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Riassunto dal Duecento al Cinquecento de "La lingua italiana. Profilo storico", di Claudio Marazzini., Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

Riassunto dei capitoli VI, VII, VIII, IX (dal Duecento al Cinquecento).

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 04/02/2017

FrancyElettra
FrancyElettra 🇮🇹

4.7

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Scarica Riassunto dal Duecento al Cinquecento de "La lingua italiana. Profilo storico", di Claudio Marazzini. e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! Il Duecento Dai provenzali ai poeti siciliani L’adozione del volgare come lingua letteraria, anche se riservata alla poesia e, dunque, assai circoscritta, implicava una promozione della lingua che vedesse impegnato non un singolo ma un gruppo omogeneo di autori: è questa la caratteristica della prima “scuola” poetica italiana, la “Scuola siciliana” (di cui Dante ebbe un giudizio positivo), sorta nel XIII secolo nella Magna curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale (siciliana perché il fulcro del regno era la corte di Sicilia  per Dante: “Regale solium erat Sicilia”). Prima di essa, però, erano nate due letterature romanze: la letteratura francese in lingua d’oil e la letteratura provenzale in lingua d’oc (quest’ultima, sviluppatasi nelle corti dei feudatari di Provenza, Aquitania e Delfinato, era per eccellenza la lingua della poesia e si incentrava sulla tematica d’amore  un amore intellettualizzato), ma i rapporti con la nostra penisola non mancarono: diversi poeti provenzali furono ospitati in Italia settentrionale, presso nobili famiglie come i marchesi di Monferrato, i Malaspina e gli Estensi; e così, mentre i poeti italiani iniziavano ad imitare i trovatori, i poeti siciliani ebbero l’idea di sostituire a quella lingua forestiera un volgare italiano: il volgare di Sicilia. Ma perché proprio il siciliano e non un altro idioma del Meridione continentale? Non possiamo rispondere con semplicità; è possibile ipotizzare, ad esempio, che Federico II, trascorsi a Palermo gli anni della fanciullezza, parlasse il volgare del sì con inflessione siciliana, pur non tornando quasi mai nell’isola. Possiamo, invece, dire con certezza che lo stesso Federico II poetò in quella lingua (così da comprendere che l’ambiente in cui fiorì la Scuola poetica era raffinato), pur padroneggiando bene anche il latino (“De arte venandi cum avibus” = “L’arte di cacciare con gli uccelli da preda”). Anche altri poeti che usarono il siciliano non erano siciliani (Percivalle Doria era ligure, ad esempio). Ciò dimostra che la scelta del siciliano (sentito come lingua raffinata) fu dotata di valore formale e, a causa dell’influenza esercitata dalla letteratura in lingua d’oc, arrivò a comprendere forme provenzali, come quelle in –agio (coragio: “cuore”) e in –anza (amanza, allegranza), spesso alternate a quelle italiane (Coletti fa notare la compresenza di chiaro e clero, di acqua e aigua), le quali potevano anche essere calchi semantici. All’inizio dell’Ottocento, però, si era restii a riconoscere il primato della letteratura provenzale. Giulio Perticari, ad esempio, avanzò un’interessante ipotesi secondo la quale i poeti della Scuola siciliana avevano scritto in una lingua illustre sovraregionale, diffusa in tutt’Italia e derivata dalla “lingua intermedia”, quest’ultima comune a Italia e Provenza; i provenzalismi, dunque, altro non erano che eredità dell’antica lingua intermedia (vi si oppose il francese Raynouard e, prima di lui, lo stesso Dante aveva riconosciuto la superiorità dei provenzali). Eppure, Perticari si riallacciò proprio a Dante, il quale credeva che i siciliani avessero poetato in una lingua sovraregionale. Ma sia Dante sia Perticari avevano compiuto errori di valutazione, in quanto non si resero conto che i codici medievali, corpus della poesia, furono scritti da copisti toscani che ne alterarono la forma linguistica facendo opera di traduzione (=eliminazione dei tratti siciliani). Nel corso dei secoli, dunque, si credette di avere di fronte manoscritti non contraffatti, tanto più che con la sconfitta degli Svevi, cui seguirono gli Angioini, i manoscritti siciliani/meridionali andarono distrutti. Il primo a comprendere cosa avvenisse nel Medioevo fu, nella metà dell’Ottocento, il filologo modenese Giovanni Galvani (partendo, però, dalla valutazione di testi toscani che venivano “settentrionalizzati”). Galvani, infatti, valorizzò la testimonianza di Giovanni Maria Barbieri, il quale, analizzando un “Libro siciliano”, si accorse della “sicilianità” dei versi che vi erano scritti, pur essendo presenti alcune discrepanze fono-morfologiche (anche le rime imperfette  conduce: croce, diventano perfette solo se riportate alla lingua originale  conduci: cruci). Leggendo, ad esempio, una canzone di Stefano Protonotaro o un frammento del figlio di Federico II, re Enzo, accanto alle vocali finali –u e –i al posto delle –o ed –e toscane, e la i al posto di e toscana in posizione tonica (placìri, murìri); notiamo amo al posto di amu. Possiamo anche confrontare alcuni versi della canzone “S’eo trovasse pietanza” di Re Enzo e la trascrizione in forma toscanizzata nel Codice Vaticano 3793. Vi furono, comunque, elementi che andarono incontro a una vera e propria stabilizzazione, come la rima siciliana, di cui si serve Manzoni nel “nui” del Cinque maggio, e i condizionali meridionali in –ìa (crederìa vs toscano crederei). Tuttavia, il dibattito sulla sicilianità della lingua si protrasse fino all’Otto-Novecento Documenti centro-settentrionali Con il tramonto della casa sveva venne meno la poesia siciliana, la cui eredità passò in Toscana e a Bologna con i cosiddetti poeti siculo-toscani e con gli stilnovisti. È, questa, la “linea maestra della poesia italiana”, che dal Meridione porta verso l’area centro-settentrionale. Degna di menzione, in tale processo, è la poesia religiosa, con particolare riguardo al “Cantico di frate sole” (anche detto “Laudes creaturarum”, scritto in un volgare che accoglie elementi umbri) di San Francesco, databile al 1223-1224 e per questo leggermente in anticipo rispetto alla Scuola poetica siciliana. Eppure, la tradizione delle laudi religiose si sviluppò non solo nel Duecento ma anche nel Trecento e nel Quattrocento, quando i testi laudistici (dedicati a Gesù, alla Madonna, ecc.) furono adoperati dalle confraternite come preghiere cantate. Inoltre, data la centralità geografica della poesia laudativa (in prevalenza umbra, marchigiana e toscana), essa finì per esercitare una funzione linguistica importante, diffondendo, ad esempio, moduli centrali in area settentrionale (in cui erano intrisi di settentrionalismi; ad ogni modo, i laudari settentrionali a noi giunti sono pochi e tardi, quattrocenteschi e cinquecenteschi, pur derivando da manoscritti antichi distrutti). Tuttavia, non è facile seguire i canali di diffusione delle laudi, in quanto la maggior parte erano anonime (ne scrisse anche Jacopone da Todi), scritte in una lingua quotidiana e poco ricercata. Molte comunità le realizzavano attingendo a quello di altre comunità (i laudari piemontesi si basarono su laudari liguri). Il Settentrione, comunque, va menzionato perché nel Duecento fiorì una letteratura in volgare i cui esponenti furono il cremonese Girardo Patecchio, Uguccione da Lodi e Giacomino da Verona: si tratta di una poesia didattica e moraleggiante, sviluppatasi principalmente in area lombarda, e dal fine prettamente educativo, la cui fortuna venne meno in seguito al confronto con la letteratura toscana. I siculo-toscani e gli stilnovisti L’area in cui si sviluppò la poesia siculo-toscana ebbe i suoi centri in Pisa (con Tiberio Galiziani), Lucca (con Bonagiunta) e Arezzo (con Guittone). L’uso del volgare scritto, dunque, si espanse dapprima nell’area toscana occidentale, a causa del prevalere politico ed economico-sociale di quest’ultima, facenti capo a Pisa, tra i secoli XI e XII. Firenze, infatti, si affermò solo nella seconda metà del Duecento, precisamente tra il 1260 e il 1280, grazie a rimatori quali Chiaro Davanzati, Monte Andrea e Rustico Filippi, il cui stile rifletteva quello dei poeti siciliani, intriso di gallicismi e sicilianismi ( le –i finali al posto delle –e = calori, valori; condizionali in –ìa; futuri in –aio; participi passati in –uto, adoperati anche da Dante e da Petrarca). Carnino Ghiberti, per esempio, adoperò il meridionalismo chiaceriami per piaceriami, e rime in u come dipartuto e dormuto. Per quanto riguarda Dante, attribuì a Guinizelli la svolta stilistica che condusse alla nuova poesia d’amore; ma è inevitabile che lo storico della lingua riconosca una continuità fra la tradizione poetica anteriore e quella stilnovista, in cui permangono gallicismi, provenzalismi e sicilianismi (un esempio, in Guinizelli, è dato dai gallicismi riviera  fiume; rempaira  ritorna; giano  giallo; dai provenzalismi sclarisce e allegranza; dai sicilianismi saccio  so; agio  ho; non mancano, comunque, forme bolognesi come saver  sapere e cò  capo. Anche in Cavalcanti troviamo forme suffissali in –anza, rime siciliane del tipo noi : altrui, ma anche tratti toscani come il condizionale in –ebbe). Dante teorico del volgare Dante rivelò la propria natura di glottologo e dialettologo ante litteram nel “Convivio” e nel “De vulgari eloquentia”. Nel Convivio, il volgare viene celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino; quest’ultimo, infatti, pur essendo reputato superiore in nome dell’utilizzo che se ne fece nell’arte, era ormai estraneo al grande pubblico. L’idea di Dante, dunque, nasce da un’istanza di divulgazione più larga ed efficace. Nel De vulgari eloquentia, invece, il volgare acquisisce superiorità in nome della sua naturalezza, e la letterarietà della lingua giova solo come stimolo alla regolarizzazione del volgare. Il De vulgari eloquentia fu composto nell’esilio, prima della Commedia, e venne interrotto al libro II; è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare, riscoperto nella prima metà del XV e pubblicato in traduzione italiana dal vicentino Trìssino (uno dei protagonisti della “questione della lingua”). Le sue tesi vennero adoperate in chiave polemica; alcuni, ad esempio, insinuarono che il trattato non fosse di Dante, e una simile ipotesi faceva comodo alla cultura fiorentina che mal tollerava la condanna di Dante nei confronti del volgare toscano e la preferenza accordata al bolognese e al siciliano illustre. Il testo originale, a cura di Jacopo Corbinelli, fu pubblicato a Parigi nel 1577. Nel Settecento il De vulgari eloquentia fu apprezzato da Muratori, mentre nell’Ottocento fu sminuito da Manzoni che riteneva avesse per oggetto solo la poesia e non la lingua (questo perché tratta molto di questioni retoriche e metriche). Ecco come si struttura l’opera: si parte dalla creazione di Adamo, quando Dio stabilisce di diversificare l’uomo dagli animali dotandolo di linguaggio. Nodo centrale è la Torre di Babele, da cui ha inizio la storia delle lingue naturali, che mutano nel tempo e nello spazio. Per porre un freno alla continua mutevolezza degli idiomi (così da garantire una certa stabilità utile alla nascita della letteratura) intervengono i dotti mediante la creazione della grammatica delle lingue letterarie. Dante, procedendo dal generale al particolare, inizialmente si concentra sull’Europa: nei paesi del Nord e del Nord-Est (germanici e slavi) si parlano lingue in cui sì si dice iò; nei paesi del Centro-Sud si parla la lingua d’oil (il francese), la lingua d’oc (il provenzale) e il volgare del sì (italiano); in Grecia e nei paesi orientali è diffuso il da qualsiasi progetto di promozione di nuovi ceti sociali. Con lui, il linguaggio lirico viene modificato (accoglie una sola rima siciliana  voi : altrui; consacra la rima grafica e non fonica  è : é; elimina alcuni gallicismi  fidanza) e acquisisce una genericità antirealistica, come testimoniato dalla polivalenza di termini (agg. dolce) che entrano in un gran numero di combinazioni (dolce loco, dolce riso, dolce pianto, dolce veneno). A livello sintattico, invece, fa uso di una dispositio che muta l’ordine delle parole, alla latina (si anticipa il determinante rispetto al determinato, oppure l’infinitiva dipendente rispetto alla principale), in modo da rifuggire dalla banalità del quotidiano. Abbiamo chiasmi, enjambement, anafore, allitterazioni, nonché binomi di aggettivi (solo e pensoso), tutte caratteristiche che diverranno tipiche del linguaggio lirico italiano. Poiché possediamo anche la redazione definitiva del Canzoniere (all’interno del Codice Vaticano 3195), possiamo valutare i problemi grafici posti nell’uso del volgare e le soluzioni adottate dallo scrittore: com’era d’uso, ad esempio, scrisse sualuce, almio, delbel, belliocchi (unendo al nome i possessivi, le preposizioni, gli articoli e a volte anche gli aggettivi). Manca l’apostrofo e, tra i segni di interpunzione, abbiamo il punto, la barra obliqua e il punto esclamativo. Vi sono latinismi grafici, come le h etimologiche in huomo, humano, honore, le x (extremi), e i nessi -tj- (gratia). Per l’affricata, Petrarca usò la ç. Abbiamo, inoltre, segni di abbreviazione, come il tratto di penna posto sulla vocale per segnalare una consonante nasale (lapa  lampa; no  non), o il taglio nella gamba della p per indicare l’abbreviazione di “per”. La prosa di Boccaccio L’importanza del Decameron sta nel fatto che la prosa trecentesca, non ancora stabilizzata in una tradizione salda, aveva compiuto, grazie a tale opera, un salto di qualità. Poiché la Vita Nuova e il Convivio di Dante, pur scritte in prosa, risultavano legate alla poesia, mentre la prosa del Novellino non si adattava a tutti i contesti, teorici e grammatici del Cinquecento, seguendo Bembo, indicarono nell’opera boccacciana il termine di riferimento a cui attenersi; con tale scelta concordarono Lionardo Salviati e l’Accademia della Crusca. Vi fu, comunque, chi era avverso a tale modello: nell’Ottocento, ad esempio, i manzoniani reagivano polemicamente ad alcune caratteristiche del suo periodare, diventate una sorta di “maniera”. Eppure, il Decameron offriva modelli diversi tra loro che non riscossero lo stesso successo. E, dal momento che ricorrono situazioni narrative molto variate, lo scrittore non rinunciò alla sua ricerca di realismo attraverso un’adeguata caratterizzazione linguistica: abbiamo il veneziano di monna Lisetta e di Chicibìo, il senese di Tingoccio, il toscano rustico nella novella del prete di Varlungo. Appare eccessivo, comunque, parlare di “plurilinguismo programmatico”, visto che la costante è data dalla ricerca di regolarità, nonostante la ricca vivacità dei dialoghi, caratterizzati da scambi di battute intrisi di popolarismi e anacoluti, spesso non adeguatamente apprezzati (Stussi, infatti, ha osservato che nelle edizioni cinquecentesche si tendeva a correggere forme idiomatiche e dialettali usate da Boccaccio). Ma con “stile boccacciano” si fa riferimento alla complessa ipotassi, presente soprattutto nelle parti più nobili (in cui le subordinate si accumulano copiose), con frequenti posposizioni dei verbi in clausola. Serianni ricorda che, durante le polemiche del Seicento riguardo i modelli proposti dal vocabolario della Crusca, alcuni giudicarono questo stile come innaturale. Tra essi Paolo Beni, letterato padovano, il quale, per un passo del Decameron, parlava di “periodo sbilanciato a sinistra”, secondo il modello del latino (la principale arriva dopo una sequenza di cinque subordinate). Una parte del fascino della prosa boccacciana, comunque, è affidata all’uso di artifici ritmico-musicali ricercati, omeoteleuti, parallelismi sintattici, allitterazioni; inoltre, nelle sue forme non mimetiche, è fiorentina di livello medio- alto: lo stesso Hamilton 90, codice autografo e recante quasi tutto il testo, ci consente di collocare le strutture grammaticali ivi presenti nel fiorentino coevo, in cui ricorrono tratti arcaici come diece per dieci, o forme modernizzanti come tu ami al posto di tu ame (ma non usa mai forme innovative quali arò per avrò, arei per avrei). Anche nella grafia di Boccaccio abbiamo latinismi come le x (exempli), il nesso -ct- (decto  detto), le h etimologiche (herba, habito). L’affricata dentale è resa ora con ç ora con z, sempre scritte scempie, mentre il sistema di interpunzione è più ricco (virgola, punto e virgola, due punti, punto interrogativo). Prosa minore dell’“aureo Trecento”: la Toscana L’imitazione delle Tre Corone fu consigliata da teorici e grammatici già nel Cinquecento. Accanto ad essi, però, furono accostati autori minori, in virtù della loro presenza in un secolo reputato aureo grazie al connubio tra scrittori e popolo: Salviati, ad esempio, riteneva che il popolo fiorentino del Trecento avesse una lingua migliore di quella parlata dai suoi contemporanei, e l’abate Cesari, purista, era convinto che tutti gli autori toscani, anche i minori e minimi, sapessero scriver bene e fossero da etichettare come modelli. In particolare, furono elogiati due scrittori religiosi, Domenico Cavalca e Iacopo Passavanti; il primo era un noto autore di volgarizzamenti (basti citare “Vite dei santi padri”, in cui dice di aver usato uno stile semplice per rivolgersi a chi ignorava il latino); il secondo scrisse “Specchio di vera penitenza”, opera morale e dottrinale che parla della predicazione quaresimale a Firenze. Fino all’Ottocento, tali opere furono degne di nota (soprattutto a livello linguistico). Primi successi del toscano Il rimatore e metricologo padovano Antonio da Tempo affermava, già nel 1332, che la lingua toscana fosse la più adatta alla letteratura, oltre che la più diffusa. L’influenza del toscano, però, dava spesso vita a processi di ibridismo e di contaminazione di codici linguistici. Nel tardo Trecento, ad esempio, il petrarchista padovano Francesco di Vannozzo usò il dialetto in componimenti satirici e polemici, in quanto si richiedeva un linguaggio più realistico; ma, anche imitando i toscani, i poeti settentrionali si lasciavano sfuggire vistosi settentrionalismi. Perfino in Nicolò de’ Rossi, che si sforzò di eliminare le forme locali al punto da cadere nell’ipercorrettismo (si pensi all’introduzione delle consonanti geminate in parole che in toscano sono scempie  vomitto: vomito), convivono forme toscane e forme settentrionali. Tra gli autori di poemi, si rifecero a Dante anche coloro che volevano discostarsene (come Cecco d’Ascoli, autore del poema “L’Acerba”), così da sancire il trionfo della terzina (anche se quella usata da Cecco è diversa da quella dantesca). I volgarizzamenti I volgarizzamenti nel Trecento sembrano rifacimenti del testo originale: lo dimostrano Le vite dei santi padri di Domenico Cavalca e i Fioretti di San Francesco. Anche la Cronica dell’Anonimo romano, contenente la Vita di Cola di Rienzo, è un volgarizzamento da una precedente redazione latina dello stesso autore; la lingua non è il toscano ma l’antico romanesco, che si presentava in forme meridionali prima della toscanizzazione cinquecentesca della parlata romana. L’intento era, ancora una volta, divulgativo. Abbiamo l’esito -ie di G + vocale palatale (iente  gente) e l’assimilazione di -nd-. Furono realizzati altri volgarizzamenti (da opere latine e toscane) in lingue locali quali siciliano, napoletano, ligure, ecc. Ad ogni modo, la prosa resisteva di più della poesia all’omologazione geografica. L’“Epistola napoletana” di Boccaccio Uno dei più antichi testi in volgare napoletano è una lettera scritta dal toscano Boccaccio, un’Epistola databile al 1339. Si parla di “letteratura dialettale riflessa”, cioè volontariamente distinta dalla lingua letteraria; Boccaccio era in grado di padroneggiare tale idioma grazie al suo soggiorno a Napoli, durante il quale apprese ad imitarlo ad orecchio. Si tratta di uno scritto scherzoso in cui l’autore si rivolge all’amico Francesco de’ Bardi. Non solo vi sono tratti propri della lingua parlata, di norma evitati nella forma scritta, ma abbiamo anche ipercorrettismi, nel senso che il dittongo napoletano viene introdotto anche in parole che in napoletano non l’hanno (nuostra, fratiello  frate, nella forma normale, ma Boccaccio ha inserito un dittongo metafonetico nella forma toscana “fratello”). Di solito si dottava il volgare per nobilitarlo, per elevarlo; Boccaccio, invece, è il primo che adotta un volgare diverso dal proprio per fini diversi, scherzosi. Il Quattrocento Latino e volgare Petrarca adoperava il latino nelle opere che riteneva maggiormente degne di nota; era conscio, però, della differenza che intercorreva tra il latino degli autori classici cui si ispirava (Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio) e il latino medievale del suo tempo, al punto da misurarne la differenza (Dante, che lo aveva preceduto, non si era posto il problema di usare un “latino moderno”). L’attenzione di Petrarca fu determinante per la formazione di una mentalità grammaticale (che, in seguito, venne applicata anche per la stabilizzazione normativa dell’italiano) e la svolta cui diede avvio ebbe come conseguenza una “crisi” del volgare, la quale, pur non arrestandone l’uso, lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti. Questi ultimi, infatti, confrontandola con la lingua dei classici, la reputavano inferiore; talvolta la guardavano perfino con curiosità. Ad ogni modo, vi furono umanisti che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati, figura di spicco dei primi anni del Quattrocento. Egli, dirigendo per decenni la cancelleria fiorentina, diffuse il proprio stile latino elaborato sulla base dei modelli ciceroniani, e venne inserito da Leonardo Bruni tra gli interlocutori del “Dialogus ad Petrum Paulum Histrum”, dove pronunciava parole di rammarico per la scelta operata da Dante nella stesura della Commedia, scritta in volgare anziché in latino. Nel dialogo viene inserito anche Niccolò Niccoli che, dello stesso parere di Salutati, affermava che Dante non avrebbe dovuto essere considerato un letterato. Probabilmente il dialogo si fondava su giudizi reali e correnti portati alle estreme conseguenze. La pensava diversamente Leonardo Bruni che, in qualità di estimatore di Dante, ne scrisse una “Vita”, in cui affermava che non faceva differenza scrivere in latino o in volgare, così come non faceva differenza scrivere in latino o in greco; ogni lingua, infatti, può considerarsi perfetta se chi la utilizza lo fa in maniera elegante (bisognava, dunque, giudicare la qualità delle realizzazioni scritte). Tuttavia, la disponibilità ad accogliere queste idee si manifestò solo nella seconda metà del secolo XV, in particolare a Firenze, pur essendo ancora umanisticamente normale disprezzare il volgare: Giorgio Valla, ad esempio, parlava con sufficienza delle “cantiunculas”, ossia delle canzoncine scritte in volgare da Dante e da Petrarca per gli indotti, mentre Francesco Filelfo, nel 1477, pur non disdegnando il volgare, era del parere che andasse usato solo per scrivere ciò che non era destinato a memoria imperitura (scritte pratiche e d’affari, senza pretese d’arte). Nel XV secolo, dunque, dominava l’ideologia umanistica, che si riconosceva unicamente nel latino. Solo quando gli umanisti si posero il problema su come fosse avvenuto il crollo della romanità, che sancì il passaggio al Medioevo, ci si interrogò sull’origine del volgare e sui rapporti con il latino classico. Macaronico e polifilesco Ad ogni modo, nel secolo dell’Umanesimo e nel primo Cinquecento gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare furono frequenti e portarono a un livello d’arte quella che era, in fondo, una pratica comune. Si trattava, infatti, di contaminazioni colte, volontarie e studiate, di cui esistevano due forme: il “macaronico” e il “polifilesco”. La poesia macaronica (il cui nome deriva da un cibo, il maccarone, cioè un tipo di gnocco; l’intento, dunque, era quello di indicarne un’origine vistosamente corporea, comica rispetto alla natura eterea della lirica) nacque a Padova (poi si diffuse anche a Torino, Pavia e Asti) alla fine del Quattrocento, grazie all’iniziatore Tifi Odasi; il più illustre esponente, invece, fu Teofilo Folengo. Essa era caratterizzata dalla latinizzazione parodica di parole del volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latine (la componente latina è aulica e quella dialettale è bassa, plebea). Dal punto di vista linguistico, il “macaronico” consisteva nella creazione di parole macedonia (es. a una parola volgare si applica una desinenza latina: cercabat “cercava”  cercare + -abat , imperfetto latino; parole latine legate in costrutti sintattici del volgare: propter non perdere tempus), il cui risultato era un latino che sembrava pieno di errori, reso ancor più evidente dalla tecnica di “abbassamento di tono” (ricercata attraverso la combinazione di citazioni di autori classici e l’inserimento di elementi repellenti  pidocchi, per es.). La poesia polifilesca (anche detta pedantesca) prevedeva, al contrario, una scrittura seria; il volgare che veniva combinato con il latino non era di tipo dialettale, bensì toscano, boccaccesco, con patina settentrionale illustre; inoltre, si ispirava ad autori diversi dalla latinità aurea, quali Apuleio e Plinio (es. achi crinali  forcine per capelli). Tale linguaggio venne adoperato anche in prosa; basti pensare alla composizione di un romanzo anonimo pubblicato a Venezia dal titolo “Hypnerotomachia Poliphili” (“Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia”). Fenomeni di mescidanza nella predicazione e altri casi di contaminazione tra latino e volgare Nell’Italia settentrionale, nella seconda metà del Quattrocento, vi furono predicatori (come Bernardino da Feltre) che si esprimevano alla maniera macaronica, mescolando latino e volgare. Ma, dopo aver ipotizzato una connessione tra questi “sermoni mescidati” (misti di latino e volgare) e il genere macaronico, si è concluso che tale mescolanza venne tramandata dalla tradizione medievale, quando il latino era adoperato per citare passi delle Sacre Scritture nel corpo della predica stessa. Tuttavia, nei “sermoni mescidati”, le espressioni convivono con una dialettalità così vigorosa da far pensare che in essi ci sia, a volte, il gusto per il comico. Dubitare del grado di veridicità di questi sermoni, però, sarebbe inappropriato, in quanto non vi è ragione di pensare che si distacchino completamente dalla predicazione reale. Non va dimenticato, comunque, che i latinismi divennero frequenti anche in documenti volgari quali epistole, diari, libri di famiglia, nei quali risultavano legati a una consuetudine: nelle lettere, ad esempio, per rivolgersi al destinatario si adoperavano formule iniziali e finali (nell’epistola di Esterolo Visconti al duca Francesco Sforza del 1451, il primo si rivolge al secondo chiamandolo “domine mi singularissime”, con il vocativo latino; nella lettera del 1494 al marchese di Mantova Francesco Gonzaga, l’intestazione è in latino) o semplici parole che sono divenute ricorrenti (cum “con”; maxime “massimamente”; quondam “un tempo”). Leon Battista Alberti Leon Battista Alberti iniziò il movimento definibile come “Umanesimo volgare” elaborando un programma di promozione della nuova lingua attraverso componimenti poetici e prosastici di tono alto (tra le prose, il trattato “Della famiglia” e il saggio scientifico “De pictura”). Alberti, esponendo le proprie teorie nel Proemio al III libro del citato “Della famiglia”, affermò, ricollegandosi all’umanista Biondo Flavio, che la perdita della lingua latina fosse da attribuire alla calata dei barbari, fautori dell’introduzione di “barbarismi e corruttele nel proferire”. Era, inoltre, amante dei toscano senza sentirlo come lingua viva e vera (guardava, in particolare, al Trecento). In lui troviamo frequenti latinismi, che si riflettono anche sul vocalismo tonico in cui abbiamo i e u al posto di e ed o (simplice, firma), mentre prevalgono le scempie sulle geminate  tuto per “tutto” (tratto locale). Va detto, inoltre, che le due più antiche edizioni dell’Orlando innamorato (lasciato incompiuto) ci sono giunte in un’unica copia, e possediamo un manoscritto (le due stampe presentano un colorito più dialettale, mentre il manoscritto è maggiormente toscanizzato). Si pensa che la forma originale sia quella presente nelle due stampe, in cui il testo si avvicina al padano illustre. Il linguaggio della lirica nell’Italia meridionale Con l’ascesa della dinastia aragonese a Napoli, fiorì una poesia cortigiana che vide esponenti come Francesco Galeota e Pietro Jacopo de Jennaro. Tavoni ha osservato che i tratti linguistici di questi poeti si differenziano da quelli del toscano: vi è un’oscillazione tra forme anafonetiche e forme senza anafonesi; i possessivi toa, soa si alternano ai toscani tua, sua; sono presenti meridionalismi quali iorno “giorno” e iace “giace”. Al contrario, la generazione successiva dei poeti meridionali, rappresentata da Cariteo e Sannazaro, si distacca maggiormente dai localismi. Del Sannazaro è importante l’Arcadia, che ebbe grande fortuna in Italia in Europa, di cui esistono due redazioni; essa (appartenente al genere bucolico, con alternanza tra egloghe pastorali e parti in prosa) rappresenta la prima prosa d’arte composta fuor di Toscana, in una lingua appresa ex novo da parte di uno scrittore linguisticamente periferico,. Sannazaro, successivamente, si dedicò alla produzione poetica in latino. La prosa narrativa non toscana Per esigenze di realismo, i localismi sono più frequenti nella prosa, specie in quella narrativa, principio da cui non sfugge neppure la prosa toscana, la quale aderisce al parlato specialmente nelle parti dialogate. Dunque accade quanto segue: nelle Porretane del bolognese Sabatino degli Arienti troviamo diversi settentrionalismi, mentre nelle Novelle di Masuccio Salernitano, che imita Boccaccio, abbiamo meridionalismi. In Masuccio, però, i dialettismi si adoperano al fine di caratterizzare con maggiore realismo personaggi e situazioni e, di conseguenza, opera non solo accanto ma anche in opposizione alle forme letterarie dotte. Il Cinquecento Italiano e latino Nel Cinquecento il volgare e la letteratura in volgare raggiunsero una piena maturità; i dotti ne riconobbero l’importanza grazie al processo di regolamentazione grammaticale cui andò incontro (determinante furono le “Prose della volgar lingua” di Pietro Bembo) e, nel contempo, diversi autori scrissero in questa lingua (Ariosto, Tasso, Machiavelli, Guicciardini). Il volgare scritto iniziò a farsi strada in tutti i settori del sapere, sebbene nel periodo rinascimentale (1300-1600) il latino resistesse al livello più alto della cultura (la maggior parte dei libri era ancora pubblicata in latino). Il popolo, dal canto suo, cercava una guida per scrivere correttamente evitando latinismi e dialettismi; così, verso la metà del Cinquecento, la scrittura di koinè, considerata lingua rozza da letterati e cancellieri, tramontò. Il latino, però, si trovava in una posizione egemonica in settori quali la pubblica amministrazione e la giustizia (Migliorini osserva che la maggior parte degli statuti editi nelle città italiane era in latino nel XVI secolo, anche se talvolta si adoperava il volgare, come in quelli delle associazioni mercantili  ma nel Lazio, a metà 1500, molti comuni tradussero in volgare gli statuti editi in latino); il volgare, invece, si iniziava ad adoperare nelle verbalizzazioni delle inchieste e nei processi, pur essendo ancora in latino la sentenza di condanna (Migliorini opera un interessante confronto tra un processo condotto a Venezia dal Sant’Uffizio nei confronti dell’editore Giolito de’ Ferrari e un processo istituito dal vescovo di Squillace contro Tommaso Campanella. In entrambi i casi si assiste alla mescolanza dei due codici, latino e italiano, ma in forma diversa: l’inquisitore veneziano scrive il verbale in latino e registra le risposte in italiano; il giudice calabrese, invece, mescola latino e italiano in maniera meno sistematica, con prevalenza dell’italiano nel discorso indiretto). Solitamente, si adopera il latino per le formule giudiziarie, mentre l’italiano per la registrazione della viva voce. Marazzini, interessandosi alla mescolanza tra italiano e latino nel campo del diritto civile, ha preso in esami dei privilegi concessi all’edizione del Decameron di Salviati; su undici concessi da governanti di stati italiani, sette sono integralmente in latino, due mescolano italiano e latino e due sono in italiano per intero (quello emesso dal governatore spagnolo di Milano e quello di Francesco Maria II duca di Urbino). Riguardo il Piemonte, l’uso del latino nel privilegio contrasta con la scelta compiuta da Emanuele Filiberto che aveva introdotto l’italiano in verbalizzazioni, atti notarili, ecc. Molto più conservatrice era la prassi della Repubblica di Genova, in cui si usava il latino per le leggi e la cancelleria ancora nel Seicento, anche se furono redatte in volgare le norme per regolare la vita pubblica (le scritture giuridico-normative contengono elementi locali  camallo = scaricatore di porto). Nelle zone sottoposte al governo spagnolo, come la Lombardia e il Regno meridionale, entrarono nel linguaggio delle cancellerie e nelle pubbliche gride molti ispanismi (alborotto, “tumulto”), mentre in Sardegna l’amministrazione spagnola fu ostile verso il volgare italiano, tanto che venne avanzata la richiesta di tradurre in sardo o in catalano gli statuti di alcune città; l’uso dello spagnolo, comunque, rimase fino alla penetrazione nell’isola della monarchia sabauda. Nell’isola di Malta, sempre in questi ambiti, si usava l’italiano dal Cinquecento; in Dalmazia, invece, fu intriso di forme venetizzate. Per quel che riguarda la produzione libraria, infine, dobbiamo fare distinzioni in riferimento ai generi: la filosofia, la medicina e la matematica adoperavano il latino; i testi di “arti applicate” (l’arte di fondere i metalli, i ricettari di medicina, di cosmetica, ecc.), rientranti nelle opere di divulgazione, erano scritti in volgare (anche l’architettura  non ancora disciplina accademica); per il settore umanistico-letterario, il volgare trionfa nella letteratura e nella storiografia (pensiamo a Machiavelli e Guicciardini). La percentuale più alta di libri in volgare viene stampata dall’editoria di Venezia, seguita da quella di Firenze; a Roma, Torino e Pavia, invece, la produzione dei libri in volgare è al di sotto della soglia del 50% (Torino e Pavia sono città periferiche rispetto al centro toscano e prevale la cultura universitaria legata al latino  situazione condivisa da Napoli; a Roma il latino è egemonico in quanto lingua della Chiesa). La “questione della lingua” (Pietro Bembo: dalle edizioni aldine del 1501-1502 alle “Prose della volgar lingua”) Importante è il sodalizio con l’editore veneziano Aldo Manuzio. Manuzio aveva stampato nel 1499 l’Hypnerotomachia Poliphili, saturo di latinismi, e nel 1500 un secondo libro in volgare, Lettere di Santa Caterina. Nella premessa di quest’opera, il volgare usato da Manuzio è colmo di settentrionalismi e non si avvicina affatto alla teorizzazione di Bembo. Successivamente, nel 1501, Manuzio stampò due classici, Virgilio e Orazio, scegliendo un formato tascabile celebre anche per il carattere tipografico corsivo detto “aldino”. Nello stesso anno uscì il Petrarca volgare curato da Bembo, che segnò un evento di importanza storica e culturale. Manuzio, nella premessa, difese il testo da coloro che non condividevano il suo allontanamento dalle tradizionali grafie latineggianti (nel titolo abbiamo “Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca” anziché “cose vulgari”, e alcuni sostenevano che bisognasse scrivere “vulgari” perché in latino si dice “vulgo” e non “volgo”). Ma va affermato qualcosa di ancor più incisivo: la forma linguistica di quel testo di Petrarca era quella su cui, in seguito, si sarebbero fondate le “Prose della volgar lingua” (compariva anche l’apostrofo ispirato alla grafia greca). Nel 1502 fu pubblicata la Commedia curata da Bembo. In quegli stessi anni, Bembo scrisse gli “Asolani” (usciti nel 1505), prosa trattatistica e filosofica ispirata a Boccaccio più per la lingua che per lo stile (i latinismi sono quasi del tutto assenti) e, nei dieci anni successivi alle edizioni aldine, Bembo scrisse le Prose. Il Cinquecento fu il secolo in cui, al centro del dibattito teorico sulla lingua, vi fu la stabilizzazione normativa dell’italiano. Si parla di “questione della lingua” in riferimento all’interminabile serie di discussioni sulla natura del volgare e sul nome da attribuirgli. Al centro del dibattito si pongono proprio le “Prose della volgar lingua”, pubblicate a Venezia nel 1525; si tratta dell’editio princeps (in merito alla tipografia quattro- cinquecentesca, la prima edizione a stampa di un’opera, di qualsiasi genere) corredata di edizione critica, con le varianti rispetto al manoscritto. Le Prose sono suddivise in tre libri e il terzo contiene, in forma dialogica, una vera e propria grammatica dell’italiano caratterizzata da una serie di norme e regole esposte in maniera non particolarmente metodica. Il dialogo è idealmente collocato nel 1502 e vi prendono parte quattro personaggi, ognuno dei quali sostiene una tesi differente: Giuliano de’ Medici (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico) si fa portavoce delle teorie dell’Umanesimo volgare, Federico Fregoso espone tesi storiche presenti nella trattazione, Ercole Strozzi (umanista e poeta in latino) espone le tesi degli avversari del volgare e, infine, Carlo Bembo, fratello dell’autore, è rappresentante delle idee di Pietro. Nelle Prose, inizialmente, si volge un’analisi storico-linguistica, prendendo le distanze dalla tesi pseudo-bruniana (la forma vulgata della tesi proposta da Leonardi Bruni, secondo cui l’italiano era già esistito al tempo dell’antica Roma, come lingua popolare). Poiché Bembo non accetta questa ipotesi, fa dire a Ercole Strozzi (sostenitore del primato del latino) che non ci sarebbe motivo di adottare una lingua che a suo tempo era stata rifiutata dagli autori classici. Bembo, invece, condivideva il punto di vista di Biondo Flavio, secondo il quale il volgare era nato dalla contaminazione del latino ad opera dei barbari e, di conseguenza, il volgare stesso era concepito come un’entità nuova che era possibile elevare attraverso la letteratura. Bembo, per spostarsi sul piano della letteratura, osservava che l’italiano era andato progressivamente migliorando, a differenza di altre lingue moderne, come il provenzale, che erano andate regredendo. Egli, nello specifico, parla del volgare fiorentino, quello letterario trecentesco delle Tre Corone (Dante in minor misura), affermando che il vantaggio dei toscani sugli altri italiani può essere rischioso: i letterati fiorentini, infatti, possono essere portati più di altri ad accogliere parole popolari che, di norma, andrebbero evitate. Il punto di vista delle Prose è umanistico e si fonda sul primato della letteratura, in quanto la lingua si acquisisce da modelli scritti (quelli dei trecentisti) e non dal popolo (la matrice di questa idea è classicistica). E, dal momento che un requisito necessario per la nobilitazione del volgare era il totale rifiuto della popolarità, Bembo non accettava integralmente la Commedia di Dante; al contrario, apprezzava in toto il Canzoniere di Petrarca per la sua assoluta selezione linguistico- lessicale; per il Decameron, invece, Bembo diceva di far riferimento non ai dialoghi delle novelle ma allo stile boccacciano, caratterizzato da sintassi latineggiante, inversioni e frasi gerundive (fu il modello adottato nelle Prose). La soluzione di Bembo, pur risultando antiquata nella scelta di trasporre la concezione ciceroniana della lingua latina nella teoria del volgare (riferendosi al “periodo aureo” della classicità, ad esempio, affermava che Petrarca e Boccaccio corrispondevano a Virgilio e a Cicerone), vinse; ciò, di certo, perché il volgare fiorentino si era già diffuso in tutt’Italia attraverso una più o meno cosciente imitazione dei trecentisti. Grazie a Bembo, insomma, si depurava il volgare dalla koinè. La “questione della lingua” (La teoria cortigiana e la teoria “italiana” di Trissino) Nelle “Prose della volgar lingua” si parla anche della teoria cortigiana, in particolare dell’opinione di Calmeta, secondo cui il volgare migliore era quello adoperato nelle corti italiane e, in special modo, nella corte di Roma (un idioma superregionale di alta qualità, di base toscana). A parere di Ludovico Castelvetro, Calmeta faceva riferimento a una lingua fortemente influenzata dal fiorentino di Dante e Petrarca e affinato mediante l’uso della corte di Roma che, da città cosmopolita, era ben disposta ad accogliere mode linguistiche tramandate dalla corte papale (che aveva visto anche la presenza toscana  Piccolomini e Medici). Anche Mario Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni d’Italia senza essere mai plebea e dalla coloritura latineggiante, come faceva la lingua della corte di Roma. Equicola, nel “De natura amore”, dichiarava di aver usato una lingua definibile come “commune”, stesso termine che usò Baldassar Castiglione nel Cortegiano. Ad ogni modo, la differenza tra i sostenitori della teoria cortigiana e Bembo sta nel fatto che i primi preferivano far riferimento all’uso vivo di un ambiente sociale come la corte (teoria collegabile alla prassi scrittoria della koinè), mentre il secondo sosteneva che la lingua cortigiana mancasse di omogeneità, motivo per cui perse nel dibattito cinquecentesco. La teoria italiana di Giovan Giorgio Trissino, invece, presenta analogie con la teoria cortigiana ed è strettamente legata alla riscoperta del “De vulgari eloquentia”, che lo stesso Trissino diede alle stampe in traduzione italiana nello stesso anno in cui pubblicò il Castellano (un dialogo in cui sosteneva che la lingua petrarchesca non fosse fiorentina ma “italiana”, in quanto accoglieva vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia). Trissino, per avvalorare la propria tesi, si ricollegava al pensiero di Dante secondo cui il fiorentino non potesse ambire a diventare lingua letteraria (convinto com’era che Dante avesse scritto la Commedia attenendosi a quanto enunciato nel trattato). È ricordato, inoltre, per aver proposto di aggiungere all’alfabeto italiano le lettere greche epsilon e omega, ma le sue posizioni furono discusse (pur esercitando una certa influenza su Cosimo Rucellai, Luigi Alamanni e Francesco Guidetti). Una reazione alle idee di Trissino è rappresentata dal “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua” attribuito a Machiavelli, all’interno del quale viene introdotto Dante stesso che, dialogando con l’autore, si pente degli errori commessi nella stesura del De vulgari eloquentia, come per esempio la scelta di scrivere in fiorentino anziché in lingua “curiale” (ovvero la lingua comune o cortigiana). Si allude a Trissino facendo riferimento a letterati vicentini (Trissino era di Vicenza) che pretendevano di farsi maestri di lingua. Viene, inoltre, rivendicato il primato linguistico di Firenze contro gli idiomi settentrionali. Tuttavia, tale dialogo non influenzò il dibattito cinquecentesco in quanto rimase sconosciuto fino al ‘700. Ben presto ci si chiese se il De vulgari eloquentia fosse un’opera davvero esistita, dato che Trissino la pubblicò in italiano; molti letterati fiorentini, come Ludovico Martelli e Benedetto Varchi, individuarono delle contraddizioni rispetto alle idee esposte nel Convivio e nella Commedia, al punto che Varchi arrivò ad affermare che il De vulgari eloquentia contenesse vere e proprie sciocchezze, che Dante non avrebbe mai potuto scrivere. Insomma, tale opera fu apprezzata da coloro che osteggiavano le teorie linguistiche fiorentiniste. Ma la versione di opera in cui si accinge a spurgare il testo di Boccaccio dalle parti ritenute moralmente censurabili (si parla di “rassettatura” del Decameron), commissionata dal granduca Francesco di Toscana per compiacere a Sisto V (successiva a quella messa in atto dai “Deputati” dell’Accademia fiorentina). Tale lavoro suscitò un’attenzione filologica non indifferente, tanto che si iniziarono a distinguere consapevolmente i contenuti dalla forma linguistica al fine di tramandare lo stile, giudicato ammirevole. Salviati entrò nella Crusca quando aveva terminato il lavoro sul Decameron e la Crusca si avviò così verso un interesse filologico: nel 1590, ad esempio, deliberò di correggere la Commedia di Dante e, nel 1595, in seguito ad opera di collazione, uscì a Firenze “La Divina Commedia” di Dante Alighieri migliorata dall’Accademia della Crusca (lavoro arbitrario ma significativo per l’interesse di cui tornò a godere la lingua di Dante, testimoniato perfino dalla lettera-prefazione in cui Bastiano de’ Rossi parlava ai lettori del poema dantesco come “la migliore parte della nostra favella”, al contrario delle teorie bembiane). La varietà della prosa L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si impose decisamente, sia nella traduzione di opere già scritte sia nella composizione di opere nuove. Riguardo le traduzioni, basta citare il quattrocentesco trattato “De re aedificatoria” di Leon Battista Alberti tradotto dal latino al volgare da Cosimo Bartoli con il titolo L’Architettura. La più importante traduzione fu di certo quella di Vitruvio, la cui prima edizione a stampa si ebbe all’inizio del secolo XVI da parte del pittore e ingegnere lombardo Cesare Cesariano, piena di settentrionalismi e vincolata al latino (expectatione per “vista”); più tardi, invece, quella del veneto Daniele Barbaro, amico anche di Bembo, vede lessico e sintassi orientati verso modelli alternativi (fornire per “finire” è usato da Petrarca e Boccaccio e lo si trova anche nelle Prose di Bembo). La trattatistica architettonica raggiunse nella seconda metà del Cinquecento una perfezione terminologica tale da influenzare altre lingue europee (“balcone”: sp. balcon; ingl. balcony). Ma lo storico della lingua, per individuare i tecnicismi in uso dal Rinascimento in poi, non può prescindere dalla conoscenza di trattati scritti da maestri che dedicarono la propria vita alla realizzazione di edifici: “I quattro libri dell’architettura” di Antonio Palladio e “Regola delli cinque ordini di architettura” di Iacopo Barozzi da Vignola. Anche la trattatistica d’arte, relativa a scultura e pittura, ha la sua importanza: pensiamo alle “Vite” di Vasari e all’autobiografia di Cellini, in cui le vicende personali si mescolano alle osservazioni sul lavoro dell’artista. Proprio Cellini, del quale, a partire dalla riscoperta settecentesca, fu apprezzato il vivace stile dal sapore di parlato, fu proposto da Giuseppe Baretti come modello di lingua antiaccademica, nata da un sentimento naturale. Ma il rapporto con il latino non cessò mai di esistere; anzi, dal rapporto con esso, l’italiano si arricchiva: importanti continuano ad essere le traduzioni di Aristotele, come la Retorica volta in italiano da Annibal Caro (della quale, nel 1571, si occupò anche Alessandro Piccolomini, che più tardi tradusse anche la Poetica), e quelle di Platone come, per esempio, i “dialoghi” ad opera di Sebastiano Erizzo. Nel campo delle scienze naturali si continuò a tradurre la “Storia naturale” di Plinio, di cui Landino, nel Quattrocento, diede una famosa versione italiana, poi tradotta nel 1561 dal Domenichi nel 1561, che si occupò anche di Plutarco e di Polibio. Le traduzioni avevano lo scopo di andare incontro ad un pubblico che non sempre era in grado di comprendere il latino: lo rende esplicito l’autore del compendio dei “Commentarii” di Cesare e Michelangelo Florio, traduttore del “De re metallica” di Giorgio Agricola. Florio, in particolare, pur essendo toscano, si mostrò ostile nei confronti della lingua letteraria a causa degli eccessivi latinismi che fu costretto a usare (mancavano corrispondenti in volgare) e dei tecnicismi moderni come “crocciuolo” (crogiolo). La traduzione, insomma, piaceva in quanto funzionava come banco di prova dell’italiano; lo dimostra Bernardo Davanzati Bostichi con la sua traduzione degli Annali di Tacito, che, in quanto a concisione, voleva gareggiare con l’originale, al fine di dimostrare che anche l’idioma fiorentino era dotato di brevitas (così da contrastare l’Estienne, che aveva condannato una precedente traduzione tacitiana di Giorgio Dati, priva di brevità). Davanzati, per fare ciò, mise da parte la floridezza dello stile boccacciano e utilizzò anche elementi del parlato, dimostrando che l’italiano era più sintetico rispetto al francese. Tra le opere nuove va ricordato il trattato “De principatibus” di Machiavelli (Il Principe), esempio di prosa lontana dai modelli bembiani; è scritta, infatti, in un fiorentino ricco di latinismi (oltre al titolo dell’opera e dei capitoli, anche parole come etiam e tamen), che ricollegano questa scrittura a quella quattrocentesca di tipo cancelleresco (pur accogliendo elementi plebei). Importanti sono anche i “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” e le “Istorie fiorentine”. Guicciardini, invece, con la sua Storia d’Italia, evita proprio i plebeismi. La varietà della prosa: il linguaggio scientifico e la prosa di viaggio Il volgare prevaleva nella scienza applicata o diretta a fini pratici, non nella ricerca di tipo accademico, in cui operavano scienziati anche di alto livello. Fanno eccezione i “Commentarii” all’opera del greco Discoride del toscano Pierandrea Mattioli, medico alla corte imperiale. Le ristampe, arricchite con silografie, ci fanno intendere il valore pratico dell’opera (motivo per cui è scritta in volgare), utile a distinguere le varie piante medicinali (si ricollega, dunque, anche alla medicina). Ma la scelta del volgare (pur limitando la circolazione internazionale) acquista maggior rilievo nel caso di Galileo, in quanto, inserita nell’ambito della scelta universitaria, contiene indicazioni soprattutto di carattere teorico. Persino i libri di “segreti” si erano diffusi in Europa non solo grazie alle traduzioni francesi, tedesche e inglesi ma anche mediante quelle latine, lette dalle persone colte di ogni nazione. Nel settore dei libri geografici, invece, va citata l’importante raccolta “Navigazioni e viaggi” di Ramusio, una silloge che riuniva in un corpus completo tutti i testi del genere fin allora disponibili, dalla Classicità e dal Medioevo al secolo XVI. Lo storico della lingua si interessa alla letteratura di viaggio per la presenza di neologismi e forestierismi, legati alla descrizione di nazioni e luoghi esotici. Spesso, lo stesso viaggiatore si occupa di descrivere gli idiomi con cui viene a contatto; il mercante fiorentino Sassetti, ad esempio, in una lettera del 1586 diretta a Bernardo Davanzati, segnalò una serie di concordanze tra alcune parole indiane e le corrispondenti italiane. È come se, in ambito linguistico, fosse esistita una “stagione dei viaggiatori”, i primi a venire a contatto con realtà sconosciute. La Chiesa, dal canto suo, inviava missionari alla scoperta di civiltà esotiche: pensiamo al maceratese Matteo Ricci che, missionario in Cina, compose i “Commentarii della Cina” che, pur povera e disadorna, ebbe successo. Vi furono anche viaggiatori “statici” che utilizzarono materiale di altri, come il piemontese Botero: egli, nelle sue “Relazioni universali”, descrisse le parti del mondo conosciuto in una lingua ricca di ispanismi, in quanto si servì di testi spagnoli come fonte. Un tempo, infatti, lo spagnolo, in unione al portoghese, ebbe l’importanza di cui al giorno d’oggi gode l’inglese; lo testimonia Carletti, viaggiatore che riporta diversi neologismi come cochos (le noci di cocco, note come noci d’India) e badanas (banane); altri iberismi non ebbero fortuna, come ortalizza per “verdura”. Carletti descrive in maniera compiuta la grafia giapponese e quella cinese, trovando concordanze con lingue diverse. La varietà della prosa: il mistilinguismo della commedia e l’epistolografia Fin dalla prima metà del Cinquecento, la commedia si rivelò il genere ideale per l’utilizzo di un vivace mistilinguismo che mirasse a una riproduzione del parlato. Machiavelli, ad esempio, nel “Discorso o dialogo”, afferma che Ariosto, nelle sue commedie, non fu capace di attenersi a tale principio. La ricerca di parlato propria del teatro toscano è esemplificata da Giovan Maria Cecchi che, nelle proprie commedie, impiegò motti e proverbi, presenti anche nella “Pellegrina” di Girolamo Bargagli, membro dell’Accademia degli Intronati. Ma non si dimentichi che la caratteristica saliente della commedia rimane la compresenza di diversi codici per i diversi personaggi: agli innamorati si addice il toscano, ossia l’italiano stucchevole della tradizione poetica, ai vecchi il veneziano o il bolognese, ai capitani lo spagnolo, ai servi il milanese. Giambattista Della Porta, napoletano, ne “La fantesca” impiegò la figura del pedante che si esprime in forme auliche latineggianti, rovesciate ad effetto comico, mentre il capitano spagnolo adopera la propria lingua madre (di certo familiare a un napoletano della seconda metà del XVI secolo). Nel “Calendaio” di Giordano Bruno, il pedante adopera latino, fidenziano e volgare, quest’ultimo ridotto al minimo; la vitalità linguistica, comunque, la si evince grazie anche a giochi di parole, al turpiloquio, alla satira. Per quanto riguarda il dialetto, accade che vengano introdotti personaggi dotati di abilità polilinguistica, come un servo di cui si approfitta Andrea Calmo, nella “Rodiana”, che imita napoletano, francese, milanese, spagnolo e fiorentino. “Las Spagnolas”, invece, è il primo vero esempio di commedia poliglotta, in cui si parla bergamasco, veneziano e toscano, mentre un soldato greco si esprime in grechesco (greco-veneto) (del resto Venezia era l’ambiente più adatto per sviluppare il plurilinguismo). Anche nella “Tabernaria” di Della Porta abbiamo più idiomi: un servo imita la parlata di tre fanfaroni forestieri (un siciliano, un veneziano e un bolognese). Anche la mancata comprensione genera buffi equivoci. Quanto al linguaggio della Commedia dell’arte, quello delle improvvisazioni è andato perduto ma alcuni elementi sono ricavabili dai repertori per maschere (come uno del siciliano Andrea Petrucci) e dai canovacci delle commedie. L’epistolografia ebbe fortuna grazie alle raccolte di lettere di autori famosi come Bembo e Tasso. Traiano Boccalini, nei “Ragguagli di Parnaso”, scherzava sulla quantità eccessiva dei libri di lettere di mediocre qualità in circolazione, la maggior parte dei quali veniva stampata a Venezia. Ma la figura emblematica del nuovo genere epistolare era quella del “segretario”, come dimostra il titolo (“Secretario”, appunto) di un’opera di Francesco Sansovino, che vi lavorava all’interno delle cancellerie signorili. In seguito nacque anche una manualistica che spiegava come scrivere le lettere tenendo conto delle varie esigenze. Il linguaggio poetico (Ariosto; il petrarchismo; Torquato Tasso e le polemiche con la Crusca; teoria poetica e stile di Tasso) Ariosto adeguava la propria lingua al modello toscano delle Tre Corone, attenendosi ai principi bembiani. Lo dimostra l’Orlando furioso, la cui lingua, chiara ed elegante (definita da Soletti “di tono medio”), è ottenuta anche sostituendo termini quotidiani con parole più indeterminate (“sicania valle” diventa “solinga”). Il petrarchismo, tipico del linguaggio cinquecentesco, è coerente con il modello bembiano; esso consiste nella scelta di termini selezionati e nell’utilizzo di un repertorio di topoi, pur senza rinunciare a una varietà stilistica. Celebri sono le polemiche tra Tasso e la Crusca all’interno delle discussioni linguistico-letterarie di fine Cinquecento. L’attacco della Crusca alla Gerusalemme liberata non deve far pensare che Tasso si fosse allontanato dal toscano; semmai, prese le distanze dai dialetti al fine di celebrarne il primato (non riconobbe, però, il primato fiorentino). La tradizione toscana, infatti, è sentita da lui come un patrimonio culturale comune, motivo per cui non era favorevole alle forme arcaiche di Bembo, alle quali si opponeva facendo prevalere la paratassi sull’ipotassi (secondo una modernità sintattica). Ma la polemica con la Crusca non riguardò né lo stile di Tasso prosatore né quello di Tasso lirico, quest’ultimo imitato a Firenze e adatto all’accompagnamento musicale (un contributo venne anche da Guarini con il “Pastor fido”). Tra le accuse mosse a Tasso epico non va dimenticata quella di Orazio Lombardelli, che sintetizzò in 16 punti i rimproveri che la Crusca aveva mosso alla Gerusalemme (di questi, cinque hanno a che vedere con lo stile: lo stile epico è oscuro ed aspro; la sua è “favella troppo culta”; il suo linguaggio è un misto di voci latine, straniere, lombarde, nuove, ecc; i suoi versi sono aspri; Tasso potrebbe essere più chiaro). L’accusa sullo stile epico reputato oscuro si comprende confrontando la Gerusalemme con l’Orlando furioso: i cruscanti, infatti, ritenevano che Tasso non fosse facile da comprendere rispetto ad Ariosto, specialmente quando le sue ottave venivano ascoltate durante una lettura ad alta voce, tanto che si diceva che Tasso costringesse ad una lettura silenziosa, unico modo per superare l’ostacolo della legatura distorta. La “legatura” era, nella terminologia grammaticale del tempo, la costruzione sintattica; ci si riferiva, quindi, a un problema di disposizione delle frasi nella struttura ritmica dell’ottava, più importante della questione lessicale. Tuttavia, anche qui i puristi ebbero da ridire, in quanto Tasso, a parere loro, aveva usato troppi latinismi e lombardismi; e, nell’ottica toscanista, preoccupavano di più i primi, che potevano costituire un legame con la teoria cortigiana, secondo cui il latinismo permetteva di essere compresi da un pubblico più vasto di persone. I latinismi si ricollegavano alle opzioni nobili della poesia petrarchesca, che conferisce gravitas e seria compostezza (invece di dire “a mezzogiorno” dice “d’in verso l’austro”, non “solleva” ma “estolle”); Tasso, infatti, si sforzò di dimostrare che le sue scelte lessicali non si erano discostate da quelle dei grandi scrittori del passato, in particolare da Petrarca. Eppure, Salviati lo attaccava perché, ancora una volta, aveva avuto enorme successo un autore non toscano; e Tasso, che nella sua Apologia distingueva il fiorentino antico dal fiorentino moderno e contestava che i fiorentini ambissero ad essere migliori di altri, affermava che il volgare aveva ormai dimensione colta e non popolare, quindi il primato fiorentino non aveva motivo di esistere. Inoltre, sosteneva che Dante fosse stato più fiorentino di Petrarca, ma che Petrarca fosse stato più poetico di Dante. Le dispute tra Tasso e Salviati, insomma, riguardano un più complesso dissidio tra vocabolario e letteratura, che si protrasse fino al Seicento. Tasso fornisce chiarimenti in merito al proprio stile nel quinto libro dei “Discorsi del poema eroico”, dedicato all’elocuzione, ossia all’atto di dare forma linguistica alle idee (problema dell’oratore, dell’attore e del poeta stesso). Tasso spiega come raggiungere il grado di magnificenza, ovvero di grandezza e di gravità a cui aspirava e che tanto infastidiva la Crusca. Per Tasso la gravità sta nell’asprezza, data dalla presenza di forti allitterazioni e dal concorso di vocali dovuto alla presenza di dialefe (che fa sì che le vocali non si fondano tra loro nella lettura). Altro espediente per raggiungere tale caratterizzazione è l’enjambement (per l’utilizzo del quale si ricollega anche a Petrarca e a Della Casa), adoperato nella Gerusalemme al punto che il rapporto tra gli indici quantitativi di Tasso e quelli dell’Ariosto è di tre a uno (spesso il sostantivo è separato dal suo aggettivo). Inoltre, se l’enjambement, di norma, serve a distanziare il verso dalla monotonia della prevedibilità metrica, quello di Tasso serve a sublimarlo in funzione lirica, mentre quello di Ariosto, nelle Satire, fa scendere la poesia verso la prosa. Gli elementi congiunti da “e” hanno analoga funzione e costituiscono un espediente usato anche per l’enumerazione (uno degli stilemi più comuni in Tasso, realizzato più di frequente in polisindeto, soprattutto quando c’è un crescendo di climax  conduce al sublime), che si ottiene anche per dissoluzione (cioè per asindeto). Tasso cerca di rendere il senso dell’indeterminato e del vago, e opera una svolta in tal senso (noi moderni pensiamo subito a Leopardi, che fu un grande estimatore di Tasso e dimostra la fortuna di
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