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Riassunto dal libro "I classici nostri contemporanei" di Italo Svevo e delle sue opere, Appunti di Italiano

Biografia di Italo Svevo, ideologia, la Coscienza di Zeno, Una vita, Senilità. Riassunto del testo "La morte del padre".

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 30/10/2023

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Scarica Riassunto dal libro "I classici nostri contemporanei" di Italo Svevo e delle sue opere e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! ITALO SVEVO BIOGRAFIA: Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schimtz, nacque a Trieste nel 1861, da padre tedesco di origine ebraica e da madre italiana. La famiglia apparteneva alla buona borghesia commerciale. A dodici anni fu mandato in collegio in Germania, ma tornato a Trieste fu iscritto ad un istituto tecnico. Nel 1880, il fallimento economico del padre lo portò ad impiegarsi in una banca, presso la quale lavoro per diciotto anni. Nel 1896, sposò Livia Veneziani, la cui famiglia era proprietaria di un importante colorificio. Italo Svevo, dunque, cominciò la sua attività all'interno di esso e quando l'azienda fu lasciata nel 1915 dalla famiglia Veneziani, egli passò alla direzione della stessa. Già nel '92 e nel '98, però, aveva pubblicato, senza successo e a proprie spese, i romanzi Una vita e Senilità. Nel 1923, invece, pubblicò il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che, grazie all'interessamento di James Joyce ***, in quegli anni a Trieste, riscosse un certo interesse in Francia. Ma fu un saggio scritto da E. Montale, Omaggio a Italo Svevo (1925), a far nascere il cosiddetto "caso Svevo": l'autore conquistò finalmente la fama. Iniziò quindi il suo quarto romanzo, II vecchione, che rimase incompiuto, in quanto Svevo mori, a seguito di un incidente stradale, a Motta di Livenza, nel 1928. ***L'amicizia con Joyce fu certo importante per Svevo: lo scrittore irlandese, con i suoi giudizi positivi su Una vita e Senilità, contribuì a rafforzare in Svevo, che aveva deciso di abbandonare la letteratura, la fiducia nella validità delle sue opere. Tuttavia non si può dire che nella narrativa posteriore all'incontro con Joyce, si riscontrino precise influenze joycine. Una critica frettolosa ha accostato, in anni passati, il "flusso di coscienza" dell'Ulisse di Joyce alla confessione di Zeno, e la tesi ha goduto di persistente fortuna. Ma la critica attuale ha ormai definitivamente tolto credito a questo luogo comune: la tecnica narrativa della Coscienza non ha nessun punto di contatto con quella dell'Ulisse. Se c'è un rapporto tra le due opere, è solo al livello più generale di una certa visione del mondo dell'avanguardia novecentesca. IDEOLOGIA: la formazione culturale di Svevo fu di ampio respiro europeo e composita: di origine ebraica, di padre tedesco e madre italiana, sottolineò nel suo pseudonimo la doppia appartenenza alle due culture, quella italiana e quella tedesca; studiò in Germania, cosa che gli permise di accostarsi direttamente, senza mediazione alcuna, a pensatori e filosofi come Schopenhauer e Nietzsche; conobbe le teorie di Darwin e di Marx; visse a Trieste, allora austriaca e aperta, per nazionalità, lingua e tendenze irredentistiche alla cultura italiana, ma in contatto con Vienna; prese lezioni d'inglese da Joyce; politicamente si accostò prima - al socialismo, più tardi al fascismo, ma la sua meditazione, più che sui problemi sociali, si concentrò sull'uomo; conobbe le teorie di Freud; ebbe presenti, naturalmente, il verismo con la sua tematica dei "vinti". UNA VITA: è un romanzo tardo verista, la storia di un "vinto", Alfonso Nitti ***, un impiegato di banca che viene dalla campagna a Trieste, con ambizioni sociali e letterarie che vede presto frustrate. Il fallimento della relazione con Annetta Maller, figlia del suo principale, lo spinge al suicidio. In questo romanzo, di verista c'è l'attenzione all'ambiente (banca, salotto di casa Maller) che sembra poter determinare la sconfitta del protagonista, ma in realtà la sconfitta di Alfonso è dovuta a qualcosa che è dentro di lui, cioè ad un'incapacità alla vita, in poche parole all'inettitudine. In Una vita è presente anche una certa attenzione allo smascheramento delle ipocrisie e dei compromessi con cui l'uomo si autoinganna. ***Alfonso, inaugura l'«inetto», che ritornerà regolarmente nei libri successivi di Svevo. L'inettitudine è sostanzialmente una debolezza, un'insicurezza psicologica, che rende l'eroe «incapace alla vita». Svevo non si limita solo a ritrarre una condizione psicologica, sa anche individuare le radici sociali di quella debolezza e di quella impotenza dinanzi alla vita: Alfonso è un piccolo borghese, declassato da una condizione originariamente più elevata, ed è un intellettuale. Il combinarsi di questi due fattori sociali lo rende un "diverso" nella solida società borghese triestina, i cui unici valori riconosciuti ad esso sono il profitto, la produttività, l'energia nella realizzazione pratica. Alfonso è dolorosamente afflitto, quasi paralizzato dalla sua diversità, che è sentita come inferiorità. L'impotenza sociale diviene impotenza psicologica: il giovane non riesce più a coincidere con un'immagine virile, forte e sicura, come quella imposta dalla società borghese ottocentesca, che ha il culto dell'individuo energico e dominatore. Ma, pur sentendo la sua inferiorità, Alfonso ha bisogno di crearsi una realtà compensatoria: la cultura umanistica e la vocazione letteraria, che lo rendono inadatto, si trasformano ai suoi occhi in un motivo di orgoglio, in un segno di un privilegio spirituale. Così Alfonso costruisce un'immagine di sé consolatoria, che lo risarcisce dalle frustrazioni reali. Questa evasione nei sogni, questa tendenza a costruire "maschere" gratificanti, è un altro aspetto caratteristico dell'«inetto» sveviano. Dinanzi ad Alfonso si ergono degli antagonisti che hanno tutte le prerogative che a lui mancano. Uno di questi è Maller, il padrone, vera incarnazione della figura del Padre, possente e terribile. Egli è un padre "padreterno", probabilmente creato dalle proiezioni dell'inconscio stesso di Alfonso (e difatti, nella sua immaturità psicologica, Alfonso è alla ricerca di una figura paterna a cui appoggiarsi per trovare sicurezza). Accanto al Padre si colloca una sua variante, il Rivale. Il ruolo è ricoperto da Macario, che possiede tutte quelle doti che mancano ad Alfonso: brillante, disinvolto in società, sicuro di sé, perfettamente «adatto alla vita», conformato dalla natura alla lotta. Coerentemente con questo ruolo, è Macario che alla fine della vicenda sottrarrà all'eroe la donna, oggetto dei suoi desideri di scalata sociale. SENILITA': anche Emilio Brentani ***, il protagonista, è un impiegato triestino velleitario, con ambizioni che non sa dominare. Ha pubblicato un romanzo e vorrebbe scriverne un altro, ma non riesce. A trentacinque anni vive una condizione di senilità, da cui cerca di evadere iniziando una relazione con la bella popolana Angiolina che però lo tradisce con lo scultore, amico di Emilio, Stefano Balli. Di quest'ultimo, che incarna la figura di un vincente, è innamorata, inutilmente, la sorella di Brentani. Emilio è costretto a tornare alla sua condizione di "vecchio" trentacinquenne, idealizzando contemporaneamente l'immagine di Angiolina, mentre la sorella Amalia comincia a stordirsi con l'etere e muore dopo essersi ammalata di polmonite. Sono presenti anche in questo romanzo il tema dell'inettitudine (stato di malattia di Emilio e Amalia, contrapposto allo stato di salute di Angiolina e Balli) e quello degli autoinganni che l'uomo costruisce per mascherare la dura realtà (ved. idealizzazione di Angiolina da parte di Emilio). ***Emilio maschera ai propri occhi la sua immaturità psicologica nel rapporto con la donna costruendosi fittiziamente quell'immagine virile che non sa incarnare nella realtà, e si compiace di recitare un ruolo "paterno" nei confronti di Angiolina, immaginandosela ingenua proponendosi di «educarla» e di insegnarle la «conoscenza della vita». In realtà l'immaturità infantile messa in luce nel rapporto con Angiolina denuncia come Emilio non riesca più a coincidere con una certa immagine virile, quella dell'uomo forte, sicuro, capace di dominare la realtà. Quest’ultimo è il modello di uomo proposto dalla società borghese ottocentesca nella fase della sua pienezza, un valore tramutatosi in un vero e proprio stereotipo culturale: l'individuo borghese, libero, energico, attivo, capace di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e la sua volontà, entro la sua sfera d'azione, costituita dalla famiglia e dal lavoro produttivo. Quella figura era entrata in crisi in quell'età di intense trasformazioni, col trionfo dell'assetto monopolistico e della società massificata, che distruggevano l'idea tradizionale di individuo. Emilio incarna esemplarmente questa crisi: in lui l'impotenza sociale del piccolo borghese declassato si traduce in impotenza psicologica ad affrontare la realtà esterna al nido domestico. Per questo Emilio si appoggia all'amico Balli, «uomo nel vero senso della parola», forte, sicuro di sé, dominatore. In realtà anche Balli, dietro l'apparenza della forza, cela una debolezza. I due personaggi incarnano due risposte diverse ma complementari alla stessa crisi dell'individuo: Emilio rappresenta il chiudersi di vittima nella sconfitta e nell'impotenza mentre Balli rappresenta il tentativo di rovesciare l'impotenza in onnipotenza, mascherando la debolezza con l'ostentazione della forza dominatrice (ai due personaggi si possono quindi applicare le considerazioni fatte sui miti del «fanciullino» e del «superuomo» in Pascoli e in d'Annunzio; ma si tenga presente che Svevo, nel suo romanzo, non propone miti: al contrario li dissolve criticamente). Il ritratto psicoanalitico dell'immaturità di Emilio (con il complemento di Balli) è l’indagine su un tipo sociale inserito in precise coordinate storiche. Senilità, anche se ha al centro il rapporto sentimentale di un uomo e di una donna, è il racconto di un'ossessione amorosa attraverso la quale Svevo riesce a ritrarre con precisione la struttura psicologica dell'intellettuale piccolo borghese di un periodo di crisi. LA COSCIENZA DI ZENO: il romanzo (preambolo + sei capitoli*) fu scritto a distanza di venticinque anni dal secondo, dopo un lavoro di scavo in se stesso, di appunti, di note. A Zeno Cosini, ricco borghese triestino, inetto negli affari, e afflitto dal vizio del fumo, viene imposto dal medico psicanalista, il dottor S., dietro al quale si cela forse Sigmund Freud, di scrivere la storia della propria vita. Zeno così fa, rievocandone i fatti che a lui paiono fondamentali, ma a libro terminato arriva alla conclusione che la cura prescrittagli non ha senso, che la psicanalisi non ha senso e che "la vita è inquinata alle radici" e "qualunque sforzo di darci la salute è vano", Il bisogno di normalità In lui vi è un disperato bisogno di salute, cioè di normalità e di integrazione nel contesto borghese: vorrebbe essere buon padre di famiglia, attivo ed abile uomo d'affari. Però, contro ogni sua intenzione, non riesce mai a coincidere con quel tipo di uomo (neanche nel finale, nonostante il successo negli affari e le sue pretese di essere guarito, che non sono che un'ennesima montatura). Perciò il suo sguardo di estraneo al mondo corrode quest’ultimo e ne compromette le certezze che non sono mai criticate dai suoi rappresentanti. Zeno sconvolge le gerarchie tra salute e malattia Zeno finisce in tal modo per scoprire che la salute degli altri è la vera malattia. La visione di Zeno sconvolge le nozioni di salute e malattia, di forza e debolezza. Quindi il suo sguardo distrugge le gerarchie facendo diventare tutto incerto e ambiguo e convertendo la salute in malattia. L'oggetto privilegiato di questa messa in discussione della salute, è il ritratto perfido della moglie, che da questa prospettiva diventa una chiave del romanzo. Zeno in entrambi i mondi Zeno fa parte del mondo che sottopone a critica e ne presenta alcuni limiti, in primo luogo nella sua incapacità di capire i meccanismi profondi che dirigono i suoi atti. Anche se paradossalmente, in quanto inetto, malato e diverso, porta alla chiarezza la realtà degli altri. Nel momento stesso in cui distorce il senso del suo comportamento, offre la chiave per vedere più a fondo ciò che lo circonda. Zeno è dunque personaggio a più facce. fortemente problematico. Egli è negativo poiché è un perfetto campione di falsa coscienza borghese, ma è anche positivo, come strumento di straniamento e di conoscenza. L’INETTITUDINE E L’APERTURA AL MONDO Le basi teoriche di questo mutamento di prospettiva nei confronti dell'inetto, che compare nell'ultimo romanzo, sono da cercare nel saggio incompiuto L'uomo e la teoria darwiniana. L'inetto vi appare come un abbozzo, un essere in divenire, che può ancora evolversi verso altre forme proprio grazie alla sua mancanza di uno sviluppo in qualsivoglia senso, mentre i sani, che sono già in sé perfettamente compiuti in tutte le loro parti, sono incapaci di evolversi ulteriormente. L'inettitudine, ormai non è più considerata un marchio d'inferiorità, ma una condizione aperta, disponibile ad ogni forma di sviluppo, che si può considerare anche positivamente. Alla luce di tutte queste considerazioni, il fatto che sia il protagonista stesso a narrare e non un'impersonale voce fuori campo è una scelta densa di significato. Gli interventi del narratore eterodiegetico in Una vita e in Senilità, servivano a tradurre il giudizio critico dello scrittore sui suoi eroi negativi. Poiché Zeno non è più un eroe del tutto negativo, ma possiede una fisionomia più aperta, anzi detiene persino una forma di privilegio, in quanto è un essere mobile, in opposizione ad un mondo immobile ed irrigidito, e perciò è portatore oggettivo di una visione straniante, non ci sarebbe motivo di avere un narratore esterno a quanto narrato. Inoltre. dinanzi ad una realtà totalmente aperta e ambigua, in cui forza e debolezza, salute e malattia, verità e menzogna, sono sconvolte nelle loro gerarchie abituali, non si possono più dare punti di riferimento stabili, non è possibile l'intervento di una voce che giudichi in nome di valori certi e determinati. Ciò che dice Zeno può essere «verità», «bugia» o tutt'e due le cose insieme, e nessun punto di riferimento permette di distinguerlo con definitiva certezza. Il mutare della fisionomia degli eroi sveviani, e dell'atteggiamento dello scrittore verso di essi, rivela il passaggio dalla visione del mondo chiusa, che è propria della cultura ottocentesca, e che è ancora presente nei primi romanzi, alla visione aperta propria del Novecento; e l'evoluzione delle tecniche narrative segue puntualmente l'evoluzione ideologica. LINGUA: la sua prosa è lontana dal "bello scrivere" della tradizione letteraria italiana. Occorre tener presente che la lingua quotidianamente parlata dallo scrittore non era l'italiano ma il dialetto triestino, e per bocca del suo personaggio Zeno egli confessa la difficoltà, per chi è abituato a usare quel linguaggio, nel trovare i vocaboli italiani appropriati. Non solo, ma Svevo conosceva perfettamente il tedesco, dati i suoi studi giovanili in Germania, e tracce di costrutti della lingua tedesca si riconoscono nella sua scrittura. Ciò tuttavia non autorizza affatto a concludere che Svevo scriva male: la sua prosa in realtà è efficacissima a rendere le tortuosità della psiche in cui si addentra la sua ricerca. Non solo, ma occorre tener conto del fatto che la scrittura sveviana tende a riprodurre il modo di esprimersi dei personaggi, specie nei punti in cui vengono espressi i loro discorsi interiori. Ciò vale per Una vita e per Senilità, che sono narrati in terza persona ma in cui domina il discorso indiretto libero, dove si riflette la caratteristica espressione del personaggio, e ancor di più vale per La coscienza di Zeno, che è in prima persona, narrato da Zeno stesso. La critica ha messo in luce come nel romanzo la scrittura riproduca fedelmente il linguaggio tipico di un borghese triestino che usa l'italiano. Certe imperfezioni stilistiche sono dunque volute, al fine di rendere più da vicino lo "stile" di Zeno, in cui si riflette il suo modo di pensare. Per questo, il preteso "scriver male" di Svevo è in realtà una ricerca stilistica estremamente sofisticata, e soprattutto perfettamente aderente all'oggetto della narrazione. LA MORTE DEL PADRE (La coscienza di Zeno) Il conflitto con la figura paterna Il rapporto con il padre è essenziale per gli "inetti" sveviani: essi sono tali poichè non possono più coincidere con un'immagine paterna (virile, solida e sicura) perché non riescono più a trasformarla in componente della propria personalità, per ragioni individuali e storiche come la crisi dell'individuo borghese che caratterizza questo periodo (presente nella trattazione di d'Annunzio, Pascoli e Pirandello). Gli eroi di Svevo perciò sono sempre in conflitto con figure paterne antagonistiche, che rappresentano apparentemente il contrario della loro inettitudine e debolezza: Alfonso Nitti con Maller (Una vita), Emilio Brentani con Balli (Senilità). Qui il conflitto si apre proprio tra Zeno e il padre. Il ritratto del padre Nel primo passo trascritto dal capitolo viene presentato un ritratto del padre e viene offerta una ricostruzione del conflitto del figlio con lui. E un ritratto che, pur dietro le mascherature dell'affetto filiale, appare cattivo e rivela tutti gli impulsi aggressivi profondi del personaggio-narratore. Si può cogliere di qui la radice dell'inettitudine particolare di Zeno rispetto agli altri personaggi sveviani: Zeno vuole inconsciamente essere inetto per contrapporsi al padre borghese e alle sue solide, incrollabili certezze, mai sottoposte al dubbio critico (si pensi solo alla riluttanza del padre ad accettare che la terra sia in movimento, all'immagine stupenda della nausea che lo prende al pensare agli antipodi a testa in giù). Accentuare la propria diversità dall'universo della normalità borghese è per Zeno un modo per ferire il padre, che di quell'universo è un campione esemplare. Gli impulsi aggressivi di Zeno si scatenano in occasione della malattia del padre, che lo trasforma in un essere debole e indifeso. Dietro il dolore di Zeno affiora continuamente il desiderio che il padre muoia. Zeno rifiuta di ammettere alla coscienza questi impulsi, li rimuove. Zeno, sia come narratore della storia (che racconta ormai a distanza di anni), sia come attore di essa, si costruisce sistematicamente alibi e autoinganni. La conseguenza è che egli offre una prospettiva del tutto inattendibile. Non possiamo mai prendere per buone le sue affermazioni. Ciò ci viene suggerito dalla prefazione del dottor S., che ci avverte delle tante «verità» e «bugie» che si trovano nelle pagine scritte da Zeno. Tutto ciò introduce nel racconto un elemento di ambiguità, di indeterminatezza: non c'è nulla che intervenga a smentire le affermazioni sospette di Zeno e a ristabilire la verità oggettiva. Lo schiaffo del padre La sequenza dello schiaffo paterno mostra i meccanismi delle alterazioni fatte da Zeno. Nella sua confusione mentale il padre ha la sensazione che il figlio gli voglia togliere l'aria: inconsciamente avverte cioè la corrente di odio aggressivo che c'è in lui, e lo schiaffo ne è la conseguenza. Il fatto scatena fortissimi sensi di colpa in Zeno che, davanti a questa terribile immagine paterna, regredisce alla condizione di «bambino punito» e si affanna a protestare la propria innocenza, disperandosi perché la morte del padre gli impedisce ormai di provargliela. La figura del padre morto è una perfetta proiezione del suo senso di colpa: è tutta filtrata attraverso l'ottica e i sentimenti dello Zeno attore che vive i fatti (con la partecipazione emotiva del narratore che racconta a distanza di tempo). Lo dimostra l'insistenza sugli attributi paterni: sono i sensi di colpa dell'osservatore che caricano la figura del morto di questi connotati di immagine paterna terrificante, punitiva, castratrice. Subito dopo scattano i meccanismi della rimozione e dell'innocentizzazione: la coscienza, per allontanare quella figura, ne crea un'altra opposta e consolante, il padre debole e buono. Per mettere a tacere i sensi di colpa Zeno rimuove tutti gli impulsi aggressivi, si adatta al ruolo infantile della debolezza nei confronti del padre, e così può arrivare all'obiettivo di sentirsi buono. LA CULTURA DI SVEVO I maestri di pensiero: Schopenhauer, Nietzsche, Darwin Alla base dell'opera letteraria di Svevo vi è una robusta cultura filosofica, arricchita da aperture verso le scienze. Il pensatore che ebbe un peso determinante nella sua formazione fu Schopenhauer, il filosofo che opponeva un pensiero a sfondo irrazionalistico al sistema hegeliano (per il quale «tutto ciò che è reale è razionale») e che affermava un pessimismo radicale, indicando come unica via di salvezza dal dolore la contemplazione e la rinuncia alla volontà di vivere. Più tardi Svevo conobbe anche Nietzsche, e lo lesse direttamente nei testi originali, non attraverso le deformazioni estetizzanti e superomistiche di stampo dannunziano, anzi polemizzò con sarcasmo contro la ridicola concezione del superuomo che egli aveva definito. Svevo trasse da Nietzsche l'idea del soggetto come pluralità di stati in continuo divenire. L'altro grande punto di riferimento per Svevo fu un pensatore e scienziato, Charles Darwin, l'autore della teoria evoluzionistica, fondata sulle nozioni di «selezione naturale» e di «lotta per la vita». Al di là della sua ammirazione per questi "maestri” Svevo tendeva ad utilizzarli in modo critico, come strumenti conoscitivi che fornissero risposte alle sue esigenze personali. Così Schopenhauer era per lui il sostenitore del «carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri», «lo smascheratore implacabile degli autoinganni attraverso i quali ciascuno si illude circa la propria libertà di scelta» (Maxia). E infatti, nei suoi romanzi e nei suoi racconti, Svevo mira sempre a smascherare gli autoinganni dei suoi personaggi, a smontare gli alibi che essi costruiscono per occultare ai loro stessi occhi le vere e inaccettabili motivazioni dei propri atti, quindi per placare i loro sensi di colpa e sentirsi "innocenti". Allo stesso modo, essendo influenzato da Darwin, Svevo presentava il comportamento dei suoi eroi come prodotto di leggi naturali immodificabili, non dipendenti dalla volontà (in questo agiva anche l'influsso di Schopenhauer, negatore della libertà di scelta). Però seppe anche cogliere come quei comportamenti avessero le loro radici nei rapporti sociali, e fossero quindi non prodotto di natura, ma storico. In tal modo arrivava a mettere in luce la responsabilità individuale dell'agire, e approda ad un atteggiamento acutamente critico, che il determinismo darwiniano e positivistico non sarebbe stato in grado di consentire, poiché accettava la realtà come dato di fatto immodificabile. I rapporti con il marxismo e la psicoanalisi Ad assumere questo atteggiamento critico Svevo fu anche aiutato dal pensiero marxista, dal quale fu influenzato, tanto da simpatizzare, in una certa fase della sua vita, per il socialismo. La portata del marxismo nella formazione ideologica complessiva di Svevo è un problema difficile da puntualizzare ed ancora molto discusso: in base a quanto si può dedurre dai suoi romanzi, da quella corrente di pensiero egli trasse la chiara percezione dei conflitti di classe che percorrono la società moderna, ma soprattutto la consapevolezza del fatto che tutti i fenomeni, compresa la psicologia individuale, sono condizionati dalla realtà delle classi. Di conseguenza egli ci dà l'anatomia di una psiche che è tale perché è collocata in un dato contesto: i conflitti e le ambiguità profonde dei suoi eroi non sono i conflitti e le ambiguità dell'”uomo” in assoluto, ma del borghese di un determinato periodo della storia sociale. Del marxismo però Svevo non condivise le proposte politiche e preferì prospettive di tipo utopistico. Parimenti problematico fu il rapporto di Svevo con la psicoanalisi. Lo spingeva verso Freud l'interesse per le tortuosità della psiche profonda, che aveva già esplorato con pionieristica genialità, prima ancora della nascita delle teorie psicoanalitiche, in Una vita e in Senilità. Ma Svevo non apprezza la psicoanalisi come terapia, bensì come puro strumento conoscitivo, capace di indagare più a fondo nella psiche, e come strumento narrativo. I maestri letterari Sul piano letterario gli autori che ebbero più peso nella formazione di Svevo furono i grandi romanzieri realisti francesi dell'Ottocento, Balzac, Stendhal, Flaubert. Dal Flaubert di Madame Bovary, in particolare, egli sembra aver preso la maniera impietosa di rappresentare la miseria della coscienza piccolo borghese. Infatti il "bovarismo" è un tratto caratterizzante degli gli eroi dei suoi due primi romanzi, Alfonso Nitti ed Emilio Brentani: in primo luogo essi sono sognatori, che evadono dal grigiore della loro vita quotidiana costruendosi
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