Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia. Fabietti, Malighetti, Matera. Seconda e terza parte., Sintesi del corso di Antropologia Culturale

Si tratta della seconda parte e della terza parte del testo, in cui si parla rispettivamente del lavoro etnografico e del traffico culturale nel panorama contemporaneo.

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 28/02/2015

paolourso
paolourso 🇮🇹

4.3

(14)

3 documenti

1 / 22

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia. Fabietti, Malighetti, Matera. Seconda e terza parte. e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! DAL TRIBALE AL GLOBALE. Fabietti,Malighetti,Matera. Parte seconda.IL LAVORO ETNOGRAFICO. LA COSPIRAZIONE DEL SILENZIO. “Se volete capire che cosa è una scienza,non dovete considerare innanzitutto le sue teorie e le sue scoperte:dovete guardare cosa fanno quelli che la praticano. Nell’antropologia fanno etnografia.” (Geertz,1987) L’etimologia del temine etnografia significa “ritratto di un popolo” e si riferisce sia all’attività di ricerca condotta mediante prolungati periodi di permanenza a diretto contatto con l’oggetto di studio,sia la produzione testuale tipica dell’antropologia. Lo sviluppo dell’etnografia è un processo che ha segnato l’evoluzione dell’antropologia, accompagnandone i cambiamenti teorici e la professionalizzazione accademica,l’etnografia costituisce la linfa vitale della disciplina. L’antropologia ha rivendicato la propria originalità rispetto alle altre scienze sociali soprattutto per la “ricerca sul campo” infatti il lavoro etnografico per eccellenza è il lavoro sul campo e la situazione etnografica è una situazione di campo. L’antropologo, attraverso la scrittura, decodifica una cultura codificandola per un’altra. Il lavoro etnografico è infatti un lungo processo di comprensione che inizia molto prima di andare sul campo e continua dopo che si è partiti. Fino a tempi relativamente recenti, molto poco si è scritto sulla pratica professionale infatti gli antropologi sembrano rifiutarsi di esibire la processualità del proprio lavoro, di mostrare le tecniche di raccolta dei dati e di scrittura; in una sorta di “cospirazione del silenzio” mistificatoria ed eticamente sospetta,tralasciano di considerare come l’etnografia sia stata prodotta. I testi etnografici presentano come intuitivamente evidente ciò che ha richiesto molto tempo e fatica per essere elaborato in maniera sintetica. Quindi gli antropologi hanno dedicato scarsa attenzione e poca ricerca e analisi ai loro metodi di lavoro; sotto l’egemonia della scienza sociale positivista la pratica etnografica non è stata considerata importante(piuttosto è entrata a far parte della tradizione orale della comunità).Nonostante quasi un secolo di pratica, il metodo rimane non ben definito e per molti versi, personale; a parte poche elaborazioni formali e tecniche su alcuni aspetti del lavoro sul campo, non vi è un apprendistato formalmente codificato e le pubblicazioni e gli insegnamenti accademici sui fondamenti epistemologici, metodologici, etici e psicologici della ricerca etnografica sono ridottissimi. Il lavoro sul campo è semplicemente ritenuto essere qualcosa che si impara con la pratica, un’abilità acquisibile attraverso il tirocinio e l’immersione totale, più una matita e un quaderno di appunti. L’etnografia(semplice descrizione di una cultura) è stata tradizionalmente messa in contrasto con l’antropologia(il trattamento comparativo e classificatorio dei dati culturali). L’etnografia abbraccerebbe i dettagli raccolti con la ricerca sul campo; l’antropologia l’elaborazione teorica e l’esposizione razionale dei dati così ottenuti. Tale scissione si fonda sullo sforzo positivistico di applicare la nozione di metodo elaborato dalle scienze della natura alle scienze umane o sociali,ciò che a partire dalla seconda metà dell’ottocento,venne delineato fu l’ideale di una scienza naturale della società(secondo il modello della sociologia comtiana).L’assunzione di fondo era che idealmente i metodi e gli standard appropriati alle scienze naturali potessero essere estesi per analogia alle scienze sociali. Quindi in accordo con le concezioni positiviste abbiamo una netta separazione tra teoria e dati e la descrizione è gerarchicamente subordinata alla formulazione teorica(etnografia subordinata all’antropologia). Fabietti rilevando la “progressione gerarchica” nelle fasi del lavoro antropologico in cui il ricercatore segue una serie di procedure(raccolta dati F 0D Einduzione ipotetica di leggi teoriche F 0D Ededuzione delle conseguenze che derivano da tali leggi F 0 D Esperimentazione attraverso casi empirici);si accosta a Levi-Strauss che dispone gerarchicamente etnografia(primi stadi della PAGE 13 ricerca-osservazione,descrizione e lavoro sul terreno),etnologia(primo passo verso la sintesi si fonda sulla comparazione e sulla generalizzazione) e antropologia(ultima tappa di una sintesi che ha per base le conclusioni dell’etnografia e dell’etnologia e per finalità l’elaborazione teorica e la spiegazione). Questo approccio ha prodotto una concezione della ricerca antropologica come movimento dal particolare al generale fondato su due momenti:innanzitutto il momento idiografico descrittivo come fase di raccolta e analisi di materiali,in secondo luogo il momento scientifico comparativo ,nomotetico e generalizzante. Per questo quindi il lavoro sul campo è solo un metodo per fare antropologia “altri metodi includo la poltrona, la libreria, per procura, il questionario, l’informatore e così via”(Jarvie,1967). La separazione fra etnografia e antropologia è stata segnata agli esordi della disciplina da una differenza di ruoli. La fine del 1700 è stata infatti caratterizzata da una marcata divisione del lavoro fra raccoglitori-osservatori ed esperti teorici. In questo modo nel periodo evoluzionista si istituì la figura dell’antropologo armchair che prendeva i propri dati etnografici dai resoconti di viaggio o dalle relazioni di esploratori, missionari o naturalisti, al fine di documentare le proprie concezioni evoluzionistiche degli stadi di sviluppo culturali; i dati empirici raccolti da dilettanti avevano valore di per sé e costituivano la base per le inchieste sistematiche elaborate in chiave comparativistica da parte di scienziati metropolitani per questo molta poca attenzione era dedicata a come i fatti erano raccolti. Le culture erano considerate oggetti da registrare con il metodo scientifico(secondo le concezioni scientifiche dell’età vittoriana)ai raccoglitori si chiedeva di dedicarsi a una semplice raccolta di materiali, la cui oggettività era garantita dalla neutralità e dall’incontaminazione da pregiudizi teorici da parte dell’osservatore. Ai ricercatori sul campo(dilettanti)venivano inviati elenchi di domande nella forma di questionari, tali questionari erano destinati a guidare con rigidità normativa la raccolta dei dati e a dirigere lo sguardo degli osservatori-compilatori. Sebbene l’uso dei questionari fosse precedente alla creazione delle istituzioni etnologiche, queste istituzioni fornirono una solida base per la costruzione e distribuzione dei questionari. Prima con l’Ethnological Society di Londra fondata nel 1843 poi con il Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland che pubblicò il celebre Notes and Queries on Anthropology(1874): un manuale per la ricerca etnografica destinato a promuovere un’accurata osservazione antropologica da parte dei viaggiatori. La tecnica della raccolta dei dati etnografici mediante l’invio di questionari, fu promossa oltre che da istituzioni anche da singoli studiosi: antropologi famosi come Frazer e Morgan mediante l’invio di questionari mantennero strette relazioni epistolari con persone residenti presso le popolazioni oggetto dei loro studi. Fra questi si distinsero i missionari Fison e Howitt, attivi in Australia fra il1872 e il 1908, che pervennero a una conoscenza approfondita di alcuni gruppi aborigeni(questi erano ritenuti rappresentanti di uno stadio remoto della storia dell’umanità ed era possibile leggere il loro la fase aurorale di molti fenomeni e istituzioni sociali). La figura chiave di questo periodo iniziale fu tuttavia, quella di un naturalista della generazione postdarwiniana: Walter Baldwin Spencer in costante relazione con Frazer. Professore di biologia a Melbourne, iniziò a raccogliere informazioni sugli aborigeni nel 1894 nel corso della Horn Expedition(partecipò come zoologo) nel deserto centrale australiano; successivamente venne assistito da Gillen(magistrato residente in Australia conoscente gli aborigeni). Oltre ad operare come informatori di Frazer, Spencer e Gillen redassero alcune opre di capitale importanza, le più note: The Native Tribes of Central Australia(1899), e The Northern Tribes of Central Australia(1904), tali lavori organizzarono il materiale raccolto all’interno del modello dell’evoluzionismo ma prescindendo dalle categorie dei questionari per questo sono state considerate un’anticipazione dello stile monografico moderno, come fu riconosciuto dallo stesso Malinowski. Fino alla fine del 1800 nessun singolo antropologo aveva condotto ricerca sul campo che era inibita dal paradigma scientifico dominante; infatti seguendo il modello evoluzionistico Tylor, PAGE 13 Studiò alla London School of Economics(con Seligman) e si tenne in contatto con gli antropologi di Cambridge Haddon e Rivers. Malinowski nelle Trobriand, iniziò a mettere in pratica ciò che aveva pensato dopo l’esperienza a Mailu(nuova guinea;prima esperienza nel 1914) cioè:”più vicino al villaggio si vive, meglio si riesce a osservare gli indigeni” e sviluppò il metodo che divenne il segno distintivo dell’antropologia. L’esperienza sul campo di M. nelle Trobriand rappresenta nella tradizione antropologica una sorta di esperienza archetipa, in base ad essa egli è diventato il prototipo dell’antropologo, incarnandone l’ideale professionale. Geertz sostiene che M. inaugurò il mito dello studioso sul campo,simile al camaleonte, perfettamente in sintonia con l’ambiente esotico che lo circonda”. Su queste basi M. è diventato il portavoce della rivoluzione metodologica sia all’interno che all’esterno dell’antropologia.(rivoluzionò lo scopo e gli obiettivi della pratica antropologica). M. era ben cosciente della novità che voleva introdurre; interessato principalmente a questioni metodologiche nel capitolo introduttivo della sua monografia “Argonauts of Western Pacific”, enfatizza il suo metodo di ricerca nella Trobriand e polemizza contro il dilettantismo dei precedenti etnografi, espone quindi le linee metodologiche(sintetizza il moderno metodo sociologico di ricerca sul campo)da seguire per poter condurre in maniera corretta una ricerca sul campo. Per quanto riguarda le finalità della ricerca etnografica, M. sostiene la necessità di descrivere i lineamenti dei costumi nativi, le leggi e regolarità della vita tribale, attraverso il “metodo della documentazione statistica mediante la prova concreta”:tale metodo implica la raccolta, attraverso domande dirette, di genealogie, dettagli sulla tecnologia, censimenti dei villaggi ecc., è infatti necessario disporre di una quantità sufficiente di dati tra loro confrontabili, allo scopo di ottenere una visione coerente della società e della cultura studiate; questo obiettivo può essere raggiunto mediante l’elaborazione di “tavole sinottiche”e”carte mentali”. La ricerca basata sul fatto di vivere con i nativi deve avere come scopo la raccolta dei dettagli della vita quotidiana vissuta dai nativi osservati dall’etnografo, infine si richiede all’etnografo di diventare competente della lingua del nativo(per illustrare modo tipici di pensare e sentire). Questi principi sono funzionali a raggiungere lo scopo finale dell’etnografia, cioè “afferrare il punto di vista del nativo, rendersi conto della sua visione del mondo”. Il metodo di M., non è tanto una questione di regole quanto di stile di lavoro sul campo(porre se stessi in condizioni buone per lavorare), perciò l’etnografo si colloca naturalmente in armonia con il contesto, imparando a comportarsi e prendendo parte alla vita del villaggio. Ma il valore del lavoro di M. deriva sia dalla presenza di un contesto accademico che fu pronto a recepire le questioni metodologiche, sia dall’aver collocato le sue ricerche etnografiche dentro il nuovo paradigma funzionalista ossia l’antropologia doveva rappresentare una cultura nel modo il più possibile completo. La natura di questo olismo consisteva nel fornire una completa immagine di un modo di vita osservato da vicino e nel concettualizzare gli elementi della cultura non per elaborare un catalogo o un’enciclopedia, ma per fare sistematicamente connessioni fra di loro. Inoltre il funzionalismo era una teoria non solo generale ma del lavoro sul campo. Negli Argonauti M., illustra il principio guida della prospettiva funzionalista, una sorta di “approccio olistico”, che tende a connettere le parti alla totalità e a considerare l’oggetto di indagine da un punto di vista “globale”. Lo stesso metodo “dell’osservazione partecipante” è parte integrante e necessaria dell’analisi funzionale; nella tradizione antropologica, l’espressione osservazione partecipante è diventata quasi un sinonimo del metodo etnografico e della moderna ricerca antropologica in generale, definendo il comportamento ideale dell’antropologo sul campo; nella sua forma classica consiste in un singolo ricercatore che trascorre un lungo periodo di tempo(almeno un anno-lo scopo della lunga permanenza deve esserci per minimizzare il problema della reattività e l’effetto distorcente della partecipazione dell’antropologo)fra le persone che intende studiare, padroneggiare al PAGE 13 loro lingua, immergersi nelle loro attività quotidiane per comprendere nel modo più completo possibile i loro significati culturali e le loro strutture sociali. Fondata sulla presunta neutralità dell’osservatore partecipante, per M. l’etnografo deve mettere da parte il proprio sapere per poter elaborare una descrizione oggettiva dei fenomeni, indipendentemente dalle prospettive teoriche, infatti egli ritiene che l’osservazione diretta sul campo è la sola attendibile fonte di informazione etnografica. La rappresentazione così prodotta deve tuttavia rispondere a criteri di oggettività, riproducibilità, verificabilità; l’osservazione partecipante ha prodotto quella specifica modalità di scrittura che è stata ascritta a M. cioè il modello linguistico-narrativo della MONOGRAFIA(ricerche concentrate su singole popolazioni). La monografia etnografica designa una particolare forma di produzione testuale consistente nella ricostruzione di un intero modo di vita nella sua globalità, animata da realismo o naturalismo etnografico, in essa predominano il registro descrittivo osservativi visuale, la forma discorsiva è impersonale(per lo più),attraverso la registrazione di dati puri,incontaminati da riferimenti alle concrete relazioni sul campo e alla situazione storico- politica generale in cui la ricerca si svolge. Questo ha prodotto un’immagine statica delle singole culture,chiuse nella propria atemporalità, e nei confronti delle altre comunità. M. utilizza il cosiddetto “presente etnografico”(uso del tempo presente come se le attività delle persone stessero avendo luogo) cioè uno stile in cui domina la sospensione della coscienza storica al fine di ricostruire l’immagine di una società tradizionale o primitiva intesa come una totalità funzionante in un dato momento del tempo(quello della residenza dell’etnologo presso il popolo oggetto di studio). In generale l’etnografia funzionalista conduce la ricerca da un punto di vista esterno, oggettivo, che intende i fatti culturali come cose da osservare immediatamente. Dai due diari segreti di M. pubblicati postumi(1967 venticinque anni dopo la sua morte) dalla moglie emerge un’immagine un po’ diversa da quella solitamente condivisa dalla comunità antropologica; ciò che si evince dai diari è una situazione di profondo disagio dell’antropologo (nell’esperienza sul campo). Una totale immedesimazione dello studioso è professionalmente e praticamente impossibile, perché anche gli antropologi, sono ontologicamente fondati sulla loro cultura e sul loro sapere. La pubblicazione dei diari di M., dunque, ha posto il problema di vedere le cose dal punto di vista del nativo, in termini diversi dal modello del ricercatore empatico; di fatto partecipare e al tempo stesso osservare risulta essere qualcosa di altamente problematico: paradosso dell’osservazione partecipante(più si partecipa meno è possibile osservare oggettivamente). In effetti la pratica etnografica di M. si è fondata molto più sull’ osservazione che sulla partecipazione, rivelandosi spesso un monologo sull’altro e non una partecipazione e un dialogo con l’altro. La partecipazione implica inoltre parità sociale e una relazione simmetrica fra antropologo e nativo; questa condizione è insostenibile all’interno di ogni contesto etnografico e soprattutto di quello dominato da rapporti coloniali in cui si trovò a lavorare M.(nel 1914 in N.Guinea le relazioni fra gli amministratori coloniali europei e i nativi erano irrigidite in una struttura fortemente stratificata di dominio e feroce sfruttamento del lavoro coatto). M. aveva una forte avversione nei confronti della struttura coloniale: i suoi diari esprimono diverse critiche nei confronti dei missionari e dei colonizzatori(critica la loro ignoranza rispetto la vita dei nativi). Inoltre in M. non vi era nessun desiderio di parità sociale(la stessa società trobrianese era fortemente stratificata e M. per sua stessa ammissione intrattenne i suoi rapporti con nativi il cui status era aristocratico)i popoli primitivi erano considerati rappresentanti di un’età passata e la superiorità dell’antropologo era indiscussa ed enfatizzata. Dai diari viene evidenziato il fatto che gran parte della sua attività di ricerca fosse fondata su interviste simili alle precedenti, ma svolte al centro del villaggio(monologo basato sul potere dell’antropologo e sul monopolio della scrittura). PAGE 13 LA NEGOZIAZIONE DEI SIGNIFICATI: IL CAMPO E IL TESTO. La svolta interpretativa: Clifford Geertz è stato di grande importanza nel segnare i cambiamenti che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’etnografia ed è una delle principali figure all’interno del panorama antropologico contemporaneo. Geertz si oppone alle ortodossie preminenti che, a partire dal 1600 fino a tutto il 1800 e il 1900, hanno caratterizzato la concezione della scienza. In particolare, critica quell’ossessione moderna rappresentata dal mito di un metodo scientifico univoco e fisso, egli vuole dimostrare che l’idea stessa di una scienza sociale fondata sulle scienze naturali è un errore basato su certe confusioni concettuali che lo studio del linguaggio e del simbolismo contribuisce a mettere in luce. Sebbene Geertz non specifichi in nessun scritto la propria posizione all’interno della tradizione antropologica; una genealogia di questo approccio dovrebbe risalire alla tradizione dell’antropologia umanistica e innanzitutto all’impostazione particolarista di Franz Boas,e a tutti quegli indirizzi che si sono sviluppati in reazione al positivismo. La linea del dibattito entro cui si è sviluppato l’approccio geertziano può essere divisa in due correnti:da un lato i “materialisti”(interessati principalmente al comportamento, all’azione e ai fondamenti politici ed economici della cultura-prospettiva nomotetica; rappresentano una reazione al particolarismo boasiano e il ritorno a una concezione dell’antropologia come scienza naturale)dall’altro lato, l’”antropologia simbolica”(ossia lo studio del significato e del punto di vista dei nativi come oggetti centrali per lo studio antropologico):in questo contesto Geertz Spostando l’enfasi dall’analisi del comportamento e della struttura sociale verso lo studio dei simboli e dei significati, si inserisce in quelle correnti di pensiero che, a partire dalla fine degli anni sessanta, avevano rigettato gli approcci positivisti e riscoperto lo storicismo tedesco e le sociologie interpretative. Il senso della riscoperta geertziana della dimensione ermeneutica(interpretativa)rappresenta un processo di riscoperta e di riappropriazione della ricchezza di significato e del simbolismo e un tentativo di rappresentare autenticamente le differenze culturali. Le maggiori difficoltà dell’analisi del pensiero di Geertz consistono nel suo rifiuto a esporre le proprie idee in maniera sistematica, preferendo, ai problemi generali e astratti, i problemi concreti; infatti non ha mai elaborato uno schema teorico completo, ma ha esposto la sua prospettiva etnograficamente(lavori su Giava,Bali,Marocco). Negli anni 60 e 70 i dibattiti all’interno dell’antropologia erano portati avanti intermini di discussioni teoriche astratte, in Geertz invece sono caratterizzati da una sospensione dell’elaborazione teorica sistematica in favore della sperimentazione etnografica. La pratica dell’etnografia diventa il luogo di vitalità del pensiero di Geertz e la stessa definizione della disciplina: libera di sperimentare la sua etnografia è molto flessibile e aperta, caratterizzata da un gioco di idee svincolate da autorità paradigmatiche, è aperta a diverse influenze e teorizza l’incertezza e l’incompletezza dei suoi programmi di ricerca come anche dei risultati. Da questo deriva una pratica etnografica più articolata della precedente, partendo dal punto di vista che l’esperienza è sempre più complessa che la sua rappresentazione. La principale caratteristica delle revisioni di Clifford G. consiste nella riscoperta della dimensione ermeneutica(interpretativa); assumere il problema ermeneutico significa riconoscere, da un lato, che le espressioni e le azioni umane contengono una componente significativa, riconosciuta dal soggetto che produce e vive di un certo sistema di valori e di significati; dall’altro che le scienze interpretative sono costituite da modelli attraverso i quali costruiscono i loro referenti. Di conseguenza gli oggetti non sono visti come enti dotati di proprietà indipendentemente dal punto di vista di chi li conosce e il soggetto da parte sua non è un ente neutro, bensì un soggetto storico, inserito in una forma di vita, ontologicamente fondato sulla sua cultura e sul suo sapere. L’antropologia di G. è dunque ben lontana dal dicotomizzare il teorico e il descrittivo, l’antropologia e l’etnografia. Non vi è separazione fra etnografia, intesa come descrizione rappresentativa, e antropologia, intesa come elaborazione teorica. Il commento descrittivo è già un momento interpretativo, costruttivo e dunque carico di teoria. PAGE 13 discorso”, l’uso della prima persona e l’inserzione nel testo di memorie personali e autoriflessive, in quanto elementi costitutivi dell’incontro etnografico e della produzione del sapere antropologico. La contemporanea riflessione etnografica ha evidenziato che la restituzione testuale di un ‘esperienza sul campo non può trascurare di riprodurre la processualità dell’apprendimento e della costruzione della conoscenza antropologica, in particolare deve far emergere la natura negoziale della comprensione, la dialogicità fra i modelli concettuali dell’ antropologo e del nativo. I significati non sono semplicemente scoperti ma vengono creati attraverso complesse negoziazioni. La nozione di “campo” non denota una realtà che esiste indipendentemente dalle relazioni fra antropologo e nativo,un contenitore generico, asettico e neutrale. Piuttosto, il campo è essenzialmente il luogo simbolico di costruzione di senso, ciò che determina le caratteristiche specifiche di un’esperienza condivisa. Comprendere non può consistere semplicemente nel rappresentare il punto di vista del nativo, i dati antropologici sono complessi e articolati, costruzioni di costruzioni, interpretazioni di interpretazioni,non solo il punto di vista del nativo è solo un punto di vista fra tutti quelli possibili ma soprattutto è sempre mediato, ciò che i nativi dicono non sono verità culturali, semplici esplicitazioni di concetti presenti nella loro mente, ma risposte circostanziate alla presenza e alle domande dell’etnografo. L’etnografia si fonda su una gerarchia discorsiva e sulla dominazione epistemologica e scritturale dell’altro, per questo è sbilanciata e asimmetrica: gli informatori parlano, l’etnografo scrive,lui solo ha il potere di testualizzare,inscrivere i diversi contenuti dei discorsi orali nelle note di campo o nel testo finale,la sua autorità sul nativo si fonda non solo sul potere economico e politico dell’occidente ma anche sul “saper e poter- scrivere” quindi per quanto l’etnografo cerchi di rimpiazzare il monologo con il dialogo, il suo discorso riamane sempre asimmetrico. A livello di discorso antropologico la relazione fra etnografo e nativo è inevitabilmente gerarchica: lo scopo precipuo dell’etnografia è di parlare di qualcosa per qualcuno: benché il lavoro sul campo sia un’interlocuzione fra prime e seconde persone, gli antropologi devono scrivere per terze persone. L’intrinseca asimmetria del rapporto antropologo-informatore si fonda su un’inevitabile violenza, più o meno simbolica inerente il lavoro di campo: non solo perché la presenza del ricercatore è sempre un’intrusione, ma soprattutto perché il progetto antropologico sistematicamente viola il progetto nativo(non ci si può permettere che il diritto a starsene in silenzio o a proseguire nelle loro attività possa minare il progetto di ricerca) e si cerca di farsi perdonare attraverso contributi economici. Solo negli ultimi anni, la consapevolezza che l’esperienza personale dell’antropologo costituisca la fondazione della disciplina e rappresenti l’elemento chiave del metodo è emersa con una certa chiarezza. La soggettività dell’antropologo in quanto tale è stata considerarta parte integrantedel rapporto con l’altro e dell’esperienza umana che cerca di comprendere. La negoziazione sul campo è influenzata dalla storia personale del ricercatore, dalla sua personalità, dal suo genere, dal suo orientamento teorico, dal suo ruolo istituzionale, come anche dal suo coinvolgimento emotivo,politico e ideologico e dalle differenti circostanze che incontra. L’etnografo pone se stesso come oggetto di analisi e l’osservazione di sé affianca all’osservazione dell’oggetto in un’esperienza che Dilani,citando LeviStrauss avvicina all’autopsicoanalisi dello psicoanalista. Sul campo l’antropologo e l’informatore partecipano a una working fiction in cui condividono un mondo di significati che potrebbe crollare in ogni momento, in tal senso la situazione del campo perde quella sua connotazione scientistica di laboratorio di produzione della verità e diventa inevitabilmente ironica. La realtà etnografica come sostiene Fabietti, viene articolata in nuove e stabili configurazioni,”traffici di culture”, formate dalla fusione o dalla coappartenenza di pratiche locali e globali. La pratica etnografica decostruisce quindi la realtà culturale,individuando gli spazi di scambio storici e politici inscritti dall’antropologo nell’insieme complesso, frammentario e contraddittorio PAGE 13 degli usi e delle pratiche degli attori sociali. Per questo la processualità della conoscenza antropologica si sviluppa inevitabilmente in chiave riflessiva e autobiografica; la necessità di considerare le componenti autobiografiche e riflessive del lavoro sul campo, che la tradizione antropologica, arroccata in un’omertà funzionale alla conservazione delle proprie verità, ha stentato a prendere in considerazione. Si tratta di togliere dall’aneddotica e inserire nel testo le modalità con cui vengono prodotte l’insieme delle conoscenze, il contesto pragmatico della comprensione e il problema dell’opacità dell’altro. Questo invita a rappresentare la realtà sociale degli altri attraverso l’analisi della propria esperienza nel loro mondo e a considerare la pratica etnografica, in quanto pratica sociale, come parte integrante della ricerca e del lavoro di testualizzazione. Il carattere negoziale e processuale della costruzione della conoscenza antropologica:vedere gli altri attraverso noi stessi e noi attraverso gli altri. Parte terza.IL TRAFFICO DELLE CULTURE. L’ANTROPOLOGIA DEL MONDO ATTUALE. Le espressioni culture ibride e pensiero meticcio possono riassumere l’oggetto e la natura dell’antropologia.Le culture ibride sono quelle che si producono in un sempre più rapido processo di incontro fra culture e caratterizzano il mondo contemporaneo dal punto di vista socioculturale. Le culture sono sempre state ibride ma la frequenza e l’intensita’ con cui oggi si combinano e si ricombinano tra loro sono notevolmente superiori rispetto al passato(anche ad un passato recente). Quindi con l’espressione culture ibride indichiamo l’oggetto dell’antropologia culturale dal momento che le culture non sono mai state pure. L’antropologia e’ un pensiero meticcio perché nasce nell’incontro fra la tradizione culturale di chi la pratica e la tradizione il pensiero di coloro che sono oggetto di quella pratica;pensiero meticcio perché nasce sulla linea d’incontro, sulla frontiera fra tradizioni culturali diverse. Queste espressioni possono essere utilizzate come operative nel senso che mirano a descrivere una situazione di incontro di sintesi tra istanze culturali già ibride, già meticce. In questa prospettiva si vuole chiarire quel complesso di fenomeni che possiamo sinteticamente definire con la metafora del traffico delle culture;intendendo con essa quelle molteplici e complesse dinamiche che caratterizzano i fenomeni di ibridazione che sempre più rapidamente hanno luogo nel mondo contemporaneo e di cui abbiamo spesso una visione parziale,contraddittoria talvolta misteriosa.Quindi dobbiamo cogliere il senso che tali processi(ibridazione e traffico cult) rivestono per coloro che li vivono in prima persona e la loro efficacia pratico-simbolica che rivestono nel contesto in cui si producono. PAGE 13 La percezione dei flussi di traffico caratterizzanti la contemporaneità(traffico di beni,simboli,idee) ha portato ad un paradosso: da un lato vi e’ la sensazione che gli scambi ed i contatti favoriscano la tendenza all’omogeneizzazione planetaria, dall’altro lato,(conflittualità generata da questi scambi) si ha la sensazione che le culture e le etnie siano entità isolate,prigioniere della propria logica e storia(quindi spesso in conflitto). Bisogna quindi cogliere il senso che convergenze e divergenze culturali assumono nelle diverse situazioni. Il mutamento culturale ha cominciato ad attirare l’attenzione degli antropologi dagli anni quaranta in avanti(prima si pensava alle società e alle cultura come a entità isolate);quando e’ apparso sempre più chiaro come le trasformazioni a cui andavano soggette le società da loro studiate non potessero essere spiegate solo in base all’azione di processi interni o di fattori esterni ma anche come la conseguenza dell’interazione tra una dinamica interna e una dinamica esterna. Negli ultimi decenni, la prospettiva intesa a cogliere le società e le culture come entità dinamiche sottoposte all’influenza di forze interne ed esterne e’ andata affinandosi per sfociare nella dialettica del locale e del globale processo di intreccio dagli esiti il più delle volte imprevedibili; in tale processo, una cultura vede trasformati i propri valori e significati(locali) in rapporto a ciò che giunge dall’esterno ma questo esterno non e’ un’altra cultura bensì come un’insieme di fenomeni che interessano tutte(o quasi) le culture(es. mercato materie prime o tv).Tali fenomeni detti globali una volta assunti dalla cultura che li riceve, non sono più esterni ad essa, ma diventano parte di quella cultura.(es a Singapore si mettono in frigorifero i feticci per preservarne l’efficacia-fenomeni ibridi che ricorrono ad una sintassi della modernità e ad un lessico arcaico- Guidieri). Dobbiamo sforzarci di intendere il mondo come un vasto scenario al cui interno le varie tradizioni culturali recepiscono delle logiche di tipo globale;tali logiche sono suscettibili una volta assimilate ,di riformulare altre logiche a livello locale in un processo virtualmente infinito. James Clifford ha corretto recentemente la visione pessimistica di Levi-Strauss, che vede nell’occidentalizzazione del mondo un fenomeno di insozzamento culturale e ambientale del pianeta,parlando di tale sozzura come di un concime,di un fertilizzante di nuove sintesi ed emersioni culturali. NELL’ECUMENE GLOBALE. Lo scambio e il contatto socioculturale sono sempre stati parte integrante della vita di tutti i popoli.E’ però indubbio che negli ultimi due secoli e ancor più negli ultimi decenni si siano intensificati esponenzialmente per giungere alla globalizzazione. Amselle sostiene che processi culturali analoghi alla globalizzazione contemporanea siano stati tipici di epoche passate(es. Impero Romano in Asia,Africa ed Europa) per Amselle di fatto l’antropologia ha sempre saputo che le culture, le società ,le etnie sono sempre state interconnesse in una rete di influenze reciproche. Oggi il mondo è davvero cambiato ed è il globo intero ad essere interessato da fenomeno globali. Questo cambiamento del mondo ha reso necessaria l’elaborazione di nuovi concetti antropologici accanto alle nozioni e ai concetti classici della disciplina. La cultura (alla luce del traffico e dell’ibridazione culturale) non è più un “contenitore”(alla maniera di Tylor)ma un “ambiente comunicativo”.Parleremo dunque di ecumene globale cioè il mondo come una regione di persistente interazione e scambio culturale. Il problema delle relazioni tra società e culture, a livello di ecumene globale è stato prevalentemente impostato,dagli anni sessanta,da parte di sociologi, economisti e antropologi (prev.marxisti)in termini di rapporto asimmetrico tra centro e periferia che ha voluto mettere in rilievo la natura di sfruttamento insita nella relazione fra una metropoli coloniale e le aree colonizzate, oppure, in epoca post coloniale(secondo dopoguerra), fra un centro industrializzato e una periferia fornitrice di materie prime e di manodopera. PAGE 13 Le configurazioni identitarie individuali e collettive(il modo in cui la gente elabora un’idea di se stessa e degli altri)mutano più velocemente di una volta perché non sono più ancorate,ad un territorio specifico. Mutare non vuol dire scomparire,e infatti uno degli aspetti centrali della realtà contemporanea è la maniera in cui,all’ombra della globalizzazione e delle culture transnazionali, si riformulano le identità individuali e collettive. La nozione di panorama etnico è ovviamente legata a quella di delocalizzazione culturale nonché a quella di deterritorializzazione. Con deterritorializzazione si intende la condizione di individui, comunità o gruppi derivante dal loro spostamento nello spazio fisico e nel loro radicamento temporaneo o definitivo, in molteplici altrove rispetto al luogo d’origine. Appadurai fa notare come la deterritorializzazione costituisca una delle forze più potenti del mondo contemporaneo e sarebbe oggi la centro non solo di processi di scambio sul piano culturale, ma anche di fondamentalismi e di rivendicazioni identitarie di vario tipo(che fungono da elementi di coesione e risposta di fronte alla minaccia di una perdita di identità). Ma la deterritorializzazione della cultura(conseguenza di quella degli individui)non agisce solo a livello simbolico;ha delle ripercussioni pratiche: come la possibilità di estendere il mercato del cinema(deterritorializzazione e media),tanto a uso di coloro che,essendo emigrati, possono assistere a spettacoli provenienti dalla madrepatria, quanto a uso di coloro che, pur non muovendosi da casa, fruiscono della produzione proveniente da paesi facenti parte di aree culturali diverse dalla propria; applicata alla finanza e al denaro(deterritorializzazione e finanza) l’idea di territorializzazione può farci capire meglio la natura di certi conflitti aperti e latenti che riguardano varie regioni del pianeta, la liquidità finanziaria e i nuovi gusti fanno si che(ad esempio)sia la piccola borghesia indiana quanto il sottoproletariato possano acquistare generi di consumo occidentali e simili(dalle stecche di Marlboro ai cd di Madonna ecc..ecc). Con la deterritorializzazione, l’immaginario di individui e gruppi, non fa più riferimento a un luogo, a un territorio come punto di ancoraggio della propria esperienza e identità. Viaggiando, spostandosi sia fisicamente quanto con l’immaginazione, gli individui ed i gruppi incontrano altrettanti individui e gruppi con storie di vita e immaginari diversi dal proprio. Tali incontri possono essere tanto produttivi quanto drammatici e distorti sul piano dei rapporti sociali e interpersonali. La nozione di panorama etnico si accompagna a ciò che lo stesso Appadurai chiama “disgiunzione e differenza nell’economia culturale globale” cioè:l’allargamento del mercato su scala mondiale non ci autorizza a credere che si stia formando un’unica cultura planetaria, parlare di disgiunzione implica che una lettura a specchio di economia e cultura non è possibile. Nel mondo contemporaneo la dimensione della deterritorializzazione è centrale nel processo di costituzione delle identità e dei significati socioculturali;infatti tutti i fenomeni evocati sino ad ora cioè: le migrazioni periodiche dei lavoratori dalla periferia al centro, alla dislocazione degli oggetti musealizzati, fino ai nuovi panorami etnici evocati da Appadurai, sono tipici esempi di “TRAFFICO DELLE CULTURE” legati a fenomeni di deterritorializzazione.La dimensione della deterritorializzazione delle culture e delle identità ci appare come punto di riferimento ineludibile di ogni possibile discorso antropologico. La cultura di molte località si trova proiettata in un contesto di globalità proprio perché gli elementi con cui entrano in contatto i mondi locali sono dipendenti da flussi culturali globali. Se questa articolazione del locale nel globale(e viceversa) può avvenire senza alcun movimento degli individui nello spazio, essa ha maggiori possibilità di verificarsi nel caso in cui tale movimento sia una componente della vita di almeno una parte della popolazione in questione. E’ pertanto anche nei nuovi mondi creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture; nascono da questo contesto come “COMUNITA’ IMMAGINATE”. PAGE 13 L’espressione comunità immaginate è entrata in uso in seguito alla pubblicazione di uno studio di Benedict Anderson dedicato alla nascita del nazionalismo(1996)infatti riallacciandosi a quanto dice Anderson riguardo la comparsa delle comunità nazionali, possiamo meglio capire quella capacità degli esseri umani di pensarsi immaginativamente come parte di un mondo più ampio condiviso da altri soggetti di cui parla Appadurai. Il compito dell’etnografia attuale è, invece, quello di cogliere le vite umane nel loro ambiente che però non possiede più quegli aspetti di localizzazione e territorializzazione che esso poteva avere una volta. Schematizzando il ragionamento di Anderson per quest’ultimo le comunità immaginate (nazionali)sono l’effetto di un duplice processo:il diffondersi di una lingua scritta(resa possibile dalla produzione di libri e giornali secondo modalità industriali e attraverso la scolarizzazione di massa) e la secolarizzazione del mondo(che aveva portato alla dissolvenza l’idea di salvazione divina). Così gli individui si sarebbero immaginati come legati tra loro per il fatto di ritenere che, mentre stavano leggendo, tanti altri individui stavano leggendo le stesse cose nella medesima lingua e forse alla medesima ora della giornata. Al tempo stesso tali individui, non disponendo più di un’idea di salvazione identificabile con un disegno divino, dovevano ancorare questa loro identità collettiva, pensata concretamente come comunità nazionale, in qualcosa di duraturo, anche se non più identificabile con un disegno divino. E’ evidente che le comunità, insiemi di individui che condividono lo stesso senso di appartenenza (comunità familiari,sportive,linguistiche ecc),sono quasi sempre immaginate proprio nel senso in cui le intende Anderson cioè è raro che i membri di una comunità si conoscano tutti di persona e soprattutto abbiano la possibilità di verificare personalmente il “decorso contemporaneo” al proprio dei vissuti altrui.(le culture transnazionali sono alla base di comunità ancor più immaginate delle comunità nazionali non fosse per il fatto che a differenza di queste ultime sono costituite da individui deterritorializzati). Non possiamo più quindi limitarci ad analisi che hanno come riferimento dei territori ben definiti cioè bisogna prestare attenzione a quelle idee che nascono dall’esistenza di comunità immaginate e che la deterritorilizzazione tende a produrre sempre di più attraverso gli spostamenti degli individui, i media e la circolazione di beni. PROCESSI MIMETICI NEL TRAFFICO DELLE CULTURE. I n questo capitolo prenderemo in considerazione quello che sembra essere un meccanismo centrale nel processo di ibridazione e di traffico culturale, e cioè la dinamica della trasmissione interculturale. I contatti fra culture possono avvenire per imposizione o per accettazione.In ogni caso essi possono attivare processi mimetici che consistono in manifestazioni di “adeguamento” e di “imitazione” simbolica e pratica, da parte dei componenti di una cultura, nei confronti dei simboli e delle pratiche degli appartenenti a una cultura “altra”. I processi mimetici sono di vario tipo e si possono manifestare a vari livelli, tanto pratici quanto simbolici; ricordando che il livello pratico e quello simbolico sono sempre strettamente collegati (evitiamo di pensare la vita umana in maniera dualista:comportamento e senso, mente e corpo).La mimesi è un atto in cui il piano del comportamento e quello del senso non sono distinguibili in maniera assoluta(neppure nel caso di chi mima volontariamente un gesto altrui). Costituendo un fenomeno universalmente diffuso,è logico supporre che la mimesi abbia costituito un tema di riflessione in tutte le culture anche in quelle prive di scrittura, questo perché è soprattutto in certi riti che troviamo una forte ed esplicativa attività mimetica(es. riti il cui scopo è favorire la crescita di animali o di vegetali ecc.,in questo tipo di riti si tende a mimare, a imitare il comportamento di animali).Tali riti erano considerati fino a non molti decenni or sono una chiara dimostrazione della mentalità magica tipica di un pensiero pre-razionale; questi rituali mimetici erano letti come manifestazione della consapevolezza del primitivo della propria inferiorità rispetto alle forze(divinizzate)della natura. I rituali mimetici sono insomma dei drammi, delle messe in PAGE 13 scena aventi lo scopo di comprendere il mondo(hanno lo scopo di disporre in una relazione significante gli esseri umani, la natura, gli dei). [La mimesi costituisce un aspetto del comportamento umano che è stato fatto oggetto di dibattito sin dall’antichità: secondo Platone la mimesi sarebbe qualcosa che appartiene alla sfera del rito, del divino in quanto i poeti sono ispirati dalle Muse ed escono fuori da sé sono altro da sé,in qualche maniera mimano qualcosa che è fuori di loro-questo accenno alla sfera poetico- rituale è piuttosto importante,perché quello del rito è, proprio il campo in cui più frequentemente le attività mimetiche prendono forma- tuttavia Platone aveva un’idea svalutativa della mimesi in quanto la considerava quale imitazione di “secondo livello” di un modello che ci accosta illusoriamente alla verità(mondo delle idee-esperienze viste come imitazioni di un modello ideale che è l’idea pura della cosa). Altra cosa è la mimesi per Aristotele che considera l’imitazione quale istinto naturale;per lui la mimesi ha valenza positiva in quanto apprendiamo per imitazione(es. bambini) e proviamo piacere a riconoscerci in un modello(es. teatro)]. La mimesi costituisce effettivamente un meccanismo inerente al processo di traffico culturale. Un caso di comportamento mimetico particolarmente interessante si riferisce al contesto etnografico hawaiano e in maniera specifica alla vicenda del capitano James Cook presentata da Marshall Sahlins.(pag 113).E’ possibile inoltre citare molti altri esempi di ibridazione culturale fondati sulla mimesi ad es.le danze mimetiche in cui i neri sudafricani esprimevano tra gli anni trenta e cinquanta del Novecento il desiderio di essere come i loro dominatori bianchi. Modalità in cui prendere la forma dell’altro non significa essere come l’altro, ma piuttosto essere secondo l’altro(René Girard);nella mimesi non ci si appiattisce sull’altro bensì si vorrebbe essere nelle sue stesse condizioni incorporandone lo stesso potere, potendolo quindi fronteggiare da pari a pari. Vogliamo ora discutere di come un’opera letteraria possa essere considerata un documento etnografico. E’ un fatto che, costituendo essa stessa l’espressione di una cultura, l’opera letteraria incorpora forme di vita e rappresentazioni tipicamente culturali(realistiche e fantastiche)che hanno per destinatari coloro che di quella cultura fanno parte e che possono essere da loro intese. Un caso che illustra significativamente il ruolo della mimesi nel cambiamento culturale potrebbe essere ricavato dall’opera dello scrittore turco contemporaneo Pamuk,Il libro nero.Testo che dovrebbe appartenere al genere del thriller ma in realtà è un romanzo sull’identità.(pagg.114-115). NUOVE IDENTITA’ E NUOVE OPPOSIZIONI NELLA MODERNIZZAZIONE. Riguardo la questione del destino delle culture altre di fronte all’espansione dei modelli occidentali ci si è posti il problema della preservazione della loro identità.Infatti molte culture e società incontrate dall’occidente nel suo movimento di espansione sono scomparse(attraverso etnocidi o gli elementi che le formavano si sono trasformati,vanificati o sostituiti).Tuttavia molte culture sono riuscite a sopravvivere all’impatto con l’occidente e uno dei fenomeni più rilevanti dei nostri tempi è proprio il loro tentativo di far sentire la propria voce in contesti nazionali e internazionali.Tali rivendicazioni obbligano gli stessi nativi a porre a se stessi, oltre che agli altri, la questione della propria identità.Molte di queste identità vanno difese, altre sono negate, altre ancora devono essere conquistate attraverso una vera e propria invenzione.Studiare le dinamiche della loro costituzione non significa di per sé pronunciarsi sulla loro legittimità o meno, significa solo essere consapevoli di come si producono e di quali sono le finalità di tale produzione. (es. Papua pagg.117-118-119-120). Quando pertanto si parla di “modernizzazione”, quindi di ingresso nella modernità da parte di popolazioni periferiche del terzo mondo, non bisogna intendere solo ed esclusivamente un accesso a tecnologie e servizi che noi occidentali riteniamo moderni come se questi popoli, desiderando modernizzarsi, volessero assimilarsi mimeticamente all’occidente. Si può trattare di una mimesi che mira a ottenere una parità, ma si tratta di una parità che non esclude affatto la distinzione o la separatezza. PAGE 13 L’antropologia contemporanea si trova a operare su una pluralità di piani e di luoghi che formano un contesto fortemente delocalizzato.La deterritorializzazione delle culture comporta una delocalizzazione, o meglio, una plurilocalizzazione della stessa etnografia. Questo esito è d’altronde iscritto nella natura stessa delle culture contemporanee, che consiste nel loro essere ibride, aperte ai contatti e a influenze molteplici.Esempio di questa ibridazione è costituito dall’arte calligrafica sorta in relazione alla rivoluzione iraniana del 1979. Questo tipo di produzione artistica con esplicite finalità politiche ,il virtuosismo grafico della rivoluzione iraniana è un riflesso del carattere ibrido, postmoderno delle nuove formazioni culturali emergenti e del nostro linguaggio interculturale della nostra emergente società globale pluralista. La calligrafia è un sistema grafico capace di far interagire il livello linguistico con quello visivo, e la sua flessibilità le consente di integrare nuovi elementi con quelli già esistenti. La bandiera della Repubblica Islamica d’Iran, ad esempio, non solo porta impressi i segni del discorso politico ma è anche il ricettacolo di simboli che la nostra stessa tradizione culturale ha assorbito da quella persiana.( es. il tulipano stilizzato sulla bandiera è icona del martirio e della determinazione rivoluzionaria, ma il tulipano un fiore orientale è servito nell’arte e nella filosofia occidentali ad esprimere un’idea di bellezza collegata con un’idea di innocenza e di morte-fiore simbolo della morte innocente). L’ELABORAZIONE CULTURALE DELLA MARGINALITA’ E DELLO SFRUTTAMENTO. In questo capitolo prenderemo in considerazione le forme che l’elaborazione culturale della marginalità e dello sfruttamento ha assunto laddove le società sono state sottoposte a forme economiche,politiche e simboliche di dominio. Nella Papua Nuova Guinea l’incorporazione delle culture indigene nelle strutture coloniali ha dato vita a processi sincretici di vario tipo,come i culti del cargo, e i riti di iniziazione maschili, in entrambe queste forme di sincretismo riveste un ruolo importante la dimensione mimetica. Gli ngaing della Nuova Guinea nordorientale per esempio hanno introdotto come tratto fondamentale del rituale di iniziazione maschile la circoncisione, introducendola gli ngaing si sono collegati a quella che è una vera e propria concezione antropologica degli ngaing. Cioè per loro il sangue materno, che rimane nel corpo de neonato dopo la resezione del cordone ombelicale,è impuro e deve essere rimosso;attraverso la circoncisione il sangue impuro viene espulso. E’ solo il quel momento che il giovane diverrà un uomo(vedi rito pag 131-132). Secondo gli ngaing questo rito è compatibile con la religione cristiana portata dai colonizzatori;per costoro infatti i missionari e i bianchi in generale non vogliono rivelare ai Papua le più profonde verità della cultura dei bianchi, sicchè gli ngaing si adoperano per conoscere le rappresentazioni esterne della cultura bianca al fine di attingerne i contenuti profondi.(si spingono ben oltre con analogie tra le Sacre Scritture cristiane e la loro concezione rituale). L’introduzione della circoncisione pose i papua in condizione di resistere e di riappropriarsi dei loro spazi rituali e dei loro corpi(contro discorso identitario). In qualche modo gli ngaing hanno introiettato il discorso coloniale secondo cui la pelle bianca è sinonimo di purezza,potere, conoscenza e superiorità morale. Ciò implica che gli ngaing abbiano percepito se stessi come neri, sporchi, deboli e periferici e abbiano intriettato il discorso coloniale che fa di bianco e nero due estremi opposti. Da quanto precede si può dedurre che bianco e nero sono sinonimi di gerarchia coloniale, e che il bianco è al centro di un mondo nei cui confronti il nero è periferico anche se essenziale. I bianchi risultano essere centrali rispetto agli ngaing, adottando la circoncisione loro hanno messo in atto un processo di distanziamento dai bianchi. La circoncisione aiuta dunque a pensare la tradizione(del rituale maschile), a ribadire l’esistenza della vecchia tradizione di conoscenze e pratiche rituali e quindi coinvolgerla nella costruzione della presente identità. Nel caso degli ngaing siamo di fronte a un reticolo di significati composto di elementi di cultura locale e di influenze globali. Le forme di sfruttamento cui sono state sottoposte le popolazioni del sul del mondo da parte dell’occidente industrializzato e post industriale sono ormai riconosciute; meno si sa tuttavia PAGE 13 del modo in cui queste popolazioni hanno elaborato tale sfruttamento nel loro immaginario culturale. Ad esempio i minatori dello stato boliviani sembrano, aver elaborato una rappresentazione demoniaca dei rapporti capitalistici di produzione e del mercato; essi sono i discendenti di coloro che morirono a decine di migliaia nelle miniere durante i decenni successivi alla conquista dell’impero inka da parte degli spagnoli. Cristianizzati, essi adoravano tanto le divinita’(santi) cristiane, quanto gli spiriti della riproduzione e le divinità ctonie dell’antica religione(una di queste divinità è Tio cioè zio in spagnolo uno spirito maschile che controlla le risorse del sottosuolo). I minatori che rivolgono preghiere e sacrificano a Tio sono consapevoli della posizione ambigua in cui si trovano:da un lato sono costretti, per necessità a prendere parte all’operazione di distruzione delle risorse(non rinnovabili); dall’altro lato, si rendono conto che devono piegarsi a una logica di sfruttamento di tali risorse la quale mette a repentaglio queste ultime e che mette anche a repentaglio la loro vita. Per poter vivere insomma i minatori devono assoggettarsi a forze che sono responsabili della loro possibile morte. In uno studio degli anni novanta sui chipaya della Bolivia, Nathan Wachtel ha illustrato il “ritorno del vampiro” fra questi contadini degli altipiani. I chipaya temono il kharisiri cioè un personaggio antropomorfo che si aggira cercando vittime a cui succhiare il grasso. A partire dagli anni sessanta queste credenze hanno subito qualche cambiamento: si è cominciato ad accusare alcuni individui, aventi ruoli commerciali o istituzionali di intermediari tra villaggio e centro urbano, di essere kharisiri; molti di loro sono stati sommariamente processati e linciati. Poi, negli anni ’80 si è diffusa la voce che alcuni gringos(americani) avessero dato la caccia ad alcuni bambini per cavar loro gli occhi; le autorità ovviamente smentirono, ma si diffuse ugualmente un gran terrore tra la popolazione di Lima(tra i poveri specialmente). Forse la cecità che i gringos provocano nella leggenda messa in giro è una metafora dell’oscurità in cui vivono i poveri e della volontàdi mantenerveli. Questo per dimostrare il cambiamento e l’adeguamento dei miti alla modernità. Negli ultimi quindici anni si è cominciato a parlare di crisi della rappresentazione etnografica; in quanto il traffico delle culture,e le forme di ibridazione,mimesi e sincretismo che tale traffico comporta hanno costituito una forte spinta verso la riformulazione del modo in cui l’occidente e il sapere antropologico , si sono posti la questione di come rappresentare l’alterità. In L’Europa e i popoli senza storia di Eric Wolf, uno dei lavori che con più forza hanno denunciato l’idea epistemologicamente sbagliata , delle culture altre come culture prive di storia:Wolf vuole quindi polemizzare con quelle correnti della tradizione antropologica che hanno avuto la tendenza il più delle volte in maniera inconsapevole, a presentare i popoli altri sotto forma di comunità primitive, in possesso di culture e istituzioni sociali incontaminate. Rappresentare il mondo come disseminato di culture, società, tribù, etnie distinte era in un certo senso più facile in passato di quanto non lo sia oggi che il luogo e il territorio non possono più essere considerati sinonimi assoluti di cultura e di identità;perciò nella stessa antropologia si è avvertito il bisogno di passare da quella che potremmo chiamare un’etnografia puzzle(cioè un’etnografia mirante a produrre un sapere specifico per ogni specifico isolato socioculturale immaginato come un a tessera di un grande mosaico planetario) a un ‘etnografia cosmopolita, la quale tenga conto dei processi di deterritorializzazione e di delocalizzazione a cui sono sottoposte le culture e gli individui che ne fanno parte. L’occidentalizzazione, scrive Serge Latouche(1992) “è un processo economico e culturale con doppio effetto:universale per la sua espansione e la sua storia;riproducibile per il carattere del modello dell’occidente e la sua natura di macchina. Ormai mezzo secolo fa ,Claude Levì-Strauss aveva denunciato il consumo che , attraverso le immagini fotografiche, i libri di viaggio e il turismo l’occidente faceva dei popoli primitivi.Egli rilevava l’atteggiamento cannibalesco(consumistico) dell’occidente. Forse dovremmo riflettere su come oggi il consumo di tutto ciò che è etnico (vestiti,ciondoli,musica,cibi,turismo)rifletta, una volta di più, quella volontà di appropriazione PAGE 13 dell’altro da parte dell’occidente che è la versione mistificata e feticizzata di cose e di vite che hanno un corrispettivo nel metallo conquistato a caro prezzo dai minatori boliviani,nel sangue e negli occhi rubati con cui gli abitanti delle periferie del mondo attuale cercano di rappresentare a se stessi le ragioni del loro incerto e precario avvenire. PAGE 13
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved