L’amore è un sentimento appassionato e assoluto, che travalica le situazioni sociali e culturali e può realizzarsi anche tra individui divisi da ragioni ideologiche, politiche e militari. Quando la passione amorosa si accende colui che ne rimane vittima è sottratto alle sue responsabilità ed è reso incapace di assolvere ai propri dovei morali e religiosi. L’avventura erotica di Rinaldo e Armida dimostra che l’amore, nel sistema ideologico della Gerusalemme liberata è considerata una colpa, in quanto distoglie dai doveri imposti dalla società. L’amore si traduce in un’ansia disperata verso un bene irraggiungibile e quindi, anche negli episodi segnati da una più intensa sensualità, dà luogo al dolore e all’angoscia. Nel poema del Tasso tutti gli amori restano inappagati: unica, parziale, eccezione è l’amore di Olindo e Sofronia, ma fino all’ultimo la loro vicenda sfiora la tragedia e in ogni caso i due sono estranei al nucleo centrale del poema. L’impossibilità dell’appagamento amoroso fa sì che al massimo della vicinanza fisica corrisponda il massimo della distanza psicologica dei due amanti. Dalle rappresentazioni tassiani della donna emerge sempre una forte sensualità repressa, che si manifesta sia nelle immagini, sia nel linguaggio; essa in effetti si esprime per lo più in immagini di violenza, come dimostra il duello tra Clorinda e Tancredi, la cui conclusione ha l’esplicito valore simbolico di una deflorazione. La posizione dell’uomo è sempre di assoluta debolezza rispetto alla donna: così Tancredi davanti a Clorinda, così Rinaldo davanti ad Armida. Alla sfera dell’amore è associato il tema del piacere. La sensualità e l’erotismo, benchè rifiutati sul piano ideologico, restano tuttavia ineliminabili nel tessuto narrativo del poema. La natura, nella varietà delle sue forme e dei suoi aspetti, è sempre partecipe della vita dei personaggi: rispetto ad essi non si pone come uno sfondo inerte, ma come la proiezione dei loro sentimenti. Rispetto ai paesaggi dell’Ariosto, che sono caratterizzati da elementi idillico-naturalistici, quelli della Gerusalemme liberata sono paesaggi indeterminati, di vaste solitudini, di inquietanti spazi notturni, oppure di luoghi appena illuminati da chiarori aurorali: tutte immagini che alludono ai dubbi e alle angosce del poeta stesso o ai suoi desideri di purificazione e di rinnovamento interiore. La natura dunque non viene armonizzata e regolata secondo un superiore criterio di perfezione, ma trasformata in una sorta di specchio dell’anima dell’uomo. La partecipazione della natura alla vita interiore dei personaggi si fa inquietante e misteriosa quando intervengono azioni magiche o incantesimi. Il magico in Tasso sembra avere quasi sempre la funzione di sviare la strada, e traviare moralmente i personaggi. Una realtà fondamentale per Tasso, anche se non è rappresentata in modo diretto nel poema, è quella della corte. Il mondo dei pastori presso il quale trova rifugio Erminia allude ad una società utopica fuori dalla storia e dalle sue violenze, rappresentando così un’alternativa alle corte reali, ma al contempo esprime il sogno di una corte ideale, ugualitaria, basata sulla natura e non sui rapporti di potere o economici. I personaggi principali. Uno dei personaggi più rappresentativi del poema è Goffredo di Buglione, il condottiero dei crociati. La sua figura non corrisponde affatto alla verità storica, ma incarna l’ideale, profondamente sentito dal poeta, dell’eroe saggio e umano e al contempo forte e inflessibile. Goffredo è il rappresentante per eccellenza dell’istituzione, dell’ordine ideale, del dovere morale, a tal punto da sembrare estraneo ad ogni richiamo della mondanità, cui non sono insensibili invece gli altri crociati. È il perfetto eroe della Controriforma, il prescelto da Dio per una missione straordinaria. Egli è sempre proteso nello sforzo di dominare gli eventi per orientarli al bene, anche se deve continuamente fronteggiare ostacoli e difficoltà che fanno di lui alla fine, un eroe tanto unico quanto solitario. Più di un aspetto della personalità di Tasso si riflette invece nella figura di Rinaldo. Alcuni critici hanno visto in costui il poeta stesso, raffigurato nelle sue aspirazioni cortigiane di gloria e fama poetica. In lui si esprime la finalità encomiastica della Gerusalemme liberata, in quanto egli è considerato il leggendario capostipite degli Estensi ed è certamente, tra i personaggi del poema, quello più vicino al mondo della cavalleria e della corte. Rinaldo è sempre animato da un desiderio di onore, ma questa passione non gli impedisce di farsi fuorviare dagli obietti superiori della crociata. Tuttavia, dopo lo smarrimento con la maga Armida, Rinaldo recupera una condizione di purezza e vince l’incanto della selva di Saron, contribuendo in modo decisivo alla vittoria finale dell’esercito cristiano. Addirittura sembra riuscire, in ultimo, a convertire la stessa Armida, affermando cosi la superiorità della fece sulle forze del male. Ancora più vicino alla sensibilità del poeta è Tancredi. Giorgio Petrocchi scrive «Nato per i sogni più che per la realtà». Si tratta di un personaggio mosso anche lui da ideali di gloria, ma che si perde affascinato dietro la visione di una donna nemica, una guerriera altera e irraggiungibile. Di fronte ad essa il guerriero cristiano dimentica ogni altro impegno, fino a trovarsi quasi incapace di agire. Anche nel duello che lo oppone alla donna si dimostra cieco e
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