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Riassunto "Dal Neoclassicismo al Romanticismo", Sintesi del corso di Metodologia della ricerca

Questo riassunto è molto utile per l'esame di METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICO-ARTISTICA (Chiara Savettieri)

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 02/08/2021

Francescat09
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Scarica Riassunto "Dal Neoclassicismo al Romanticismo" e più Sintesi del corso in PDF di Metodologia della ricerca solo su Docsity! La teoria dei generi poneva all'apice la pittura di storia, concepita agli inizi del Seicento da Gian Battista Agucchi e dal Domenichino e successivamente ulteriormente sviluppata da Giovan Pietro Bellori, essa divenne uno dei cavalli di battaglia del sistema accademico. La supremazia della pittura di storia, seguita dal ritratto, dalle scene di genere sino ad arrivare alla natura morta, si basava sull'idea che fosse l’elevatezza del soggetto a nobilitare l’opera e l’artista. | soggetti della pittura di storia erano tratti da fonti letterarie antiche o dalla Bibbia: la connessione con la letteratura sembrava incarnare il principio dell’ “ut pictura poesis” che costituiva il perno attorno al quale ruotava la rivendicazione della dignità “liberale” delle arti figurative. Il sistema teorico tradizionale voleva, sulle scorte di Aristotele, che la poesia fosse l'imitazione “ideale” della natura umana in azione, ne deriva che la pittura, per essere al rango dell’arte della parola, dovesse configurarsi come rappresentazione “ideale” di figure umane impegnate in azioni nobili e degne di memoria, capaci di dilettare e di istruire. Gli altri generi erano reputati inferiori o perché le azioni raffigurate non erano né nobili né tratte da fonti letterarie ma dalla realtà (ritratto, pittura di genere) o perché protagonisti della rappresentazione erano oggetti, animali o la natura (natura morta, paesaggio): era il contenuto letterario il criterio di base a cui si stabiliva il grado di “nobiltà” della pittura o della scultura. Nella seconda metà del Seicento il dibattito francese dell’arte era stato dominato dalla disputa tra i “rubènistes”, fautori del colore, reputato dalla teoria artistica come fattore legato alla sfera dei sensi e quindi fonte di diletto, e i “poussinistes”, sostenitori del disegno, che la tradizione teorica indicava come l'elemento intellettuale dell’arte. All’inizio del Settecento la vittoria dei “rubènistes” e quindi del colore e di elemento piacevole dell’arte, ebbe delle conseguenze sull’Accademia nella quale la pittura di storia perse l’importanza di cui aveva goduto nel Seicento; contemporaneamente un rubèniste come De Piles dedicava una parte del suo trattato al paesaggio, emancipandolo al rango inferiore cui lo aveva relegato la teoria accademica. Parallelamente trovarono vasta diffusione le scene galanti e i soggetti erotici: protagonisti non era più il disegno ma la pennellata vivace e ricca di colore, stesa con facilità. Era il trionfo della pittura rococò. Questi dipinti adornavano ambienti decorati da preziosi tessuti, raffinate boasseri (boiseries), rare porcellane: erano oggetti di piacere che fungevano da elementi di decorazione. Intorno alla metà del Settecento si verificò una svolta che pose freno a questa situazione. Nel 1745 il nuovo directeur gènèral des Batiments du roi de Tournehem ripristinò l’antica regola secondo cui i dipinti di storia, in quanto richiedevano maggiori doti intellettuali, dovevano essere pagati di più: quest’atto segnava la fine dell’egemonia dei rubènistes all’interno dell’Accademia. Altro provvedimento fu la creazione del Ècole des élèves protègès, corso di perfezionamento dell’Acadèmie riservato ai sei migliori allievi distinti nel Grand Prix de Rome ovvero quel concorso che premiava il vincitore con un lungo soggiorno presso l'Accademia di Francia a Roma. La scuola si preoccupava che gli allievi approfondissero la loro cultura classica attraverso la lettura di testi antichi. Sulla linea della politica culturale di Lenormant, proseguita dal suo successore Marigny, si pose l’attività pubblicistica di La Font de Saint-Yenne, il quale nei suoi scritti auspicava i ritorno a quella “grande manière” che solo nella pittura di storia poteva esprimersi e additava come modello l’età di Luigi XIV, auspicando l’apertura di un museo al Louvre in cui gli artisti avrebbero potuto trovare fonti di ispirazione. La Font deprecava la pittura del suo tempo ridotta al mero apparato decorativo in ambienti di lusso, soffocata dallo “strapotere” di ornamenti e di specchi, priva di qualunque valenza morale o didattica. L’intellettuale vedeva nel ritorno in auge della pittura di storia il mezzo per porre freno a questa situazione. All’arte del suo tempo, marchiata come banale e sensuale, La Font contrapponeva il genere storico, capace di “parlare all’animo” invece di dilettare i sensi. La posizione di Diderot fu complessa: egli era convinto che l’arte dovesse avere un fine morale infatti fu critico nei confronti di artisti rococò come Boucher e per la stessa ragione Diderot fu un estimatore di Greuze, maestro della pittura di genere. Questo tipo di pittura, in voga in tutta Europa ma soprattutto nei paesi protestanti come l'Olanda, luogo in cui non si ammetteva l’idea di una rappresentazione della divinità, raffigurava episodi della vita quotidiana. L’originalità di Greuze, rispetto a tale tradizione, consiste nell’aver innestato sui sistemi compositivi unitari di stampo poussiniano, scene di vita familiare legate al mondo contadino o piccoloborghese che veicolavano messaggi “morali”: egli conferì una dignità di pittura di storia a quella di genere. Così riflettendo sui generi pittorici, Diderot mostrava che il problema non era stabilire la presunta superiorità dell’uno rispetto all’altro ma di prendere coscienza della loro diversità, del fatto che ciascuno aveva caratteristiche proprie e originali. Diderot paragonava la pittura di storia e quella di genere alla letteratura: l’una è poesia e l’altra è prosa. Anche la pittura di genere aveva una dignità “letteraria” se pur diversa da quella della pittura di storia. Diderot era cosciente del fatto che la pittura di genere richiedeva un abilità pari a quella che imponeva la pittura di storia, così come aveva la consapevolezza che la materia più “umile” del dramma borghese non rendeva l’autore meno meritevole di quello di tragedie. Questo è il periodo in cui in Francia ed in Inghilterra generi come il dramma borghese e il romanzo, legati a un pubblico ed a una mentalità “borghese”, acquistavano grande importanza nella produzione letteraria (anche Diderot nel 1757 si cimentò nel dramma borghese). Questi generi in prosa rigettavano i modi aulici della poesia per aprirsi alla vita quotidiana concreta. Gli autori rivendicavano la loro “dignità” sottolineando la funzione moralizzante delle loro opere. Due erano i registri attraverso cui poteva avvenire questa messa a fuoco della realtà: il registro patetico-sentimentale o quello ironico-parodico. In Francia autori come Prevost o Marivaux predilessero il registro patetico-sentimentale; in Inghilterra Swift e Fielding in modo diverso, optarono per il registro ironico-parodico mentre Defoe puntò a un realismo che stupì i suoi contemporanei. | registri potevano mescolarsi, aspetti patetico-sentimentali si riscontrano anche in Fielding. La situazione letteraria sembrava aver un corrispettivo in quella pittorica: in Francia Greuze costituisce con le scene “morali” un parallelo dei romanzi e drammi di Marivaux; in Inghilterra la pittura di Hogarth ebbe sotto certi punti di vista un equivalente letterario con i romanzi di Fielding. A Hogarth va dato il merito di aver creato un genere pittorico originale: egli concepì i dipinti e le stampe come romanzi o drammi morali legando pittura e morale anche se in modo diverso da Greuze. Hogarth attribuiva all'arte la funzione di denunciare le brutture della società: raffigurava situazioni che mettevano in luci i vizi, le debolezze, le miserie della Londra dei suoi tempi; talvolta i suoi “racconti” pittorici s'esaurivano in una tela, in altri casi si sviluppavano in una serie di quadri o stampe. Era una forma di pittura di genere particolare che, aprendosi alla multiforme società moderna, non poteva aderire il registro del genere storico ma doveva aderire alla realtà, riproducendo la varietà. Egli elaborò uno stile a metà fra il sublime e il grottesco, l’unico che potesse adattarsi all’eterogeneità di quel mondo. Concependo la pittura come un’opera teatrale o un romanzo che s’addentrasse nella contemporaneità, Hogarth si poneva sull’orizzonte culturale di Fielding., il quale seppe fondere il realismo di Defoe con la tematica morale di Richardson e la satira swiftiana. Fielding, nella prefazione al “Joseph Andrews” (1742), definì il “novel” come un poema epico comico in prosa risalendo sia all'aspetto epico per esempio di Omero, sia alla pittura morale di Hogarth. Il fine era distinguere il comico dalla caricatura per innalzarlo allo stesso livello della storia, come avveniva nella pittura hogarthiana: in tal modo, l’arte narrativa grazie ad un linguaggio vario e ricco poteva immergersi nella contemporaneità. Hogarth, nel presentare le sue scene come opere teatrali, si riferiva al genere della commedia che adottava un tono in cui realismo, moralismo, ironia e satira si mescolavano: nel 1738, dipinse la scena dell’ “Opera del Mendicante” di Gay (parodia dei clicheès del dramma tragico). L'entrata della pittura di storia, prima che in Francia avvenne in ambito angloamericano tant'è che il “Giuramento della Pallacorda” di David presuppone la conoscenza (tramite stampe) di opere di artisti ‘americani residenti a Londra. La pittura di storia in Inghilterra non aveva tradizione: nei secoli precedenti, i ceti medio-alti britannici commissionavano ai pittori locali ritratti e acquistavano dai pittori olandesi nature morti mentre dai pittori italiani e francesi acquistavano pitture di storia. Questa situazione fu modificata nel Settecento da due eventi: la fondazione di una scuola pittorica grazie ad Hogarth il quale creò la pittura di genere britannica e la nascita di una pittura di storia contemporanea. Queste modificazioni poterono attuarsi grazie alla mancanza nella cultura inglese di apriorismi di stampo accademico e alla libertà di azione degli artisti. A contribuire alla libertà fu l'inesistenza di una tradizione locale precedente e il fatto che la prima accademia inglese fu fondata nel 1768 ed il suo primo direttore, Reynolds mantenne un atteggiamento equilibrato ed elastico, privo di precettismi. È significativo che sia stato un americano stabilitosi a Londra ad inventare la pittura di storia contemporanea: West. Costui ebbe l’incarico nel 1770 di raffigurare la “Morte del generale Wolfe”, l'eroe della battaglia del Québec grazie alla quale la Corona britannica potè aggiudicarsi l'egemonia sui territori nordamericani. Morte del generale Wolfe, West, 1770). West introdusse l’episodio in una scena che possedeva la dignità e solennità tipiche del genere storico ma decise di rappresentare i personaggi con le vesti che indossavano quando si svolse la battaglia, rifiutando l'abbigliamento all’antica che di norma caratterizzava la pittura di storia, anche quando alludeva a fatti contemporanei: l'attualità veniva elevata a una dignità senza pari, rappresentata senza travestimenti mitologici e antichizzanti. Tale scelta destò la perplessità di vari personaggi da Reynolds a re Giorgio III, i quali cercarono di dissuadere il pittore. Per il direttore della Royal Academy raffigurare un episodio moderno in modo realistico significava privarlo del valore universale che si intendeva attribuirgli. West portò avanti la propria causa con la consapevolezza che al suo tempo vi fossero gesta eroiche degne di essere celebrate in sé, senza che bisognasse nobilitarle con i panni antichi. Il suo discorso è una dichiarazione di indipendenza dal mondo antico interpretata tenendo conto della provenienza del pittore: la cultura americana, priva delle tradizioni e della profondità storica che caratterizzava l'Europa, aveva una spontanea tendenza a guardare alla contemporaneità, a guardare il presente senza farsi condizionare dal passato. Sulla scia di West si tende un altro americano con origini irlandesi, Copley il quale nell'opera “Watson e il pescecane” (1778), si spinse oltre il suo collega, rappresentando un fatto di cronaca. Watson e il pescecane, Copley, 1778). Come West anche Copley trascrisse l'evento con un linguaggio “alto” ispirato ai grandi capolavori del passato. La tradizionale pittura di storia cambiava soggetti e contenuti ma manteneva un rapporto con i modelli antichi e moderni. Il dipinto di Copley costituisce un precedente della “Zattera della Medusa” di Gericault (1819) in cui verrà raffigurato, in modo allusivo, un episodio non glorioso di storia contemporanea, in cui il protagonista sarà la sconfitta dello Stato incapace di evitare una carneficina (l’opera provocò delle aspre critiche). La pittura di storia aveva il compito di veicolare un messaggio morale, nell'Ottocento tale funzione sarebbe stata smussata ed in certi casi abolita: come ha sottolineato Rosenblum, un dipinto come “l’Esecuzione dell’arciduca Massimiliano d’Austria” (1867) di Manet non evoca nessuna norma morale ma crea un “vuoto concezionale” capace di impressionare il pubblico e suscitare la reazione morale dei tanti exempla virtutis dell’arte precedente. (L'esecuzione dell'arciduca Massimiliano d'Austria, Manet, 1867). Il rapporto fra ritratto e pittura di storia è oggetto di riflessioni in questo periodo. La leggenda pliniana della fanciulla di Corinto figlia del vasaio Butade e nota con il nome di Dibutade, che tracciò il profilo del suo ‘amante ricalcando il contorno dell’ombra proiettata su un muro, indicava nel ritratto la prima forma di pittura. Sebbene questo racconto fosse in voga, il genere ritrattistico non godeva di considerazione. La Font Saint-Yenne considerava una delle forme di decadenza della pittura francese l'abbandono del “grand genre” storico dell’epoca di Luigi XIV a vantaggio del ritratto. Secondo la Font il pittore di ritratti accettava pur di trarne un guadagno , di raffigurare chiunque fosse disposto a pagarlo, trasformandosi in un adulatore di gente indegna. La Font ammetteva il ritratto soltanto per certe classi di cittadini che fossero degne di essere immortalate per le loro qualità e per i loro meriti. Diderot reputava il ritratto un genere repubblicano, in quanto era caratteristico delle Repubbliche di immortalare coloro che garantivano la libertà dei cittadini e il buon funzionamento dello Stato. La decadenza del ritratto era indice della degenerazione della pittura perché era da quel genere artistico che era nata l’arte pittorica. In questo periodo trovò una diffusione soprattutto in Germania, il ritratto a silhouette ovvero delineato col disegno del tratto seguendo l’ombra proiettata dal viso su una superficie, Si trattava dello stesso tipo di ritratto eseguito da Dibutade: si potrebbe supporre che a contribuire alla fortuna di tale genere fosse il ritorno alla ribalta della leggenda pliniana. Il ritratto a silhouette affascinò il padre della fisiognomica ovvero Lavater il quale lo considerava l’immagine più fedele all'uomo, superiore ai ritratti pittorici in quanto si configurava come riproduzione immediata della natura da cui era possibile risalire al carattere dell'individuo. Lavater dichiarava che nessuna creazione dell’uomo era comparabile alla natura, opera del Creatore, egli considerava l’immagine riflessa su uno specchio il ritratto perfetto in quanto era ciò che somigliava di più al modello. C'era chi pretendendo dal ritratto un valore estetico, reputava la somiglianza un fattore a svantaggio della qualità artistica: l’asservimento del modello naturale lo faceva apparire come genere “meccanico”. La somiglianza, come afferma Diderot, basta quando si aspira ad un ritratto passeggero, che si limiti a soddisfare la momentanea esigenza di somiglianza con il modello vivente; quando si punta ad un ritratto “eterno” è necessario che sia “ideale” e quindi tradendo la somiglianza. Diderot distingue il ritratto dell’imbrattatele somigliante destinato a morire con il soggetto da quello eseguito dal pittore di storia fondato su un’idealizzazione che lo rende eterno: la somiglianza è cosa da ignoranti e non ha niente a che fare con l’arte che invece richiede capacità d’elevarsi all’imitazione della realtà. Nel tempo è l’immagine artistica che sopravvive. Nel 1768 von Sonnenfels, appassionato d’arte, giurista e incaricato di mansioni ‘amministrative, afferma che il ritratto doveva sopravvivere al suo modello. Significativo è il fatto che Sonnenfels era convinto che il ritratto non fosse destinato alla famiglia del modello ma al museo pubblico, istituzione che in quegli anni s'andava affermando nelle città tedesche e a Vienna. Il ritratto come oggetto da museo interessava per ragioni estetiche, per le sue qualità formali e in seconda istanza per il personaggio. Era questo un sintomo del vacillare della gerarchia dei generi che sulla “nobiltà” del soggetto traeva le sue basi. Reynolds considerava il ritratto per la sua dipendenza dal modello un genere inferiore alla pittura di storia. Egli sottolineava che il ritrattista poteva prendere in prestito dalla pittura di storia elementi come, ad esempio, la generalizzazione e l’astrazione dai particolari in modo tale da conferire “nobiltà” alla sua opera. Reynolds si mostrava favorevole all’idealizzazione del ritratto implicando così una migliore somiglianza. Milizia si dichiarava per il ritratto ideale: il ritrattista non deve imitare la “faccia” ma rendere l’ “idea” di una persona, perciò, dovrà sacrificare la somiglianza esatta e ricorrere alla “menzogna” per cogliere l’idea in tal modo realizzerà un'immagine viva ed espressiva. Era il coronamento di una serie di riflessioni sul rapporto tra il genere del ritratto e il principio della somiglianza, argomento che aveva coinvolto molti intellettuali nella seconda metà del secolo. Era un'espressione della concezione neoclassica secondo cui l’arte non deve puntare a un illusionismo ingannatore ma alla verità dell'idea. come Girodet, Prud’hon, Gerard, scultori come Bosio o Chauvet furono i rappresentati più illustri di questa corrente di gusto che ebbe durante il Direttorio e l'Impero successo. La collezione di Sommariva ne costituiva un emblema: vantava opere a soggetto mitologico-erotico degli artisti sopra citati (tranne Bosio) nonché di Canova e di David. Quest'ultimo, placato il furore giacobino dei primi anni Novanta del Settecento, tornò al genere “agrèable” prima in modo saltuario e poi in modo quasi esclusivo ai tempi dell'esilio a Bruxelles quando l'impegno politico si era esaurito. Artisti come Girodet e Prud’hon in piena Rivoluzione si erano dedicati al genere erotico probabilmente grazie al contatto con la cultura romana in particolare con Canova. Canova residente a Roma dal 1780 fin dal suo esordio come pittore e scultore mostrò una certa predilezione per i soggetti erotici ( primi dipinti Adone o Endimione dormiente) e per un registro stilistico all’insegna del piacevole, del delicato e della grazia: grazia che non era quella sensuale ed epidermica rococò ma conteneva la solennità e la dignità del sublime. Il critico tedesco Fernow mise in luce queste quest’inclinazione dello scultore per la grazia nel saggio a lui dedicato. Egli mostrava di saper comprendere l’arte di Canova dolce, melanconica e sensuale ma interpretava tali caratteristiche come un limite dell’artista che gli aveva impedito di trattare inmodo segno soggetti di tipo eroico in cui bisognava esprimere energia, grandezza d’animo e forza morale. Le opere canoviane appartenenti a questo genere erano reputate forzate: Canova ai suoi occhi dimostrava di non essere all'altezza, di non saper giungere al sublime, di dar il meglio di sé solo nell’ambito del piacevole. Opere come “Ercole e Lica” lasciano trapelare un componente di muscoli e tendini: se Quatremère diceva che opere come la “Danzatrice con le mani ai fianchi” o la “Maddalena” apparivano “create” quelle eroiche (ad eccezione per il “Perseo”) appaiono volute e realizzate con sforzo. Non priva di fondamento anche se parziale è l'affermazione di Fernow secondo cui queste ultime era come se l'artista le avesse raggiunto con la forza quello che la natura gli aveva negato. Secondo Fernow l’unico artista che era riuscito a suscitare il sublime eroico degli antichi era Thorvaldsen. La sublimità ideale delle opere di quest’ultimo si manifesta in forme bloccate e assolute che sembrano sottrarsi allo spazio in cui sono inserite; appaiono come epifanie di idee astratte dal divenire, dal tempo, distanti dalla sfera sentimentale. Canova concepisce le statue come forme in movimento dialoganti con lo spazio, dotate del dono dell’idealità e della naturalezza, superiori alla sfera sensuale e accese dal calore della vita dei sentimenti. Fernow, fedele ai rigorismo kantiano, non poteva che giudicare negativamente la grazia canoviana e trovare congeniale alla sua visione estetica un artista sublime come Thorvaldsen restio a fare concessioni al piacevole e proiettato verso una concezione razionale del bello. La genialità di un artista, la capacità di farsi interprete e attore del suo tempo non necessariamente coincide con la sua versatilità; ma artisti del calibro di David e Canova hanno avuto il coraggio di cimentarsi in soggetti meno adatti, mostrando la loro capacità di sperimentare e saggiare altre strade. L'importanza che a poco a poco tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, assunse il genere del paesaggio a minare le fondamenta della gerarchia dei generi. Il paesaggio, rappresentando la natura e quindi non esseri viventi, era considerato inferiore rispetto alla pittura di storia. Fin dai primi anni del Seicento Carracci, Domenichino e poi Poussin diedero un lustro a questo genere grazie all'invenzione del “paesaggio ideale” ovvero un paesaggio che rappresentasse la natura per come dovrebbe essere sottoponendola ad un processo di idealizzazione e selezione. Questi paesaggi erano nobilitati dalla presenza di scene che illustravano episodi biblici o mitologici costituendo una storia di corollario per la pittura di storia. Nella seconda metà del Settecento la situazione cambiò in concomitanza con l'affermarsi di un nuovo modo di intendere e sentire la natura. Si riconosceva che la sua spontaneità, la sua varietà, la sua libertà non perfettamente dominabile dalla ragione umana erano i tratti che costituivano la sua bellezza. Ci si rendeva conto che la natura per ciò che è era fonte di sentimenti, colma di fascino misterioso. Cominciava a cambiare lo sguardo con cui la si osservava, uno sguardo che non ne selezionava gli aspetti belli per reincarnarne un immagine di bellezza ideale ma che si abbandonava allo spettacolo naturale cercando di immergervisi per comprenderlo. La natura era concepita come realtà da scoprire e penetrare: nacque l'esigenza di uno studio diretto della natura. In questo quadro s'inserisce la pittura “en plein air” praticata dal paesaggista inglese Jones e da altri contemporanei. Come ha sottolineato Cavina, il fascino di certe opere di Jones, in particolare gli olii su carta in cui eternò squarci di Roma e Napoli, risiede nella sua capacità di ritrarre la vita di tutti i giorni, quel tranquillo mondo fatto di drappi di lino appesi ad alberi, muri e rivelato da una ferma luce meridiana e allo stesso tempo di cogliere in questa umile realtà un ordine cristallino reso con estremo rigore formale. Lo studio della natura dal vero era una pratica diffusa precedentemente ma nel Settecento divenne sistematica e Jones insieme a Valenciennes rappresenta la punta di diamante. Glu studi en plein air di Jones e dei suoi colleghi, così moderni per la loro adesione al dato naturale non erano considerati né dai loro autori né dal pubblico come opere autonome perché la teoria accademica continuava ad esercitare un certo peso. Esemplare è la posizione di Valenciennes che arrivò nei suoi studi a olio su carta, a risultati affini a Jones anche se è partito da presupposti culturali diversi: il primo rispondeva di un’esigenza di razionalità insita nella cultura francese esalata dal suo rapporto con David, il secondo era legato all’empirismo della cultura britannica che poneva la base dell’esperienza diretta con il reale. Valenciennes nel suo trattato elogiava il paesaggio ideale sottolineando le sue capacità di tradurre visivamente le opere dei poeti del passato dichiarandone così la sua fiducia nell’ “ut pictura poesis”: dall’altro lato additava nello studio diretto della natura, fattore indispensabile per il paesaggista. Per Valenciennes lo studio en plein air era una tappa non autonoma del processo pittorico, finalizzata alla comprensione delle forme naturali: doveva essere seguita dal lavoro in atelier dove l’artista poteva variarlo, trasformarlo o comporlo dando vita al “paysage composè”. In questo processo aveva un ruolo fondamentale la memoria; oppure poteva immaginare un paesaggio ideale basato sul principio della selezione degli aspetti più belli e che il dipinto fosse coerente grazie anche alle conoscenze acquisite con il metodo en plein air. Nel suo trattato Valenciennes ricorda ai paesaggisti che la natura varia ogni istante (avvertimento che fa pensare agli Impressionisti). Il pittore francese riusciva a fissare l’attimalità della luce in forme dominate da una cristallina consistenza volumetrica e una chiara geometria. Le riflessioni fatte da Valenciennes sono indicative di un nuovo rapporto con la natura e dell’esigenza d’aderire ad essa e alle sue trasmutazioni. Nella prima parte del suo trattato Valenciennes svolge delle considerazioni sui colori, sulla luce e sulle ombre: ad esempio, l’idea che il nero assorbe la luce da cui deriva il suo invito ad abbandonare l’utilizzo di questo colore, o l’affermazione che le ombre sono colorate a seconda del corpo che le proiettano (se un corpo è giallo la sua ombra sarà verdastra). Questi motivi erano utilizzati in precedenza da artisti come Corot considerato il padre del paesaggio moderno in Francia. Le due caratteristiche fondamentali della sua arte sono la rigorosa sintesi a cui sottopone i dati naturali e il realismo. Simile è l'invito che Chateaubriand rivolge ai paesaggisti nella sua lettera sul paesaggio: la natura ai suoi occhi deve essere la prima guida del pittore in quanto è superiore all’immaginazione umana, perciò, non va tradita né cambiata né corretta ma bensì va compresa anche nei significati “morali” che può rivelare. Chateaubriand con “parte morale” della natura intende che ogni paesaggio contiene in se delle caratteristiche tali da suscitare dei sentimenti che variano a seconda del tipo di piante, dalla presenza di rovine etc. E’ solo penetrando la natura che il paesaggista può comprendere la carica sentimentale e morale e può suscitare determinati sentimenti. Fedeltà alla natura equivale a fedeltà al sentimento. Il riconoscimento della capacità del paesaggio di veicolare sentimenti in modo intenso rispetto alla pittura di storia, nobilitava il genere paesaggistico e costituiva un miccia pronta per far saltare la gerarchia dei generi. Un passo in avanti fu compiuto dai paesaggisti romantici per i quali il binomio natura-sentimento era fondamentale. In Chateaubriand il sentimento viene suscitato dal paesaggio, per i romantici è l'individuo che proietta il sentimento: questa proiezione avviene perché il soggetto si sente parte della natura, perciò, uomo e natura si identificano perché appartengono ad un'unità organica in cui lo spirito divino si manifesta sotto forme differenti. Significativa è l'affermazione del paesaggista tedesco Carus secondo cui la bellezza di un paesaggio si attua nella rappresentazione di uno stato d'animo dell’uomo attraverso la figurazione di un momento della natura. Per Carus bello è ciò che suscita nell’uomo il sentimento della presenza del divino nella natura: cogliere il divino nella natura significa riconoscere se stessi come natura, significa percepire il mondo interiore oggettivato nel mondo naturale o viceversa. Riconoscere le divinità della natura, identificare con essa l’uomo significava annullare la gerarchia fra gli esseri: Dio si manifesta in modi, forme e potenze diverse in tutto il creato, perciò, la gerarchia dei generi non aveva più un senso e il paesaggio, con la sua capacità di esprimere e suscitare sentimenti assurgeva ad un genere alto e nobile. Carus ha rigettato il termine “Landschaft” ovvero paesaggio poiché lo considera un termine insufficiente a esprimere la profonda concezione del genere, perciò, lo ha sostituito con il termine “Erdlebenbild” che significa rappresentazione della vita della terra visto che per lui l’arte doveva cogliere il momento vitale, la forza creativa operante della natura. Radicata nella cultura romantica tedesca anche se originale, fu la posizione di Runge: secondo lui la storia si divideva in fasi alle quali corrispondevano una religione ed un certo tipo di arte; quando il sistema religioso vigente entrava in crisi l’arte raggiungeva l’apogeo. La prima età, quella dell’antico Egitto era caratterizzata da una povertà spirituale, perciò, corrispondeva ad essa un’arte rozza; la ricchezza spirituale della Grecia fece nascere, con la decadenza della sua religione, dei capolavori; ad essa seguì l'età della fase cattolica che corrispondeva all’arte della rappresentazione storica la quale diede il meglio di sé quando a causa della Riforma protestante, il cattolicesimo entrò in crisi. La quarta epoca, corrispondente al luteranesimo e secondo Runge attuale, era caratterizzata dall’arte del paesaggio e si sarebbe realizzata solo col declinare di questa religione. Per Runge, nei fiori e nelle piante era presente lo spirito dell’uomo della sua originaria e incorrotta purezza; infatti, nella Bibbia si dice che Dio affidò all'uomo del Paradiso terrestre l’incarico di dare il nome ad animali e piante, perciò, Adamo infuse il suo spirito puro ad essi. L'umanità avrebbe perso il candore primigenio ma animali e piante invece lo hanno conservato. Per Runge vedere la natura significava cogliere lo spirito dell’uomo nella sua purezza originaria: sfrondare nella natura implicava un ritorno all’innocenza dell'infanzia. La pittura di paesaggio così concepita non escludeva l’uomo anzi era protagonista rappresentato attraverso le forme naturali che della sua purezza perduta conservano ancora l’importanza. Nella natura era custodito il segreto dell’originaria essenza dell’uomo. Per Runge la decorazione di piante e fiori non doveva essere naturalistica ma bensì decorativa, simbolica e tendente all’arabesco: questi aspetti si riscontrano nelle sue opere il quale associava l'elemento vegetale alla figura umana la quale dovrebbe essere stata assente; questa non è una contraddizione perché pensava che abituando il pubblico a questa associazione lo avrebbe preparato alla pittura di paesaggio in cui le piante sarebbero state espressione dello spirito umano. Diversa era la concezione di paesaggio per Constable per il quale era necessario aderire alla natura senza schemi prefissati, con uno sguardo innocente: era fondamentale comprenderne la vita dinamica e le leggi ANALISI SULLA FIGURA E SULLA FORMA: Un lettore di “SeleARTE” ha fatto notare una mancanza di gusto e discrezione per avere illustrato nella stessa pagina quattro nudi femminili ( di Boucher, Matisse, Despiau e Bonnard) e un Cristo paziente (Durer). Probabilmente i redattori della rivista non hanno scontato l'impressione che si poteva verificare: non è che la cosa sia accaduta perché la rivista è rivolta a persone di cultura che ritengono esenti da atteggiamenti, abiti o reazioni volgari o perché le cinque opere sono state riprodotte sulla medesima pagina di una rubrica antologica sporadica che avrebbe sollecitato da parte della redazione minore attenzione o minore sorveglianza. Le figure dei quattro nudi affiancate a quella del Cristo sono state accostate perché la redazione non se ne è accorta. Perché la redazione non se ne è accorta ? Perché l'educazione, divenuta consuetudine radicata, di vedere criticamente le opere d’arte per i loro valori stilistici o espressivi, il loro linguaggio autentico e specifico, la loro costruzione e struttura della loro forma, ha fatto dimenticare la figurazione in quanto tale o fa vedere la totalità dell’opera e quindi la figurazione scelta nel suo modo formale o espressivo anziché nella sua relazione con la vita e la sensibilità pratica ed empirica, o con una storica e contingente determinazione di esse, come ambito di cultura, gusto, convenzione, educazione e convivenza. Risulta evidente che, essendo lo scopo quello di educare alla lettura del linguaggio artistico e alla comprensione dei problemi che sono propri delle opere d’arte, anche nel solco di questo intento e di questo programma, la considerazione di una convivenza, di una abitudine che fanno parte della mentalità corrente verso le opere d’arte, restava estranea. Forse il lettore dirà: in questo caso si tratta di cinque opere tutte figurali, quattro nudi femminili di diverse epoche e diversi autori, e un Cristo e per di più in due casi (Durer e Boucher) di opere prodotte in un tempo storico nel quale, contrariamente a quanto avviene nella mentalità estetica e nel gusto diffuso moderno, si dava credito e validità alla rappresentazione figurale in quanto tale perciò sarebbe stato bene seguire la mentalità storica, aderirvi e accettare le incompatibilità che erano vedute nel Cinquecento come nel Settecento, tra il significato e la funzione di una figura sacra e di una figura peccaminosa e quindi distanziarle. A parte la ragione di obbedienza verso la mentalità contemporanea alle opere, è possibile pensare che il soggetto dell’opera d’arte non abbia valore nella considerazione critica, non debba essere né assunto né osservato né valutato contrariando il fatto che tale soggetto esiste e avrà una sua giustificazione e ragione ? Ammesso che il carattere d’arte in un’opera plastica sia dato dal modo di essere stilistico dell’opera figurata sarà possibile escludere dallo stile la funzione nella quale lo stile si incarna? | soggetti, le raffigurazioni, non sono un dato da assumere passivamente o secondo una convenzione indiscussa. Sommariamente, un problema di scelta o di non scelta da parte dell’artista che si attua con la forma. Nel primo caso è facile avvertire che la scelta personale del tema o del soggetto è fatta perché coincida con l'esigenza della forma; questa connecessità di soggetto e forma vale per tutto l’Ottocento in giù. Dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, l'autorità esclusiva dell’artista nella scelta anche del soggetto, prescindendo anche da ogni relazione con la società, le condizioni pratiche e la storia, si è affermata ed è cosa risaputa e accettata. Dal punto di vista teorico possiamo individuare questo punto estetico con un'osservazione di Flaubert (1861) che ha coincidenza con la teoria di De Sanctis:” non si è liberi di scrivere una cosa o un’altra. Non si può prendere qualsiasi soggetto. Ecco li che il pubblico e i critici non riescono a capire. Il segreto del capolavoro è lì, nella concordanza del soggetto con temperamento dell’autore”. Come Flaubert ha avvertito, il CONTENUTO è e non può essere che quel CONTENUTO di QUELLA FORMA. Le volte che si ritiene di poter assumere quel contenuto come significante storicamente e umanamente per sé, fuori dalla forma in cui è calato e fuso, non si possiede altro che un’astrazione con tutte le conseguenze che questo comporta. La convinzione o il sentimento di questa autonomia del fare artistico, del dover obbedire alla legge dell’espressione, fuori da ogni vincolo o relazione e condizione estrinseca, sono diventati patrimonio comune della cultura moderna e anche degli artisti; lo dimostra il rapporto che essi hanno stabilito con il pubblico, il quale può o non può accettare ciò che essi fanno nel modo libero con cui lo fanno ma non ha più il diritto di riconoscere all'artista la soddisfazione di un suo bisogno di ragione intellettuale, sensuale e sociale. Nel secondo caso è necessaria una distinzione storica che esiste nelle situazioni che sommariamente si ritiene (in ordine alla prevalenza delle estetiche contenutistiche e delle letterarie giustificazioni dell’arte contemporanea alle opere d’arte prodotte) siano state contrassegnate da un credito positivo alle rappresentazioni come tali, nella loro funzionalità volta per volta diversa, da parte degli artisti. Iconografisti ed iconologi nell’assumere la materia figurale come contenuto (è un aspetto o un paesaggio da intendere nella sua mediazione con il processo costruttivo dell’opera) e nell’assumerla come il vero e unico contenuto dell’arte in quanto simbolo visibile della mente o della situazione culturale-storico-sociale dell’artista, raramente dubitano se l'accettazione della materia figurale sia o non sia condivisa con asseverazione e convinzione positiva dell'artista, pongono il problema del grado effettivo di partecipazione che l’artista abbia avuto nell’atto di accettare una figurazione datagli da altri. Tanto meno pongono il problema se nelle mediazione che avviene fra la materia figurale con le sue prescrizioni e le sue relazioni pratico-sentimentali-intellettuali e il processo di investimento formale da parte dell’artista, questo compia una operazione che non può essere trascurata: l’artista riduce, trasforma, deforma, divaria adatta quella materia, nel suo enunciato concettuale o morale identica e la concreta in termini linguisticamente e stilisticamente diversi, unici e non condivisi né condivisibili con altri artisti. La tipologia iconografica nelle sue indefinite categorie non potrà concorre all'accertamento delle qualità dell’opera d’arte, se non la si assuma, nella modificazione concreta o nell’interpretazione specifica che essa ha trovato nell’artista, in ordine all'attuazione del suo linguaggio o della sua forma. Preferiamo contrapporre una situazione storica, situazione della cultura artistica attiva e del gusto, che confermano quanto diciamo: come non è stato osservato da coloro che troppo si affidano, per la comprensione delle opere d’arte, al condizionamento della cultura contemporanea ritenuto insuperabile in modo gratuito. La storia del collezionismo, della raccolta di opere d’arte come tali, ha inizio e si svolge per alcuni secoli entro una cultura letteraria e auna letteratura sull'arte nella quale, hanno corso e credito le rigorose divisioni fra opere e opere d’arte a seconda delle loro rappresentazioni: ne consegue alla partizione una gerarchia di giudizi di valore, che si è fissata nella graduazione dei generi. Se osserviamo le collezioni dalle prime medicee e italiane sino a quelle germaniche, francesi e inglesi dei secolo XVI-XVIII, comprendendo quelle dei principi spagnoli, se scorriamo gli inventari di quelle disperse, possiamo verificare che, quando si poneva il problema di rappresentare gli artisti come tali il loro valore come stile e personalità non si teneva conto delle partizioni, non si facevano divisioni tra soggetti e soggetti. Chiunque visti una galleria o parte di galleria che è rimasta nelle condizioni originarie o con la collocazione tradizionale (la Tribuna degli Uffizi), si rende conto del fenomeno, del superamento dei vincoli della cultura letterario-retorico-accademica nella concreta scelte delle opere d’arte fondata sul loro valore a sua volta concentrato nel nome della personalità artistiche rappresentative, prescindendo dai soggetti raffigurati. Delle scelte fondate non sulla tematica o sui generi ma sui valori o sugli stili esistono dal Cinquecento testimonianze numerose (basti pensare alla lettera diretta da Federico Gonzaga al suo rappresentate a Roma ovvero Michelangelo). Questo documento non entra nelle stori della critica e della lettura dell’arte ma dovrebbe essere tenuto di conto come prova nella ridondanza di giustificazioni: Federico Gonzaga distingueva fra figura e forma ovvero fra stile o genio o arte. Per la sua data precoce questa lettera si pone come un precedente per comprendere quello che sarà verso la fine del secolo lo sceveramento del Domenichino e di Agucchi ovvero l’identificazione di un rispetto agli altri degli stili delle scuole pittoriche io all’atteggiamento per cui alla fine del Settecento il D’Agincourt come dei maestri esponenti dando ini con intuizione parlerà di un linguaggio delle opere d’arte. Guardando alle opere d’arte secondo l’intelligenza della loro forma, i termini dell’espressione di impongono all’osservatore critico, andando oltre e prevalendo sui termini figurali generali. È una questione di metodo non scontata: troppe manifestazioni critiche si fondano in forme più dissimulate, sulla materia figurale e troppe attribuzioni vengono giustificate con la morfologia (persistenze figurali) con la forma stessa. (vedi esempio sul saggio) connettere fra di loro i colori che si distinguono attraverso sfumature che possono essere messi in relazione con complessi formali ornamentali e tettonici, dovrebbe limitarsi a distinguerli quali elementi compositivi, privi di senso ed equivoci anche dal punto di vista spaziale. Se noi indichiamo l’oscura superficie in alto che sta come “cielo notturno” oppure le figure sacre differenziate che stanno al centro come “corpi umani” e se infine noi dicessimo che il corpo sta “davanti” al cielo notturno, mettiamo in riferimento qualcosa che è raffigurato, un dato spazialmente e plurivalente e un contenuto tridimensionale della rappresentazione. Non è necessario insistere sul fatto che una descrizione formale in questo senso è impossibile: qualsiasi descrizione dovrà trasformare i fattori formali della raffigurazione in simboli di qualche cosa di raffigurato; essa si sposta dalla sfera formale in una regione di senso più alta. Nell'ambito di ciò che nell’uso linguistico assumiamo come considerazione “formale” l'oggetto della descrizione non è soltanto “forma” ma accanto vi è il “senso” della forma sennonché in questo caso, rientra in uno strato anteriore rispetto quello della considerazione iconografica. Quando indico quel complesso di colori chiari che sta al centro come “uomo che si innalza in aria con mani e piedi bucati” travalico i limiti di una descrizione formale ma permango in una regione di rappresentazioni di senso che allo spettatore sono accessibili in base alla sua intuizione ottica, tattile e dinamica e quindi in base alla sua immediata esperienza esistenziale. Se considero il complesso di colori chiari come “Cristo che si innalza in aria” presuppongo qualcosa di culturalmente consaputo, così per un uomo che non avesse mai sentito parlare del contenuto dei Vangeli riterrebbe che la Cena di Leonardo sia la rappresentazione di un gruppo di commensali agiati e che fossero in disaccordo su una faccenda di denaro. Quello stato “primario” di senso che possiamo penetrare in base alla esperienza esistenziale di vita lo chiameremo ragione del senso “fenomenico” un senso che possiamo suddividere in: - Senso delle cose. - Senso delle apparenze. (il fatto che i segni raffigurati contano come la rappresentazione di un uomo oppure di un uomo “bello”, “brutto” comporta una differenza). L’altro strato di senso, quello “secondario” che si dischiude in base ad un sapere che ci è stato tramandato per via letteraria, possiamo chiamarlo ragione del senso significato. Lo storico dell’arte non ha il diritto di distinguere, nell’ambito di questo senso del significato, tra le rappresentazioni che ritiene “artisticamente essenziali” (ad esempio i contenuti della Bibbia) e quelle che ritiene trascurabili in quanto “allegorie” o “simbologie”. Questa distinzione che viene adottata si fonda du una differenza fra ciò che per caso è familiare alla conoscenza odierna e ciò di cui dobbiamo appropriarci sbloccando le fonti che si erano occluse: non è impensabile che per l’uomo dell’anno 2500 la storia di Adamo ed Eva sia diventata estranea come per noi quelle concezioni da cui derivano le allegorie religiose della Controriforma o alle allegorie umanistiche della cerchia di Durer, nessuno nega che per chi voglia comprendere il soffitto della Sistina è essenziale il fatto che Michelangelo ha rappresentato il peccato originale e non un pranzo sull’erba. Ne la “Resurrezione” di Grunewald, senza conoscenze letterarie non sapremmo che cosa intendesse raffigurare l’artista specialmente nel senso del significato. Ma nel senso del fenomeno, possiamo descriverlo grezzamente, limitandoci a ciò che salta agli occhi: il quadro rappresenta un uomo che si innalza da una cassa in mezzo a un’aureola di luce con le braccia spalancate mentre altri uomini, militarmente equipaggiati, si dibattono a terra, stramazzano al suolo abbagliati e in preda al terrore. Questa descrizione fenomenica non presuppone altro che una considerazione del quadro e una messa in relazione con altre rappresentazioni che ci sono familiari in base all'esperienza ma anch'essa non è esente da una problematica. Abbiamo un quadro davanti agli occhi e sappiamo, sulla base dell'esperienza che cosa sia un uomo, che cosa sia il terrore e che cosa significa essere sospesi a mezz'aria. Il problema è costituito da dall’atto della “messa in relazione”: basta che sostituiamo al quadro di Grunewald un quadro di Marc come ad esempio “il Mandrillo” per riconoscere che, per quanto possiamo avere a disposizione le rappresentazioni che possono permettere di scoprire il senso fenomenico, non sempre ci è possibile applicarle a una certa opera d’arte. In poche parole: non sempre è possibile riconoscere ciò che il quadro raffigura. Franz Marc, il Mandrillo. Tutti sappiamo che cosa sia un mandrillo ma per riconoscerlo dobbiamo essere atteggiati secondo i principi della raffigurazione espressionistica che domina questa opera d’arte. L'esperienza insegna che un mandrillo come oggi appare innocuo, all’epoca del suo acquisto non veniva riconosciuto (il pubblico cercava di individuare i baffi per risalire all'intera figurazione) perché quindici anni or sono il modulo formale espressionistico era troppo nuovo. Ci troviamo di fronte all’inverso del caso di Luciano: nel 1919 gli amburghesi non erano in grado di identificare il soggetto dipinto da Marc perché non si erano mai imbattuti nei principi raffigurativi dell’Espressionismo; Luciano non era in grado di venire a capo delle figure disposte una dietro all'altra nel quadro di Zeusi perché gli sfuggivano già i principi raffigurativi dell’arte paleogreca. Entrambi i casi mostrano come la possibilità di una messa in relazione dell’esperienza con i dati della raffigurazione e quindi la possibilità di una descrizione adeguata, dipenda dalla familiarità con i principi generali della raffigurazione che determinano la configurazione del quadro, ovvero da una conoscenza dello stile la quale in ambedue i casi può essere attinta attraverso una penetrazione della situazione storica: nel caso del quadro di Marc, attraverso un’inconscia assuefazione al nuovo, nel caso di Zeusi attraverso una cosciente ritorno al passato. Questo dimostra che un’opera d’arte estranea, per tempo o per genere, a colui che vuole descriverla, prima di poter essere descritta deve venir articolata nella storia dello stile. Nel caso di Grunewald ci accorgiamo che gli uomini sono uomini e che le rocce sono rocce: ma come ci accorgiamo che Cristo è sospeso a mezz'aria ? Una risposta precipitosa potrebbe essere perché egli si trova nello spazio vuoto e non poggia su una superfice. Questa risposta è adeguata (perché senza la curva obliqua del movimento del corpo e senza la stoffa che si muove a spirale verso l'alto e che accentua la dinamica del processo dell’innalzarsi di tutta la situazione del Cristo non sarebbe dubbia); questa considerazione è giusta in questo caso ma sarebbe sbagliata per altri casi. Consideriamo un’opera d’arte prodotta verso la fine del X secolo la “Nascita di Cristo” contenuta nell’Evangelario di Ottone Ill di Monaco. Vediamo subito che gli oggetti contenuti nel quadro (la mangiatoia con il bambino, il bue, l'asino e Maria Vergine) si trovano in uno spazio vuoto, non c'è accenno ad una stalla, la scena si svolte sopra delle forme tondeggianti che raffigurano il suolo. Tutti questi oggetti non sono sospesi in mezz'aria (per quanto un osservatore sprovveduto o un bambino potrebbe vederli in questo modo), per il semplice motivo che qui, le leggi della natura e dello spazio che in Grunewald risultano violate, non esistono. In questa miniatura lo sfondo oscuro non è un cielo ma bensì un fondo astratto; gli uomini e le cose non sono raffigurati come se occupassero uno spazio e come se fossero corpi naturali soggetti alla forza di gravità ma sono come involucri di un contenuto spirituale o un significato concreto. Il Cristo di Grunewald è sospeso a mezz'aria perché la raffigurazione è dominata da un naturalismo prospettivo e plastico in virtù del quale un corpo nel vuoto non può che venir interpretato come un corpo sospeso a mezz'aria; la Vergine della miniatura ottoniana non è sospesa a mezz'aria perché la raffigurazione è determinata da uno spiritualismo prospettico e antiplastico, in virtù del quale il fatto che un corpo è sospeso nel vuoto non significa nulla riguardo alla sua disposizione nello spazio. Per poter descrivere adeguatamente un’opera d’arte dobbiamo articolarla nella storia dello stile (pure inconsciamente e per una frazione di secondo) perché altrimenti non sapremmo se dobbiamo considerare la sospensione nel vuoto come la misura del naturalismo moderno o come la misura dello spiritualismo medievale. Ci accorgiamo che la proposizione apparentemente così semplice un uomo si innalza dalla tomba, abbiamo risolto problemi di ordine generale, come quelli del rapporto fra superficie e profondità, tra corpo e spazio, tra staticità e dinamismo, e quindi che abbiamo considerato l’opera d’arte dal punto di vista di quei problemi artistici fondamentali di cui modalità di soluzione costituiscono lo stile. La semplice descrizione di un’opera d’arte e quindi la scoperta del suo senso fenomenico è un’interpretazione che attinge alla storia della raffigurazione. Aldilà della scoperta descrittiva nel senso del fenomeno, si delinea la scoperta iconografica del senso del significato che va oltre il concetto di una constatazione: anch'essa più della prima, è un’interpretazione. Se il sapere sperimentale attorno a ciò che è un “essere sospesi a mezz'aria” (la messa in relazione delle rappresentazioni sperimentali con i dati del quadro può venir garantita solo da una conoscenza degli stili), ancora meno dobbiamo credere di poter garantire il senso del significato di un’opera d’arte reperendo una fonte letteraria di una data opera o stabilendo un nesso con elementi adatti al nostro patrimonio culturale né dobbiamo aspettarci di trovare una simile fonte letteraria. Come nel caso della scoperta del senso del fenomeno, anche per la scoperta del significato dovrà darsi un'istanza superiore davanti al cui foro dovrà giustificarsi la messa in relazione della rappresentazione extrartistica ovvero un contenuto tramandato per via letteraria con un certo fenomeno contenuto nel quadro. Questa istanza superiore che per la scoperta del fenomeno era la conoscenza dello stile, è per la scoperta del senso del significato la teoria di tipi, ove per “tipo” s'intende una raffigurazione in cui un senso fenomenico determinato si è fuso con un senso del significato da diventare il veicolo di quest’ultimo (per esempio: Cristo crocifisso fra Maria e Giovanni Per ciò che riguarda il quadro di Grunewald rappresenta (presupponiamo che rientri nel patrimonio culturale) una scena al centro del quale sta la persona del Cristo e che avviene dopo la sua crocifissione. Per reperire la fonte letteraria andremo a cercare i passi corrispondenti del Vangelo ma non troveremo un passo che si adatti alla scena raffigurata. Nei Vangeli si racconta come le donne che stavano vicine al Salvatore (una, due o tre o non riferito) trovassero una tomba aperta e vuota e vennero informate da uno o due angeli che il Signore era risorto; solo a partire dal XII secolo troviamo raffigurazioni della Resurrezione dalla tomba. Una approfondita ricerca che prende in considerazione testi e che specialmente consulti la storia dei tipi, ci insegna come ciò che chiamiamo “Resurrezione di Cristo di Grunewald” raffiguri una scena più complessa: la vera Resurrezione dalla tomba, la salita al cielo e la cosiddetta Trasfigurazione. Nel libro di Heidegger su Kant si trovano proposizioni sull'essenza dell’interpretazione, proposizioni che concernono l’esplicazione di testi filosofici ma che in fondo definiscono il problema di qualsiasi interpretazione: il nostro compito è quello di comprendere come queste proposizioni concernano il campo limitato delle descrizioni di quadri e delle interpretazioni del loro contenuto in quanto non siano contestazioni ma interpretazioni. Anch'esse come apparentemente non comportano problemi del senso fenomenico e propongono qualcosa di “non detto”, hanno bisogno di parlare con Heidegger della “violenza”. Si pone la domanda “chi o che cosa porrà un limite a questa violenza?” Esiste un limite esterno ovvero la situazione empirica: una descrizione di un quadro, o l’interpretazione di un contenuto, diventa “falsa” se prende una macchia d’ombra per un frutto o un alce per un cervo. Oltre questo limite esterno devono esistere limiti all'attività interpretativa che si pongono dall’interno. Heidegger dice che la violenza deve muovere e guidare l’esplicazione sulla base di un’idea anticipatamente intuita, non può essere deviante arbitrio. Questa idea in molti casi deve sviare perché sgorga da quella soggettività che promuove l’uso della violenza. La fonte dell’interpretazione (in cui rientra la descrizione) è costituita dalla facoltà conoscitiva e dal patrimonio conoscitivo del soggetto che compie l’interpretazione, cioè dalla nostra esperienza esistenziale di vita, quando occorre scoprire il senso del fenomeno, dal nostro sapere letterario quando si tratta del senso del significato. Rispetto a queste fonti conoscitive soggettive rappresenta un correttivo obiettivo che garantisce risultati a cui sono prevenute, non è altro che quanto possiamo chiamare “storia della tradizione” che nel caso del senso fenomenico ci si è rivelato come la storia della raffigurazione e nel caso del senso del significato la “storia dei tipi”. Questa storia indica di fatto il limite fino a cui può giungere l’uso della violenza: se siamo autorizzati, a portare in luce rifacendoci a noi stessi ciò che nelle cose stesse non è stato effettivamente detto, la storia di ciò che ci è stato tramandato ci mostra ciò che non avrebbe potuto essere detto perché sia dal punto di vista del tempo, sia da quello del luogo, non sarebbe stato possibile rappresentarlo né raffigurarlo. Questo dato di fatto (contro il quale non si può obbiettare che la conoscenza dello stile e la conoscenza dei tipi può essere attinta attraverso lo studio delle singole opere perché in ogni scienza lo strumento della conoscenza e l'oggetto della conoscenza ci condizionano): questo dato si rivela quando l’interpretazione, producendo aldilà dello strato costituito dal senso del significato, si innalza fino a quella regione ultima e più alta che è la regione del “senso del documento” o regione del senso dell’ “essenza” (quando un uomo ci saluta per strada, il senso del significato di questa azione è costituito da una testimonianza di cortesia). Potremmo riceverne l'impressione di un genere d’essenza che sta aldilà dei fenomeni, quale l'impressione di una struttura interna alla cui costituzione hanno collaborato lo spirito, il carattere, la provenienza, l’ambiente e il destino di vita. In un senso profondo e generale, alla base delle manifestazioni dell’arte, aldilà del loro senso fenomenico e del loro senso di significato, si dispone un contenuto ultimo ed essenziale: l’involontaria ed inconscia autorivelazione di un atteggiamento di fondo verso il mondo, caratteristico del creatore come individuo, della singola epoca, di un singolo popolo, di una singola comunità culturale; se la grandezza di una creazione artistica dipende dalla quantità di “energia di quella concezione del mondo” che si è introdotta nella materia plasmata e da quello che di essa irradia lo spettatore, il compito altro dell’interpretazione è quello di penetrare nello strato ultimo di “senso essenziale”: essa giungerà a cogliere il suo senso vero e proprio quando riuscirà a cogliere e rivelare la totalità dei momenti della sua emanazione (non solo il momento oggettuale e iconografico ma anche i fattori formali della distribuzione delle luci, delle ombre, dell’articolazione delle superfici, del modo di usare il pennello, la spatola etc.) quali documenti del senso unitario della concezione del mondo contenuta nell’opera. Per un'impresa, attraverso la quale l’interpretazione di un’opera d’arte di innalza sullo stesso piano dell’interpretazione di un sistema filosofico o di una concezione religiosa, la conoscenza delle fonti letterarie non è più utile (in quanto si tratti di fonti che possano essere messe in riferimento con l’opera d’arte data). Possiamo reperire testi che ci informano su cosa rappresenti sotto l'aspetto del significato la “Melanconia” di Durer, ma non testi che ci informino su ciò che essa esprime sotto l’aspetto del senso del documento. Se Durer si fosse pronunciato a chiare parole, ci accorgeremmo come queste dichiarazioni eludono il senso dell’incisione e richiedono a loro volta di essere interpretate. Le fonti di quell’esplicitazione che mira a dischiudere il senso essenziale è il comportamento originario dell’interprete nell'ordine della concezione del mondo, che nell’interpretazione heideggeriana di Kant viene il luce nelle interpretazioni di Neumann e di Burckhardt. Questo fatto mostra come una fonte di conoscenza soggettiva, anzi personale, richieda un correttivo obiettivo se possibile in misura maggiore che non l’esperienza esistenziale di vita, con la quale cogliamo il senso del fenomeno, o che il sapere letterario, ci aiuta a scoprire il senso del significato. Un simile correttivo esiste; sta nella sfera della fatticità storica la quale, ci impone dei limiti che non possono essere travalicati dalla violenza interpretativa se essa non diventa un fuorviante arbitro: è la storia generale dello spirito a mostrarci ciò che nell’ambito della concezione del mondo, era possibile in una determinata epoca e in una determinata cerchia culturale, così come la storia delle raffigurazioni ci mostrava l'ambito di ciò che poteva essere raffigurato e la storia dei tipi la circoscrizione di ciò che si poteva rappresentare. La storia della raffigurazione ci informa sulle modalità secondo cui, nel corso dello sviluppo storico, la pura forma si connette con determinati sensi della cosa e dell’espressione. La storia dei tipi ci informa sulle modalità secondo cui, nel corso dello sviluppo storici i sensi del significato si riempiono dei contenuti di determinate concezioni del mondo. Agli storici dell’arte le testimonianze del Rinascimento dicono quali premesse permisero di unificare nella sua “Melanconia” un “Typus Acadie” e un “Typus Geometriae” e di dare così contenuto spirituale al dolore di una creatura e di rendere per la prima volta patetico un momento personale dello spirito. Esse delimitano così la “melanconia” dureriana rispetto a ciò che noi saremmo propensi a interpretare come un “dolore cosmico”. Uno storico della filosofia potrebbe definire, attraverso la storia dello spirito del XVIII secolo, i limiti che sono imposti a un’interpretazione ontologica kantiana, se questa interpretazione non vuole rinunciare alla pretesa di essere interpretazione. TAVOLA SINOTTICA DELLE PROBLEMATICHE CONNESSE ALL’INTERPRETAZIONE NELL'AMBITO DELLA STORIA DELL'ARTE: OGGETTO FONTE SOGGETTIVA CORRETTIVO OBIETTIVO DELL’INTERPRETAZIONE DELL’INTERPETAZIONE DELL’INTEPRETAZIONE 1) Senso del FENOMENO 1) ESPERIENZA 1) Storia della (distino in senso della ESISTENZIALE DI VITA raffigurazione COSA e senso (quintessenza di ciò che dell’ESPRESSIONE) 2) Senso del SIGNIFICATO 2) SAPERE LETTERARIO è possibile 3) Senso del DOCUMETO 3) ATTEGGIAMENTO RAFFIGURARE) (senso ESSENZIALE) ORIGINARIO nell'ordine 2) Storia dei TIPI delle CONCEZIONI (quintessenza di ciò che è possibile RAPPRESENTARSI) 3) Storia generale dello SPIRITO (quintessenza di ciò che è possibile nell’ambito della CONCEZIONE DEL MONDO) Uno schema che con la realizzazione di un processo spirituale è in un rapporto che non è diverso da quello che corre fra la carta geografica e la realtà del paesaggio italiano, è sempre esposto al pericolo di venir frainteso nel senso di un “razionalismo estraneo alla vita”. Tendiamo a sottolineare il fatto che quei processi che l’analisi ha presentato come movimenti apparentemente separati in tre strati di senso e insieme come una lotta di confine tra la pratica soggettiva della violenza e una storicità obiettiva, sono intrecciati in un “accadimento globale” unitario che si dispiega organicamente attraverso tensioni e soluzioni; soltanto ex post e teoreticamente esso può essere suddiviso in singoli elementi e azioni particolari. Per Herder, Winckelmann era stato un pioniere che allontanandosi dalla storiografia d'impostazione cronachistica aveva cercato di comprendere i fatti in senso globale, cogliendo la totalità di una cultura di un popolo nella sua evoluzione storica. Herder indicava in Winckelmann colui che per primo aveva rivelato il legame che unisce la filosofia alla storia, legame che era già stato intuito da Leibniz (i filosofi hanno l'abitudine di disprezzare le ricerche sull’antichità e gli antiquari a loro volta prendono in giro quelli che chiamano i sogni dei filosofi ma per fare bene bisogna rendere giustizia ad entrambe). L’ammirazione non impediva a Herder di mettere a fuoco i limiti della storia dell’arte antica elaborata da Winckelmann: una storia dell’arte viziata dal peso di un sistema dottrinario che finiva per deformare la storia, plasmandola secondo un punto di vista rigido. La storia dell’arte winckelmanniana gli appariva come una dottrina dell’arte, un'estetica, il cui fulcro era la convinzione che l’arte greca attingesse una perfezione e che fosse il criterio con cui valutare la produzione artistica di altri popoli e altre epoche. Secondo Herder, questa prospettiva aveva reso dottrinale la “Geschichte” a svantaggio della storia. Quest'ultima doveva essere filosofica, in modo diversa da come l'aveva intesa Winckelmann: per Herder la semplice messa in evidenza dei rapporti di causalità che legano i fatti, basta a rendere conto della sua dimensione speculativa. L’arte greca presentata da Winckelmann nella sua “Storia dell’arte degli antichi” aveva un doppio volto: - Prodotto storico legato a un contesto concreto ed irripetibile, distante dal presente. - Modello assoluto di perfezione. Arte greca come storia e dogma: arte greca come paradiso perduto poiché la sua bellezza ideale apparteneva a un passato, una storia diversa dal presente. Era il volto normativo a disturbare Herder il quale non esitava a definire antistorica e arbitraria la “Geschichte” di Winckelmann. La sua critica s’appuntava su due aspetti: riconduce la bellezza greca a un contesto, al concorso di varie condizioni. Ciò crea un forte senso della distanza che separa il mondo greco da quello contemporaneo. Contestualizzare il bello ellenico, porlo all’interno di un processo storico, significa rivelarne la sottomissione all’imperio del tempo e quindi essere coscienti che è passato, perduto. Alcuni intellettuali rivoluzionari francesi fondandosi sull'idea winckelmanniana affermano che l’idea di rinascita della Grecia classica nella Francia liberata dal regime dispotico: se Parigi è una nuova Atene, se i francesi godono della stessa libertà di cui godevano i greci del V secolo, le arti in Francia fioriranno e si innalzeranno a vette sublimi: l'utopia della rinascita di qualcosa che era già accaduta era un tradimento a Winckelmann. La fecondità del pensiero winckelmanniano risiede nella capacità di suscitare interpretazioni nuove e originali sviluppi che potevano contraddirlo. Contro la teoria dei climi si levò Barry, il quale in un trattato sull'argomento dimostrò l'assurdità dell’idea che il clima potesse condizionare lo sviluppo artistico di un popolo. Barry polemizza contro Winckelmann che aveva lasciato intendere che dietro la scarsa inclinazione alle arti mostrata dai popoli britannici ci sarebbero state le cause climatiche. Secondo l'irlandese la fioritura artistica dipende da circostanze, cause morali, fluttuazioni morali e dal tipo di educazione che un artista o un popolo ha ricevuto. Dopo aver dimostrato che le differenze fra le scuole pittoriche italiane non possono dimostrare dal clima delle regioni, ma a cause morali o accidentali, spiega l’attardato sviluppo dell’arte inglese con cause religiose legate alla scissione della Chiesa anglicana da quella cattolica che implicò la fine dell’arte religiosa e il restringersi della produzione artistica su generi minori. Barry ha assimilato un’idea fondamentale: quella del legame della produzione artistica a una situazione storica concreta, che Barry concepisce in termini di condizioni religiose, sociali, morali e politiche. Winckelmann aveva lanciato un modello storiografico in cui il fenomeno artistico non poteva che essere osservato da un punto di vista elevato nelle sue connessioni con il contesto che lo aveva visto nascere. Una coscienza storica attraversa la lettura artistica in Italia sin dalla sua nascita. La fortuna di Giotto sorge nel segno del riconoscimento della modernità rispetto alla “maniera greca” (bizantina) presente in Cimabue, della consapevolezza che la sua pittura costituiva una svolta di rilevanza epocale. La lettura artistica Quattro-Cinquecentesca ha assimilato tale aspetto, facendo di Giotto l’iniziatore di una nuova rinascita dell’arte che è andata proseguendo con Masaccio, Brunelleschi etc. e poi, ad un livello superiore, con i grandi del Cinquecento. Si era delineato un modello di sviluppo storico che trovò nelle “Vite” del Vasari la sua manifestazione. Un modello che suscitò l'opposizione di coloro che cercarono di dare lustro ad altre tradizioni artistiche, rivendicandone il primato e gettando le basi di una storiografia artistica regionale/cittadina. Una figura fondamentale durante il XVII fu Mancini, secondo il quale per dare giudizio delle pittura bisogna tenere conto dei tempi nei quali sono state fatte perciò occorre avere una pratica di cognizione della varietà delle pitture in relazione ai tempi. Mancini assume il punto di vista relativo ai tempi che già aveva caratterizzato il Vasari ma con la differenza che tiene a distanza i dogmatismi o priori di tipo ideologico; lo porta a sostenere la continuità della pittura nei secoli del Medioevo dando il via ad un primo progresso storicistico verso una conoscenza dell’arte medievale. Con storicismo si intende quell’atteggiamento teso a considerare e comprendere ogni epoca secondo le sue dacaratteristiche e nella sua individualità, senza adottare criteri di giudizio assoluti o esterni a quell'epoca, perciò, si può dire che Mancini manifesti una prima avvisaglia di acquisizione di una coscienza storicista. Ordinando la collezione di disegni di Leopoldo de’ Medici, Baldinucci adottò un criterio cronologico. Emerge un senso dello sviluppo storico e un piacere nel verificare attraverso la successione dei disegni i progressi dell’arte, partendo da artisti distinti dal gusto estetico seicentesco ma considerati importanti in quanto anelli di una lunga catena. Va precisato che il “Libro dei disegni” del Vasari conteneva testimonianze grafiche che spaziavano da artisti medievali sino ai suoi contemporanei ed era ordinato in modo cronologico. Da un lato vi è una storia scritta che segue lo sviluppo dell’arte attraverso le biografie (Vasari e Baldinucci nelle “Notizie de’ Professori del Disegno”), dall'altro vi è la storia “figurata” ovvero la storia che parla attraverso le opere stesse. La più feconda appare la seconda in quanto si focalizza sull’aspetto visuale, stilistico ed è priva di aneddoti che caratterizzano il genere biografico. Nel Settecento questo gusto per la progressione storica dell’arte in termini stilistici viene affermandosi. D’Hancarville (a conoscenza della “Geschichte” di Winckelmann) illustrando le antichità della collezione Hamilton, sottolineava come la sua impresa editoriale, attraverso la presentazione di incisioni che riproducevano in ordine cronologico opere appartenenti a epoche diverse dell’antichità, permetteva di cogliere l’evoluzione degli stili dell’arte antica; egli paragonava la sua serie di incisioni alle gallerie che delineavano il progresso dell’arte. All'epoca in cui d’Hancarville scriveva, cominciavano a formarsi delle raccolte che presentavano una successione di opere da Medioevo fino all’età contemporanea. Lodoli, esponente della teoria architettonica funzionalista in Italia, aveva formato una raccolta di dipinti che cominciava con l’arte bizantina fino ad arrivare al Settecento costituendo così una storia visuale dell’arte. Se lo storicismo nacque con Herder, già precedentemente in Italia era maturato un senso dello sviluppo storico dell’arte che aveva spinto alcuni a valutare l’arte medievale come un momento fondamentale dell’evoluzione storica; c'erano ancora pregiudizi poiché già Mancini era consapevole della continuità dell’arte nei secoli bui ma prima che ciò si verificasse doveva essere considerata degna di una trattazione storica. Come ha sottolineato Pommier, la storia dell’arte nasce nel momento in cui non è più tollerato lo scandalo concettuale di questo vuoto e di questo arresto del tempo (quello dei secoli bui). D’Agincourt si propose di elaborare una storia dell’arte che coprisse i secoli di decadenza colmando una lacuna storiografica artistica. L'importanza di Herder consiste nell'essere andato oltre, nell'aver affermato la necessità di concepire la storia come una catena in cui ogni anello è unico e necessario perché risponde ad uno sviluppo ; nell'aver sottolineato l'esigenza di comprendere ciascun anello in sé per sé, secondo i propri caratteri individuali. Presupposto di questa concezione è la presa di coscienza che lo spirito umano non è giudicabile secondo dei principi fissi e cambia e si evolve con il passare del tempo. Vico, con la “Scienza Nuova” (1744) già prima di Herder aveva espresso consapevolezza individuando momenti diversi dello spirito umano, dotato di individualità e carattere necessario, corrispondenti a fasi successive della storia dell'umanità. Anche in Herder c’è questa idea di progressiva trasformazione ed evoluzione dell’umanità, in cui si riflette un principio biologico di crescita. L'umanità va realizzando se stessa rispondendo ad un disegno provvidenziale: ogni tappa, unica nel suo genere, è essenziale affinché tale realizzazione provvidenziale si compia quindi non ha senso imitarla o criticarla. Per Herder gli egiziani sono stati quello che dovevano essere perché l'umanità crescesse e si sviluppasse secondo un disegno provvidenziale, quindi, non ha senso paragonarli ad altri popoli ed è assurdo volerli vedere con occhi “greci”. Ogni epoca e ogni popolo ha, in rapporto alle condizioni in cui vive, un suo ideale di felicità che non è per niente paragonabile a quello di altre epoche e di altri popoli che hanno vissuto in condizioni diverse e che hanno concepito un ideale di felicità differente. Le manifestazioni artistiche acquistano il diritto di essere comprese nella loro individualità e originalità. Con Herder si afferma l'esigenza di comprensione storica che conduce a Schlegel a dichiarare che l’arte si fonda sul sapere e la scienza dell’arte è la sua storia. Lo storicismo avviato da Herder nel primo Romanticismo sarebbe stato elaborato in modo originale da Hegel nelle sue “Lezioni di Estetica”. Il nucleo filosofico delle riflessioni hegeliane è l’idea che lo spirito assoluto si realizza rivelandosi nel processo storico, nel succedersi della civiltà, ciascuna della quali rappresenta un momento unico di tale sviluppo: lo spirito si manifesta nella forma d’arte o nell'attività umana appropriata a quella determinata tappa della sua rivelazione. Per Hegel le arti di un periodo costituiscono un’incarnazione dello spirito assoluto tanto quando le leggi, la filosofia e la politica: ne consegue che ogni stile e forma d’arte coincide con ogni altro aspetto della civiltà. In ambito tedesco la necessità di una comprensione di fenomeni artistici diversi fra di loro fu sostenuta da Wackenroder ma con motivazioni e argomentazioni differenti da quelle di Herder. Wackenroder rivolge ai suoi contemporanei un appello alla tolleranza di tutte le espressioni artistiche; rispettare e comprendere forme dell’arte significa onorare Dio poiché ogni opera reca la traccia di quel raggio divino che illumina l’uomo, il quale a sua volta lo trasmette con la propria arte al Creatore. L'origine dell’arte è la scintilla divina che, partita da Dio, attraverso il petto dell’uomo passa alle piccole creazioni di questi, dalle quali la scintilla torna di nuovo fiammeggiando al Creatore. Il senso dell’arte è un unico raggio celeste che attraverso il vetro sfaccettato dei sensi sotto diversi climi, si frange in mille colori differenti. A suo modo dunque ogni opera è espressione dello spirito divino che in ogni epoca, in ogni luogo, acquista forme diverse ma permeate dal Creatore. Credere in un sistema significa aver scacciato dal cuore l’amore universale visto che ‘amare le manifestazioni artistiche significa amare il divino presente di ogni uomo. Il conte Caylus (non storico dell’arte) costituisce una figura di importanza per aver modificato l’antiquaria, trasformandola in una scienza capace di fornire materiali utili alla storia dell’arte. Nel corso della sua vita raccolse collezione di oggetti antichi appartenenti a epoche e popoli diversi: non gli interessavano le grandi opere ma i manufatti di uso comune perché significativi della cultura, intesa in senso materiale, di un determinato popolo. Caylus si distingue per la centralità che conferisce all'opera rispetto alle fonti scritte, contrapponendosi all’antiquaria tradizionale. Il ruolo che Caylus attribuisce all’opera spiega la necessità di svolgerne un esame diretto della tecnica e dello stile e di operare una serie di confronti incrociati fra oggetti affini. Tale metodo punta a classificare le opere secondo tipologia e a ricostruirne la funzione. L'oggetto antico è valutato in sé e confrontato con altri oggetti simili e non subordinato ai testi. L'esame dei materiali, il riconoscimento e la ricostruzione delle tecniche rappresenta per Caylus una fase imprescindibile per comprendere l’opera. Da questo punto di vista Caylus è un rappresentante della rivalutazione delle tecniche e della cultura materiale che trova nell’Encyclopèdie la sua manifestazione. L'individuazione dello stile acquista per Caylus un peso rilevante in quanto è da lui inteso come espressione dello spirito di un dato popolo e di una data epoca. La visione diretta dell’opera risulta fondamentale: egli si oppone all’antiquaria tradizionale in cui gli autori trattavano di opere che non avevano mai visto. Ciò implica un linguaggio il più aderente possibile all'opera presa in esame e una prosa sintetica che metta al bando le divagazioni erudite per concentrarsi sugli aspetti materiali e formali. Con Caylus s’afferma nell’archeologia una metodologia (unica possibile fino a quando a metà dell'Ottocento non si impone il metodo stratigrafico). L'importanza della descrizione e dell’illustrazione delle opere, attraverso riproduzioni grafiche, mostra un approccio empirista ed un legame con la cultura scientifica del suo tempo (“Historie Naturelle” di Buffon, 1749). Leggendo la premessa di Winckelmann alla “Storia dell’arte” affiorano le affinità e le differenze con Caylus: Winckelmann dichiara che la sua non è una cronaca ma una storia nel senso alto del termine, essendo essa sorretta da un sistema dottrinale. L'obiettivo che guida la trattazione storica è l'essenza dell’arte che per Winckelmann è il bello poiché il fine è mostrare le linee evolutive dello stile, della vita del bello quale si incarna nelle forme dell’arte prescindendo dalla nozione biografiche e aneddotiche: protagoniste sono le opere. La storia dell’arte deve istruire, rendere conto di come l’arte nasce, si sviluppa e decade, di come si modificano gli stili esaminandoli in rapporto con i popoli, alle epoche e agli artisti. Winckelmann biasima tutti coloro che hanno parlato di arte ignorandola, senza aver visto con i propri occhi ciò di cui stavano trattando, incappando in gravi errori dovuti all’incapacità di distinguere gli eventuali restauri. Il tedesco Medioevo (descritte rifacendosi a fonti letterarie), poiché l’autore le difendeva sulla base del canone di bellezza greco-romana. In Francia, Montfaucon pubblicò dal 1729 al 1733 i cinque volumi dei “Monumenti della monarchia francese” che contenevano una storia dei re francesi del Medioevo, illustra attraverso delle incisioni che riproducevano monumenti sul territorio di Francia: l’arte aveva la funzione d’illustrare la storia e non era la protagonista. Non vanno dimenticati gli apprezzamenti per l’architettura gotica che costellano il Settecento. In Italia si era sviluppato un collezionismo interessati ai primitivi, di cui la raccolta di Lodoli costituì un'anticipazione. Questo tipo di collezionismo ebbe un impulso nella seconda metà del secolo grazie all’apertura nel 1757 a Roma del Museo Cristiano annesso alla Biblioteca Vaticana. Voluto da papa Benedetto XIV, il quale aveva accolto stimoli da eruditi come Muratori, Scipione Maffei e Giovanni Bottari, il museo raccoglieva oggetti provenienti dalle catacombe e quadri che dovevano testimoniare la storia dell’iconografia del culto cristiano. Sulla scia di questo modello, altri musei si costituirono nella seconda metà del secolo: collezione del cardinal Franceso Saverio Zelada o Agostino Mariotti. Il caso più notevole è Stefano Borgia, esponente della cultura dei Lumi, il quale a partire dal 1764 raccolse a Velletri una collezione, ispirata dall'idea di svolgere, attraverso testimonianze visive una storia comparata dei popoli, delle religioni e delle arti; conteneva pitture, sculture, miniature e manoscritti di civiltà europee ed extraeuropee e inglobava una sezione dedicata alle antichità sacre medievali. In questo contesto prese forma l'impresa di Sèroux proprietario di una collezione composta da icone bizantine, avori medievali, miniature, iscrizioni, pitture del Trecento e del Quattrocento. Questo tipo di collezione deve avere avuto un peso nella decisione di Sèroux d’illustrare, tramite incisioni la storia dell’arte, di documentarla attraverso una galleria immaginaria di opere. Nel 1788 cominciò ad essere pubblicata l’ “Etruria Pittrice” di Lastri, testo che illustra, attraverso una successione cronologica di incisioni di pitture medievali toscane, accompagnate da commento, la storia pittorica di questa scuola. Quest'opera è di interesse poiché rappresenta, dopo lo Zanetti, un esempio di storia dello sviluppo stilistico di una scuola locale attraverso l'esempio delle opere, illustrate con delle incisioni e in cui non è dato peso alle biografie degli artisti. Mentre Sèroux andava sviluppando il suo progetto, un fervore di studi storici sull’arte locale stava producendo un ampliamento nella conoscenza dell’arte medievale, dando impulso alla sua rivalutazione. È il caso di Della Valle, che in alcune delle “Lettere Sanesi” diede un contributo alla riscoperta e alla conoscenza della scuola pittorica senese del Medioevo, di cui rivela una comprensione estetica non paragonabile per acutezza e profondità a quella di Sèroux. Ma Della Valle, assieme a Zanetti, è la punta emergente di una cultura erudita in fermento che si interessa ai primitivi: Da Morrona a Pisa, Mariotti e Orsini a Perugia, de Lazara e Brandolese a Padova. Se le loro ricerche si svolsero contemporaneamente o dopo il 1789, quando l’opera di Sèroux era pronta per essere stampata, aiutano a comprendere il francese anche se si distingue per ampiezza e finalità di lavoro. Sèroux beneficiò di contatti con Borgia, Della Valle e Lanzi. Se Sèroux nutriva per l’arte medievale un interesse storico, non estetico, altri suoi contemporanei l’apprezzavano sia come documento di un evoluzione storica sia come arte in sé per sé: è il caso di Zanetti, di Della Valle e di altri. L’opera di Sèroux facendo conoscere i maggiori monumenti medievali, contribuì a diffondere l'apprezzamento per tale arte. Legrand d’Aussy fu l’autore di un saggio sulle sepolture nazionali francesi, sottolineò che il compito dello storico è occuparsi di ciò che è interessante e utile per la ricostruzione storica. La storia si libera da pregiudizi di tipo estetico e si concentra sullo sviluppo delle forme della cultura nelle sue connessioni con gli usi e le religioni dei popoli. Legrand criticò il Museo dei Monumenti Francesi di Lenoir perché non presentava testimonianze delle antiche popolazioni galliche. Studiosi dei vari tipi di sepolture “nazionali” dall’età preistorica fino a quella cristiana, ne suddivise la storia in sei epoche, nelle quali individuava una serie di tipologia, dalle più semplici alle più complesse. Egli espresse l'opportunità di eliminare dallo studio delle sepolture nazionali letombe romane, da considerare in modo separato, perché non appartengono agli usi e costumi dei popoli gallici. Si dichiara un’esigenza di separazione fra archeologia classica e quella celtica, in cui si manifesta una componente nazionalista. Fin dal XVI secolo si erano distinti all’interno della cultura antiquaria due poli: 1) Ilpolo delle antichità locali ed etniche, le quali alla fine del secolo successivo sarebbero state definite “nazionali”. Questo polo riguarda l’individualità nazionale, le cui origini di un popolo hanno un ruolo fondamentale per cui le epoche diventano l'oggetto di interesse. 2) Il polo dell'antichità greco-romana. Questo polo riguarda la classicità sovranazionale dei valori universali. Legrand rivendica l'autonomia e il carattere nazionale della cultura celtica rispetto a quella classica così che Goethe ed altri individuarono nel gotico e in generale nell’arte medievale, l’espressione dello spirito germanico. In Italia, il polo delle antichità nazionali può essere identificato con gli studi eruditi locali che tesero a rivendicare le antichità e l'originalità di una data scuola pittorica regionale piuttosto che di un’altra. Legrand si fece sostenitore insieme a de La Vincelle (collezionista di oggetti gallici) della necessità di organizzare campagne di scavo in tutta la Francia e di creare un museo. La rivalutazione della cultura gallica sarà sancita con la creazione nel 1862 del “Museo delle antichità nazionali di Saint-Germain-en- Laye”. La “Storia pittorica d’Italia” (1795) di Lanzi rappresenta un'espressione emblematica del fermento storiografico e primitivistico e di un momento di sintesi in cui i risultati di ricerche locali furono vagliati, soppesati e unificati in una visione globale della storia della pittura italiana, per la quale Lanzi si avvalse dell'aiuto di eruditi sparsi per la penisola che gli dispensavano informazioni e scoperte sull’arte delle varie scuole regionali. Il suo legame con l’ambiente romano e con i Borgia, dovette sensibilizzarlo al problema della valutazione storica dei primitivi. Nel 1782 agli Uffizi, grazie all’azione sua e del direttore Pelli, fu aperta una sala di pitture antiche dei primitivi toscani che risentiva da un lato del modello dei musei sacri romani e dall’altro lato il modello ei musei del nord Europa (come Vienna) ordinati secondo un duplice criterio geografico e cronologico: le opere erano state divise per scuole geografiche e all’interno di ciascuna scuola secondo una successione cronologica. Lanzi si convinse della validità di questo criterio che avrebbe applicato alla sua opera. Si può pensare che su ispirazione di Lanzi, Puccini, successore di Pelli, cominciò durante la metà degli anni Novanta a ordinare le opere degli Uffizi per scuole e tempi. A partire dal 1782/1783 Lanzi sentì l'esigenza di espandere le sue conoscenze sulla pittura italiana attraverso ricerche che lo spinsero a viaggiare e confluirono in una prima versione sintetica della “Storia pittorica” pubblicata a Firenze nel 1792. Il titolo di questa prima versione “La storia pittorica dell’Italia inferiore o sia delle scuole fiorentina senese romana napoletana, compendiata e ridotta a metodo per agevolare ai dilettanti la cognizione dei professori e dei loro stili” esprime l’obiettivo primario dell’opera concepita come un libro portatile che facilitasse la comprensione delle diverse maniere regionali, facendo leva sul metodo della divisione delle scuole, capace di suscitare nel lettore la concentrazione delle idee. Presto le ambizioni del Lanzi si ampliarono e il lavoro si trasformò in un'impresa vasta e con nuove finalit: il risultato fu l'edizione del 1795/1796, la cui impostazione fu poco differenziata da quella successiva del 1809. L'introduzione all'opera è indicativa delle scelte metodologiche del Lanzi: egli dichiara la sua opposizione al genere delle biografie che sovrabbondavano di aneddoti inutili e spesso erano infarciti di difese in favore di artisti locali o di calunnie di artisti appartenenti a scuola avversarie. Lanzi proclama la volontà di rompere con questa tradizione e di studiare non l’uomo ma bensì il pittore. Come in Winckelmann e in Sèroux, anche in Lanzi l'aspetto stilistico è privilegiato e anche la storia si costruisce grazie ad una distinzione di luoghi, tempi e avvenimenti, distinzione che permise di dare ordine alle notizie fornite dalla storiografia precedente. Anche in lui, la storia si fonda su una selezione delle opere esaminate, le più atte a illustrare la storia degli stili. L'obiettivo lanziano era colmare la mancanza di una storia globale della pittura italiana, conferire unità, significato e correttezza all'insieme di informazioni sparse nella lettura artistica a disposizione. Lanzi doveva rendere conto delle diverse scuole regionali che costituivano un dato di fatto imprescindibile nella storia d’Italia. Di qui la struttura dell’opera incentrata sulla divisione in scuole (concetto enucleato nel Seicento da Mancini in ambiente carraccesco) d cui segue l'evoluzione attraverso le varie epoche. Per Lanzi scuola ha il significato di stile, maniera propria a una determinata regione. Dopo aver spiegato il carattere generale di ciascuna scuola, distingue tre o quattro epoche, cui corrispondono i cambiamenti di gusto che caratterizzano la storia di ogni nazione; individua dei capiscuola di ogni periodo e ne illustra lo stile; degli allievi Lanzi si limita a spiegare in che modo si rapportino alla maniera del maestro. Ne venì fuori una storia che non rispetta in toto la successione cronologica degli artisti, ma rispecchia, all’interno di ciascuna scuola, le connessioni stilistiche, il modo in cui nasce, si propaga e muore uno stile. Delineare una storia della pittura basata sull'evoluzione stilistica significa ispirarsi a Winckelmann. Mentre la storiografia winckelmanniana è basata sulla perfezione dell’arte greca del V secolo a.C., la storiografia lanziana si configura come policentrica: non c'è uno stile perfetto perché ci sono tante scuole, tante maniere e con una propria individualità ed evoluzione. Il dogmatismo del bello ideale winckelmanniano lascia il posto in Lanzi a una empirica e concreta adesione alla ricca varietà geoculturale italiana. Altro punto di riferimento di Lanzi è Zanetti, che costituiva l’unico esempio di storia pittorica basata sull'evoluzione dello stile e sul rifiuto del genere biografico: il metodo applicato da Zanetti alla scuola veneziana viene esteso a tutte le scuole. Il secondo obiettivo di Lanzi era contribuire all’avanzamento dell’arte e questo fa emergere una componente didattico-dottrinale i cui destinatari sono gli artisti del suo tempo: la storia della pittura, mostrano le cagioni che provocano il fiorire o il decadere dell’arte, diventando carica di insegnamenti utili agli artisti contemporanei. Anche il terzo obiettivo rivela un carattere didattico ma rivolto ad un pubblico più ampio: contribuire a far meglio conoscere e comprendere le maniere pittoriche (il fine dell’edizione del 1792). La pittura medievale italiana ebbe grazie al Lanzi la sua storia globale, chiara, nitida, colma di acquisizioni notevoli fondate su scoperte fatte dai corrispondenti sparsi per la penisola. A sollecitare il lavoro del Lanzi e di altri studiosi contribuì la pubblicazione della “Storia della letteratura italiana” (1782/1785) di Tiraboschi. Tale opera risolve la storia letterari in una storia della cultura italiana che si basa sulla ricerca archivistica ed erudita, capace di inglobare la storia delle scienze, la storia delle biblioteche e quella delle arti, fondendo il modello enciclopedico con la tradizione storica italiana. Tiraboschi ammettendo i limiti della sta trattazione dell’arte, sottolineò la necessità di aumentare le conoscenze sull'arte medievale, verificando con un lavoro sul campo, le notizie riportate dalle fonti e svolgendo delle ricerche filologiche (molti degli eruditi e storici furono in contatto con Tiraboschi). La scultura ebbe una storia specifica grazie al conte Cicognara il quale beneficiò della collaborazione con il letterato Giordani. Nel prospetto del 1812, la “Storia della scultura”, concepita fin dal 1809, si presenta come un membro del corpo di una storia globale dell’arte il cui capo è la “Geschichte” di Winckelmann, e di cui una parte importante è l’ “Historie” del d’Agincourt. È il fattore stilistico a costruire la trama di un tessuto storico suddiviso in cinque fasi: 1) Dalla rinascita alla fine del XII secolo, fino a Donatello. 2) Da Donatello a Michelangelo. 3) L’epoca di Michelangelo. 4) L’epoca del Bernini. 5) Canova. Altro aspetto fondamentale del Cicognara è quello di affrontare la ricostruzione storica a partire da un esame diretto delle opere, diffidando dalle interpretazioni di seconda mano. L'autore sentì l'esigenza di far introdurre ciascuna epoca da un parallelo, tra lo stato della scultura con quello della politica, delle scienza, e delle arti: una scelta che entusiasmò Giordani. Interpretare le statue antiche secondo i costui dei popoli che le avevano realizzate significa adottare un punto di vista relativo ovvero valutarle calandosi nell'orizzonte mentale degli uomini che le hanno eseguite e del pubblico per il quale erano state realizzate. Guasco divise la statuaria antica in due gruppi a seconda dell'uso: 1) Le statue che avevano un uso sacrale e che quindi erano oggetto di culto. 2) Lestatue con la funzione di onorare personaggi illustri definite onorifiche. Le caratteristiche materiali e formali di questi gruppi sono messe in rapporto alla funzione che svolgevano all’interno della società. È grazie a questa impostazione funzionale che Guasco volge senza pregiudizi estetici il suo sguardo a esaminare le materie delle statue e a sottolinearne il carattere policromo. Notando che le statue in marmo nero sono quelle che meno si sono sottratte alle distruzioni, trova una spiegazione nel fatto che questo colore le ha fatte apparire si cristiani come abitanti del Tartaro (generatore di esseri mostruosi): in una relazione come questa si rivela la consapevolezza dell’influenza che la religione e il gusto hanno, nel corso dei secoli, sulla conservazione o distruzione delle opere del passato. Il modello di Guasco fu tenuto presente da de Quincy nel suo “Jupiter Olympien” pubblicato nel 1815. Per capire l’importanza di quest'opera per la riscoperta della policromia della statuaria antica è necessario accennare al concetto di “contesto”. Dinanzi alle requisizioni di opere d’arte perpetrate dall’Armèe francese in Italia, egli reagì con forza: nelle “Lettere a Miranda” Quatremère condannò la politica delle spoliazioni, giustificando la sua opposizione sulla base di argomentazioni che fanno leva sull'idea che un’opera è legata al contesto geografico, sociale, politico e culturale per cui è nata; un contesto che è fatto di altre opere d’arte, precedenti e successive. Grazie a questa trama di rapporti il singolo oggetto può essere compreso e decifrato: toglierlo dal suo contesto significa perderne il significato. Quatremère porta alle estreme conseguenze la concezione winckelmanniana secondo cui l’arte è frutto del concorso di una serie di condizioni climatiche, sociali e politiche. Il nesso fra arte-mezzo è il perno di un discorso che denuncia il pericolo delle requisizioni. Questa convinzione è connessa all'idea sostenuta da Quatremère nelle “ Considerazioni morali sulla destinazione delle opere d'arte” coeve alla pubblicazione del “Jupiter”, secondo cui l’arte nasce per soddisfare esigenze e bisogni della società: solo alla luce di questi l’arte può essere compresa. Quatremère, mettendo a frutto il verbo winckelmanniano elabora un approccio all’arte antica e moderna estremamente concreto, implicante uno scavo sociale, culturale e politico. Tale posizione rivela delle tangenze con il punto di vista antropologico-etnografico di Guasco. L'introduzione del testo di Quatremère parte dalla consapevolezza che ciò che restava dell’arte antica era una minima parte di quanto fosse stato prodotto: chiara fu la coscienza che l’immagine che si aveva dell’antichità era parziale e sotto certi punti di vista fuorviante. Sulla base dei resti esistenti era facile concludere che gran parte della statuaria antica era di marmo ma le fonti antiche testimoniavano una ricchezza di tecniche e materiali inimmaginabile per il gusto moderno: Quatremère si rese conto che la produzione in marmo e anche quella in bronzo, rappresentava una porzione della statuaria greca i quali in verità nutrivano una predilezione per la scultura in criso-elefantina, oro, avorio e materiali preziosi. Quatremère nota il fulgore policromo e lo sfarzo di tali oggetti non più esistenti ma enumerati e descritti in vari autori antichi, può ripugnare la sensibilità estetica dei moderni i quali sono portati a sottovalutarli se non a criticarli come deviazioni di gusto. Se le fonti attestano questo tipo di produzione è scorretto liquidarla in maniera superficiale ma è necessario chiedersi la ragione della sua diffusione e la funzione che essa svolgeva all’interno della società greca. Quatremère dimostra che le statue in materiale policromo rappresentavano delle divinità ed erano collegate a dei santuari. Servivano al culto e dovevano suscitare la credulità e lo stupore dei fedeli: per raggiungere tale scopo dovevano imporsi alla loro vista con tutti i mezzi capaci di creare un effetto di magnificenza; da qui l’uso di materiali preziosi e la policromia. Forte di questo metodo e di una ricognizione delle fonti antiche, Quatremère delinea la storia di un genere non più esistente nei suoi aspetti tecnici, materiali, formali e funzionali, giungendo a fornire una ricostruzione ipotetica. Per Quatremère l’arte non va valutata secondo principi astratti e convenzioni estetiche a essa estranee ma deve essere interpretata calandosi nella società che l’aveva vista nascere. Nella prefazione alla “Geschichte” Winckelmann sottolinea che molti antiquari erano caduti in errore nell’interpretazione delle statue antiche perché non avevano saputo distinguere le parti autentiche da quelle restaurate. Quest'affermazione permette di riflettere sulla concezione winckelmanniana di restauro e sul legame che essa intrattiene con l'approccio storico. È chiaro che l'esigenza di individuare gli interventi di restauro deriva dalla consapevolezza della distanza storica che separa gli antichi dai moderni: l'antico appartiene ad un momento storico individuale, lontano dal presente perciò è necessario comprenderlo e recuperarlo, indicando quanto nelle statue antiche è stato aggiunto di posteriormente. Winckelmann applica all'esame delle statue due criteri di tipo filologico: 1) La “recensio” ovvero la recensione e la comparazione ad opere simili, in modo tale da selezionare la “lectio” più antica. 2) L’“emendatio” ovvero la correzione delle “lectiones” apocrife. La coscienza della storicità dell’antico spingeva Winckelmann a concepire il restauro delle statue come un momento conoscitivo che doveva rispettare lo stile, la tecnica e il materiale dell’originale. La novità della posizione del tedesco risulta chiara se si considera che fino ad allora il restauro era stato considerato come atto tecnico, mirante a integrare i frammenti antichi per ricostruire la presunta iconografia: si puntava all'effetto finale di unità e completezza. Il rispetto dello stile e l’interpretazione del soggetto erano concetti estranei a questo tipo di prassi. Restauro e ricerca archeologica si trovavano su piani distinti. Questo era il punto di vista di uno dei più famosi restauratori del XVII secolo, Boselli, partecipe di una cultura figurativa che vedeva nell’arte antica un ricco repertorio di suggerimenti e indicazioni iconografiche. Una cultura che l'iconografia aveva fatto una scienza e uno strumento di comunicazione concettuale ed emotiva: per restaurare bastava essere artisti e scolpire bene. Nella pratica Winckelmann non fu coerente con le sue idee sul restauro, tanto da ammettere che alcuni pot-pourri di pezzi antichi e moderni. Ciò non toglie che la posizione teorica di Winckelmann sul restauro rappresentasse una svolta decisiva. Il restauro era un’operazione delicata che doveva implicare un'approfondita conoscenza dei materiali e degli stili antichi, che bisognava saper imitare all’occasioni restauratore doveva operare secondo una metodologia che coniugasse scienza archeologica e consapevolezza storica; non poteva essere un'artista che interveniva sull’antico arbitrariamente, secondo il proprio giudizio. A incarnare questa concezione del restauro fu Cavaceppi, scultore e restauratore romano attivo nel Museo Pio Clementino, per stranieri presenti a Roma e nella Villa Albani dove avvenne il suo incontro con Winckelmann. Un incontro fondamentale che permise a Winckelmann di plasmare il restauratore secondo la propria concezione teorica. Cavaceppi divenne un personaggio apprezzato nella Roma settecentesca: il suo studio, il quale ospitava una collezione di sculture antiche, calchi, dipinti barocchi, stampe, disegni e medaglie, fu visitato da personaggi illustri come Maria Cristina d'Austria. Cavaceppi stilò un catalogo della sua collezione contenente un saggio sul restauro che ricapitola i punti fondamentali della concezione winckelmanniana: ammette il restauro integrativo ma solo dopo aver svolto dei confronti e riscontri e dopo aver individuato lo stile e l'appartenenza dell’opera. Cavaceppi sottolinea la necessità, quando ci si trova davanti una scultura mutilata dal soggetto difficilmente individuabile, di chiedere consiglio agli eruditi esperti di mitologia ma rileva anche l'opportunità di diffidare dalle loro interpretazioni quando appaiono dubbiose. In casi del genere Cavaceppi afferma che è meglio integrare senza approfondire il frammento originale degli attributi che lo individuano perché altrimenti si correrebbe il rischi di cadere in errori. Altro aspetto è la perfetta conoscenza del materiale della statua da restaurare e dello stile perché il restauro consiste nell’estendere l’abilità dell’antico scultore di tale statua. Winckelmann e Cavaceppi erano favorevoli alla reintegrazione delle opere mutilate anche se sotto delle precise condizioni. Ma, qualsiasi opera antica poteva essere restaurata senza correre il pericolo di comprometterne l’aspetto originario? Canova dovette porsi questa domanda quando Elgin, gli chiese di restaurare i marmi del Partenone trasferiti a Londa agli inizi dell'Ottocento, presentandogliene i disegni edi calchi. Canova, per quel che viene riportato nel “Memorandum” di Elgin, sulla base di quanto aveva mostrato l'inglese, si rifiutò di toccare le sculture, considerando sacrilega qualsiasi forma d’intervento. Una volta a Londra, Canova sarebbe rimasto colpito dal naturalismo delle opere di Fidia: la qualità dei marmi fidiaci dovette confermargli la scelta presa in precedenza. Quatremère appoggiò la decisione canoviana concependo il restauro integrativo come una prassi che aveva dei fondamentali intenti didattici in quanto impediva allo spettatore d’immaginarsi in maniera arbitraria come doveva essere l’opera nella sua interezza. L'impatto con i marmi del Partenone, non restaurabili, innescò una sensibilità nei confronti delle opere antiche. La differenza nei confronti delle sculture restaurate divenne tale che la commissione instituita sotto il consiglio del Canova, con la funzione di stabilire i criteri d'acquisto delle opere per il Vaticano, decretò che venissero comprati soltanto i monumenti senza restauri. Se a queste da re si nutre un certo sospetto nel restauro integrativo, negli anni Trenta del XIX secolo, si arriverà in Germania a un atteggiamento puristico che, nell’obiettivo di individuare l’immagine delle originali opere greche, condannerà le integrazioni dei secoli precedenti promuovendone l’asportazione.
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