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Riassunto “Dalla Grande Guerra ad Oggi”, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto completo del libro “Dalla Grande Guerra ad oggi” di Sabbatucci e Vidotto. *potrebbero esserci piccoli errori di battitura

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 29/10/2021

Daniela.Faraoni
Daniela.Faraoni 🇮🇹

4.6

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Scarica Riassunto “Dalla Grande Guerra ad Oggi” e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Riassunti “Storia contemporanea - Dalla Grande Guerra ad oggi” Capitolo 1- la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa Venti di guerra Agli inizi del 1914 il predominio europeo su gran parte del mondo era ancora in indiscusso. Lo sviluppo nella produzione industriale, nel campo tecnologico e negli scambi commerciali aveva diffuso l’idea di un progresso inarrestabile, che avrebbe portato benessere a tutti. L’evoluzione politica e i progressi economici non bastarono a far scomparire le tensioni politiche internazionali, né per far cessare i conflitti sociali interni. Tra le potenze europee, sebbene non si combattessero guerre da mezzo secolo, c'erano delle rivalità: tra Austria-Ungheria e la Russia per il controllo dei Balcani; tra Francia e Germania per l’Alsazia e la Lorena; tra Gran Bretagna e Germania per la corsa agli armamenti navali. L'Europa era divisa in due blocchi: Germania ed Austria contro Gran Bretagna, Russia e Francia. La corsa agli armamenti intrapresa dalla maggior parte delle potenze e la forza dei nuovi mezzi bellici rendevano allarmante l'ipotesi di un conflitto. Le minoranze pacifiste si mobilitarono per impedire lo scoppio del conflitto, i socialisti la condannavano mentre i settori delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali, la valutavano come un’opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, la percepivano come un dovere patriottico o come un evento liberatorio. Per molti giovani la guerra si presentava come un occasione per uscire dalla mediocre realtà quotidiana. Solo la guerra avrebbe potuto risvegliare una società che sembrava essersi “addormentata”. Inoltre, militari, uomini politici, industriali e finanzieri erano pronti a sfruttare tale opportunità peri propri tornaconto personali. Tutto ciò era alimentato dalla convinzione che la guerra sarebbe stata rapida, come quelle dell’800, e ovviamente ognuno pensava che sarebbe stato il proprio paese a vincere. Una reazione a catena Nonostante le premesse per lo scoppio della Grande Guerra c’erano tutte, ed erano ben evidenti, la dinamica degli eventi fu imprevedibile. Il 28 giugno del 1914, a Sarajevo, uno studente bosniaco, Gavrilo Princip uccise l’erede al trono d’Avustria, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie. L’attentatore faceva parte di un’organizzazione ultranazionalista che si batteva affinché la Bosnia entrasse a far parte di una “Grande Serbia” indipendente dall’impero asburgico. L'organizzazione (Mano Nera) aveva la sua base operativa in Serbia e godeva della complicità della classe politica. L’attentato fu sufficiente per scatenare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci che già datempo volevano ridimensionare le ambizioni espansionistiche della Serbia. Così, un attentato terroristico si trasformò in un caso internazionale e mise in moto una catena di reazioni e controreazioni che innescarono in Europa un conflitto di proporzioni mai viste. L’attentato a Sarajevo è l'esempio di come il corso della storia possa essere influenzato da singoli eventi, decisioni personali e circostanze accidentali L’Austria, prima di dichiarare guerra alla Serbia, inviò un ultimatum a quest’ultima. La Serbia, forte del sostegno da parte della Russia, accetta solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sull’attentato. L’Austria dichiara guerra alla Serbia il 28 luglio 1914. Il governo russo si mobilita immediatamente e il giorno successivo ordina la mobilitazione delle forze armate. La mobilitazione russa (che si estese all’intero confine occidentale per prevenire anche gli eventuali attacchi da parte della Germania) venne interpretata dal governo tedesco come un’atto di ostilità. Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia, chiedendo l'immediata sospensione dei preparativi bellici. L’ultimatum non ottenne risposta e nel frattempo la Francia (legata alla Russia da un'alleanza militare), il primo agosto, mobilitò le sue truppe. La Germania inviò un nuovo ultimatum e il 3 agosto dichiarò guerra alla Francia. L’iniziativa del governo tedesco fece precipitare la situazione. La Germania da tempo soffriva del complesso di accerchiamento, infatti, si riteneva ingiustamente soffocata nelle sue relazioni internazionali. Inoltre, c'erano anche motivazioni di ordine militare: la strategia dei generali tedeschi si basava sulla rapidità e sulla sorpresa e non lasciava spazio all’iniziativa degli avversari. Il piano di guerra elaborato nei primi anni del ‘900 da Alfred Von Schlieffen, dando per scontata l'eventualità di una guerra su due fronti (l'alleanza franco-russa era operante dal 1894), prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia, che doveva essere messa fiori combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo si sarebbe passati al fronte Russo dove l’esercito era potenzialmente fortissimo, ma lento a mettersi in azione. Il presupposto essenziale per la riuscita del piano Schlieffen era la rapidità dell’attacco alla Francia. Per fare ciò le truppe tedesche avrebbero dovuto passare attraverso il Belgio, nonostante esso si fosse dichiarato neutrale attraverso un trattato sottoscritto anche dalla Germania. Il 4 agosto i primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia da nord-est. La violazione della neutralità belga scosse profondamente l’opinione pubblica europea ed ebbe un peso decisivo nel determinare l’allargamento del conflitto. Lo stesso giorno la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania. Frai politici era diffusa la convinzione che la guerra avrebbe contribuito a soffocare i contrasti sociali e a rafforzare i governi e la classe dirigente. I primi tempi parvero dar loro ragione: nei primi giorni di agosto le piazze europee si riempirono di manifestazioni favorevoli alla guerra. Nemmeno i partiti socialisti si opposero al clima generale di “unione sacra”. I capi della socialdemocrazia tedesca votarono a favore in Parlamento a favore dei crimini di guerra (stanziamenti necessari per lo sforzo bellico), motivando la loro scelta con il pericolo di una vittoria dell’assolutismo zarista. Analogo atteggiamento fu assunto dalla socialdemocrazia austriaca. I socialisti francesi rinunciarono ad ogni manifestazione di protesta ed entrarono a far parte del governo; stessa cosa fecero i laburisti inglesi. La Seconda Intemazionale cessò di esistere. 1914-1915: dalla guerra di logoramento alla guerra di posizione Guerra di posizione, guerra di logoramento, guerra di usura, guerra di trincea: queste sono le une delle definizioni usate per descrivere le caratteristiche di un conflitto che non aveva precedenti. La pratica generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute possibilità di mezzi di trasporto consentirono ai belligeranti di schierare rapidamente milioni di uomini in uniforme e dotarli di armi moderne: tutti gli eserciti disponevano di fucili a ripetizione e cannoni potentissimi, ma la vera novità era costituita dalle mitragliatrici automatiche. Nonostante ciò, nessuna fra le potenze in guerra aveva elaborato nuove strategie, diverse da quella della tradizionale guerra di movimento. Inoltre, tutti i piani di guerra erano basati sulla previsione di un conflitto di pochi mesi o addirittura di poche settimane. dei pieni poteri al governo. L’Italia il 23 maggio del 1915 dichiarò guerra all’ Austria e il giorno seguente cominciano le operazioni militari. I socialisti non riuscirono ad organizzare un'opposizione efficace. Lo scontro sull’intervento lasciò un segno profondo nella vita politica italiana, evidenziando l’estraneità di larghe masse popolari ai valori patriottici, l’indebolimento della mediazione parlamentare e l'emergere di nuovi metodi di lotta estranei alle tradizioni dello Stato liberale. I fronti di guerra (1915-16) L’intervento italiano non influì sulle soiti del conflitto. Le forze austro-ungariche si schierarono sulle posizioni difensive più favorevoli, lungo il corso dell’Isonzo e sul Carso. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro offensive senza avere alcun successo (le quattro battaglie dell’Isonzo). Nel giugno del 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso attacco, chiamato Strafexpedition (spedizione punitiva) tentando di penetrare dal Trentino nella pianura veneta e spezzare in due lo schieramento italiano. La spedizione venne fermata con fatica. Il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e venne sostituito da un governo di coalizione nazionale, presieduto dal conservatore Paolo Boselli. Per la prima volta il govemno vide al suo interno anche un esponente dell’area cattolico-moderata, Filippo Meda. Questo cambiamento nel governo non comportò alcun mutamento nella conduzione militare della guerra. Sul fronte francese gli schieramenti rimasero immobili per tutto il 1915. All’inizio del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco a Verdun, con lo scopo di logorare le forze nemiche. La battaglia, durata quattro mesi, provocò 600.000 perdite tra motti e feriti. Il massacro proseguì nell’estate del 1916 quando gli anglo-francesi lanciarono una controffensiva sul fiume Somme: in sei mesi il numero di perdite amrivò a quasi un milione. Tra il 1915 e il 1916 gli unici successi militari degli Imperi centrali si ebbero in Europa orientale. Nell'estate del ‘15 un’offensiva tedesca costrinse i russi ad abbandonare buona parte della Polonia. In autunno gli austriaci attaccarono la Serbia, che fu invasa ed eliminata dal conflitto. Il tentativo degli anglo-francesi di alleggerire la pressione del nemico sul loro alleato russo, portando la guerra in Turchia, fallì. Frala primavera e l'estate del 1915 una spedizione navale britannica attaccò lo Stretto dei Dardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente a Gallipoli (sulle coste turche). Nel giugno del 1916 i russi lanciarono un’ offensiva contro gli austriaci, impegnati sul fronte italiano. I loro iniziali successi convinsero poi la Romania ad intervenire a fianco dell’intesa. Ma in ottobre gli austro-tedeschi contrattaccarono e la Romania subì la stessa sorte della Serbia. Gli Imperi centrali subivano le conseguenze del blocco navale attuato dai britannici nel Mare del Nord. Nel 1916 la flottatedesca aveva tentato un attacco in prossimità dello Jutland. Le perdite subite in battaglia furono tali da indurre i comandi tedeschi a ritirare le navi dai porti, rinunciando allo scontro in campo aperto. La guerra di trincea e le nuove tecnologie Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea. Le trincee inizialmente vennero scavate come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, ma con il passare del tempo divennero la sede permanente dei reparti di prima linea. Vennero allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da nidi di mitragliatrici. La vita nelle trincee era difficile: monotona e rischiosa, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Le condizioni igieniche erano deplorevoli, erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie oltre che ai bombardamenti. Gli assalti iniziavano nelle prime ore del mattino. I soldati scattavano simultaneamente fuori dalle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento delle mitragliatrici finivano con l’accalcarsi nei pochi varchi apeiti dall’artiglieria nei reticolati facilitando il compito dei tiratori nemici. Se riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che li ricacciava sulle posizioni di partenza. L’entusiasmo patriottico svanì durante i primi mesi di guerra in trincea. Gran parte dei soldati semplici non aveva idee precise sui motivi peri quali si combatteva e considerava la guerra come un flagello. La visione eroica e avventurosa dell'esperienza bellica restò prerogativa di esigue minoranze di combattenti: in particolare quelli inquadrati nelle truppe speciali impegnate in azioni pasticolarmente rischiose e per questo esentati dai turni di trincea. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. Niente poté fermare che la paura o l’avversione alla guerra si traducessero in forme di rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla ribellione, alla disperazione, alla pratica di autolesionismo (consisteva di auto-infliggersi ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte). Gli eserciti fecero ricorso a tutte le risorse messe loro a disposizione dai progressi della scienza e della tecnologia. Il primo conflitto mondiale fu segnato dall’uso degli strumenti bellici già sperimentati in precedenza, ma anche dall’invenzione di nuovi mezzi d’offesa. Del tutto nuova e sconvolgente fu l'apparizione delle armi chimiche: proiettili esplosivi che sprigionavano gas tossici letali. Itedeschi, nella primavera del 1915, sperimentarono per la prima volta queste armi. La guerra accelerò la crescita di settori relativamente nuovi, come quello automobilistico o come la radiofonia. Il perfezionamento delle telecomunicazioni, via radio o via filo, permise di coordinare meglio i movimenti delle truppe. L'impiego dei mezzi motorizzati consenti di far affluire rapidamente i soldati dalle retrovie al fronte. Più lento fu lo sviluppo dell’aviazione, gli aerei furono usati soprattutto per la ricognizione e per qualche azione di bombardamento, senza svolgere un ruolo decisivo nelle principali battaglie. I primi mezzi corazzati (carri armati), le autoblindo (autocarri ricoperti da piastre d’acciaio e muniti di mitragliatrici) erano limitati nel loro impegno dal fatto di potersi muovere solo su strada. Il passo successivo fu, infatti, sostituire le ruote coni cingoli che permisero ai veicoli di attraversare qualsiasi tipo di terreno. I carri armati erano molto lenti e vennero impiegati solo nell’ultima fase della guerra. Il sottomarino influì sul corso della guerra. Furono soprattutto i tedeschi a servirsene sia per attaccare le navi nemiche, sia per affondare senza preavviso i mercantili che portavano rifornimento verso i porti dell’intesa. Nel maggio 1915 un sottomarino tedesco affondò un transatlantico britannico, che trasportava più di mille passeggeri tra i quali 140 americani; le proteste degli Stati Uniti furono così energiche che convinsero i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata. Il “fronte interno” La guerra strappò circa 65 milioni di uomini dalle loro occupazioni, dalle loro famiglie, dalle loro abitudini, che vennero coinvolti in questa esperienza collettiva. Anche i civili firono chiamati a dare il loro contributo nel “fronte interno”. L’intera società dei paesi belligeranti fu mobilitata in funzione della guerra e ne risentì le conseguenze: quella combattuta sui fronti europei fu una guerra totale perché coinvolse tutti gli ambiti della vita. Anche per i civili la guerra non fu facile. I più colpiti furono coloro che abitavano vicini alle zone di guerra, ma anche chi abitava lontano dalle zone in cui si combatteva ne risenti. Inoltre, chi risiedeva in ‘un paese diverso dalla propria patria d’origine poteva trovarsi nella condizione di nemico e quindi soggetto alla confisca di beni e restrizioni personali. Gli armeni erano una popolazione di religione cristiana che abitava in una regione del Caucaso divisa fra l'Impero ottomano e quello russo. Nella primavera del 1915, mentre in russia e in Turchia si combattevano nel Caucaso (e gli anglo-francesi cercavano di sbarcare sulle coste dei Dardanelli), gli armeni che vivevano nella paite turca di quella regione, sospettati di intesa con il nemico russo, furono sottoposti ad una brutale deportazione nelle zone interne dell’ Anatolia e ciò si trasformò in uno sterminio. La guerra produsse una serie di profonde e durature trasformazioni in tutti i paesi che vi furono coinvolti. I mutamenti più importanti furono quelli che interessarono l’economia, in particolare il settore industriale, che doveva alimentare gli eserciti. Infatti, le industrie interessate alle fomiture belliche conobbero uno sviluppo imponente. Tutto ciò impose una riorganizzazione dell’apparato produttivo e una continua dilatazione dell’intervento statale, che assunse dimensioni incompatibili con il modello liberale. Anche la produzione agricola tu assoggettata ad un regime di requisizioni e di prezzi controllati. In alcuni casi si raggiunse il razionamento dei beni di consumo di prima necessità. Anche gli apparati statali subirono delle trasformazioni. Il potere si rafforzò a spese degli organismi rappresentativi, poco adatti alle esigenze di rapidità e segretezza nelle decisioni imposte dallo stato di guerra. I poteri di governo erano insidiati dall’invadenza dei comandi militari che potevano influenzare le scelte dei politici. In questo senso non vi erano grandi differenze fra la dittatura militare esercitata in Germania nel 1916 da Paul Von Hindenbwg e dal suo collaboratore, Erich Ludendorff e la gestione autoritaria del potere praticata in Francia nell’ultimo anno di guerra dal governo dell’unione nazionale di George Clemenceau o in Gran Bretagna dal “gabinetto di guerra” di David Lloyd George. Uno strumento fondamentale per la mobilitazione era la propaganda, che non si rivolgeva solo alle truppe, ma cercava di raggiungere anche la popolazione civile. Vennero stampati manifesti murali, vennero organizzate manifestazioni di solidarietà e vennero fondati comitati per la resistenza interna. La scelta operata dai maggioti partiti socialisti nell'estate del ‘14 non fece tacere del tutto le voci di opposizioni del movimento operaio europeo. A Zimmerwald ed ga Kienthal (Svizzera) nel settembre del 1915 e nell'aprile 1916 si tennero due conferenze socialiste intemazionali che si conclusero con l’approvazione di documenti in cui si chiedeva la pace. Fra di essi, i bolscevichi russi, guidati da Lenin, si erano staccati definitivamente dalla socialdemocrazia e costituiti dal 1912 come partito autonomo. 1917: l’anno della svolta Nei primi mesi del 1917 due novità mutarono il corso della guerra. All’inizio di marzo uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si trasformò in un imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati furono chiamati a ristabilire l’ordine essi si rifiutarono di sparare sulla folla fratemizzando coni dimostranti. Lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo venne arrestato con l’intera famiglia reale. sociale-rivoluzionari. I bolscevichi non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere; riunitasi la prima volta all’inizio di gennaio, l'assemblea costituente fu immediatamente sciolta dall’intervento dei militari bolscevichi, che obbedivano ad un ordine del congresso dei soviet. Questo nuovo atto di forza segnava una rottura irreversibile con le altre componenti del movimento socialista e con la tradizione democratica occidentale. Ileader bolscevichi speravano di poter procedere rapidamente alla costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato all'esperienza della Comune di Parigi, secondo un modello di autogoverno delineato da Lenin in una delle sue opere più famose, Stato e rivoluzione. Secondo Lenin nella società socialista non vi sarebbe bisogno di parlamento e di magistratura, di eserciti e burocrazia, ma le masse stesse si sarebbero autogovernate secondi principi di democrazia diretta sperimentati nei soviet. Peri bolscevichi era stato facile impadronirsi del potere centrale, il difficile fu gestire il potere, amministrare un paese immenso, governare una società complessa ed arretrata ed affrontare i problemi ereditati dal vecchio regime. I bolscevichi miravano ad una pace senza annessioni e senza indennità. Ciò non si realizzò e i capi rivoluzionari, che non ne potevano più di deludere le attese di pace da loro stessi incoraggiati, si trovano a trattare in condizioni di grave inferiorità con un nemico che già occupava vaste zone dell’ex impero russo. Il 5 dicembre il nuovo governo firmò l'armistizio che poneva fine alle ostilità. Ne seguì una lunga e drammatica trattativa con gli imperi centrali, che si concluse tre mesi dopo, il 3 marzo del 1918 con la firma della pace di Brest-Litovsk. La Russia dovette accettare le durissime condizioni imposte da Germania ed Austria: la perdita di tutti i territori non russi dell’ex impero, dove stavano nascendo nuovi Stati indipendenti. Le potenze dell’intesa, ancora impegnate contro gli imperi centrali e preoccupati di un possibile contagio rivoluzionario, consideravano la pace un tradimento e cominciarono ad appoggiare le forze antibolsceviche che, già dalla fine del 1917, si stavano organizzando in varie zone del paese. Frala primavera e l'estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel Nord della Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre le parti statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale. L'arrivo dei contingenti stranieri rafforzò l'opposizione al governo bolscevico ed alimentò la guerra civile in diverse zone del paese. La prima minaccia viene dall’est, dove i bianchi assunsero il controllo di vari territori della Siberia penetrando, nell’estate del 1918, nella zona fra gli Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la famiglia, prigionieri nella città di Ekaterinburg, furono giustiziati per ordine dei soviet. Le forze contro rivoluzionarie erano divise ma coordinate e non riuscirono a guadagnarsi l'appoggio dei contadini. Solo nell’estate del 1919 le potenze straniere avrebbero cominciato a ritirare le loro truppe, per le proteste che l'intervento suscitava nei loro paesi e per il pericolo di un contagio rivoluzionario fra soldati. Nella primavera del 1920 la fase più acuta della guerra civile che si concluse, dopo oltre due anni di combattimenti. Il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari; nel dicembre 1917 venne creata la Ceka, ovvero la polizia politica. Nello stesso periodo era stato istituito un tribunale rivoluzionario centrale, con il compito di processare chiunque disubbidisse al governo. Nel giugno del 1918 vennero messi fuorilegge i patiti d'opposizione e venne reintrodotta la pena di morte. Si procedeva nel contempo alla riorganizzazione dell’esercito, mi costruito ufficialmente nel febbraio del 1918 con il nuovo nome di armata Rossa degli operai e dei contadini. L’artefice principale dell’operazione fu Trotsky. La creazione di un esercito efficiente, decisiva per la vittoria della guerra civile, avrebbe consentito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro coni suoi numerosi nemici. Nasceva così un nuovo modello di Stato a partito unico dei tratti autoritari, capace di proporsi come agente di liberazione peri 10 popoli di tutto il mondo e come permanente minaccia per l'ordine economico e equilibri internazionali dell’Occidente. 1918: sconfitta degli imperi centrali Nella fase finale della guerra gli Stati dell'intesa accentuarono il carattere ideologico dello scontro. Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente americano Woodrow Wilson. Nel gennaio del 1918 Wilson presentò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace di 14 punti. Wilson oltre a formulare una serie di proposte per il nuovo assetto europeo, proponeva l’abolizione della diplomazia segreta il ripristino della libertà di navigazione, la sospensione delle barriere doganali e la riduzione degli armamenti. Sul fronte bellico l’inizio del 1918 vedeva ancora due schieramenti in una sostanziale situazione di equilibrio. La partita decisiva doveva giocarsi sul fronte francese. Fu qui che la Germania tentò la sua ultima è disperata scommessa impiegando tutte le forze rese disponibili dalla firma della pace conla Russia. In giugno l’esercito tedesco era di nuovo sul marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni a lunga gittata. Sempre a giugno gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano attaccando l’esercito sul Piave e nella zona del Monte Grappa, ma furono respinti dopo duri combattimenti. Alla fine di luglio le forze dell’intesa passarono al contrattacco. Tra 1°8 e 1’11 agosto, nella grande ma battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Iniziarono ad arretrare lentamente. I generali tedeschi capirono di aver perso la guerra e la loro principale preoccupazione divenne quella di sbarazzarsi del potere che avevano esercitato e di lasciare ai politici la responsabilità di un armistizio che si annunciava durissimo. Il compito di aprire le trattative toccò un nuovo governo di coalizione democratica formatosi i primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici e dei cattolici del centro. Mentre la Germania cercava un compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente e si disgregavano dall'interno La prima accedere, la fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l’impero turco a chiedere l'armistizio. Contemporaneamente, si consumava la crisi finale dell’ Austria-Ungheria, Cecoslovacchi e slavi del sud proclamarono l’indipendenza e, mentre i soldati abbandonavano il fronte il numero sempre maggiore. Quando il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un'offensiva sul Piave, l’impero era già onmai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l’armistizio con l’Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, il 4 novembre del 1918. I19 novembre a Berlino un socialdemocratico, Frederic Ebert, fi proclamato capo del governo, mentre Guglielmo Secondo fuggì in Olanda e veniva proclamata la Repubblica. L’11 novembre i delegati del govemo provvisorio tedesco firmarono l'armistizio nel villaggio francese di Rethondes. La Germania, che più di altri aveva contribuito allo scoppio della guerra, perse. Gli Stati dell’intesa, vincitori grazie all'apporto di una potenza extraeuropea (gli USA) uscivano dal conflitto scossi e provati. La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8000.000 e mezzo di morti, 20 milioni di feriti gravi e mutilati) ma anche con un drastico ridimensionamento del peso politico dell'Europa sulla scena intemazionale. Vincitori e vinti Il 18 gennaio 1919, nella reggia diversa I'll, presso Parigi, si aprirono i lavori della conferenza di pace. Vi parteciparono i rappresentanti di 32 paesi dei cinque continenti. Rimasero esclusi i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li riguardavano. Tutte le materie più importanti vennero riservati ai quattro grandi, ossia i capi di governo delle principali potenze vincitrici: 11 l'americano Wilson, il francese Clemenceau, il britannico Lloyd George e l'italiano Orlando, quest’ultimo, però, relegato ad un ruolo secondario anche a causa dei contrasti con gli alleati sul nuovo confine orientale dell’Italia. I leader delle potenze vincitrici avevano il compito di ridisegnare la politica del vecchio continente. Il nuovo equilibrio doveva tener conto dei principi di democrazia e di giustizia intemazionale enunciati nei 14 punti di Wilson. La realizzazione di quel programma si liberò assai problematica: i principi wilsoniani non sempre erano compatibili con l’esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti e di premiare i vincitori, quantomeno di garantirli, anche sul piano territoriale, contro la possibile rivincita degli ex nemici. La contraddizione risultò evidente quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi non si accontentarono della restituzione dell’ Alsazia-Lorena, ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che avrebbe significato l'annessione di territori fra i più ricchi e popolosi della Germania. Questi progetti incontrarono l'opposizione di Wilson. La Francia dovette rinunciare al confine sul Reno, in cambio della promessa di una garanzia anglo-americana sulle nuove frontiere franco-tedesche. La Germania poté limitare le amputazioni territoriali, ma subì una serie di clausole che sarebbero state sufficiente a cancellarla per tempo dal novero delle grandi potenze. Il trattato venne firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu in realtà un imposizione subita dalla Germania sotto la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale era prevista, oltre alla restituzione alla Francia dell’ Alsazia-Lorena, annessa nel 1871, la cessione alla Polonia di alcune regioni abitate solo in parte da tedeschi: l’ Alta Slesia, la Posnania, una striscia della Pomerania che interrompeva la continuità territoriale fra la Prussia occidentale e la Prussia orientale, per consentire alla Polonia di affacciarsi sul baltico e accedere al porto di Danzica. La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. La parte più pesante della sconfitta, per la Germania, era costituita dalle clausole economiche e militari. Venne indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra e dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori i danni subiti in conseguenza del conflitto. Fu inoltre costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra e a lasciare “smilitarizzata” la valle del Reno. Erano condizioni umilianti, che ferirono l’orgoglio nazionale. Un problema diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell’Impero asburgico. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta nel territorio, Un trattamento severo toccò anche all’Unghetria: si era costituita in Repubblica nel novembre del 1918 e perse non solo le regioni slave (Slovacchia e Croazia) ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare. A trarre vantaggio dal crollo dell’impero asbugico, oltre all'Italia, furono i popoli slavi. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia, formata da territori già appartenenti agli Imperi tusso e tedesco. Icechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno stato federale che comprendeva anche una minoranza di tedeschi. Gli slavi del Sud, cioè gli abitanti della Croazia, Slovenia e della Bosnia-Erzegovina, di unirono alla Serbia e al Montenegro per dare vita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. 12 lavoro subordinato punto sorsero quindi associazioni di ex Combattenti che si mobilitano in difesa dei propri valori e dei propri interessi. Le inquietudini dei reduci erano però solo un segno di un più vasto fenomeno di mobilitazione sociale. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi. Risultò così accentuata la tendenza alla "massificazione": partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti. La consapevolezza del sacrificio subito dai popoli giustificava di per sé l'attesa di soluzioni nuove. Del resto era stata la stessa propaganda ufficiale a incoraggiare le aspettative di una società più giusta e di un ordine politico e sociale diverso da quello che aveva portato l'Europa alla guerra. Più numerosi erano coloro che cercavano di inserire le loro richieste concrete nel quadro ideale di una società più equa e più democratica, in cui le rivendicazioni patriottiche si conciliassero col progetto di un nuovo ordine internazionale fondato sui pacifici rapporti tra le nazioni. Stati nazionali e minoranze: La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significano per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per l'indipendenza e parvero dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati dei protagonisti delle rivoluzioni ottocentesche e rilanciati dai quattordici punti di Wilson. Come abbiamo già visto però, nel corso della conferenza di pace l'applicazione dei principi wilsoniani si rivelò a dir poco problematica. Una difficoltà che, se in parte poteva essere ricondotta ai calcoli e agli egoismi delle potenze vincitrici, in realtà nasceva soprattutto dal oggettiva impossibilità di tradurre in atto l'utopia di una pacifica convivenza tra i diversi popoli, ciascuno sovrano nel proprio territorio. Questa utopia si basava infatti sul presupposto di una coincidenza pressoché perfetta tra le poche Nazioni etnicamente omogenee e i territori da esse occupati. Una condizione che poteva realizzarsi nei principali stati dell'Europa occidentale, ma era molto lontana dalla realtà etnico-linguistica della pate orientale del continente. Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso coni confini di classe più che con quelli geografici: in ampie zone della Polonia, ad esempio, i signori erano perlopiù i polacchi o i tedeschi, i contadini erano ucraini e polacchi, mentre gli ebrei erano concentrati in insediamenti separati e si dedicavano prevalentemente al commercio o alle professioni. Date queste premesse, l'applicazione del principio di nazionalità non poteva che risultare imperfetta, oltre che difficile: si è calcolato che le decisioni di Versailles diedero vita ad una Patria indipendente che contava circa 60 milioni di persone, ma così facendo ne trasformò altri 25 milioni in minoranze. La presenza di gruppi che parlavano diverse lingue, seguivano proprie tradizioni e professavano altre religioni rispetto alla maggioranza fu sentita come una minaccia dei membri di comunità nazionali che si volevano omogenee equise punto paradossalmente, la liberazione dei popoli dalle dominazioni straniere poteva così dar luogo a nuove o pressioni o persecuzioni e scatenare nuovi conflitti a sfondo nazionale. Già durante la conferenza di Versailles, e poi nella neonata Società delle Nazioni, gli Stati europei si sforzavano di trovare soluzioni pacifiche a un problema che tutti avevano sottovalutato. In alcuni casi controversi furono indetti Plebisciti per decidere l'assegnazione di un territorio. Più spesso si cercò di vincolare gli stati al rispetto dei diritti delle minoranze, primo fra tutti quello di studiare e di comunicare nella propria lingua. Ma queste norme furono per lo più ignorate, anche per l'incapacità della Società delle Nazioni di imporre sanzioni efficaci. In alcuni casi si organizzarono scambi di popolazioni, ed altre volte questi scambi si verificarono in forma cruenta: per esempio, la guerra tra Grecia e Turchia del 1922-23 portò al trasferimento forzato di circa 2 milioni di persone in base alla appartenenza etnica e religiosa. Procedendo su questa strada, si sarebbe giunti a quelle che oggi chiamiamo pulizie etniche. 15 Il “biennio rosso”: rivoluzione e controrivoluzione in Europa Tra la fine del 1918 e l'estate del 1920 il movimento operaio europeo fu protagonista di una impetuosa avanzata politica che assunse in alcuni casi connotati rivoluzionari. L'ondata di lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali ma, alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che cavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull'esempio dei Soviet russi, si proponevano come organi di governo della Futura società Socialista. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, conservatori e moderati mantenere il controllo dei rispettivi parlamenti e la pressione del Movimento operaio fu contenuta senza eccessive difficoltà. Germania, Austria e Ungheria furono invece teatro di tentativi rivoluzionari, che furono però rapidamente stroncati. Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque possibile negli altri paesi europei. La rivoluzione d'ottobre aveva accentuato, all'interno del Movimento operaio, la frattura già manifestatasi durante la guerra, tra le avanguardie rivoluzionarie e il resto del Movimento legato ai partiti socialdemocratici e alle grandi centrali sindacali. La scissione fu sancita ufficialmente nel marzo 1919, con la Costituzione a Mosca di una Internazionale comunista, detta Terza Intemazionale o Comintern. La struttura e i compiti del comintern furono fissati nel secondo congresso che si tenne a Mosca nel 1920. Fu lo stesso Lenin a fissare in un documento in 21 punti le condizioni da rispettare per poter essere ammessi al nuovo organismo: i partiti avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico e cambiare il proprio nome in quello di Partito Comunista, dovevano difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia Sovietica e rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti. Tra la fine del 1920 l'inizio del 1921 fu comunque raggiunto l'obiettivo di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedele alle direttive del partito-guida. Nessuna di queste formazioni riuscì però a conquistare il consenso maggioritario delle classi lavoratrici dei paesi più sviluppati. La scissione del Movimento operaio avrebbe invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice. Prima di essere sancito dalle scissioni, la rottura tra socialdemocrazia e comunismo era stato segnata dalle vicende drammatiche che in Germania avevano seguito la proclamazione della Repubblica. Già al momento della firma dell'armistizio lo stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria, perché il Governo era formato da esponenti socialdemocratici e fazioni della sinistra staccatasi dal Partito socialdemocratico. Tuttavia, in molte città i padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei soldati. I socialdemocratici tedeschi erano decisamente contrari a una rivoluzione di tipo sovietico e favorevoli a una democratizzazione del sistema politico entro il quadro delle istituzioni parlamentari. I capi dell'esercito, in particolare, stabilirono con i leader socialdemocratici una specie di patto non scritto, impegnandosi a servire lealmente le istituzioni non repubblicane in cambio di garanzie circa la tutela dell'ordine pubblico e il mantenimento della tradizionale struttura gerarchica delle Forze Armate. La linea moderata scelta dal Partito socialdemocratico portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del Movimento operaio, soprattutto con i rivoluzionari della lega di Spartaco, visti come cellule costitutive di una nuova "Democrazia Socialista". Il 5 e 6 gennaio 1919 centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia della capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni leader dell'Uspd decisero Allora di approfittare di questa mobilitazione di massa e diffusero con un comunicato la loro incitazione ai lavoratori a rovesciare il governo. Ma la risposta del proletariato berlinese fu inferiore alle aspettative. Durissima Qui invece la reazione delle autorità che si serviva per la repressione di squadre volontarie formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista 16 e conservatore. I leader del Movimento spartachista furono così arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi Franchi. Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l'assemblea costituente e la convergenza tra socialisti e, cattolici e democratici e rese possibile la formazione di un governo di coalizione a guida socialdemocratica e soprattutto l'approvazione della Costituzione di Weimar. Essa prevedeva larghe autonomie regionali, suffragio universale maschile e femminile, nonché un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica è eletto direttamente dal popolo. In aprile l'epicentro del moto rivoluzionario si era spostato in Baviera, dove era stata proclamata una Repubblica dei consigli, stroncato da l'intervento dell'Esercito e dei corpi Franchi. I generali dell'esercito avevano maggiore responsabilità politica della sconfitta, e per questo avevano sollecitato una rapida conclusione dell'armistizio e la diffusione della leggenda della "pugnalata alla schiena", secondo cui L'esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese. Una leggenda priva di fondamento, utile Però a gettare discredito sulla Repubblica e sulla classe dirigente che si era assunta l'ingrato compito di firmare la pace. Anche nella Nuova Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare il paese nella difficile fase del Trapasso di regime. Nel 1920 però, le elezioni Videro prevalere il voto clericale e conservatore. Breve e drammatica fu la vita della Repubblica Democratica in Ungheria, dove i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare una repubblica Sovietica, che attuò una dura politica repressiva nei confronti della borghesia e dell'aristocrazia. L'esperimento durò però pochi mesi. Ai primi di agosto, il regime comunista guidato da Kun cadde sotto l'urlo convergente delle forze conservatrici guidate dall'ammiraglio Hoithy. Proprio l'ammiraglio Horthy si insediò il potere scatenando un'ondata di "terrore bianco". L'Ungheria cadeva così sotto un regime autoritario sorretta Dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri: prima applicazione di un modello destinato a incontrare il notevole fortunato nei paesi dell'Europa orientale negli anni tra le due guerre mondiali. La Germania di Weimar: Nonostante i travagliati esordi, La Repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò nell'Europa degli anni Venti un modello di democrazia parlamentare. Molti erano Tuttavia i fattori contribuivano a indebolire il sistema repubblicano: vi era infatti forte frammentazione dei gruppi politici che rendeva instabili maggioranze e governi. Per un decennio il partito socialdemocratico rimase il paitito più forte, ma dovette misurarsi con le formazioni del centro e della Destra conservatrice. Queste ultime non nascondevano la loro diffidenza nei confronti delle istituzioni repubblicane, indissolubilmente associate alla sconfitta, all'umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia Nazionale che fu costituita dal problema delle "riparazioni di virgolette, I risarcimenti che il paese sconfitto era tenuto a pagare ai vincitori. Nella primavera del 1921 le potenze alleate stabilirono l'ammontare dei risarcimenti dovuti dalla Germania nella cifra di 132 miliardi di Marchi, da pagare in 42 rate annuali. I gruppi dell'estrema destra nazionalista scatenarono un'offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata le imposizioni dei vincitori. Così, nel 1921 e nel 1922 caddero vittime di attentati il ministro delle finanze, colpevole di aver firmato l'armistizio, e il ministro degli esteri che si stava adoperando per raggiungere un accordo con le potenze vincitrici. I govemi di coalizione che si succedettero si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni, ma evitarono interventi troppo drastici sulle tasse sulla spesa pubblica: furono quindi costretti ad aumentare la stampa di cartamoneta e il risultato fu che il valore del marco precipitò, accelerando il processo inflazionistico già in atto. Nel gennaio 1923 la Francia il Belgio, prendo pretesto dalla mancata consegna di alcuni materiali da pate del governo di Berlino, inviarono truppe nel bacino della Ruhr punto impossibilitato a reagire militarmente, il governo incoraggia la resistenza passiva della popolazione, dunque imprenditori ed 17 in mano e vecchi imprenditori, ma sotto la sorveglianza dei consigli operai, altre furono gestite direttamente dai lavoratori ed altri infine furono poste sotto il controllo statale. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l'estero cancellati, ma tutto questo servirà a poco, visto lo stato di causa in cui versava il paese sconvolto dalla guerra civile, e il governo fu costretto a stampare cartamoneta priva di qualsiasi valore. Si finì così col tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in natura. A partire dall'estate del 1918, il govemo bolscevico cercò di attuare una politica più energica e autoritaria, che fu poi definita "Comunismo di guerra". Furono istituiti in tutti i centri rurali comitati col compito di provvedere all'ammasso e alla distribuzione delle derrate. Venne incoraggiata, senza molto successo, la formazione di comune agricole volontari, le cosiddette "fatture collettive", e furono anche istituite delle "fattorie sovietiche" gestite direttamente dallo Stato. In campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti: una misura che aveva lo scopo di normalizzare la produzione e di centralizzare le decisioni, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi della rivoluzione. Alla fine del 1920 il volume della produzione industriale era di ben 7 volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano spopolate per la disoccupazione per la fame. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell'illegalità. La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del 1921, quando per effetto congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell'Ucraina. Il punto di maggior tensione fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a ribellarsi al govemo furono i marinai della base di Kronstadt, presso Pietrogrado. Alle richieste dei ribelli, il governo rispose con una feroce repressione militare, con centinaia di fucilazioni immediate e poi mi chiedi condanna a moite, al carcere o ai lavori forzati. Nello stesso 1921, mentre si chiudeva ogni spazio di discussione all'interno del partito, prendeva avvio una paiziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi. La Nuova politica economica (NEP) aveva l'obiettivo principale di stimolare la produzione agraria e di favorire l'afflusso dei generi alimentari verso le città. Ai contadini si consentiva ora di vendere sul mercato le eventuali eccedenze e la liberalizzazione si estese anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne comunque il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali. Nelle campagne i nuovi spazi concessi all'iniziativa privata favorirono il riemergere del ceto dei contadini benestanti, i ku/aki. La liberalizzazione del commercio a crebbe la disponibilità di beni di consumo, ma provocò la comparsa di una nuova classe di affaristi, la cui ricchezza contrastava col basso tenore di vita della maggioranza della popolazione urbana. L’URSS da Lenin a Stalin: La prima costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio 1918, in piena guerra civile, e si apriva con una dichiarazione dei diritti del Popolo lavoratore e sfruttato. La Costituzione si ispirava dunque all'idea consiliare e collocava al vertice del potere il Congresso dei Soviez. Inoltro prevedeva che il muovo stato avesse carattere federale, rispettasse l'autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all'Unione con altre future repubbliche sovietiche, nella prospettiva di un'unica Repubblica socialista mondiale. In realtà quella che si attuò fu semplicemente l'unione alla Repubblica russa delle altre province dell'ex Impero zarista, nelle quali comunisti erano riusciti a prendere il potere dopo aver eliminato le altre forze politiche con decisivo aiuto dell'armata rossa. Quella che dal 1922 prese il nome di unione delle Repubbliche Socialiste sovietiche era una compagine priva di reali meccanismi federativi e in cui i russi erano la nazionalità dominante. Questa nuova Costituzione prevedeva una complessa struttura istituzionale, al cui vertice stava ancora il Congresso dei Soviet dell'Unione, ma il potere reale era nelle mani del Paitito Comunista, l'unico la cui esistenza fosse prevista dalla costituzione. 20 Il pastito era guidato da un Segretario generale e aveva come organo fondamentale l'ufficio politico del comitato centrale. Il partito era responsabile delle direttive ideologiche e politiche che ispiravano l'azione del govemno; controllava la polizia politica che colpiva gli oppositori, i cosiddetti "nemici del Popolo" e di fatto tutto il potere e il suo apparato centrale e periferico si sovrapponeva a quello dello Stato. Lo sforzo di trasformazione intrapreso dai bolscevichi dopo la conquista del potere non riguardò soltanto le strutture economiche e gli ordinamenti politici, ma si indirizzò soprattutto in due direzioni i due punti e alfabetizzazione di massa e la lotta contro la chiesa ottodossa. L'elevazione dell'obbligo scolastico fino all'età di 15 anni si accompagnò a sostanziali innovazioni nei contenuti e nei metodi di insegnamento e si cercò di collegare la scuola al mondo della produzione, privilegiando l'istruzione tecnica su quella umanistica. Ci si preoccupò nel contempo di formare ideologicamente le nuove generazioni incoraggiando l'iscrizione in massa all'organizzazione giovanile del partito e facendo largo spazio in tutti i livelli di istruzione all'insegnamento della dottrina marxista. Anche la lotta contro la chiesa ortodossa assumevano chiara valenza ideologica, in quanto volta a combattere una visione del mondo incompatibile con i fondamenti in materialisti della dottrina marxista. L'influenza della chiesa non fu del tutto eliminata, ma certo fu drasticamente ridimensionata. Il governo rivoluzionario stabili tra i suoi primi atti il riconoscimento del suo matrimonio civile e semplifica al massimo le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l'aborto e venne proclamata la assoluta parità tra i sessi e la condizione di figli legittimi equiparata a quella dei legittimi. Parecchi intellettuali di prestigio andarono a ingrossare le file dell'emigrazione politica. Ma i più, soprattutto tra i giovani, si gettarono con entusiasmo nell'esperienza rivoluzionaria tentando di trasferirne contenuti e valori nei propri settori di attività. In una prima fase queste tendenze d'avanguardia furono guardate con simpatia o apertamente incoraggiati dalle autorità preposte alla cultura. Anche per questo gli anni del dopo rivoluzione rappresentarono una stagione di intenso sperimentazione, di accesi dibattiti fra le varie correnti e soprattutto di straordinaria fioritura creativa. A partire dalla metà degli anni Venti la libertà di espressione artistica fu sempre più condizionata dalle preoccupazioni di ordine propagandistico e dalla crescente invadenza di un potere politico che diventava di giorno in giorno più autoritario. Le tendenze autoritarie se andarono consolidando con l'ascesa al vertice del Partito Comunista dell'Unione Sovietica del georgiano Iosif Dzugasvili, detto Stalin nominato segretario generale del patito nell'aprile del 1922. Poche settimane dopo, Lenin fucolpito dal primo attacco di quella malattia che lo avrebbe condotto alla morte nel 1924. Da allora si aprì una sempre più scoperta lotta per la successione: il primo grave scontro all'interno del gruppo dirigente ebbe per oggetto proprio il problema della centralizzazione e dell'eccessiva burocratizzazione del partito. A sostenere la necessità di limitare le prerogative dell'apparato fu Trotsky, il più autorevole e popolare dopo Lenin tra i capi bolscevichi, ma anche il più isolato rispetto agli altri leader che respinto le sue critiche alla gestione del partito appoggiando la linea di Stalin. Trotsky riteneva che la Repubblica dei Soviet dovesse estendere il processo rivoluzionario all'interno dell'occidente capitalistico. Contro questa tesi, per cui fu coniata l'espressione "rivoluzione permanente", Stalin sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del socialismo era "possibile e probabile" anche in un solo paese, e che l'Unione Sovietica aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l'ostilità del mondo capitalista. La teoria del "socialismo in un solo paese" rappresentava ‘una rottura con quanto era sempre stato affermato dai bolscevichi, ma si adattava alla situazione reale, che da tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione mondiale, e offriva inoltre al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico. Una volta sconfitto Trotsky, venne meno però il principale legame che teneva uniti i suoi avversari politici. I leader dell'opposizione furono dapprima allontanati dagli organi dirigenti, e poi nel 1927 espulsi dal Partito. Iloro seguaci furono perseguiti e successivamente incarcerati. Trotsky fu deportato 21 in una località dell'Asia centrale e successivamente espulso dall'URSS. Con la sconfitta dell'opposizione di sinistra si chiudeva definitivamente la prima fase della rivoluzione comunista, la fase della costruzione del nuovo stato. Se ne aprirà ora una nuova, caratterizzata dalla continua crescita del potere personale di Stalin e del suo tentativo di portare l'Unione Sovietica alla condizione di grande potenza industriale e militare. Capitolo 3 - Dopoguerra e fascismo in Italia Le tensioni del dopoguerra: Uscita vincitrice della prova più impegnativa della sua storia unitaria, L'Italia si trova a condividere i problemi politici e le tensioni sociali che La grande guerra aveva suscitato in tutta Europa. L'esperienza del primo conflitto mondiale aveva fortemente accelerato il processo di avvicinamento delle masse allo stato, ma lo aveva fatto in modo traumatico, provocando nuove divisioni. Aveva alimentato il rifiuto alla guerra; ma aveva anche generato come negli altri paesi una diffusa assuefazione alla violenza e accentuato la tendenza a risolvere le questioni controverse con atti di forza. Quella che usciva dalla guerra era dunque una società inquietata e attraversata da profonde fratture, unita però da una generale ansia di rinnovamento, una sorta di febbre vendicativa che tendeva a saltare le mediazioni politiche e a spostare il centro delle lotte dal Parlamento alle piazze. Le tensioni sociali erano legate in primo luogo al continuo aumento dei prezzi al consumo. Fra giugno e luglio del 1919 le principali città italiane furono teatro di violenti tumulti contro il caro viveri e non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. Nelle regioni centrali, in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà contadina, erano attive soprattutto le "leghe bianche" cattoliche. L'aspirazione alla proprietà della terra fu poi all'origine di un altro movimento che si sviluppò in forma spontanea nelle campagne del centro-sud: l'occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex-combattenti. Ad agitare la scena italiana dell'immediato dopoguerra ha contribuito anche una cattiva gestione della pace, in quanto l'Italia aveva ottenuto Trento, Trieste e le altre Terre irredente, aveva raggiunto i confini naturali segnati Dalle Alpi, includendo nel suo territorio anche zone non italiane come il Sudtirolo o solo parzialmente italiane come l'istria, ma doveva anche far fronte ad una serie di problemi non previsti al momento della stipula del Patto di Londra, conseguente alla distruzione dell'impero austro-ungarico e con la nascita del nuovo stato jugoslavo: l'Italia infatti avrebbe dovuto annettere la Dalmazia, abitata in prevalenza da slavi, ma allo stesso tempo non era prevista l'amnessione di Fiume, che era a maggioranza italiana. Alla conferenza di Versailles, il Presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino chiesero l'annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, ma quelle richieste incontrano l'opposizione degli alleati, soprattutto quella degli Stati Uniti. Nell'aprile del 1919, per protestare contro l'atteggiamento di Wilson, Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove furono accolti da imponenti manifestazioni patriottiche, ma un mese dopo dovettero tornare a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato. Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando e di nuovo Ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti si trovò ad affrontare una situazione già gravemente deteriorata. Si parlò allora di "Vittoria mutilata"”. La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme ad un gruppo di volontari, sotto il comando di D'Annunzio, occuparono la città di Fiume per 15 mesi. A Fiume D'Annunzio istituì una provvisoria reggenza, dove furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi, come il dialogo tra il capo e la folla, che sarebbero stati ripresi applicati su ben più larga scala dei movimenti autoritari degli anni Venti e Trenta. 22 il PSI per formare il Partito Comunista d'Italia nel 1921. Provato da due anni di lotte e indebolito dalle divisioni interne, il movimento operaio cominciò ad accusare i colpi della crisi che sta investendo l'economia italiana. In questo quadro, in larga parte comune tutta Europa, si inserì un fenomeno che invece non aveva riscontro in nessun altro paese: lo sviluppo improvviso del Movimento fascista. L’ offensiva fascista: Fino all'autunno del 1920, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella politica italiana. Tra la fine del 1920 e l'inizio del 1921 invece il movimento Subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l'originale programma a Radical Democratico, diventando così un organizzazione paramilitare contro le organizzazioni contadine della Valpadana. Questa trasformazione da movimento dei Ceti medi urbani a pastito armato radicato nelle campagne si spiega in parte con una scelta di Mussolini e assecondare l'ondata antisocialista seguita al Biennio rosso; in paticolare con la particolare situazione delle Campagne padane, dove lo squadrismo fascista si sviluppò e dove più forte era la presenza delle Leghe rosse. In 2 anni di lotte aspre quasi sempre vittoriose, le Leghe di molte province padane non solo avevano ottenuto notevoli miglioramenti, ma avevano creato anche un sistema apparentemente inattaccabile: attraverso i loro uffici di collocamento, controllato nel mercato del lavoro punto il sistema non era privo di effetti autoritari e celava al suo intemo non poche contraddizioni: prima tra tutte il contrasto fra la strategia delle organizzazioni Socialiste e gli interessi delle categorie intermedie, ossia dei piccoli affittuari o dei salariati fissi stabilmente impiegati nell'azienda agraria, che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei Lavoratori giornalieri e a trasformarsi in proprietari. Fu l'offensiva fascista ad aprire le prime brecce nell'edificio delle organizzazioni rosse. Il 21 novembre 1920 a Bologna gli squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia di insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Per un tragico errore i socialisti incaricati di difendere il palazzo sede del comune, gettarono bombe a mano sulla folla, composta in gran parte dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. L'incertezza e la vulnerabilità socialisti a crebbe l'audacia degli avversari. I proprietari terrieri scoprirono allora nei fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle Leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Anche i figli della piccola borghesia erano alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica, in quanto non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra ma attraverso i Fasci trovavano l'occasione per combattere una loro battaglia contro quelli che consideravano i nemici del Popolo. L'offensiva ebbe ovunque le stesse caratteristiche: le squadre d'azione, inquadrate militarmente, partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le campagne, verso i centri rurali. Obiettivo delle spedizioni non erano solo le sedi dell'amministrazione, ma anche le persone stesse, dirigenti e militanti socialisti, che sottoposti a ripetute violenze in qualche caso venivano uccisi in qualche altro caso erano costretti a lasciare il loro paese. Centinaia di leghe furono così sciolte e molti dei loro aderenti passarono, per scelta o per costrizione, alle nuove organizzazioni costruite dagli stessi fascisti, che permettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà. Il successo dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine militare, né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, primo fra tutti quello di ferire i sentimenti patriottici dei ceti medi e di spaventarli con una promessa di una prossima e cruenta resa dei conti rivoluzionaria. Raramente in realtà la forza pubblica si oppose con efficacia alle azioni squadristi che punto la stessa magistratura adottò nei loro confronti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi di sinistra, ma pesanti furono anche le responsabilità del governo: Giolitti infatti, pur evitando di favorire 25 apertamente lo squadrismo, pensò di servirsi del Movimento fascista per ridurre a più miti pretese i socialisti e di poterlo in seguito assorbire nella maggioranza liberale. Mussolini alla conquista del potere: Nelle elezioni del maggio 1921 il disegno di Giulietti si concretizzò con l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè delle liste di coalizione in cui i gruppi costituzionali si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. I fascisti e tenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, Senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali tipici dello squadrismo. I socialisti subirono una limitata flessione, mentre popolari si rafforzarono e i gruppi liberaldemocratici migliorano la loro posizione, ma non tanto per acquistare il completo controllo del parlamento. In definitiva, La maggior novità fi costituita Dall'ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiata da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di un nuovo arbitro della politica nazionale. Il successore di Giolitti, l'ex socialista Ivanoe Bonomi tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d’armi tra le due parti in lotta. Nell'agosto 1921, fu In effetti firmato un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti in cui le due paiti si impegnano a rinunciare alla violenza e a sciogliere le loro formazioni Armate. Questa strategia non era però condivisa dei fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti Ras. Essi sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione l'autorità di Mussolini. Mussolini si rese conto di non poter fare a meno della massa d'uto e dello squadrismo Agrario e sconfessò così il patto di pacificazione, guadagnando così il riconoscimento della guida politica di Mussolini da paste dei Ras, che accettarono anche la trasformazione del Movimento fascista in un vero e proprio partito. Nasceva così nel 1921 il partito Nazionale fascista, che poteva contare su una base di oltre 200.000 iscritti, in gran paite nelle regioni del centro-nord. Il Ministero Bonomi cade nel febbraio del 1922 e fu sostituito da Luigi Facta, un giolittiano di scarsa autorevolezza. Il governo non mise alcun freno alla violenza fascista che si rese protagonista di operazioni sempre più ampie e clamorose, mentre il movimento operaio non seppe opporre attacco allo squadrismo. Ai primi di ottobre del 1922 in un congresso tenuto a Roma, i riformisti guidati da Turati abbandonarono il psi per formare il nuovo partito socialista unitario. Sconfitto il movimento operaio, il fascismo doveva porsi il problema della conquista dello Stato. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo e rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane, guadagnandosi il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata. Dall'altro lato però lasciò che l'apparato militare del Fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di stato. Prese così corpo il progetto di una marcia su Roma, con obiettivo la conquista del potere centrale. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna Possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto agguetrtite, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate e equipaggiate in modo approssimativo, non certo in grado di affrontare lo scontro con un esercito regolare. Spaventato dalla prospettiva di una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre 1922, il giorno fissato per la marcia fascista sulla capitale, di firmare il decreto per la proclamazione dello Stato d'assedio che era stato preparato In tutta fretta dal governo Facta, già dimissionario. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada per la capitale e al loro capo la via del poter: forte della resa ottenuta, Mussolini non si accontentò della soluzione auspicate dal re e dagli ambienti moderati, ma chiese ed ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre 1922, mentre gli squadristi entravano nella capitale senza incontrare alcuna 26 resistenza da parte della forza pubblica, Mussolini fu ricevuto dal re e la sera stessa il nuovo Ministero era già pronto. Ne facevano parte esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti govemi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e Popolari. I fascisti gridarono al trionfo e si convinsero di avere attuato una rivoluzione che in realtà era stata soltanto simulata. I moderati si rallegrarono perché la legalità costituzionale, violata nei fatti, era stata rispettata almeno nelle forme. I rivoluzionari si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza, dal momento che ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe. Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione e pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime. Verso il regime: Salito al potere con una finta rivoluzione, Mussolini con 35 Deputati non disponeva di una sua maggioranza alla Camera, ma riuscì ugualmente a consolidare il suo potere grazie anche al sostegno delle forze moderate, liberale e cattoliche. Nel dicembre 1922 fu istituito il Gran Consiglio del Fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo tra paitito e Governo. Nel gennaio 1923 le squadre fasciste vennero inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: un corpo armato di patito che aveva come scopo dichiarato quello di "proteggere gli inesorabili sviluppi della rivoluzione di" ma anche quello di disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei Ras. L'istituzionalizzazione della Milizia non servì peraltro far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la repressione legale della Magistratura e degli organi di polizia. Le vittime principali furono i comunisti e dunque l'azione combinata di queste azioni ebbe conseguenze disastrose per le organizzazioni del Movimento operaio. Il numero degli scioperi scese nel 1923 a livello insignificanti, mentre salari reali subirono una costante riduzione, e avvicinandosi ai livelli dell'anteguerra. Per quanto riguarda la sfera economica, fu alleggerito il carico fiscale sulle imprese e privatizzato il servizio telefonico, nonché contenuta la spesa statale con un energico sfoltimento dei dipendenti pubblici. Sul piano economico e finanziatio, la politica liberista ottenne discreti successi: fra il 1922 e il 1925 vi fu un notevole aumento della produzione e il bilancio dello Stato tomò in pareggio. Il risultato era in buona parte dovuto all'opera degli ultimi ministeri liberali, ma valse ugualmente a rafforzare il governo e rinsaldare i legami tra il potere economico e fascismo. Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa Cattolica in cui stavano riprendendo il sopravvento le tendenze conservatrici punto per molti cattolici il fascismo aveva il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista. La riforma scolastica varata nel 1923 dall'allora ministro Giovanni Gentile prevedeva l'insegnamento della religione nelle scuole elementari e l'introduzione di un esame di stato al termine di ogni ciclo di studi: una misura da tempo richiesta dei cattolici, in quanto metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e private. Nell'aprile dello stesso anno Mussolini impose le dimissioni dei ministri popolari dal suo governo e poco dopo, Don Sturzo, sotto le persone del Vaticano, lasciò la segreteria del Partito Popolare italiano. Liberatosi del più scomodo tra i suoi alleati, Mussolini aveva il problema di crearsi una sua maggioranza parlamentare, affermando al tempo stesso la posizione di preminenza del Fascismo. Questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, detta legge Acerbo, che avvantaggiava vistosamente la lista che avessi ottenuto la maggioranza relativa con almeno il 25% dei voti, assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando all'inizio del 1924 la camera fu sciolta, molti esponenti liberali e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme a fascisti nelle liste nazionali presentati in tutti i collegi col simbolo del fascio. 27 La diffusione della produzione in serie e i miglioramenti nell’organizzazione del lavoro in fabbrica favorirono un notevole aumento della produttività e dei salari. Contemporaneamente, diminuiva il numero degli occupati dell’industria. Crebbe invece l'espansione delle funzioni organizzative e burocratiche, l'occupazione nel settore terziario, mentre la diffusione fra i ceti medi di beni riservati a pochi faceva degli Stati Uniti il simbolo di nuovi modi di vivere e nuovi modelli di consumo. Irepubblicani rimasero al potere per tutti gli anni ‘20 ed alimentarono le aspettative ottimistiche sulla crescita della prosperità americana, senza preoccuparsi dei problemi sociali che c'erano nel paese. Vennero introdotte leggi limitative dell’immigrazione che, oltre a sostenere la politica isolazionista e protezionista intrapresa in quegli anni, aveva lo scopo di preservare i caratteri etnici della popolazione bianca e impedire la diffusione di ideologie sovversive di origine europea. Il punto culminante di questa reazione fu il caso Sacco e Vanzetti: Nicolò Sacco e Bartolomeo Vanzetti erano due italiani che, abitavano in Ametica, durante una rapina a mano armata vengono accusati, processati e condannati a morte. Il vero motivo era che i due erano prima di tutto anarchici, con idee di sinistra, e per giunta erano anche stranieri. Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione nera: la setta del Ku Klux Klan raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni di una organizzazione di massa. Lo stesso proibizionismo - divieto di fabbricare e vendere alcool, introdotto nel 1920 e rimasto in vigore fino al 1934 - scaturì da questo retroterra culturale, poiché l'ubriachezza era ritenuta un vizio dei neri o dei proletari. Nonostante ciò, la borghesia rimaneva fiduciosa in una moltiplicazione della propria ricchezza. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della Borsa di Wall Street. Incoraggiati dalla prospettiva di facili guadagni, i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle poi ad un prezzo maggiorato, facendo assegnamento sulla continua ascesa delle quotazioni sostenuta dalla crescente domanda dei titoli. Nel settembre del 1929 questa crescita rallenta. L’industria statunitense aveva aumentato l'esportazione nel resto del mondo, in paiticolare in Europa. Si era venuto a. creare un rapporto di interdipendenza tra economia europea ed economia americana: il cospicuo afflusso di prestiti, l’ America finanziava la ripresa dell'Europa e quest’ultima, a sua volta, con le sue importazioni alimentava lo sviluppo degli USA. Quando nel ‘28, molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizi operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull’economia europea si fecero subito sentire, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale americana. Il valore dei titoli di Wall Street, nel settembre del 1929, raggiunse dei livelli molto elevati. Seguirono alcune settimane di incertezza, durante le quali cominciò ad emergere la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fino ad allora ottenuti. La corsa alle vendite determinò una precipitosa caduta del valore dei titoli (ad esempio il 24 ottobre - giovedì nero). A metà novembre le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti più ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente sull’intera economia nazionale: le industrie chiudevano e i dipendenti venivano licenziati; i lavoratori disoccupati erano costretti a ridurre i consumi; il mercato diventava sempre meno florido e provocava il crollo di altre imprese e così via. Il dilagare della crisi: La crisi innescata al crollo del 1929 raggiunse in poco tempo un’estensione mai vista in precedenza. La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo (fatta eccezione l'Unione Sovietica), presentandosi ovunque gli stessi meccanismi. Fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminui del 30% e quella delle materie prime del 26%; i prezzi caddero bruscamente. 30 La diffusione della crisi era il risultato delle strette relazioni commerciali e finanziarie che univano le diverse parti del mondo fra loro, rendendole tutte dipendenti l’una dall’altra. L’inasprimento del protezionismo statunitense indusse molti paesi ad adottare misure analoghe. Molti stati svalutarono le loro monete, per rendere competitivi i prezzi delle loro merci e favorire le esportazioni. Anche in questo caso si avviarono delle reazioni a catena che ebbero l’effetto di rendere altamente instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. Anche i paesi meno sviluppati (America Latina, Asia, Africa) pagarono il prezzo della crisi. Le loro economie si basavano in larga parte sull’esportazione di prodotti agricoli e materie prime verso i paesi più ricchi e furono fortemente penalizzate dalle politiche protezionistiche. In quel periodo, il divario tra i paesi ricchi e quelli meno sviluppati toccò una delle sue punte massime. Dopo l’inizio della crisi igovemi dei paesi più industrializzati provarono a mettere a punto soluzioni per fronteggiare le emergenze. Gli incontri internazionali, tuttavia, non portarono alcun risultato. La crisi più grave fino ad allora sperimentata in età contemporanea fu affrontata senza meccanismi di controllo e di governo adeguati. Il mondo, venti anni dopo la prima guerra mondiale, appariva frammentato da muovi confini, barriere doganali e linee di separazione. La crisi in Europa: In Europa si ebbe una crisi finanziaria importante, con la sue prime manifestazioni in Austria e Germania, dove il fallimento di alcune banche portò al crollo del sistema del credito. I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono un allarme anche per le finanze del Regno Unito e sulla tenuta della sterlina. Le banche dovettero far fronte ad un precipitoso ritiro dei capitali stranieri. Nel settembre del 1931 fu sospesa la convertibilità della sterlina in oro e la moneta fu svalutata. Con l’inizio della crisi tutti igovemi si preoccuparono di mettere in ordine i bilanci statali e ridurre il deficit tagliando la spesa pubblica: riducendo gli stipendi dei dipendenti pubblici, diminuendo le prestazioni sociali e imposte nuove tasse. Questi provvedimenti compressero ulteriormente la domanda interna. In Germania le conseguenze della crisi furono importanti. La crisi mise in difficoltà il govemo di coalizione (allora guidato dai socialdemocratici) provocando ‘un dissenso insanabile fra questi ultimi e i paititi di centro-destra sui sussidi di disoccupazione e su altre prestazioni sociali (che i moderati volevano ridimensionare). Alla caduta del governo, il nuovo cancelliere Heinrich Bruning, attuò una severa politica di sacrifici. Lo scoppio fu in parte raggiunto quando nel 1932 una Conferenza internazionale ridusse sensibilmente l’entità delle riparazioni e ne sospese il versamento per tre anni. In Francia la crisi giunse in ritardo ma durò più a lungo anche perché i govemi vollero legare il loro prestigio alla difesa della moneta nazionale. Qui la crisi economica coincise con un periodo di instabilità politica. In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay MacDonald cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva un drastico taglio del sussidio dei disoccupati. Questo programma incontrò l’opposizione delle Trade Unions. A quel punto, nell'agosto del 1931 MacDonald ruppe i rapporti con il suo partito e si uni ai liberali conservatori per la formazione di un “govemo nazionale” di cui egli assunse la presidenza. Sotto questo governo la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la sua tradizione liberoscambista, adottando un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nell’ambito del Commonwealth. 31 A partire dal 1933 l’economia europea cominciò a manifestare sintomi di miglioramento, sebbene la ripresa della maggior parte dei paesi tu molto lenta. Il New Deal di Roosevelt: Nel novembre del 1932 si tennero le elezioni presidenziali in america. Il presidente uscente, Hoover (repubblicano), non aveva conseguito alcun successo nella risoluzione della crisi e fu sconfitto dal democratico Franklin Delano Roosevelt (governatore dello Stato di New York). Roosevelt fu un presidente in grado di interagire con il suo popolo e questo si vide fin dalla sua campagna elettorale; apri anche un canale di comunicazione con i cittadini attraverso una trasmissione radiofonica, “Conversazioni al caminetto”, dove illustrava le sue scelte. Nel discorso che aveva ufficializzato la sua candidatura (2 luglio 1932) Roosevelt annunciò di voler inaugurare un New Deal (nuovo corso) nella politica degli USA: un nuovo corso che si sarebbe caratterizzato soprattutto per un intervento dello Stato nei processi economici. Il New Deal fu avviato nei primi mesi della presidenza Roosevelt con una serie di provvedimenti per arrestare il corso della crisi: si cercò di risanare il sistema creditizio; furono facilitati i prestiti; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e fu svalutato il dollaro per rendere competitive le esportazioni. Vennero prese una serie di provvedimenti dal governo: - Agricoltural Adjustment Act (Aaa): per limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo; - National Industrial Recovery Act (Nira): imponeva alle imprese dei codici di comportamento volti ad evitare una concorrenza troppo accanita e a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori. - Tennessee Valley Authority (Tva): un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato. Se l’esperienza e della Tva rappresentò per Roosevelt un momento di successo, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e contraddittori. Il calo della produzione agricola previsto dall’ Aaa causò l'espulsione delle campagne di vaste masse di lavoratori. Alla fine del 1934 gli investimenti erano ancora stagnanti, mentre i disoccupati erano quasi 11 milioni. Il govemo federale decide di allargare il flusso della spesa pubblica, nella convinzione che ciò avrebbe favorito l'aumento della produzione del reddito. Nel 1935 furono varate ‘una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale e una nuova disciplina dei rapporti di lavoro, che garantiva il libero svolgimento dell’azione sindacale. Con le sue misure progressista in campo sociale Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento sindacale. D'altra parte, le novità del new deal, e i suoi risultati non sempre brillanti diedero spazio al formarsi di un’ampia qualità Sioni coalizione avversa al presidente. Tra il 1935 il 1936 la coste suprema degli Stati Uniti cercò di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando l’incostituzionalità del Nira e dell’Aaa. Roosevelt reagi ripresentando con lievi modifiche le leggi bocciate. L'azione di Roosevelt non riuscì completamente a seguire il fine ultimo che si era posto: ridare slancio all’iniziativa economica dei privati. Per tutti gli anni 30 l'economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico. Sarebbe giunta una vera ripresa nonché alla piena occupazione solo durante la seconda guerra mondiale. Il nuovo ruolo dello Stato: Prima dello scoppio della crisi, l’intervento dei poteri pubblici in economia era stato a favore dell’industrializzazione. La cultura dominante fra gli economisti e gli statisti dei paesi industrializzati, però, considerava queste forme di intervento come una conseguenza di specifiche situazioni o di supporto che doveva rendere sconrevole il funzionamento del mercato. 32 Continuò la stagione delle grandi correnti d’avanguardia che trovarono un pubblico ampio e disponibile. Ai movimenti che già si erano affermati prima della guerra (cubismo, astrattismo, espressionismo) se ne aggiunsero altri, come il surrealismo. Nessuna delle correnti che si diffusero nel primo dopoguerra giunse ad affermarsi sulle altre, tanto da essere rappresentativa di un’epoca. Nel periodo fra le guerre furono pubblicati anche alcuni trai più grandi capolavori del ‘900: alla ricerca del tempo perduto di Proust, l'Ulisse di James Joyce, la montagna incantata di Thomas Mann e molti altri. Queste opere sono accomunate dalla volontà di rappresentare le angosce dell’uomo del ‘900. Un ulteriore elemento di crisi e di disgregazione della cultura europea furono le diverse ideologie politiche. Negli anni fra le due grandi guerre fu un fenomeno più esteso e carico di implicazioni. Gli intellettuali furono chiamati a testimoniare, a prendere posizione su singoli problemi, furono mobilitati e spesso utilizzati da parte dei governi. Gli intellettuali si divisero in due schieramenti politico-ideologici: la cultura liberale aveva i suoi punti di riferimento in Benedetto Croce e Thomas Mann, i comunisti Picasso e Maskim Gor”kij, la destra autoritaria Giovanni Gentile e Matin Heidegger, ma anche il poeta statunitense Ezra Pound. La cultura europea subì anche le conseguenze dell’avvento dei regimi totalitari. La dittatura staliniana provocò la scomparsa di una parte dell’intellettualità russa, il regime nazista costrinse centinaia di intellettuali ad esiliare, soprattutto ebrei. Molti si rifugiarono in Francia, in Gran Bretagna e in Svizzera, ma anche negli Stati Uniti. Capitolo 5 - L'Europa degli anni ‘30: totalitarismi e democrazie L’ eclissi della democrazia: Negli anni trenta del Novecento, in coincidenza col dilagare della crisi economica, la democrazia ha vissuto la sua stagione più buia e rischio addirittura di vedere le sue istituzioni e le sue culture cancellate dell'Europa continentale, anche dai Paesi in cui sembrava avere basi più solide. Con la grande crisi del 1929, con i successi del nazismo in Germania e con la crescita generalizzata dei movimenti antidemoctratici soprattutto in Europa orientale, si capì che il male era più profondo. In ampi strati dell'opinione pubblica infatti si era diffusa la convinzione che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini. I regimi autoritari di destra conobbero negli anni trenta il loro periodo di maggior fortuna: sia sotto la veste delle dittature reazionarie di tipo tradizionale, sia nelle forme più modeme del Fascismo italiano e poi del nazismo tedesco. Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che convenzionalmente chiamiamo fascisti era il tentativo di proporsi come artefici di una vera e propria rivoluzione, di dar vita a un nuovo ordine politico e sociale, diverso da quelli conosciuti fino ad allora. Sul piano dell'organizzazione politica, fascismo significava accentramento del potere nelle mani del Capo; sul piano economico, il fascismo si vantava di avere inventato una terza via tra il capitalismo e il comunismo: ma questo modello non riuscì mai a prendere corpo e l'unica vera novità in questo campo consiste nella soppressione della libera dialettica sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell'intervento statale nell'economia. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di certezze e ai piccolo-borghesi delusi dalla democrazia e spaventati dalla alternativo comunista, le nuove dittature parevano offrire una prospettiva nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere ad una comunità e di riconoscersi in 35 un capo, la convinzione di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito e l'indicazione di un nemico cui attribuire ogni possibile colpa. Tutto ciò rappresenta una sorta di protezione contro il senso di schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di massificazione. Questa capacità di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi meccanismi costituì una caratteristica specifica del Fascismo e del nazismo, ma anche di un regime di opposta matrice ideologica e sociale come quello sovietico nell'età di Stalin: fu insomma proprio di tutti quei regimi che, per loro pretese di dominare in modo totale la società, di condizionare non solo i comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono stati definiti totalitari. Totalitarismo e politiche razziali: Un elemento caratterizzante dei regimi totalitari sulla scarsa o nulla considerazione del valore della vita umana e della dignità dell'individuo. Mai come in questa fase della storia Europea si affermò la tendenza a risolvere i problemi col ricorso sistematico alla forza, con le deportazioni e i campi di concentramento, infine con lo sterminio di intere popolazioni o gruppi sociali. Queste pratiche non erano del tutto estranee all'Europa di inizio 900, ma il salto qualitativo si ebbe con la Prima Guerra Mondiale, che non solo produsse una generale assuefazione alla moite di massa, ma abituò i gruppi dirigenti e le opinioni pubbliche a ragionare in termini di salute e di efficienza collettiva più che di benessere dei singoli. Infine, la controversa applicazione del principio di nazionalità creò nuovi problemi di convivenza fra gruppi etnici. Tutto ciò ho contribuito a creare un atteggiamento diffuso, quasi un senso comune che vedeva nella comunità Nazionale non tanto un insieme di individui, quanto un'entità collettiva, un organismo unico la cui integrità andava tutelata ogni costo, anche a prezzo dell'esposizione di un qualsiasi corpo estraneo o dalla imputazione di presunte parti malate. In questo quadro si spiega la rinnovata fortuna dell'eugenetica, una teoria che sosteneva la necessità di ‘un perfezionamento non spontaneo della specie umana attraverso pratiche simili a quelle adottate per gli animali e per le piante. Alcune delle sue applicazioni e più inquietanti furono adottate per la prima volta nei decenni del 900, dei poteri pubblici in piedi democratici, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e i paesi scandinavi (non in quelli a maggioranza Cattolica, per la decisa opposizione della Chiesa). Nella Germania nazista l'adozione di misure di sterilizzazione forzata e poi di soppressione di individui malati si inquadrava nel progetto di una società basata sulla purezza della razza eletta e sulla vocazione al dominio; ciò suonava come minacciosa premessa alle deportazioni e allo sterminio razziale che sarebbero state praticamente ai danni degli ebrei negli anni del secondo conflitto mondiale. Diverse nelle motivazioni Ma analoghe le conseguenze furono le politiche di sterminio adottate nell'Unione Sovietica di Stalin: qui le vittime erano scelte su basi ideologiche e di classe, ma anche intere popolazioni furono deportate e in larga paite sterminate perché ritenute in blocco politicamente infide. L’ ascesa del nazismo: Fino al 1930 il patito nazionalsocialista rimase un gruppo minotitario il marginale, che fondava la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione armata: le SA. Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato di dare al partito un volto più rispettabile ma non aveva affatto rinunciato al nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del Trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi non ha nuova grande Germania e l'adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del parlamentarismo corruttore. I suoi progetti a lungo termine Hitler le aveva esposti con molta chiarezza in un libro dal titolo Mein Kampf. Al centro dei piani hitleriani c'era un utopia nazionalista e razzista, dal momento che Hitler 36 credeva nell'esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella Ariana, progressivamente inquinata dalla commistione con le razze inferiori. I caratteri originali dell'arianesimo si erano per noi conservati solo nei popoli nordici, in paiticolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dovuto dominare sull'Europa e sul mondo. Una volta ricostituita la propria unità in un nuovo Stato, attomo ad un capo in grado di interpretare i bisogni profondi del Popolo, i tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi ad est a danno dei popoli slavi, considerati anch'essi inferiori. La ricerca dello spazio vitale a oriente avrebbe permesso di far coincidere l'espansione territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo. Questo programma, in apparenza irrealistico, abbiamo trovato scarsi consensi nella Germania di ‘Weimar, ma con lo scoppio della grande crisi economica, la maggioranza dei tedeschi perse fiducia nella Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. In questa situazione i nazisti potevano uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della grande borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Ai suoi concittadini provate dalla crisi Hitler offriva non solo la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della nazione Tedesca, ma anche l'immagine tangibile di una forza politica in grado di ristabilire l'ordine contro i traditori e i nemici interni. Lagune della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il cancelliere Heinrich bruning convocò muovi elezioni in cui i nazisti è vero uno spettacoloso incremento, dal 2,5 al 18,3% dei voti. L'aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che i partiti fedeli alla Repubblica non disponevano più della maggioranza. Il Ministero continuò a governare per altri 2 anni grazie al sostegno del vecchio Presidente Hindenburg, ma in quei due amni le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andava precipitando. Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice e i senza lavoro raggiunsero i 6 milioni: ciò significava che la disoccupazione toccava direttamente o indirettamente la metà delle famiglie tedesche. Il dissesto economico e l'esplodere della violenza andarono di pari passo con il collasso del sistema politico. Si cominciò, nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici non trovarono di meglio che appoggiare la rielezione del 85enne maresciallo Hindenbug, il quale una volta confermato alla carica, cedette alle pressioni dei militari e della grande industria, congelando il primo ministro Bruning e cercando la via d'uscita dalla crisi prendendo atto dello spostamento a destra dell'asse politico. A guidare il governo furono chiamati i due uomini della destra conservatrice, il Cattolico Franz von Papen e poi il generale Kwit von Schleicher, consigliere personale del presidente. Nelle due successive elezioni politiche che Papen invece convocare Nella vana speranza di procurarsi una maggioranza, i nazisti affermarono il proprio potere ottenendo il 37% dei voti di luglio. I gruppi conservatori, l'esercito e lo stesso Hinderburg finirono col convincersi che senza di loro non era possibile govemare. Il 30 gennaio 1933 Hitler fu convocato dal Presidente della Repubblica e accettare di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su 11 e in cui rappresentare le più importanti componenti della destra. Si sarebbero presto resi conto di aver commesso un grave errore. La costruzione del Regime: Per trasformare lo Stato liberale in una dittatura monopartitica Mussolini aveva impiegato circa 4 anni punto A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un regime pienamente totalitario. L'occasione per ‘una prima stretta depressiva offerta da un episodio drammatico quanto oscuro: l'incendio appiccato alla sede del Reichstag, una settimana prima della data fissata per un nuovo consultazione elettorale. L'arresto di un comunista olandese, indicato come l'autore materiale dell'incendio, fornì al governo il pretesto per un imponente operazione della polizia contro i comunisti punto nelle successive elezioni del 5 marzo i nazisti ottennero un numero di voti, pari al 44%, che unite a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un'ampia base parlamentare. 37 Oltre a sfruttare i nuovi mezzi di comunicazione di massa, il potere nazista seppe utilizzare in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi da feste e cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo e soprattutto adunate di massa culminanti nel discorso del Fuhrer o di altri dirigenti. Nella grande adunata il cittadino trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita delle grandi città non offriva spontaneamente; trovava quegli elementi “sacrali” che aveva perso col tramonto della vecchia società contadina, il cui ritmo era appunto scandito da feste e da riti. L’URSS e l'industrializzazione forzata: Negli ultimi anni della grande depressione e del fascismo trionfante, lavoratori e intellettuali antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e speranza nell'Unione Sovietica. Mentre gli Stati capitalistici si dibattevano nelle spire della grande crisi, l’Urss, in virtù del suo stesso isolamento economico, non ne era affatto toccata, anzi si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo di industrializzazione. La decisione di forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all’esperienza della Nep fu presa da Stalin tra il ‘27 e il ‘28, subito dopo la definitiva sconfitta di quell’opposizione di sinistra che proprio sulla priorità dell’industrializzazione aveva impostato la sua battaglia. L’idea dell’industrializzazione come presupposto insostituibile della società socialista si univa alla convinzione, forte soprattutto in Stalin, che solo un deciso impulso all’industria pesante avrebbe potuto fare dell’Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche. Il primo e più importante ostacolo alla costruzione di un’economia totalmente collettivizzata e altamente industrializzata fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i Au/aki, accusati di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta e di venderla sul mercato arricchendosi alle spalle del popolo. A partire dall’estate 1929 i Ku/aki furono espropriati di terre, bestiame e mezzi di produzione e inquadrati a forza nelle fattorie collettive, i cosiddetti Kolchozy. Queste misure avevano l’obiettivo di “eliminare i Xu/aki come classe” e di procedere immediatamente alla collettivizzazione del settore agricolo. Contro questa linea prese posizione Nikolaj Bucharin, numero due del regime e convinto teorico della Nep. Bucharin e i suoi seguaci, condannati nel 1930 come “deviazionisti di destra”, subirono una sorte analoga a quella dell'opposizione “di sinistra”. E il gruppo dirigente comunista procedette sulla via della collettivizzazione forzata, senza arretrare dinanzi alla prospettiva di un’evitabile, sanguinosa repressione. Migliaia furono i fucilati dopo processi sommati. Agli effetti della repressione si sommano quelli di una nuova spaventosa carestia. Culminata negli anni 1932-33, e a lungo nascosta al mondo, la nuova carestia fu determinata da una serie di fattori concomitanti: l'inefficienza di una macchina organizzativa troppo grande troppo centralizzata per tener conto delle situazioni locali; la resistenza dei contadini che preferirono macellare subito il bestiame piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive; ma anche la cinica determinazione delle autorità centrali che non solo non aiutarono in alcun modo la popolazione affamata, ma insistettero nella politica delle requisizioni, decise Come erano a stroncare con tutti i mezzi ogni possibile resistenza. Gli effetti furono terribili in termini di questi umani: tra 1929 e il 1933 i kKulaki, che in tutta l'URSS erano circa 5 milioni, scomparse non solo come classe, Ma in gran parte anche come persone fisiche. Il vero scopo di quella che lo stesso Stalin definì una rivoluzione dall'alto era però favorire l'industrializzazione del paese mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Il primo piano quinquennale per l'industria, varato nel 1928, fissava infatti una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire, frutto più di una decisione politica che di un calcolo economico. Col secondo piano quinquennale, la protezione aumento del 120% e numero degli operai giunse a toccare i 10 milioni. 40 Questi risultati furono consentiti non solo da una straordinaria concentrazione di risorse ma anche dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia attorno agli obiettivi del piano e che permise ai Lavoratori dell'industria di sopportare sacrifici pesanti, anche se non paragonabile a quelli dei contadini, in termini di consumi individuali ed i ritmi lavorativi. Il caso del minatore del bacino del Don, Stakanov, diventato famoso per aver estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben 14 volte quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di esaltazione del lavoro, detto appunto stacanovismo, sostenuto dalle autorità ed è saltato da Stalin. L'Eco di questi successi varcò i confini dell'URSS galvanizzando i comunisti di tutto il mondo, che ne trassero auspici per un prossimo trionfo della rivoluzione nell'occidente capitalistico. Intellettuali allora lontani dai partiti comunisti ne divennero simpatizzanti o aderenti. Pochi immaginarono le reali dimensioni della tragedia che si era consumata nelle campagne, e pochi si resero conto che il clima creatosi nel paese in coincidenza con lancio dei piani quinquennali era il più adatto ad accentuare i tratti totalitari del regime e la crescita del potere assoluto di Stalin. Lo stalinismo, le grandi purghe, i processi: Sorretto da un onnipotente apparato burocratico e poliziesco infine con la assumere un ruolo di Capo assoluto, non diverso da quello svolto nello stesso periodo dei dittatori di opposta sponda ideologica. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo ed ogni critica, da qualunque parte avanzata, assumere i caratteri odiosi del tradimento. Le stesse attività intellettuali dovevano inspirarse le direttive del capo e dei suoi interpreti autorizzati: uno di questi, Zdanov, sarebbe assurdo alla fine degli anni trenta al ruolo di controllore di tutto il settore culturale. La storia recente fu riscritta per mettere meglio in luce il ruolo di Stalin e cancellare quello di Trotskij e degli altri oppositori sconfitti ed emarginati alla fine degli anni Venti. Persino il settore delle Scienze Naturali fu messo sotto controllo e scienziati illustri furono perseguitati per aver sostenuto teoria giudicate non ortodosse. Questa deriva totalitaria era in parte già implicita nei caratteri del bolscevismo e nella prassi autoritaria inaugurata da Lenin subito dopo la presa del potere. Ma Stalin introdusse nella gestione di questo sistema elementi di spietatezza e arbitrio, eliminando buona parte del gruppo dirigente comunista e tutti i colori che considerava rivali reali o potenziali. Fece così sparire assieme a loro migliaia di quadri dirigente del Partito e un numero incalcolabile di semplici cittadini sospetti di deviazionismo o soltanto invisi alla polizia politica. Nel 1934, L'assassinio di Sergej Kirov, astro nascente del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto per un imponente ondata di arresti che colpirono in larga misura gli stessi quadri del partito. Si trattò di una gigantesca repressione poliziesca che fu condotta nell'arbitrio più assoluto: milioni di persone, spesso senza neanche conoscere le accuse a loro carico, furono deportate nei numerosi campi di lavoro disseminati nelle zone più inospitali dell'URSS e chiamati con il termine tedesco di lager. Ancora peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposte pubblici processi, formalmente regolari ma in realtà basati su confessioni estorte con la tortura. In questo modo furono eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin ma anche molti stretti collaboratori del dittatore, inghiottiti dalla stessa macchina che avevano contribuito a creare. Lo stesso Trotsky Fu ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin. Fra l'inizio della collettivizzazione e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il conto totale delle vittime ammontò a 10-11 milioni. Le Grandi purghe e i processi degli anni 30 provocarono notevole impressioni in Occidente. Nel complesso però la denuncia dello stalinismo non ebbe grande rilievo negli elementi democratici e socialisti. Lo impedivano la scarsità di informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi ideologici e soprattutto le remore politiche: troppo prezioso era il contributo dell'Unione Sovietica e del Comunismo intemazionale alla lotta contro il fascismo. Così l'immagine di Stalin 4 riuscì a passare indenne attraverso il drammatico periodo delle persecuzioni di massa e il regime comunista sovietico continua a esercitare il suo fascino su un milione di lavoratori europei. Le prime iniziative hitleriane in politica estera, a cominciare dal ritiro dalla Società delle Nazioni, rappresentarono una minaccia all'equilibrio intemazionale costruito negli anni Venti. A paitire dal 1935 la causa della sicurezza collettiva trovava un sostegno nella nuova politica estera Sovietica, che si riflette nella linea dettata ai partiti comunisti della terza Internazionale: in nome della lotta al fascismo fu incoraggiata la formazione di alleanze tra i comunisti e le forze Socialiste e democratico Borghesi. Nel 1936 governi di fronte popolare si formarono prima in Spagna e poi anche in Francia sotto l'audio del socialista Leon Blum, che cade però l'anno successivo senza essere riuscito a postare a termine il suo programma di riforme sociali. Tra il 1936 e il 1939, la Spagna fu sconvolta da una sanguinosa guerra civile: un conflitto basato su una forte contrapposizione ideologica che presto si trasformò in uno scontro tra democrazia e fascismo, tra rivoluzione sociale e reazione conservatrice. Alla vittoria del fronte Popolare segui una ribellione militare. I golpisti, guidati dal Generale Franco, ebbero il decisivo appoggio di Italia e Germania, mentre i repubblicani poterono contare solo su rifornimenti sovietici e sui reparti di volontari antifascisti, le Brigate Internazionali. Nel 1939 la guerra civile terminò con la vittoria di Franco grazie anche alle profonde divisioni esistenti all'interno del fronte repubblicano, soprattutto tra comumisti e anarchici. L’Europa verso la guerra: I piani hitleriani non comportavano necessariamente una guerra contro le potenze occidentali. Al contrario, Hitler spero fino all'ultimo di poter evitare uno scontro con la Gran Bretagna, a patto naturalmente che la Gran Bretagna lasciasse campo libero alle mire tedesche in Europa centro-orientale. Nel 1937 la guida del govemo ingles fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che fu chiamata la politica della pacificazione: una politica basata sul presupposto che fosse possibile ammansire Hitler accontentandolo nelle sue rivendicazioni più ragionevoli. La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain venne da un esigua minoranza di conservatori che facevano capo a Wiston Churchill, convinti che l'unico modo per fermare Hitler fosse quello di oppoiti con decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di affrontare subito a una guerra punto quanto alla Francia, e sto qua attraversata in questo periodo da una sorta di crisi morale che ne mirino la capacità di reazione. In Francia la paura della Germania era per ovvi motivi di vicinanza geografica più sentiti che in Gran Bretagna, ma ancora più forte era la paura di una nuova guerra: troppo recente era il trauma del primo conflitto mondiale. Sentendosi protetti dalla linea maginot i francesi Si chiedevano se volesse la pena rischiare un nuovo terribile scontro armato per difendere la Russia comunista o i lontani alleati dell'est europeo. Nel frattempo un successo clamoroso Hitler lo tiene nel marzo 1938 con l'annessione dell'Austria al Reich tedesco. Era questo l'obiettivo che il Fiihrer aveva particolarmente a cuore e che aveva già tentato di raggiungere nell'estate del 1934. Ma quando all'inizio del 1938 Hitler rilanciò la questione dell'annessione austriaca, Mussolini rinunciò ad opporsi alle pretese tedesche punto non dici marzo il capo dei nazisti austriaci chiedo ufficialmente l'intervento dell'esercito tedesco per salvare il paese dal caos. Un mese dopo, un plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l'avvenuta annessione. La questione austriaca sera appena chiusa è già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione, anch'essa fondata sui motivi etnici: quella riguardante i sudeti, ossia gli oltre 3 milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia. Il governo ceco si mostrò disposto alla concessione di più larghe autonomie alla comunità tedesca, Ma questo non bastò ad accontentare Hitler. Alla fine di settembre, quando ormai l'Europa si stava preparando una guerra che sembrava inevitabile, Hitler accettò la proposta di un incontro tra i capi di govemo delle grandi potenze europee, lanciate in extremis da Mussolini su suggerimento dello stesso Chamberlain. Nell'incontro che si 42 Nel 1927 venne varata la “Casta del lavoro” male generiche enunciazioni, di questa carta, non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della scomparsa dei sindacati liberali e dunque della perdita di qualsiasi autonomia organizzativa e capacità contrattuale. I vantaggi offerti dall’organizzazione del dopolavoro e i miglioramenti nel campo della previdenza sociale non bastarono a compensare il calo dei salari reali. I maggiori successi, in termini di partecipazione e di consenso, li ottenne presso la media e piccola borghesia. I ceti medi furono non solo complessivamente favoriti dalle scelte economiche del regime e si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici ma erano anche più sensibili ai lavori esaltati dal fascismo, i più disposti a recepirne i messaggi e a fame proprie le parole d’ordine. Il fenomeno della fascistizzazione fu ampio, ma riguardò essenzialmente gli strati intermedi della società, toccando solo parzialmente le classi popolati. Scuola, cultura, informazione: Il fascismo dedicò un’attenzione particolare alla scuola, già profondamente ristrutturata nel 1925 con la riforma Gentile, riforma che mirava ad accentuare la severità degli studi e sanciva il primato delle discipline umanistiche. Il regime si preoccupò di fascistizzare l'istruzione sia con una più stretta sorveglianza sugli insegnanti, sia attraverso il controllo dei libri scolastici e nel 1930 con l'imposizione di testi unici per le elementari. L’umiversità godette di una maggiore autonomia che non usò per contestare le scelte culturali del fascismo. Quando nel 1931 fil imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime, su 1200 professori titolari, solo una dozzina si rifiutò di giurare e persero le cattedre (erano per lo più anziani e prossimi alla pensione). Gli ambienti dell’alta cultura, in generale, si allinearono su una posizione di sostanziale adesione al regime. Alcuni tra i nomi più illustri della cultura italiana (Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe. Luigi Pirandello, Guglielmo Marconi e molti altri) fecero esplicita professione di fede fascista. Ancor più diretto e capillare fu il controllo esercitato dal regime sull’informazione e sui mezzi di comunicazione. Tutto il settore della stampa politica fu sottoposto ad un controllo sempre più stretto e soffocante da parte del potere centrale, che non si limitava alla semplice censura, ma interveniva con precise direttive sul merito degli articoli. La sorveglianza della stampa era in realtà esercitata personalmente da Mussolini il quale dedicava alla lettura dei quotidiani una parte notevole del suo tempo. AI controllo sulla casta stampata il regime univa quello sulle trasmissioni radiofoniche, affidate dal 1927 all’ente di Stato denominato Eiar. Come mezzo di ascolto privato, la radio ebbe una diffusione lenta. Solo nel 1935 si affermò come essenziale canale di propaganda, grazie anche alla decisione del govemo di installare apparecchi nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle sedi delle organizzazioni di patito. Anche il cinema fu oggetto privilegiato della attenzioni del regime e ne ricevette generose sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la produzione nazionale e di limitare la massiccia penetrazione dei film statunitensi. Inoltre, i cinegiornali furono uno dei più importanti strumenti di propaganda di massa di cui disponesse il fascismo: sia perché raggiungevano un vasto pubblico sia perché fornivano immagini capaci di attirare l’attenzione popolare e per illustrare meglio i trionfi del fascismo e del suo capo. 45 La politica economica e il mondo del lavoro: Il fascismo italiano ebbe l’ambizione di presentarsi come portatore di nuove soluzioni nel campo dell’economia. La formula fatta propria ufficialmente dal regime fu quella del corporativismo. Il corporativismo avrebbe dovuto significare gestione diretta dell'economia da parte delle categorie produttive, organizzate in “corporazioni” distinte per settori di attività e comprende di sia gli imprenditori sia i lavoratori dipendenti. Le istituzioni corporative avrebbero dovuto incarnare una “terza via” fra capitalismo e socialismo e contemporaneamente risolvere il problema della rappresentanza politica secondo criteri diversi da quelli individualistici. Quando nel 1934 vennero istituite, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti e priva di qualsiasi rappresentatività. Il fascismo riuscì a realizzare interventi importanti nell'economia, ma non inventò un nuovo sistema. Nei suoi primi anni di governo (1922-1925), il fascismo aveva adottato una linea liberista. Questa politica aveva provocato un incremento produttivo e un riaccendersi dell'inflazione, un crescente deficit negli scambi con l’estero e un deterioramento del valore della lira. Nell'estate del 1925 si ebbe ‘una brusca svolta e venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell'economia. Prima importante misura fu l’aumento del dazio sui cereali e questa volta fu accompagnato da una Tumorosa campagna propagandistica detta “battaglia del grano“. L'obiettivo era il raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione dei cereali, da conseguire sia attraverso l'aumento della superficie coltivata a frumento, sia mediante l'impegno di tecniche più avanzate. La seconda “battaglia* fu quella per la rivalutazione della lira. Nell'agosto del 1926 il duce annunciò di voler riportare il cambio intemazionale della moneta ai livelli precedenti il conflitto mondiale, e fisso l’obiettivo di “quota 90“, ossia 90 lire per una sterlina. Alla base di questa scelta si era soprattutto il desiderio di dare al mondo un’immagine di stabilità monetaria oltre che politica. Anche questo obiettivo viene raggiunto, grazie ad una forte restrizione del credito e con l’aiuto di un cospicuo prestito presso concesso da grandi banche statunitensi. I prezzi diminuirono e la lira recuperò il potere d’acquisto perduto. A godeme non furono i lavoratori in quanto, molte piccole e medie aziende agricole entrarono in crisi perché strozzato dal calo dei prezzi dei loro prodotti e dalla restrizione del credito. Nel settore industriale, furono colpite soprattutto le imprese che lavoravano per l’esportazione, danneggiate dalla rivalutazione della moneta; al contrario, quelle che operavano sul mercato interno poterono giovarsi della contrazione del costo del lavoro di un forte aumento delle commesse pubbliche. L’economia italiana non si è ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della crisi mondiale. La recessione si fece ugualmente sentire, anche se in modalità meno drammatiche che in altri paesi europei: il commercio con l'estero se ridusse drasticamente, l’agricoltura subì un nuovo colpo a causa del calo delle esportazioni, le imprese culturali accusarono gravi difficoltà e la disoccupazione aumenta bruscamente. In risposta il regime si attuò su due direttrici principali: lo sviluppo dei Lavori Pubblici come strumento per rilanciare la produzione e l’intervento diretto dello Stato a sostegno dei settori in crisi. La politica di lavori pubblici e di sviluppo nella prima metà degli anni ‘30. Vennero realizzate nuove strade e costruiti nuovi edifici pubblici; fu varato il “risanamento del centro storico della capitale e fu avviato un ambizioso programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto portare al recupero della valorizzazione delle terre incolte. Il progetto venne ostacolato sia dalla difficoltà della finanza pubblica sia dalle resistenze dei grandi proprietari e dunque fi attuato solo parzialmente. Venne però portato al termine la bonifica dell’agro pontino. 4 Fu nel settore dell’industria del credito che l’intervento dello Stato assunse forme più incisive. In difficoltà erano soprattutto le grandi banche che erano state create alla fine del 1800 con lo scopo di sostenere gli investimenti nell’industria e che, nel dopo guerra, avevano assunto il controllo di importanti gruppi industriali. Per evitare che la crisi di questi gruppi trascinasse con sé quella delle banche, il governo intervenne creando nel 1931 un nuovo istituto di credito, l’Istituto mobiliare italiano (Imi) con il compito di sostituire le banche in difficoltà nel sostegno delle industrie in crisi e dando vita nel 1933 all’Istituto per la ricostruzione industriale (Ir). Nei progetti originari, il compito di quest’ultimo istituto, avrebbe dovuto essere transitorio limitandosi arisanamento dell’impresa in crisi in vista della loro privatizzazione. Accade che invece la vendita ai privati risultò impraticabile dell’Iri diventò, nel 1937, un ente permanente. In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro paese: diventò in tal modo uno Stato imprenditore. Queste scelte non si tradussero comunque in una fascistizzazione dell'economia: per gli interventi più importanti Mussolini non si servì di personale proveniente dal patito o dalla nascente burocrazia corporativa, ma si affidò a tecnici. Nei nuovi enti che furono detti parastatali e nella stessa Banca d’Italia si formò una burocrazia parallela destinata a svolgere un ruolo di primo piano nell’Italia post-fascista. Intorno alla metà degli anni ‘30 e l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi. A questo punto mancava un regime la capacità e la volontà di approfittare della ripresa per mettere in moto un processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione. Il regime al contrario si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari. Alla fine del 1935, traendo spunto dalle sanzioni economiche imposte all'Italia per l’aggressione all’Etiopia, Mussolini decise di insistere con la politica “autarchica” già inaugurata con la battaglia del grano e consistente nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime utili in caso di guerra. L’autarchia si tradusse in un ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo di incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili sintetici. Le spese militari sottrassero risorse ai consumi e agli investimenti produttivi accentuando l'isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere quegli effetti positivi che il riarmo produsse sull’industria della Germania nazista. La politica estera e l'impero: Nonostante l’Italia mussoliniana non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali capaci di mobilitare l'opinione pubblica, infatti ,nonostante le delusioni subite a Versailles, l’Italia rimaneva una potenza vincitrice della prima guerra mondiale. Non per questo il fascismo rinunciò alla vocazione nazionalista ed espansionista che faceva parte dei suoi caratteri originali. Fino ai primi anni del 1930 le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e si tradussero in una generica contestazione dell’assetto europeo uscito dai trattati Versailles. Ciò non impedì all’Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna e rimanere all’interno del sistema di sicurezza collettiva fondata sull’intesa fra potenze vincitrici. Questa base, culminata negli accordi di Stresa nell’aprile del 1935, si esaurì con l’attacco dell’Italia fascista all'impero etiopico. Con la conquista dell’Etiopia il duce intendeva innanzitutto dare sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subito dall’Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua. Ma voleva creare ‘una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economici e sociali del paese. I governi francese e britannico erano disposti ad assecondare, almeno in pate, le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, membro della società delle nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. 4 della terza internazionale. Era dunque inevitabile che il Pci e si allineasse senza riserve alla strategia dettata da Mosca e che ne seguisse fedelmente anche le loro formulazioni più settarie. I dirigenti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le critiche la linea ufficiale formulate in carcere da leader come Umberto Terracini e Antonio Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Anche le origini ali anche le originali riflessioni sulla storia d’Italia, sul molo degli intellettuali sulla strategia del partito elaborate da Gramsci rimasero sconosciute. A metà degli anni ‘30 la svolta dei fronti popolari apri per l’antifascismo italiano una fase nuova, che vide il partito comunista italiano riannodare i contatti con le altre forze d’opposizione.ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto con l’esperienza della guerra di Spagna, durò solo pochi anni. Il fallimento del fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano in Spagna, gli echi delle grandi purghe staliniane, le la rottura fra 1’Urss e le democrazie occidentali culminata nel patto tedesco-sovietico del 1939 si ripercossero negativamente sull’unità del Movimento antifascista italiano. Per molto tempo gli antifascisti attesero invano un grande sommovimento popolare che abbattesse regime. Si illusero che lo scossone potesse venire dalla grande crisi o dalle avventure etiopica, dovendo poi constatare che il fascismo era riuscito rafforzato dall’una e dall’altra. Eppure il movimento fascista svolse, fra gli anni del 1926 il 1943, un ruolo di grande importanza politica oltre che morale. L'importanza dell’antifascismo risiedette nella funzione di testimonianza e di preparazione dei quadri e delle piattaforme politiche della futura Italia democratica. Capitolo 7 - Il declino degli imperi coloniali La crisi dell’egemonia europea: Negli anni '20 e '30 del '900 l'egemonia europea sugli altri continenti cominciò a indebolirsi. In realtà le potenze europee, esaurite dal conflitto mondiale, non avevano più le risorse economiche e le capacità militari necessarie per mantenere il controllo sui loro sterminati imperi, dove nel frattempo si moltiplicavano i segni di insofferenza nei confronti dei dominatori. La Gran Bretagna aveva mobilitato un milione e trecentomila indiani e quasi altrettanti uomini dai dominions bianchi: Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica. La partecipazione alla guerra e il contatto con altre culture politiche fortemente imbevute di ideali nazionali e democratici avevano fatto crescere nei popoli extraeuropei la consapevolezza di aver maturato nuovi diritti. Nacquero così nuovi movimenti indipendentisti. In realtà fu subito chiaro che, per la maggior parte degli europei e degli stessi americani, questi diritti si immaginavano riservati alle sole popolazioni bianche. Alla conferenza di pace di Versailles, la proposta della delegazione giapponese di proclamare in un documento ufficiale l'uguaglianza fra tutte le "razze" non fu nemmeno presa in considerazione. In compenso gli Stati Uniti si batterono affinché l'assegnazione alle potenze vincitrici dei territori extraeuropei già appartenenti alla Germania e all'Impero turco avvenisse sotto la forma del mandato: un istituto che conteneva un implicito riconoscimento del diritto dei popoli extraeuropei all'autogoverno. Rivoluzioni e modernizzazioni in Turchia: Drasticamente ridimensionato dal punto di vista territoriale, era inoltre oggetto di un tentativo di spartizione in zone di influenza da parte di Gran Bretagna e Francia, che occupavano militarmente alcune regioni costiere e manovravano un govemo centrale inefficiente e corrotto.La reazione a questo stato di cose venne dalle forze armate. Fu infatti un generale, Mustafà Kemal, che aveva combattuto contro i britannici durante la guerra, ad assumere la guida del movimento di riscossa nazionale. 50 Un’Assemblea generale riunita ad Ankara affidava a Kemal il ruolo di liberare la Turchia dagli stranieri. Tra il 1921 e il 1922 l’esercito turco sconfisse ripetutamente i greci e li costrinse ad evacuare dalla zona di Smime. La Turchia si vide riconosciuta la sovranità su tutta l’Antiochia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo (la Tracia occidentale) che le garantiva il controllo degli Stretti. Contemporaneamente, si avviava la trasformazione della Turchia in uno Stato nazionale laico. Nominato presidente con poteri semidittatoriali, Mustafà Kemal (insignito del soprannome di Atatirk, ossia "padre dei turchi") si impegnò a fondo in una politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato. Furono varati nuovi codici ispirati ai modelli occidentali e aboliti i tribunali che giudicavano in base ai principi del Corano. Fu adottato l'alfabeto latino e tutto il sistema di istruzione fu riformato sull'esempio delle nazioni europee. L'esperimento modernizzatore riusci solo in parte, ma ebbe il valore di un modello per molti paesi impegnati sulla strada dell'emancipazione dai vincoli coloniali. Il nazionalismo arabo e sionismo: Il crollo dell'Impero ottomano fece sentire le sue conseguenze nelle regioni rimaste formalmente sotto la sua autorità, che in gran parte coincide con quello che oggi siamo soliti chiamare "Medio Oriente". In questa regione, abitata quasi per intero da popolazioni arabe di religione musulmana, gli impegni spesso contraddittori presi durante la guerra, dalle potenze dell'Intesa determinarono una situazione quanto mai intricata. La promessa di un Kurdistan indipendente non si realizzò, anche perché contrastava con la priorità allora accordata dalla Gran Bretagna ai rapporti con il mondo arabo. Il nazionalismo arabo era ancora in movimento in embrione punto nel 1915 i britannici si accordarono con Hussein Ibn Ali, Promettendo l'appoggio alla creazione di un grande ignora può indipendente comprendente la rabbia, la Mesopotamia e la Siria in cambio di una collaborazione militare contro l'impero ottomano. Alla guida delle truppe erano i figli di Hussein, Abdallah e Feisal. Loro consigliere era un agente britannico, appassionato della cultura islamica, il colonnello Thomas Edward Lawrence, il leggendario Lawrence d'Arabia. Le vere intenzioni della Gran Bretagna sul futuro dei territori arabi sottratti all'Impero ottomano erano però diverse. Nel maggio 1916 francesi e britannici firmarono un patto segreto, gli accordi Sykes-Picot, per la spartizione in zone d'influenza di tutta la zona compresa fra la Turchia e la penisola arabica: alla Francia la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna la Mesopotamia e la Palestina. A guerra finita, Nonostante le proteste degli arabi, la spartizione si realizzò. La Gran Bretagna creò nella zona di sua competenza due nuovi Stati, governati dalla dinastia hashemita, Sempre sotto il controllo britannico: l'Iraq e la Transgiordania. Nel 1932 nacque un altro stato, l'Arabia Saudita, fondato nella penisola arabica dal sovrano Ibn Saud, Che aveva sottratto la dinastia il controllo dei luoghi Santi dell'Islam. Un'altra ipoteca sulla sovranità nei territori ex ottomani era stato intanto posta in Palestina, dove il govemo britannico aveva riconosciuto nel novembre 1917 il diritto del movimento sionista a creare in Palestina una sede nazionale per il popolo ebraico, secondo il progetto lanciato alla fine dell'Ottocento da Theodore Heizl. Tra il 1920 il 1921 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni ebrei e i residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla Palestina. Era l'inizio di n conflitto che avrebbe insanguinato la regione nei 10 anni successivi, prolungandosi per tutto il 900 ed oltre. 51 La lotta per l’indipendenza in India: Frale grandi potenze coloniali la Gran Bretagna fu quella che prima di tutte si orientò verso un ridimensionamento della sua posizione imperiale. Una tappa importante nel processo di graduale smobilitazione dell'Impero britannico fu rappresentata dalla conferenza, che si tenne a Londra nel 1926 e nella quale i dominions bianchi furono riconosciuti come comunità autonoma ed eguali in seno all'impero, unite dal comune vincolo di fedeltà alla corona d'Inghilterra e liberamente associati come membri del Commonwealth britannico, ossia una libera Federazione tra stati. Il paese in cui il processo di emancipazione assunse un valore esemplare fu senza dubbio l'India: la più importante tra le colonie britanniche punto ma anche quelle in quelle aspirazioni all'indipendenza si erano fatte sentire già prima della grande guerra. Durante il primo conflitto mondiale il governo britannico aveva premiato il lealismo manifestato dalla classe dirigente locale in occasione della guerra, promettendo ufficialmente una crescente associazione degli indiani ad ogni ramo dell'amministrazione e un graduale sviluppo di forme di autogoverno , in vista della progressiva realizzazione di un governo responsabile in India. Intanto, insieme al congresso nazionale indiano e in genere tra la maggioranza della popolazione di religione induista, e che scuoteva sempre maggiori consensi la predicazione di un nuovo e prestigioso leader indipendentista, Gandhi. Adottando nuove forme di lotta, basate sulla resistenza passiva, sulla non violenza sul rifiuto di qualsiasi collaborazione coni dominatori, Gandhi acquisto in breve tempo un'immensa popolarità e fece del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa. Alla crescita del movimento indipendentista i britannici risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni punto nel 1919, con il Government of India Act, venne riconosciuto maggiore spazio agli indiani nei ranghi dell’amministrazione, fil attuato un limitato decentramento e venne consentita ‘una ristretta minoranza le lezioni di propri organismi rappresentativi. Questi provvedimenti non valsero a fermare la marcia dell’India verso la piena indipendenza, mi offrirono il movimento nazionale indiano canali legali attraverso cui esprimersi combattere le proprie battaglie: un'esperienza che avrebbe contribuito alla tenuta delle istituzioni rappresentative della futura indipendente. La guerra civile in Cina: Per tutta la prima metà del '900, lo Stato più popoloso del mondo, la Cina, fu sconvolto e paralizzato da una lunga e sanguinosa guerra civile punto la Repubblica democratica creato dalla rivoluzione del 1911 ebbe vita quanto mai travagliata. Il suo fondatore Sun Yat-sen, leader del Kuomintang, il patito nazionalista cinese, fu costretto all'esilio dopo appena due anni di governo. Il governo non aveva forza sufficiente né per imporre la sua autorità alle province, dove i governatori militari si comportavano come capi feudali, arruolando milizie e imponendo tributi, né per opporsi alle mire egemoniche del Giappone che mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina. Alla conferenza di pace cui pure partecipò come Stato vincitore la Cina fu sacrificata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung. Questa ennesima umiliazione ebbe l'effetto di risvegliare l'agitazione nazionalista, che si raccolse ancora una volta attorno al Kuomintang e a Sun Yat-sen, tomato nel frattempo dall'esilio. Alla base di queste agitazioni c'era l'alleanza, già operante nella rivoluzione del 1911, fra la gioventù intellettuale, la nascente borghesia industriale e commerciale insofferente dell'invadenza straniera e quei nuclei di classe operaia che si erano formati nelle regioni più esposte alla penetrazione del capitale europeo. La lotta intrapresa contro il governo centrale da Sun Yat-sen, che nel '21 formò un proprio governo a Canton, ebbe anche l'appoggio del Partito comunista cinese, fondato, sempre nel '21, da un gruppo di 52 militare ad offrire l'occasione di uscire dal chiuso delle comunità di villaggio, di maturare nuove esperienze e di praticare nuove forme di socializzazione. Tra il 1919 e il 1927 si tennero, in diverse capitali europee, quattro congressi panafricano, dove furono discussi problemi comuni e furono lanciati per la prima volta proposte di Federazione tra le colonie. Il tema dell'indipendenza era ancora assente da questi dibattiti dove si affrontavano per lo più le questioni specifiche e si studiavano forme di partecipazione e canali di rappresentanza più aperta per le popolazioni locali. L’America Latina tra le due guerre: Negli anni ‘20 e ‘30 anche i paesi latino-americani risentirono fortemente dei mutamenti in atto in Europa e nel Nord America. Gli effetti della depressione economica furono accentuati da un rapporto sempre più forte con l’ America, che ormai si sostituiva alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza egemone nel continente. Questi mutamenti non furono senza influenza su equilibri politici dei singoli Stati, che conobbero quasi tutti vicende molto agitate. Nei paesi in via di industrializzazione, invece, dove era già emerso un nucleo di classe operaia, la crisi ebbe effetti più complessi e contraddittori. Anche gli Stati più importanti e dinamici, comunque, sperimentarono forme di autoritarismo più o meno marcato. Nell'autunno del 1930 due sommovimenti politici quasi contemporanei ebbero luogo in Argentina e in Brasile. In Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche: seguì, per oltre un decennio, una serie di governi conservatori tenuti sotto stretta tutela dai generali e dalla grande proprietà terriera. In Brasile, invece, una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie, appoggiata da una parte delle forze armate, poitò al potere Getulio Vargas. Vargas diede vita a un regime autoritario, basato sul rappoito diretto fra capo e masse, su un acceso nazionalismo e su un energico intervento statale a sostegno della produzione, ma anche sulla concessione di una legislazione sociale per i lavoratori urbani: un regime destinato a servire da modello ad altre esperienze politiche latino-americane, che sarebbero state definite col termine populismo. Nella sua versione più radicale e demagogica, il populismo si sarebbe poi affermato in Argentina, durante e dopo la seconda guerra mondiale, con l'ascesa al potere del colonnello Juan Domingo Peròn e del movimento che da lui prese il nome di peronismo, improntando di sé la storia del paese anche nei decenni successivi. Una forma di populismo molto avanzata sul piano sociale fu quella praticata in Messico sotto la presidenza di Làzaro Cardenas (1934-40), che portò avanti in modo deciso la riforma agraria iniziata negli anni '20 e nazionalizzò la produzione petrolifera. Ma la stabile affermazione delle forze che si dicevano progressiste — unite dal 1929 nel Partito rivoluzionario istituzionale — non bastò a superare gli squilibri sociali che segnavano la società messicana. Capitolo 8 - La seconda guerra mondiale Le origini e lo scoppio della guerra: La guerra che scoppiò nell'estate del 1939, era un evento atteso dalle potenze europee. Tutti gli “elementi” sembravano spingere verso una colluttazione tra la Germania nazista e l'Europa occidentale. Per quanto riguarda la responsabilità è indubbia quella della Germania, con la sua politica si conquista e di aggressione, ma anche le altre potenze non erano esenti da colpe ed errori. Con la conferenza di Monaco, le potenze Occidentali, si erano illuse di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti. 55 In realtà già nell’ottobre del ‘38 Hitler aveva pronti i piani per l'occupazione della Boemia e della Moravia, la Repubblica cecoslovacca, già indebolita dalla perdita dei Sudeti e minata dalla lotta fra le diverse nazionalità che convivevano al centro dei suoi confini. L’operazione scattò nel marzo 1939: mentre la Slovacchia si proclamava indipendente con l'appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al “protettorato di Boemia e Moravia”, parte integrante del Reich tedesco. La distruzione dello Stato cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze occidentali. Frail marzo e il maggio del ‘39 la Gran Bretagna e la Francia diedero vita ad un’offensiva diplomatica, volta a contenere l’aggressività delle potenze dell’ Asse. Stipularono un’alleanza militare coni paesi più minacciati dall’espansionismo tedesco (Belgio, Olanda, Grecia e Romania). Il più importante fu quello con la Polonia, obiettivo di Hitler: già da marzo, il ftilrer aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il “corridoio” che univa la città al territorio polacco. L’alleanza fra Gran Bretagna, Francia e Polonia fi conclusa fra marzo e aprile. Il radicalizzarsi della contrapposizione tra Germania e gli anglo-francesi tolse ogni residuo di spazio di manovra all’Italia. Mussolini cercò di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa ‘unilaterale: l'occupazione del piccolo Regno di Albania (aprile 1939). Un mese dopo, Mussolini, convinto che l’Italia non potesse rimanere neutrale nello scontro che si andava profilando e sicuro della superiorità della Germania, decise di trasformare il vincolo dell’ Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare: il patto d'acciaio. Il patto stabiliva che, se una delle due potenze si fosse trovata impegnata in un conflitto l’altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco. Mussolini e il ministro degli Esteri Ciano sapevano che l’Italia non era militarmente pronta ad una guerra, ma si fidarono delle assicurazioni verbali di Hitler circa la sua intenzione di non scatenare la guerra prima di due o tre anni. In realtà nel maggio del ‘39, lo Stato tedesco già preparava l’invasione della Polonia. L’incognita principale era costituita dall’atteggiamento dell’URSS. Un’adesione sovietica antitedesca avrebbe potuto bloccare i piani di Hitler, che avrebbe temuto il ripetersi della prima guerra mondiale. Le trattative tral’URSS e i franco-britannici furono compromesse da alcuni fattori: i sovietici sospettavano che gli occidentali mirassero ad indirizzare su loro l'aggressività della Germania, che gli occidentali attribuivano ai sovietici ambizioni egemoniche sull'Europa dell'Est e, inoltre, i polacchi (che temevano una presenza militare russa) non volevano concedere alle truppe dell'URSS il permesso di attraversare il proprio territorio in caso di attacco tedesco. Il 23 agosto del 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov firmarono a mosca un patto di non aggressione fra i due paesi. Questo fu un grande colpo di scena nella storia della diplomazia. L’URSS non soltanto allontanava momentaneamente la minaccia tedesca dai suoi confini, ma otteneva anche un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, dalla Romania alla Polonia. Hitler fu costretto a modificare la sua strategia, rinviando lo scontro con il suo storico nemico, ovvero, la Russia Sovietica. Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccarono la Polonia. Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania, mentre l’Italia, il giorno stesso dello scoppio delle ostilità, si affrettò a proclamare la sua “non belligeranza” Simili alla prima guerra mondiale erano: la posta in gioco e le cause di fondo; il tentativo della Germania di affermare la propria egemonia sul continente europeo e la volontà della Gran Bretagna e della Francia di impedire questa affermazione. 56 Rispetto al primo conflitto mondiale, il secondo vide inoltre accentuarsi il carattere totale della guerra: lo scontro ideologico tra i due schieramenti fu più aspro e radicale, e più ampia fu la mobilitazione dei cittadini, inoltre, anche le armi e le tecniche di guerra vennero impiegate al di fuori dei campi di battaglia provocando conseguenze più tragiche. L’ attacco alla Polonia: Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per stabilizzarsi in Polonia ed offrire al mondo una dimostrazione della sua efficienza bellica. L’offensiva tedesca, accompagnata da una serie di bombardamenti aerei, ebbe la meglio su un esercito antiquato e mal guidato. Fu questa il primo esempio della guerra-1ampo una strategia che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle forze corazzate. La guerra di movimento fu consentita dall’impiego dei carri amati e delle autoblindo. Varsavia, a metà settembre, fu costretta a capitolare dopo l’assedio delle truppe del Reich. In base alle clausole del patto Molotov-Ribbentrop, l'URSS si impadroniva delle regioni orientali dopo aver invaso le tre piccole Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) che persero la loro indipendenza. In ottobre la Polonia cessò la resistenza e così i tedeschi e i sovietici imposero il loro controllo sul territorio (in questo periodo si consumò il massacro di oltre 4 mila ufficiali polacchi fatti prigionieri). La Repubblica polacca cessò di esistere, senza aver ricevuto aiuti concreti dai paesi occidentali che rimasero sulla difensiva in attesa di un attacco tedesco. Peri successivi 7 mesi la guerra occidentale restò “congelata”: questo momento venne chiamato dai francesi dròle de guerre (strana guerra) e non giovò alla morale delle truppe franco-britanniche, ma consenti ai tedeschi di riorganizzare le forze in vista dello scontro deicisivo. Il teatro di guerra si spostò in Nord Europa quando l’URSS prese l’iniziativa di attaccare la Finlandia. Quest’ultima resistette per 3 mesi agli attacchi dell’Unione, causando notevoli perdite agli aggressori, ma nel marzo del 1940 dovette cedere alle richieste sovietiche, rimanendo però indipendente. La Germania il 9 aprile 1940 lanciò un’offensiva alla Danimarca e alla Norvegia: la prima si arrese senza nemmeno combattere, la seconda oppose una certa resistenza, ma le truppe tedesche ebbero la meglio. Nella primavera del ‘40 Hitler controllava buona paite dell'Europa centro-settentrionale. La disfatta della Francia e la resistenza della Gran Bretagna: L’attacco tedesco alla Francia ebbe inizio il 10 maggio del 1940 e si risolse nel giro di poche settimane in un nuovo successo per la Germania. La Francia, dalla sua parte aveva una forte aviazione e ingenti forze corazzate, ma venne sconfitta a causa degli errori dei suoi comandanti che ancora erano legati alla concezione statica della guerra e troppo fiduciosi nell’efficacia delle fostificazioni difensive che costituivano la linea Maginot. Queste linee coprivano, in realtà, solo la frontiera franco-tedesca, lasciando scopetto il confine con il Belgio: infatti, come nel 1914, proprio da qui i tedeschi iniziarono l’attacco (violando nuovamente la neutralità del Belgio), ma questa volta oltre al Belgio vennero invasi anche l’Olanda e il Lussemburgo. Frail 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato velocemente la foresta delle Ardenne, i reparti corazzati tedeschi arrivarono nei pressi di Sedan, nel punto centrale della linea difensiva francese, le cui truppe più consistenti erano impegnate nella difesa del Belgio. Le truppe tedesche puntarono verso il canale della Manica, chiudendo molti reparti francesi e belgi e l’intero corpo di spedizione britannico. 57 armate del Reich penetrarono in territorio sovietico per centinaia di chilometri. L'offensiva continuò per tutta l'estate travolgendo ogni resistenza. Ma l’attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all’inizio di ottobre, fu bloccato a poche decine di chilometri dalla capitale dal sopraggiungere del maltempo, che rese impraticabili molte strade e rallentò il movimento degli automezzi. In dicembre i sovietici lanciarono la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. I tedeschi erano ancora padroni di territori vastissimi e importantissimi dal punto di vista economico e strategico: l'Ucraina, la Bielorussia, le regioni baltiche. Hitler aveva mancato l’obiettivo di mettere fuori causa l’Urss ed era costretto atenere il grosso del suo esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle prese con un terribile inverno e con una resistenza sempre più accanita. Guidata personalmente da Stalin la guerra difensiva dei sovietici risultò infatti più efficace del previsto. Attingendo ad un serbatoio umano che sembrava inesauribile e riorganizzando la produzione industriale delle regioni a ovest del Volga, l’Urss e riuscì a compensare le spaventose perdite subite. Anche la guerra meccanizzata si trasformava così in una guerra d’usura, in cui l’elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare rapidamente il logorio degli uomini e dei materiali. In una guerra del genere la Germania era destinato a perdere il suo vantaggio iniziale, soprattutto dovuto alla superiorità tecnica e strategica. Tanto più quando gli Stati Uniti si schierarono al fianco della Gran Bretagna e Urss. Allo scoppio del tutto, gli Stati Uniti avevano ribadito la loro linea di non intervento negli affari europei, ma una volta rieletto alla presidenza per la terza volta Roosevelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro la Germania. Nel marzo 1941 fi approvata una legge detta degli affitti e prestiti, che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni molto favorevoli a quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani. In maggio gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania e Italia. Questa politica ebbe il suo suggello ufficiale con l’incontro tra Roosevelt e Churchill che si tenne il 14 agosto 1941. Frutto dell’incontro fu la cosiddetta carta atlantica: un documento di otto punti, in cui i due statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costituire a guerra finita: rispetto dei principi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari, cooperazione intemazionale, rinuncia all’uso della forza nei rappoiti fra gli Stati. A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l'aggressione improvvisa subita nel Pacifico da parte del Giappone: la maggiore potenza dell'emisfero orientale il principale alleato asiatico di Germania e Italia, cui era legato al settembre 1940 da un patto di alleanza militare detto patto tripartito. Già impegnato nel 1937 nella guerra contro la Cina, il Giappone aveva approfittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche a tutti i territori del sud-est asiatico. Quando, nel luglio 1941, i giapponesi Matteo l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone. A quel punto il govemo giapponese scelse la strada della guerra. Il 7 dicembre 1941, l’aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor e la distrusse in buona parte. Nei mesi successivi i giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obiettivi che si erano prefissati: nel maggio 1942 controllavano le Filippine, la Malesia e la Birmania britanniche, l'Indonesia olandese; ed erano in grado di minacciare l'Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere forze preziose dal Medioriente. Pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor, anche Germania e Italia dichiararono guerra gli Stati Uniti. A questo punto il conflitto divenne mondiale. Gli anglo-ameticani e i sovietici, trovatisi a combattere dalla stessa parte, si posero subito il problema di elaborare una strategia comune per battere le potenze fasciste. Lo fecero per la prima volta nella conferenza che si tenne a Washington tra il dicembre 1941 60 e il gennaio 1942, nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone sottoscrissero il patto delle Nazioni Unite: i contraenti si impegnavano a tener fede ai principi della carta atlantica, a combattere le potenze fasciste e a non concludere con esse paci separate Resistenza e collaborazionismo nei paesi occupati: La primavera-estate del 1942 le potenze dell’asse Roma-Berlino-Tokyo raggiunsero la loro massima espansione del rito reale. Il Giappone dominava su tutto il sud-est asiatico, su vaste zone della Cina e su molte isole del Pacifico. Attorno alla Germania l’Italia ruotavano gli alleati minori: Finlandia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia e Francia di Vichy. Olanda, Norvegia e Boemia erano governate dal the commissari tedeschi.Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrale, erano di fatto incluse nella sfera politico-economica dell’asse. Il cuore pulsante del sistema era la Germania, la cui macchina bellica lavorava a pieno ritmo, grazie anche al lavoro obbligatorio dei prigionieri di guerra e degli operai prelevati dei paesi occupati. Germania e Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un nuovo ordine basato sulla supremazia della nazione eletta. Il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti dei paesi soggetti al dominio coloniale e fece propria la causa della lotta contro l’imperialismo europeo; la Germania non concesse nulla alle aspirazioni dei popoli adesso assoggettati. Per le popolazioni considerate razzialmente inferiori, i progetti di Hitler prevedevano solo la totale subordinazione, se non addirittura lo sterminio. Un trattamento particolarmente duro e inumano fu riservato ai popoli slavi, considerati razza inferiore e destinati ad una condizione di semischiavitù. L’Elite dirigenti e gli intellettuali andavano eliminati fisicamente. Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni e mezzo di polacchi, senza contare gli ebrei, morirono negli anni dell’occupazione tedesca .di quasi 3 milioni di prigionieri di guerra russi, più della metà non fece mai ritorno in patria. Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato dai tedeschi nell’Europa occupata porto alla Germania consistenti vantaggi immediati (ad esempio l’inesauribile forza-lavoro gratuita, il flusso continuo di materie prime ecc.). Questo sistema di dominio costrinse tedeschi a mantenere nei territori occupati forti contingenti di truppe, suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione che spesso sarebbero sfociati in resistenza armata; sollevò Contro la Germania nazista un'ondata di odio che avrebbe finito per rivolgersi contro l’intero popolo tedesco. Episodi di resistenza all'occupazione nazista si manifestarono già nella prima fase della guerra in tutti paesi invasi dai tedeschi. Protagonisti di questi episodi erano all’inizio piccoli gruppi. Le file della resistenza si ingrossarono dopo l’attacco tedesco all’Urss, che portò i comunisti di tutta Europa ad impegnarsi attivamente nella lotta armata contro il nazismo. Non sempre le diverse forze della resistenza riuscivano a stabilire una linea d’azione comune. I comunisti erano guardati con sospetto dagli anglo-americani e dalle componenti moderate del fronte antifascista. Accordi unire unilaterali furono raggiunti in Francia e in Italia. Ma la collaborazione si rivelò impossibile in quei paesi dell'Europa orientale e balcanica dove più fondato era il timore che i patiti comunisti fungessero da strumento peri piani egemonici dell’Urss. In Jugoslavia in particolare l’esercito partigiano guidato dal comunista Josip Broz si scontrò con i gruppi nazionalistici e monarchici, che pure si opponevano ai tedeschi. La resistenza al nazismo rappresentò solo una faccia della realtà dell'Europa occupata. In tutti i paesi invasi dalla Germania o da essa controllati, vi fi una parte più o meno consistente della popolazione che accettò di collaborar e coni dominatori. Le forze di occupazione tedesche trovarono alleati nella lotta contro la resistenza, volontari pronti ad arruolarsi nelle loro file, leader disposti a governare il nome e alle dipendenze degli occupanti. In alcuni paesi tedeschi si servirono di esponenti dei fascismi locali, come il norvegese Vidkun Quisling, Che diventato capo del govemo, si legò ai nazisti al punto da rendere il suo cognome è sinonimo di collaborazionista. In altri trovarono il sostegno di movimenti 61 separatisti o gli esponenti della classe dirigente al potere prima della guerra. Il caso più significativo in questo senso fu quello della Francia di viscidi, la cui sottomissione ai tedeschi si accentuò nella primavera del 1942, quando Pétain affidò il governo a Pierre Laval. La sua accondiscendenza verso la Germania non servì ad evitare che per prevenire l’attacco anglo- americano nella Francia meridionale, itedeschi occupassero anche la Francia di Vichy ponendo fine ad ogni finzione di autonomia. La Shoah: In un discorso tenuto il 30 gennaio 1939, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare definitivamente la Germania dalla presenza degli ebrei. La minaccia hitleriana divenne realtà già nelle prime fasi del conflitto. Prima i massacri indiscriminati, ma ancora sporadici, nelle comunità israelitica e in Polonia, progressivamente rinchiuse nei ghetti istituiti dai nazisti. Poi la deportazione degli ebrei dai territori via via occupati dai tedeschi in appositi campi di lavoro e di prigionia. Dopo l’invasione dell’Urss nell’estate del 1941, cominciò ad essere praticata in modo sistematico l’eliminazione fisica dei deportati. Cominciava così quell’operazione di sterminio, di genocidio pianificato, che sarebbe stata definita Shoah (catastrofe). Inizialmente furono reparti specializzati di SS, con l’ausilio di militari dell'esercito regolare e di collaborazionisti, Ad eseguire fucilazioni di massa, come quella del settembre del 1941, quando nella fossa di Barbie yara, in Ucraina, furono uccisi oltre 33.000 ebrei di Kiev. Questa procedura richiedeva tempi lunghi, era troppo visibile e inadatta a grandi numeti, in più poteva provocare qualche resistenza e qualche cedimento psicologico tra i militari. Dall'inizio di dicembre 1941 Chelmno, in Polonia, erano state impiegate camere a gas mobili su autocarti Diesel in cui gli ebrei venivano uccisi dall’osso do di carbonio dei motori. Era iniziata a Belzec la costruzione del primo campo di sterminio, a cui seguirono molti altri, tra i quali Aushwitz-Birkenau. In questi campi vennero avviati non solo gli ebrei polacchi, ucraini, russi ma anche quelli prelevati dagli altri paesi occupati dai nazisti. La depoitazione di milioni di ebrei era un grosso problema organizzativo che si provò a risolvere in ‘una riunione dei maggiori responsabili della politica antiebraica tenuta a Wannsee nel gennaio del 1942. Il verbale della riunione era reticente per quanto riguardava il destino degli ebrei: i più deboli sarebbero stati vittime della “selezione naturale” durante i lavori forzati, gli elementi più validi sarebbero stati eliminati solo una volta non fossero più stati in grado di lavorare. Soprattutto ad Auschwitz cominciarono a giungere i deportati provenienti da tutta l'Europa: all’atrivo veniva compiuta una selezione che divideva gli abili al lavoro dai più deboli, dagli anziani, dai bambini che venivano immediatamente portati nelle camere a gas alimentate dai fumi sprigionati da ‘un potente insetticida a base di acido cianidrico (lo Zyclon B). I corpi venivano poi bruciati nei forni crematoti e seppelliti in grandi fosse comuni. Ad Auschwitz le vittime furono 1,5 milioni; nel comolesso gli ebrei sterminati furono 6 milioni. Alle vittime ebree si devono aggiungere anche gli zingari, i santi e i rom, anch'essi oggetto dei pregiudizi razziali nazisti. Nei campi affluirono anche molti prigionieri sovietici, in particolare i commissari politici dell’Armata rossa, e numerosi militari e civili polacchi. L’ossessione ideologica antiebraica non si spense negli ultimi mesi di guerra; non si fermò la macchina dello sterminio: i superstiti furono costretti a lunghe marce nel gelo dell’inverno del 1945 per abbandonare i Lager minacciati dall’avanzata sovietica, e anche per occultare l’infamia che vi era stata perpetrata. Auschwitz col tempo è diventata l'emblema del male assoluto. La condanna di questi orrori sarebbe diventata nel tempo un principio basilare della coscienza occidentale e avrebbe dato impulso allo sviluppo di una giustizia penale internazionale incaricata di colpire i responsabili dei crimini contro l’umanità. 62 Quello che l’Italia sottoscrisse fu l’atto di resa. Firmato il 3 settembre a Cassbile, in Sicilia, l'armistizio fu reso noto 1’8 settembre 1943, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salemo. L’annuncio dell'armistizio, comunicato da Badoglio, gettò l’Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo abbandonavano la capitale per ripararsi a brindisi i tedeschi procedevano all’occupazione dell’Italia centro-settentrionale. Roma fu inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati ai quali si unirono gruppi di civili armati: gli scontri, che ebbero luogo a Porta San Paolo il 9 settembre, furono il primo episodio della resistenza italiana. La sorte più tragica tocco e militari raggiunti dall’annuncio dell’armistizio lontano dall'Italia, in particolare i 650.000 che operavano nei Balcani: l’episodio più grave avverme nell’isola greca di Cefalonia dove, in settembre, fu sterminata un’intera divisione italiana che aveva rifiutato di arrendersi. Attestati su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta a Pescara e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l'offensiva alleata fino alla primavera dell’anno successivo. Nel gennaio 1944, un contingente anglo-americano riuscì a sbarcare ad Anzio ma fu bloccato sulla costa dalla reazione tedesca. Solo nel maggio del ‘44, le armate alleate riuscirono a sfondare le linee nemiche sui monti Aurunci. Protagonisti dell’azione decisiva furono i reparti nordafricani che dopo aver subito fortissime perdite, si resero responsabili di violenze di ogni genere sulla popolazione civile. Diventata campo di battaglia per gli eserciti stranieri, l’Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria. Resistenze e guerra civile in Italia: A partire dall’autunno 1943, l’Italia non solo fu divisa di fatto da un fronte, ma anche spezzata in due entità statali distinte, luna in guerra contro l’altra. Mentre nelle regioni meridionali già liberate dagli anglo-americani il vecchio Stato monarchico sopravviveva formalmente col suo governo e la sua burocrazia, nell’Italia settentrionale il fascismo rinasceva dalle sue ceneri sotto la protezione degli occupanti nazisti. Roma fu dichiarata città aperta, ovvero zona non di guerra ma ci sono le evito di subire l’occupazione nazista e i bombardamenti alleati. Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, e lo condusse in Germania. Pochi giorni dopo, il duce annunciò la nascita nell’Italia occupata dai tedeschi, di uno Stato fascista che avrebbe preso il nome di Repubblica sociale italiana. Il regime repubblicano trasferì suoi ministeri da Roma alla zona del Lago di Garda (da de la denominazione di Repubblica di Salò). L’obiettivo primario di Mussolini era punire gli artefici del tradimento del 25 luglio, ossia monarchici, badogliani e fascisti moderati: cinque dei gerarchi che avevano violato l’ordine del giorno grandi furono arrestati e fucilati a Verona nel gennaio del 1944. Il muovo regime e il nuovo partito fascista repubblicano cercarono di guadagnare consensi e credibilità riesumando le parole d’ordine rivoluzionarie del primo fascismo e lanciando un programma di socializzazione delle imprese industriali, che non riuscì mai a decollare. La repubblica di Mussolini non acquistò mai credibilità a causa della sua totale dipendenza dei tedeschi. L'episodio più tragico si verificò il 16 ottobre del 1943, quando oltre 1000 ebrei di Roma furono prelevati dalle loro case e inviati nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale pochissimi fecero ritorno. Il governo di Salò e le sue forze armate erano impegnati soprattutto a combattere il movimento di resistenza contro i tedeschi che stava nascendo nell’Italia occupata. Le regioni centro-Nord diventavano il teatro di una guerra civile tra italiani.le prime formazioni armate si raccolsero nelle zone montane dell’Italia centro-settentrionale subito dopo 1’8 settembre. Il movimento non raggiunse mai dimensioni di massa ma si appoggia su una diffusa rete di sostegno delle campagne e delle zone montane. I paitigiani agivano soprattutto lontano dai centri abitati, con 65 attacchi improvvisi e con azioni di sabotaggio; ma erano presenti anche nelle città con i gruppi di azione patriottica (gap) piccole formazioni di tre o quattro elementi che compivano attentati contro militari o contro singole personalità tedesche repubblichine. Gli occupanti risposero con spietate rappresaglie: particolarmente veloce con la messa in atto a Roma, nel marzo 1944, quando furono fucilati alle Fosse Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e militanti badogliani. Dopo una prima fase di aggregazione spontanea, le bande partigiane si andarono organizzando in base all'orientamento politico prevalente frai loro membri: le brigate Garibaldi, le più numerose e attive; le formazioni di giustizia e libertà; le brigate Matteotti erano legate ai socialisti; vi erano poi formazioni cattoliche liberali e bande autonomi composte perlopiù da militari di orientamento monarchico. Nell'estate 1942 era sorto, dalla confluenza di diversi gruppi che si collocavano in aria intermedia fra il liberalismo progressista e il socialismo, il partito d'azione (PDA). In ottobre numerosi esponenti cattolici avevano elaborato il programma di una nuova formazione destinata a raccogliere l’eredità del partito popolare: la democrazia cristiana (Dc). Subito dopo il 25 luglio 1943, fu costituito il partito liberale (Pli) e rinacquero il patito repubblicano (Pri) e quello socialista, con il nome di partito socialista di unità proletaria (Psiup). Sempre nell’estate 1943, per iniziativa dell’ex presidente del consiglio Bonomi, fu fondato il patito democratico del lavoro, che si collegava la tradizione della democrazia radicale prefascista. Quanto ai comunisti riuscirono a ricostruire buona parte del loro gruppo dirigente, soprattutto dopo la liberazione di molti militanti antifascisti dal carcere o dal confino. Frail nove e il 10 settembre, i rappresentanti di sei paititi (Pci, Psiup, Dc, Pli, Pda, Democrazia del lavoro) Si riunirono clandestinamente a Roma sotto la presidenza di Bonomi e si costituirono in comitato di liberazione nazionale. I partiti antifascisti si proponevano come guida e rappresentanza dell’Italia democratica, in contrapposizione agli occupanti tedeschi e ai loro collaboratori fascisti, al sovrano e a Badoglio. Privi di una base organizzata nell'Italia libera, i patiti del CLN non avevano la forza per imporsi al govemo Badoglio. Nell'ottobre 1943 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di cobelligerante. Tra il CLN e il governo del sud si aprì un contrasto sulla sorte del re e dello stesso istituto monarchico il contrasto fu poi sbloccato solo nel marzo 1944 dall’iniziativa del leader comunista Palmiro Togliatti. Appena sbarcato a Napoli, Togliatti scavalcando la posizione ufficiale del CLN, propose di accantonare ogni pregiudiziale contro il re o contro Badoglio e di formare un governo di unità nazionale. La svolta di Salemo era in armonia con la linea allora tenuta dall’Urss, che aveva già riconosciuto il governo Badoglio, ma serviva anche a legittimare il Pci come partito nazionale. La svolta Togliattiana Fu criticata da socialisti e azionisti, e suscitò qualche perplessità anche all’interno del patito comunista italiano. Ma consentì di formare, il 24 aprile, il primo governo di ‘unità nazionale, presieduto da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del CLN. L’accordo prevedeva che Vittorio Emanuele III, senza abdicare, si facesse da parte delegando i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che, a guerra finita, fosse il popolo a decidere la sorte dell’istituzione monarchica. Nel giugno 1944 Umberto assunse la luogotenenza generale del regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto ad un nuovo governo guidato da Bonomi. L’avvento del governo Bonomi significò un collegamento fia i poteri legali dell’Italia liberata e il movimento di resistenza. Le formazioni partigiane, che già nel gennaio 1944 avevano riconosciuto la loro guida politica al CLN alta Italia, si diedero anche un’organizzazione militare unitaria (corpo volontari della libertà). Riprendeva intanto, dopo la liberazione di Roma l'avanzata alleata nelle regioni centrali. Le azioni militari dei partigiani divennero più ampie e frequenti nonostante le continue rappresaglie tedesche: la 66 più terribile, in questa fase, fu quella messa in atto a Marzabotto dove nel Settembre 1944 furono uccisi 770 civili. L'efficacia dell’azione partigiana era limitata dalla difficoltà di coinvolgere una popolazione preoccupata soprattutto per la propria sopravvivenza e spesso incline a non schierarsi in uno scontro il cui esito restava affidato all’azione delle armate alleate. Nell’autunno del 1944, l’offensiva sul fronte italiano si sbloccò lungo la linea gotica (la nuova linea difensiva tedesca, fra Pesaro e La Spezia). La resistenza visse il suo momento più difficile, soprattutto dopo il proclama firmato dal generale inglese Harold Alexander, che nel novembre 1944, invitava i partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala in attesa dell’ultima e definitiva spallata prevista per l’anno successivo. Lo scontro più grave si ebbe in febbraio nel 1945, quando a Porzus, 17 membri della brigata Osoppo furono catturati e fucilati da un reparto di partigiani comunisti perché ritenuti di ostacolo a una totale integrazione con le forze jugoslave e agli ordini di Tito. Il movimento partigiano riuscì a mantenersi attivo e a sopravvivere fino all’inverno del ‘44-45. La fine della guerra e la bomba atomica: Nell'autunno 1944 la Germania poteva considerarsi vittualmente sconfitta. Il fronte dei suoi alleati nella guerra contro l’Urss si stava sfaldando. In ottobre, i sovietici e i partigiani jugoslavi liberarono Belgrado, mentre i britannici sbarcavano in Grecia. L'offensiva alleata si era momentaneamente arrestata in Francia in Italia.il territorio del Reich non era ancora stato toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui bombardamenti da parte degli alleati che disponevano ormai del dominio dell’aria. Nemmeno i bombardamenti servirono, però, a piegare la feroce determinazione del Fuhrer, deciso a farsi che l’intero popolo tedesco condividesse fino in fondo la sorte del regime nazista. Peraltro, Hitler si illuse fino all’ultimo di poter rovesciare la situazione grazie all'impiego di nuove armi segrete o per l'improvvisa rottura dell’innaturale coalizione fra l’Urss e le democrazie occidentali. Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Anglo-ametricani e sovietici continuarono a tener fede agli impegni assunti e a cercare accordi globali per la sistemazione dell'Europa post bellica. Nella conferenza di Mosca, dell’ottobre 1944, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere di influenza dei paesi balcanici (Romania e Bulgaria all’Urss, Grecia la Gran Bretagna, situazione di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria). I tre grandi si incontrarono ancora in U1ss, a Yalta, in Crimea nel febbraio del 1945. In questa occasione fu stabilito che la Germania sarebbe stata divisa provvisoriamente in quattro zone di occupazione (francese, britannica, statunitense e sovietica). L’Urss, inoltre, si impegnò ad entrare in guerra contro il Giappone. A metà gennaio, dopo un’ultima efficace controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli anglo-americani riprendevano l’iniziativa sul fronte occidentale. I sovietici, dopo aver conquistato Varsavia, attraversavano tutto il restante territorio polacco. In febbraio erano già poche decine di chilometri da Berlino. Più a sud l’armata Rossa cacciava i tedeschi dall'Ungheria per poi puntare su Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile, e su Praga, liberato il 4 maggio. Nel frattempo gli anglo-americani, che il 22 marzo avevano attraversato il Reno, penetravano in profondità in territorio tedesco incontrando, per la prima volta dall’inizio della guerra, una scarsa resistenza da parte delle truppe del Reich. Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano coni sovietici che stavano accerchiando Berlino. In quegli stessi giorni crollava il fronte italiano. Il 25 aprile, mentre gli alleati sfondarono la linea gotica, il CLN lanciava l'ordine dell’insurrezione generale contro il nemico è rientrata, i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini fu catturato mentre tentava di sfuggire in Svizzera e fucilato dai paitigiani il 28 aprile. Il suo cadavere venne appeso per i piedi ed esposto per alcune ore a piazzale Loreto a Milano. Il 30 aprile, mentre i sovietici stavano entrando a Berlino vi gola, Hitler si suicidò 67 Sovietica appagata nelle legittime aspirazioni (e magari gradualmente democratizzata) potesse rappresentare un fattore di stabilizzazione nell'irmequieta scacchiera dell'Europa orientale. Nell'aprile del 1945 Roosevelt morì e con lui tramontò il "grande disegno" di cooperazione fra Occidente e Urss. Il successore di Roosevelt, Harry Truman, si mostrò subito meno aperto alle istanze di Stalin. Il principale banco di prova del contrasto fra le potenze vincitrici fu l'Europa orientale. Nei paesi occupati dall'Armata rossa le possibilità che l'influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà popolare erano praticamente nulle. I contrasti emersero chiaramente già nella conferenza interalleata che si tenne a Potsdam, presso Beilino, fra luglio e agosto del 1945. Sei mesi dopo, nel marzo 1946, Churchill pronunciò a Fulton, negli Stati Uniti, un discorso che ebbe un'enorme risonanza, in cui denunciava il compoitamento dei sovietici in Europa orientale. Stalin replicò dando a Churchill del guerrafondaio e paragonandolo a Hitler. La "grande alleanza" era ormai in frantumi e il processo negoziale sui trattati di pace ne subì le conseguenze. Infatti, i lavori della conferenza di pace, che si aprirono a Parigi nel luglio 1946, si interruppero tre mesi dopo senza che su molti punti fossero state raggiunte conclusioni definitive. La conferenza di Parigi fu l'ultimo atto della cooperazione postbellica fra Urss e potenze occidentali. Fra il 1946 e il 1947 i contrasti si approfondirono. E gli Stati Uniti si dichiararono pronti a intervenire militarmente in sostegno di quei paesi che si sentissero minacciati da nuove mire espansioniste dell' Urss o da tentativi rivoluzionari da essa ispirati. Esposta in un discorso presidenziale nel marzo 1947 la “dottrina Truman” che da allora avrebbe costituito la base della politica estera Usa non metteva in discussione gli assetti raggiunti alla fine della guerra, ma mirava a impedire che l'Urss li modificasse a proprio vantaggio, in Europa e nel resto del mondo: si parlò per questo di "teoria del contenimento". L'equilibrio Usa-Urss prodotto dal conflitto mondiale si trasformava così stabilmente in un rapporto conflittuale tra le due superpotenze, che avrebbe dato origine a un nuovo sistema bipolare imperniato su due blocchi contrapposti: un blocco "occidentale", che riconosceva l'egemonia politica e culturale degli Usa e si ispirava agli ideali della democrazia rappresentativa; e uno "orientale" guidato dall'Urss e organizzato secondo i principi del comunismo e dell'economia pianificata. Nella lunga stagione della guerra fredda, le due superpotenze non si combatterono mai direttamente, soprattutto perché, dal 1949, anche l'Urss si dotò dell'arma nucleare: da quel momento fu chiaro a tutti che un conflitto atomico avrebbe avuto conseguenze terrificanti per il mondo intero. E l'incubo dello sterminio nucleare, magari frutto di un errore o di un calcolo azzardato, pesò a lungo, e in parte continua a pesare, nella coscienza dei contemporanei. La contrapposizione globale fra Usa e Urss non si limitò a tracciare un confine invalicabile fra i due blocchi, ma ebbe effetti di lungo periodo sulla vita dei singoli Stati: soprattutto in Europa, dove la linea divisoria fra area " socialista" e area "capitalista" rispecchiava in larga misura le posizioni raggiunte alla fine delle ostilità dai due maggiori eserciti occupanti. Dall'una e dall'altra parte il vincolo di politica estera divenne prioritario e strutturale. Ricostruzione e riforme: Frala situazione dell'Europa occidentale e quella dei paesi dell'Est c'era però una differenza sostanziale. Mentre il controllo sovietico si esercitava per lo più con mezzi coercitivi, l'influenza degli Stati Uniti, sostenuta da grandi risorse economiche e da un imponente apparato propagandistico, assumeva anche le forme di una egemonia culturale. In questi anni, l'imitazione dei modelli di vita d'oltreoceano e diede corpo a un rapporto complesso e ambivalente, ma comunque intenso, fra le due sponde dell'Atlantico: all'indomani della più terribile delle guerre, il mito americano parve incarnare le speranze e le aspettative di benessere di molti europei costretti a confrontarsi coni problemi di una difficile ricostruzione. 70 Su un piano più concreto, gli Stati Uniti si impegnarono massicciamente per rilanciare le economie dei paesi europei. Nel giugno 1947 fu lanciato un vasto programma di aiuti economici all'Europa, che prese il nome di European Recovery Program (Erp) o, più comunemente, piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne assunse l'iniziativa. L'effetto fu non solo di favorire la ricostruzione, ma anche di avviare una forte ripresa delle economie dell'Europa occidentale, che già tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50 raggiunsero e superarono largamente i livelli produttivi dell'anteguerra. Pur realizzandosi complessivamente in un quadro economico liberista, il processo di ricostruzione si accompagnò, almeno in una prima fase, a una forte spinta verso le riforme sociali e a un diffuso ricorso all'intervento statale che riprendeva e ampliava pratiche già sperimentate nel corso degli anni '30. Il suo programma sociale si proponeva di portare avanti la politica riformista rooseveltiana, si realizzò solo in parte, a causa delle resistenze del Congresso, a maggioranza repubblicana, e dei democratici del Sud, contrari all'integrazione razziale. L'abolizione dei controlli sulle attività industriali e il forte deficit del bilancio statale provocarono inoltre un sensibile aumento del costo della vita. Ne seguì un'ondata di rivendicazioni salariali e di agitazioni operaie. In Francia, nazionalizzazioni e politiche sociali furono varate dal governo provvisorio presieduto da De Gaulle fra il 1944 e il 1945 e dai successivi governi di coalizione basati sull'accordo fra i partiti di massa. In Italia, pur nel quadro di un ritorno generalizzato alle pratiche dello Stato liberale, gli strumenti di intervento sull'economia introdotti durante il fascismo furono mantenuti in vita; e altri ne furono sperimentati Il caso più emblematico fu però quello della Gran Bretagna, dove, nelle elezioni del luglio 1945, Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo governo nazionalizzò le industrie elettriche e carbonifere, la sidenugia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche; riformò in senso progressivo la fiscalità ed estese il sistema di sicurezza sociale. Queste riforme, che ricalcavano in paite quelle attuate dai governi socialdemocratici nella Svezia degli anni '30, erano state già proposte in un celebre rapporto steso nel 1942, a guerra ancora in corso, dall'economista liberale William Beveridge e fatto proprio dal governo britannico. II piano Beveridge avrebbe costituito da allora un modello per molti paesi industrializzati dell'Occidente. L’ Urss e le democrazie “popolari”: Il lancio del piano Marshall, se da un lato facilitò la ripresa economica europea, dall'altro ebbe l'effetto immediato di inrigidire le contrapposizioni dell'incipiente guerra fredda. Nella formulazione originaria, il piano aveva infatti come destinatari tutti i paesi, compresi quelli dell'Est. Mai sovietici, convinti che l'aiuto promesso cavallo di Troia per affermare l'egemonia americana all'interno della loro area di influenza, respinsero il progetto comunisti e imposero di fare altrettanto anche ai Paesi dell’Europa orientale. Anche i comunisti d'Occidente si mobilitarono contro il piano, il che contribuì in Francia e in Italia alla rottura dei governi di cui facevano parte. Procedeva frattanto a tappe forzate l'imposizione del modello politico ed economico L'operazione sovietico fu realizzata attraverso una serie di crescenti forzature delle istituzioni democratiche, che formalmente sopravvivevano, ma venivano di fatto svuotate dall'attribuzione ai comunisti di tutte le posizioni chiave. Gli altri partiti (socialisti, liberal-democratici, partiti dei contadini), presenti in una prima fase nei governi di coalizione antifascista, furono gradualmente emarginati, perseguitati e infine sciolti o ridotti a una funzione puramente decorativa. Un caso a parte fu quello della Cecoslovacchia, paese economicamente e socialmente sviluppato, di solida tradizione democratica, che in politica estera seguiva una linea non ostile all'Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto la maggioranza relativa nelle libere elezioni del maggio '46. Per impone il loro punto di vista i comunisti lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, 71 costringendo, sotto la minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Eduard Benes ad affidare il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato. In marzo, il stro degli Esteri socialista Jan Masaryk, l'unica personalità non comunista del nuovo ministero, morì cadendo dalla finestra in circostanze mai chiarite. Ancora diverso fi il caso della Jugoslavia. Qui i comunisti, sotto la guida di Tito si imposero da soli al potere con ampio uso della violenza contro i lom avversari, ma anche grazie all'autorità e al pre. stigio guadagnati con l'impegno nel movimento di Resistenza, che aveva liberato il paese dall'occupazione nazista. Fu proprio la forza della leadership jugoslava a porre un ostacolo al pieno dispiegarsi del dominio dell'Urss. Completamente isolata dal mondo comunista la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull'equidistanza fra i due blocchi. In realtà, sul piano dell'organizzazione politica, il modello jugoslavo non si differenziava da quello delle altre "democrazie popolari basato com'era sulla ferrea dittatura del Partito comunista. Dalla fine della guerra, la Germania era divisa in quattro zone di occupazione (statunitense, britannica, francese e sovietica), La capitale Berlino, che si trovava all'interno dell'area sovietica, era a sua volta divisa in quattro zone. Saltata ogni possibilità di intesa con i sovietici sul futuro del paese, Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono, nel 1947, l'integrazione delle loro zone, introducendo una nuova moneta, liberalizzando l'economia e rivitalizzandola poi con gli aiuti del piano Marshall. Di fronte a quella che ormai si profilava chiaramente come la rinascita di un forte Stato tedesco integrato nel blocco occidentale, Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948 i sovietici chiusero gli accessi alla città impedendone il rifomimento, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare la zona ovest della ex capitale da loro occupata. L'Europa sembrò nuovamente sull'orlo di un conflitto. La crisi si risolse tuttavia senza uno scontro militare. Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel maggio '49, i sovietici si risolsero a togliere il blocco, rivelatosi inefficace A questo punto la divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti era compiuta. Nell'aprile 1949 fu firmato a Washington il Patto atlantico, un'alleanza difensiva fra i paesi dell'Europa occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia), gli Stati Uniti e il Canada. Il patto, che si fondava su una comune professione di fede nella "civiltà occidentale", prevedeva un dispositivo militare integrato composto (la contingenti dei singoli paesi membri: la Nato. L'imposizione del modello collettivistico sovietico ebbe conseguenze profonde sugli assetti socio economici dell'Europa orientale. I latifondisti furono spazzati via fin dalle prime riforme agrarie. Fra il '46 e il'48, furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, le banche e l'intero settore commerciale. Furono lanciati i primi piani di sviluppo. Soprattutto nei primi anni, la crescita produttiva fu notevole, con incrementi medi superiori al 10% annuo. Questo sviluppo fu però condizionato, e in qualche modo distorto, dalla subordinazione delle economie dei paesi "satelliti" a quella dello "Stato-guida". Gli obiettivi di produzione furono scelti in modo da risultare complementari a quelli dell'Urss. r tassi di cambio all'interno del rublo", nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati, furono rigidamente regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), fondato a Varsavia nel gennaio '49 con l'adesione di tutti i paesi del blocco orientale. Per conservare e tenere unito il suo "impero", l'Urss dovette quindi esercitare un controllo molto forte sui partiti comunisti dei paesi satelliti. Una violenta stretta repressiva si ebbe già all'indomani dello scisma jugoslavo: per evitare che l'eresia di Tito trovasse nuove adesioni, furono attuate, tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, massicce "purghe" nei confronti dei dirigenti comunisti dell'Est europeo sospettati di velleità autonomistiche. I processi di quegli anni furono una drammatica replica del copione già sperimentato in Unione Sovietica nel periodo prebellico: arresti arbitrari, inverosimili 72 dalle truppe sovietiche. Qualcosa parve cambiare quando il successore di Stalin alla guida del Pcus, Nikita Kruscév, si impose come leader indiscusso dell'Unione Sovietica. Kruscév si fece promotore di alcune significative aperture sia in politica estera, sia in politica interna. Sotto il primo aspetto vanno ricordati il trattato di Vienna del 1955 — con cui i sovietici accettarono di ritirare le proprie truppe di occupazione dall'Austria in cambio della neutralità del paese — e l'incontro con i capi occidentali a Ginevra per discutere il problema tedesco Per rendere irreversibile la svolta, Kruscév non esitò a compiere un'operazione traumatica; la demolizione della figura di Stalin attraverso una sistematica denuncia degli orrori e dei crimini commessi in Unione Sovietica a patire dagli anni '30. Nel febbraio 1956, in un rapporto al XX congresso del Pcus, Kfuscév pronunciò una durisSima requisitoria contro il leader scomparso tre anni prima Il rapporto Kruscév non metteva in discussione la validità del modello sovietico e della dottrina leniniana. Gli errori e le deviazioni erano attribuiti alle scelte di Stalin, al «culto della personalità" che lo aveva circondato, all'eccessivo potere della burocrazia e alle troppo frequenti violazioni della "legalità socialista" La denuncia ebbe ugualmente effetti traumatizzanti. I partiti comunisti occidentali si allinearono al nuovo corso non senza imbarazzi e riserve. Ma le conseguenze più esplosive della destalinizzazione si ebbero nell'Europa dell'Est, in particolare in Polonia e in Ungheria. In Polonia, dopo una serie di agitazioni operaie iniziate in giugno e culminate in autunno in un generale moto di protesta, i sovietici favorirono il ritorno al potere del leader comunista Wladyslaw Gomulka, vittima delle epurazioni staliniste. Gomulka promosse una politica di cauta liberalizzazione e di parziale riconciliazione con la Chiesa, impegnandosi per contro a non mettere in discussione l'alleanza con l'Urss. In Ungheria gli avvenimenti del '56 seguirono all'inizio un corso analogo. Vi furono, per tutta l'estate, agitazioni e proteste animate soprattutto da intellettuali e studenti. In ottobre le proteste sfociarono in ‘una vera e propria insurrezione, con ampia partecipazione dei lavoratori. In tutte le fabbriche si formarono consigli operai, autonomi dalle organizzazioni ufficiali A capo del govemno fu chiamato Imre Nagy, comunista dell'ala "liberale" , già espulso dal partito, Alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall'Ungheria, Quando, il 10 novembre, Nagy annunciò l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, il segretario del Partito comunista Janos Kàd',ir invocò l'intervento sovietico. Repaiti dell'Armata rossa occuparono Budapest e, con i carri armati, stroncarono in pochi giorni la resistenza delle milizie popolari. Pochi mesi dopo, Nagy fu fucilato, mentre Kadar assumeva la guida del paese. L'intervento sovietico provocò sdegno e proteste e suscitò non poche crisi di coscienza fra i comunisti di tutto il mondo occidentale colpiti dal trauma del rappoito Kruscév. Ma, sul piano dei rappoiti di forza, la "rioccupazione" dell'Ungheria confermò il controllo sovietico sui Paesi satelliti e l'immutabilità dell'assetto europeo uscito dalla seconda guerra mondiale Le democrazie europee e l’avvio dell’integrazione economica La ripresa più spettacolare, soprattutto se si tiene conto delle condizioni di partenza, fu quella della Germania federale, dove i governi postbellici applicarono un modello di economia sociale di mercato che combinava un sistema avanzato di protezione sociale con un'ispirazione di fondo liberistica e produttivistica. Diversi furono i fattori alla base del "miracolo tedesco": in primo luogo la stretta integrazione nel blocco occidentale. Gli Stati Uniti, infatti, intendevano fare della Repubblica federale non solo un bastione avanzato dello schieramento atlantico, ma anche una sorta di vetrina del benessere "capitalistico", contrapposto al modello "spartano" dei paesi dell'Est. 75 Contribuirono all'eccezionale ripresa tedesca anche la disponibilità di una numerosa manodopera fornita dai profughi e la notevole stabilità politica: una stabilità dovuta anche alla Costituzione del '49 varata sotto la tutela delle autorità di occupazione alleate che, pur mantenendo la struttura federale e l'impianto parlamentare, prevedeva meccanismi atti a penalizzare i piccoli patiti e a evitare le troppo frequenti crisi parlamentari che avevano indebolito la Repubblica di Weimar. A guidare il nuovo Stato tedesco furono innanzitutto le forze di cooperazione cristiana, che avevano raccolto l'eredità del vecchio Partito del Centro. Il Partito socialdemocratico svolse il ruolo di opposizione costituzionale, abbandonando ufficialmente, nel congresso di Bad Godesberg del 1959, l'antica base teorica marxista, in favore di una piattaforma democratico-riformista. La Germania federale si ricandidava così a svolgere un molo di rilievo nello scacchiere europeo, puntando però questa volta su una prospettiva di collaborazione e di integrazione. Del resto, gli Stati-nazione dell'Europa occidentale per il fatto stesso di aver perduto la posizione centrale a suo tempo occupata nel mondo, di essere inseriti nella stessa alleanza e retti da regimi parlamentari molto simili fra loro, vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità e crescere gli elementi di affinità reciproca (diverso era il caso della Gran Bretagna che continuava a privilegiare i legami col Commonwealth). La prima tappa significativa di questo processo si ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), che aveva il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano ancora i settori chiave della grande industria continentale. Ma il progetto di una Comunità europea di difesa (Ced), ovvero di un'organizzazione militare integrata che avrebbe dovuto porre le premesse per una vera e propria comunità politica, falli nel 1954 per il voto contrario del Parlamento francese. A questo punto, i governanti europei ripiegarono su un obiettivo più realistico: un accordo che consentissero se la creazione di un'area di libero scambio e il coordinamento delle politiche economiche, predisponendo almeno le strutture di base per una futura integrazione politica. Nel marzo 1957 i sei paesi membri della Ceca giunsero così alla firma dei trattati di Roma, che istituivano la Comunità economica europea (Cee) e davano vita all'Euratom, un ente che aveva il compito di coordi. nare gli sforzi dei paesi membri per lo sfruttamento pacifico dell'energia nucleare. Lo scopo primario della Cec era quello di creare un Mercato comune (Mec), mediante il graduale abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali. Sul piano politico, però, la spinta all'integrazione si esauri nel giro di pochi anni. E le scelte più importanti continuarono a essere prerogativa dei governi e dei Parlamenti nazionali. Nel complesso, le democrazie europee mantennero in questo periodo una notevole stabilità delle istituzioni, nonostante le tensioni della guerra fredda. Fece eccezione la Francia, che già nell'immediato dopoguerra aveva vissuto una difficile fase costituente, conclusasi nel 1946 col varo di una Costituzione. Il sistema politico della "Quarta Repubblica" non si differenziava molto da quello della Terza (nata dopo la caduta di Napoleone III e abbattuta nel 1940 dall'invasione tedesca anzi ne accentuava i difetti, a cominciare dalla frammentazione politica e dalla conseguente instabilità dei govemi di coalizione. Per questo il generale De Gaulle ne criticò le linee ispiratrici e si ritirò in orgoglioso isolamento. Già fragile di per sé, la Quarta Repubblica non resse alle tensioni provocate dalla smobilitazione dell'impero coloniale francese il cui mantenimento si rivelava sempre più insostenibile. Nel pieno della crisi, con una procedura del tutto anomala, il generale De Gaulle, da anni lontano dalla politica, fu chiamato a formare un nuovo governo di coalizione. Il Parlamento concesse al governo poteri straordinari e avviò un processo di revisione costituzionale, come richiesto dal generale. La nuova Costituzione — con cui nasceva la Quinta Repubblica - si distingueva dalla precedente soprattutto per il rafforzamento delle prerogative del presidente della Repubblica, che diventava il vero capo dell'esecutivo. 76 Il presidente in un primo tempo eletto dal Parlamento, poi, dal '62, direttamente dal popolo — aveva il potere di nominare il primo ministro (che doveva però ottenere anche la fiducia del Parlamento), di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni quando lo ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più importanti. La Costituzione stessa fu sottoposta a referendum e approvata, nel settembre '58, dall'80% degli elettori. De Gaulle cercò di risollevare il prestigio intemazionale del paese, facendosi promotore di una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e a proporla come guida di una futura Europa indipendente dai due blocchi. Il presidente volle dunque che la Francia si dotasse di una propria "forza d'urto” nucleare; contestò la supremazia del dollaro nell'economia occidentale, Si oppose ai progetti di integrazione politica fra i paesi della Cee, che non si accordavano col suo ideale di un'Europa egemonizzata dalla Francia; mise il veto all'ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. Era una politica per molti aspetti velleitaria, ma suscitò ugualmente vaste adesioni, a destra come a sinistra, e contribuì a rendere più solida la base di consenso su cui poggiava la Quinta Repubblica. Distensione e controllo: gli anni di Kennedy e Kruscev La pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise, per le democrazie occidentali con una stagione di crescita demografica, di innovazione tecnologica e di intenso sviluppo produttivo. Le speranze e le contraddizioni di questa stagione furono ben incarnate dalle figure dei due leader che si trovarono allora alla testa delle due superpotenze: il segretario del Pcus Nikita Kruscév e il presidente degli Stati Uniti, il democratico John Fitzgerald Kennedy. Kennedy suscitò immediatamente ampi consensi attorno alla sua persona, riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e Roosevelt e aggiornandola col riferimento a una "muova frontiera": ‘una frontiera non più materiale come quella dei pionieri dell'800, ma spirituale, culturale e scientifica. In politica estera, la presidenza Kennedy segui una li nea ambivalente, in cui l'enfasi sui temi della pace e della distensione con l'Est si univa a una sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute essenziali. Il primo incontro fra Kennedy e Kruscév, avvenuto a Vienna nel giugno '61 e dedicato al problema di Berlino Ovest, si risolse in un fallimento. I sovietici risposero con la costruzione di un muro che separava le due parti della città, chiudendo l'unico varco praticabile attraverso la cortina di ferro e rendendo pressoché impossibili le fughe, fino ad allora molto frequenti, dal settore orientale a quello occidentale. Il Muro di Berlino sarebbe diventato da allora il simbolo più visibile della divisione della Germania e dell'Europa e del mondo — secondo le linee già segnate dalla guerra fredda fra gli Usa le due superpotenze ebbe per oggetto l'isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro. La presenza di uno Stato ostile a meno di duecento chilometri dalle coste della Florida fu sentita negli Stati Uniti come una minaccia alla sicurezza del paese. Per questo, all'inizio della sua presidenza, Kennedy tentò di soffocare il regime cubano, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi di esuli anticastristi che tentarono, nell'aprile 1961, una spedizione armata nell'isola. Lo sbarco, che ebbe luogo in una località chiamata Baia dei porci e che, nei progetti americani, avrebbe dovuto suscitare un'insurrezione contro Castro, si risolse però in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per l'amministrazione Kennedy Nella tensione così creatasi si inserì l'Unione Sovietica, che non solo offrì ai cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l'installazione nell'isola di alcune basi di lancio per missfli nucleari. Quando, nell'ottobre 1962, le basi furono scoperte da aerei-spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l'isola. Per sette drammatici giorni (22-28 ottobre) il mondo fu vicino a un conflitto generale: mai l'incubo della guerra nucleare TT di tecnici sovietici. Quindi aveva obbligato le aziende familiari a riunirsi in cooperative, controllate dalle autorità statali. Mentre nel settore industriale si era ottenuta, partendo quasi da zero, una crescita molto rapida (con ritmi di poco inferiori al 2()% annuo), molto meno soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l'onere di sfamare una popolazione in continuo auemento (poco più di mezzo miliardo nel '49, quasi 600 milioni cinque anni dopo). Per accelerare il rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu definita del "grande balzo in avanti". Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le "comuni popolari", ciascuna delle quali doveva tendere all'autosufficienza economica, producendo in proprio quanto le era necessario L'intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto e mobilitata con una martellante campagna propagandistica. I risultati furono però fallimentari: la produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia (stime recenti parlano di 30 milioni di morti) e costringendo la Cina a massicce importazioni di cereali. Un'altra conseguenza di queste scelte politiche fu quella di far precipitare i rapporti con l'Urss. Contemporaneamente, l'Urss rifiutò di fomire qualsiasi assistenza nel campo nucleare motivando il rifiuto con l'"avventurismo" dei dirigenti cinesi. Questi replicarono accusando l'Urss di "revisionismo" e di acquiescenza all'imperialismo; e, in un crescendo di scambi polemici, giunsero a rimettere in discussione i confini fra Cina e Russia definiti nel '600. Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata addirittura in episodici scontri armati lungo il fiume Ussuri, ai confini fra la Siberia e la Manciuria. Il fallimento del "grande balzo in avanti" diede spazio, all'intemo del gruppo dirigente comunista, alle componenti meno ostili all'Urss, rappresentate soprattutto dal presidente della Repubblica Liu Shao-chi. Non disponendo di un controllo dell'apparato tale da consentirgli una rapida epurazione dei suoi avversari, Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno dell'esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, si appellò ai giovani, esortandoli a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la "via capitalistica". Si scatenò così una rivolta generazionale apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall'alto, che, richiamandosi all'"autentico" pensiero di Mao, contestava ogni potere burocratico e ogni autorità basata sulla tenza tecnica. L'intento era quello di promuovere un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva (da qui il nome di "rivoluzione culturale") e di superare in modo tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del comunismo Anche in paesi molto lontani dalla Cina, soprattutto in Europa occidentale, si formarono gruppi e movimenti giovanili ispirati all'esempio delle guardie se e al pensiero di Mao. La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di due o tre anni: quanti furono necessari per eliminare i dirigenti contrari alla linea maoista. A partire dal '68, lo stesso Mao Zedong cominciò a porre un freno al movimento da lui suscitato, che stava provocando profonde spaccature nella base comunista e rischiava di gettare nel caos l'economia. Le guardie rosse furono allontanate dalle città. I leader più radicali furono emarginati, mentre riacquistarono peso tecnici ed esperti. Un ruolo importante in questa fase fu svolto da Chou En-lai, il più autorevole dopo Mao fia i capi comunisti cinesi che ricoprì ininterrottamente dal 1949 la carica di primo ministro e che rappresentò, anche negli anni più agitati, la continuità del potere istituzionale. Fu Chou En-lai ad avviare, all'inizio degli anni '70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall'isolamento economico e diplomatico in cui il paese si trovava. Nell'autunno 1971 il maresciallo Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale e successore designato di Mao, scomparve in un incidente aereo e fu successivamente accusato di aver tentato di fuggire in Urss dopo un fallito complotto antimaoista. Con questo misterioso episodio, il periodo della rivoluzione culturale si chiudeva definitivamente. Cominciava una fase di transizione destinata a 80 sfociare, dopo la morte di Mao e di Chou En-lai (scomparsi entrambi nel 1976)' in un radicale mutamento di rotta anche sul piano interno. Capitolo 10 - La decolonizzazione e il Terzo Mondo La crisi degli imperi coloniali Per oltre quarant'anni la scena internazionale fu dominata dal confronto fra i due grandi blocchi a guida americana e sovietica. Negli stessi anni a questa realtà tendenzialmente statica si aggiunse un processo di rapida e profonda trasformazione che ebbe per protagonisti i paesi asiatici e quelli africani fino a quel momento rimasti fuori dai circuiti del potere mondiale. La Carta politica del mondo nel 1945 vedeva vaste zone dell’ Asia e buona parte dell’ Africa come possedimenti della Francia e della Gran Bretagna. Il processo di decolonizzazione, preparato negli anni fra le due guerre con la nascita dei movimenti indipendentisti, ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale. Nei fronti extraeuropei i gruppi nazionalisti si impegnarono a fianco dell’uno o dell’altro schieramento e rimasero mobilitati politicamente e militarmente per combattere il dominio coloniale (anche alla fine della guerra). Un fenomeno analogo si era già verificato durante la Grande guerra, ma in sede di conferenza di pace, le promesse di emancipazione implicite nel messaggio di Wilson erano state disattese dalle grandi potenze europee. Nel secondo dopoguerra la situazione era diversa. Le potenze vincitrici (Russia e USA) erano divise su quasi tutto, ma trovano terreno di convergenza nell’opporsi alla perpetrazione del vecchio sistema di dominio. Con la Carta atlantica del 1941, per volontà soprattutto degli Stati Uniti, gli alleati avevano proclamato il diritto di tutti i popoli a scegliere la forma di governo dalla quale intendevano essere retti. Il principio di autodeterminazione dei popoli, che avrebbe ispirato l’intera attività dell'Onu, si impose come base di un nuovo codice etico-politico internazionale, a cui le potenze coloniali non potevano sottrarsi. La linea di tendenza era già chiara alla fine della guerra, non mancarono tuttavia le resistenze nella fase di attuazione. Il processo di decolonizzazione si compì attraverso le vicende, alterne, che risentirono sia della natura dei nazionalismi locali, sia della consistenza numerica della colonizzazione bianca. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, che aveva sempre praticato forme di dominio “indiretto”, ossia fondato su ampie deleghe alle élite locali, avviò nella maggior paste dei casi un ritiro graduale delle colonie: i popoli soggetti furono preparati all'indipendenza mediante la concessione di Costituzioni e di organismi rappresentativi. La Gran Bretagna, in tal modo, cercava di trasformare il suo impero in ‘una comunità di nazioni sovrane liberamente associate nel Commonwealth. La Francia, dal canto suo, si oppose ai movimenti indipendentisti e praticò sempre una politica “assimilatrice”, che pretendeva di riunire la madre patria e le colonie in un'unica compagine politica e concedeva ai popoli soggetti una formale parità di diritti. Il rapporto con l'Europa era stato per i popoli afroasiatici un fattore decisivo di modernizzazione, rimase importante infatti, soprattuttto per le classi dirigenti che si erano formate nelle scuole, nelle università e nelle accademie militari dei paesi europei. L’eredità coloniale lasciò tracce durevoli non soltanto sul piano materiale ma anche su quello delle abitudini, della cultura e della lingua. Sul piano delle istituzioni politiche la democrazia parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi. Le ragioni furono molteplici: la diversa tradizione, il fatto che l'Europa avesse dimostrato 81 il suo volto autoritario del governo coloniale, i limiti delle classi dirigenti locali, la difficoltà di avviare un processo di sviluppo partendo da condizioni di grave arretratezza economica. Il risultato, quasi ovunque ad eccezione dell’India, fu la prevalenza di regimi autoritari. L’indipendenza dell’India: Nel 1947 la Gran Bretagna accettò di privarsi della paite più importante del suo impero: il subcontinente indiano. Negli anni fra le due guerre, in India, era cresciuto un forte movimento indipendentista, organizzato dal Pastito del Congresso, sotto la guida di Mahatma Gandhi. Durante il secondo conflitto mondiale, la maggioranza degli indiani aveva contribuito allo sforzo bellico britannico, mettendo in campo un esercito volontario che fu impiegato su tutti i fronti di guerra e giunse a contare due milioni e mezzo di uomini. Il Partito del Congresso (dal 1941 guidato da Jawaharlal Neli) aveva continuato a promuovere il movimento di resistenza non violenta alla dominazione britannica, sviluppando la promessa di concedere all'India una condizione di dominion, che equivaleva ad una indipendenza di fatto. Con.la fine della guerra si aprirono i negoziati per il trasferimento della sovranità e si conclusero nell’agosto del 1947. L’esito fu diverso da quello auspicato da Gandhi. La componente musulmana reclamò la creazione di un proprio Stato e venne accordata dai britannici, ma non prima dello scoppio di alcuni conflitti tra le due comunità. Nell'agosto del 1947 nacquero due Stati: l'Unione indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano. La creazione dei due Stati non impedì il moltiplicarsi degli scontri fra le due comunità, che assunsero a tratti le proporzioni di una vera e propria guerra. Così la vicenda di un movimento di liberazione nazionale si concluse con 200 mila morti e con il trasferimento di milioni di persone, senza contare le due guerre che India e Pakistan avrebbero combattuto nel 1948 e nel 1965 per il controllo della regione del Kashmir. Primo capo del governo dell'India indipendente fu Nehru e rimase tale fino alla sua morte (1964). L’India era un paese con profondi problemi interni: la povertà, il sovraccarico demografico, le tensioni fra i diversi gruppi etnici e religiosi che convivevano nell’Unione indiana, la permanenza di abiti mentali arcaici e di aspetti autoritari e personalistici del potere prima esercitato da Nehru e poi da sua figlia Indira Gandhi. Più travagliata fu la vicenda politica del Pakistan, dove la vita democratica fu prima a lungo interrotta da dittature militari e poi minacciata dalla crescita delle correnti islamiche integraliste. Nel 1971 lo Stato, nato nel ‘47, dovette subire la secessione della sua parte orientale che diede vita alla Repubblica del Bangladesh. Le guerre d’Indocina: Nel sud-est asiatico, il processo di emancipazione si intrecciò con lo scontro tra le forze “nazionaliste”e i movimenti comunisti. In Birmania (oggi Myanmar) e in Malesia (oggi Malaysia), entrambe colonie britanniche, indipendenti rispettivamente nel 1948 e nel 1957, prevalsero forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu sconfitta. In Indonesia il movimento nazionalista guidato da Ahmed Sukamo ottenne l’indipendenza dall’Olanda nel 1949 e cercò di seguire una politica autonoma rispetto ai due blocchi. Nel 1965, a seguito di un fallito tentativo rivoluzionario dei comunisti, Sukamo fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suhasto. Nel Regno di Thailandia le forze moderato mantennero il potere in un alternarsi di regimi militari e governi civili. Nelle Filippine, cui gli Stati Uniti concessero l'indipendenza nel 1946 conservando ampi privilegi economici e basi militari, governi di carattere 82 fra i militari. Già nel ‘54 in Siria si era affermato un regime militare di ispirazione panaraba. Nel ‘58, militari legati al Baath presero il potere in Iraq, rovesciando la monarchia hashemita. Sempre nel 1958, Nasser annunciò la fusione fra Egitto e Siria in una Repubblica araba unita (Rau). Mail progetto fallì nel giro di pochi anni. Il progetto di un socialismo islamico capace di conciliare tradizione e modernità si risolse in una sequenza di colpi di Stato e di dittature militari. Tuttavia il richiamo del nasserismo rimase molto forte ed ebbe un’influenza decisiva anche sulle vicende dei paesi del Maghreb, in lotta contro il dominio coloniale francese. L’indipendenza del Maghreb: Sia in Marocco che in Tunisia, la Francia esercitava il suo dominio in forma di protettorato. Nel dopoguerra la guida di questi movimenti fu assunta da forze di ispirazione nazionalista e laica: in Marocco l'Istiglal, appoggiato dal sultano Ben Youssef, in Tunisia il Neo-Destur, guida- Habib Burghiba. Nel 1956 i francesi si rassegnarono a concedere la piena indipendenza a entrambi i paesi, che negli anni successivi avrebbero mantenuto una posizione moderata e filo-occidentale in politica estera. Ben più drammatica e cruenta fu la lotta di liberazione in Algeria, dove la presenza francese aveva radici più profonde (la conquista risaliva al 1830) e maggiore consistenza. La colonia algerina era a tutti gli effetti una provincia dello Stato francese. Gli otto milioni di algerini musulmani erano anch'essi cittadini francesi dal 1945, ma non godevano di pieni diritti politici e non erano rappresentati nel Parlamento di Parigi. A partire dal 1954, il movimento nazio- nalista algerino, già attivo negli anni fra le due guerre, si organizzò nel Fronte di liberazione nazionale (Fln), un’organizzazione clandestina radicata soprattutto nelle città. Cominciava così uno scontro che avrebbe assunto il valore di un modello per i movimenti rivoluzionari del- le ex colonie. Lo scontro culminò nel 1957 con la battaglia di Algeri, che durò quasi nove mesi e vide la parte araba della città mobilitata a sostegno dei combattenti del Fln. I francesi riuscirono a piegare l'insurrezione con un massiccio invio di repaiti speciali e con una repressione particolarmente brutale. Nel maggio 1958, la minaccia di un colpo di Stato da parte dei militari e dei coloni più oltranzisti provocò la crisi della Quarta Repubblica e favorì il ritomo al potere di De Gaulle. Il generale capi ben presto che la causa dell’*“Algeria francese" era ormai perduta e agì con determinazione per far uscire il paese da una guerra sempre più difficile e costosa. Si apriva così la strada all'indipendenza algerina che fu sancita dagli accordi di Evian del marzo 1962. L’ Algeria si diede un ordinamento interno fortemente autoritario, con un'economia in buona palte statalizzata e assunse una posizione di punta nello schieramento dei paesi arabi. Di ispirazione nazionalista fu la rivoluzione che, nel 1969, depose la monarchia in Libia e portò al potere i militari guidati dal giovane colonnello Muhammar Gheddafi. Il regime di Gheddafi si sarebbe in seguito caratterizzato per il tentativo di realizzare una sua speciale versione del socialismo islamico e soprattutto per il dinamismo a tratti avventuroso della sua politica estera: una politica che lo avrebbe portato ad appoggiare i movimenti di guerriglia anti-occidentali e a inserirsi nei conflitti interni di vari paesi africani, creando uno stato di permanente tensione coni regimi arabi moderati e soprattutto con gli Stati Uniti. Le guerre arabo-israeliane: Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare un pericoloso focolaio di tensione: a livello locale, a causa della permanente ostilità tra Israele e i paesi arabi, che rifiutavano di riconoscere lo Stato ebraico; a livello internazionale, in quanto terreno di scontro tra l'Unione 85 Sovietica, divenuta grande protettrice dell'Egitto, e gli Stati Uniti, che sostenevano con decisione Israele. Nel 1967 Nasser proclamò la chiusura del Golfo di Aqaba, unico sbocco israeliano sul Mar Rosso, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrarono, il 5 giugno, un attacco preventivo contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito venne deciso fin dalle prime ore, con la distruzione dell'intera aviazione egiziana, colpita ancor prima di decollare. L'Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania perse tutti i territori della riva occidentale del Giordano, inclusa la parte orientale di Gerusalemme, la Siria perse le alture del Golan. Gli arabi contarono più di 30 mila morti, gli israeliani poche centinaia. Altri 400 mila palestinesi ripararono in Giordania e negli altri paesi arabi,. La disfatta della “guerra dei sei giorni" ebbe per gli arabi conseguenze di vasta portata: segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo; indusse a un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati della zona; determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dalla tutela dei regimi arabi. Guidata, a partire dal 1969, da Yasser Arafat, già leader del gruppo principale, quello di al-Fatah, l'Olp pose le sue basi in Giordania, creandovi una specie di Stato nello Stato. Il re di Giordania, Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici condotti dai feddayn (“combattenti") palestinesi contro lo Stato ebraico, decise di interrompere la difficile convivenza: settembre 1970 — il cosiddetto “settembre nero" — le truppe regolari giordane si scontrarono con militanti palestinesi che furono costretti a riparare nel vicino Libano. Da allora l'Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul piano internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi, come quello attuato a Monaco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi del 1972. Nel 1970 Nasser morì. Il suo successore, Anwar Sadat, cercò di dare alla politica egiziana un'impronta più realistica e meno condizionata dall'ideologia. Il 6 ottobre 1973 le truppe egiziane colsero di sorpresa le linee israeliane sul Canale di Suez e dilagarono nel Sinai, mentre i siriani attaccarono nel Golan. Ma Israele riuscì a respingere gli attaccanti e a passare all'offensiva, penetrando in territorio egiziano. La guerra si chiuse senza vincitori né vinti. Gravi furono invece le conseguenze a livello internazionale: la chiusura per due anni del Canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi contro i paesi occidentali amici di Israele diedero alla crisi una dimensione globale. L'aumento improvviso del prezzo del petrolio imposto dai paesi produttori provocò conseguenze di vasta portata sul le economie di tutto il mondo. Tradizionalismo e modernizzazione in Turchia e Iran: La Turchia e l'Irannon avevano conosciuto la dominazione coloniale ma avevano subito, in diversa misura, l'influenza delle potenze europee; la Turchia, dopo la sconfitta dell'Impero ottomano nella Grande Guerra, aveva rischiato di finire divisa in zone di influenza, ma era stata salvata dalla rivoluzione di Kemal Atatùik. L'Iran, grande produttore di petrolio, era oggetto, fin dall'800, delle opposte mire egemoniche di Russia e Gran Bretagna. Rimasta neutrale per quasi tutta la durata del secondo conflitto mondiale la Repubblica turca aderi al sistema di alleanze occidentale (divenne membro della Nato nel 1952) per sottrarsi all'influenza della vicina Unione Sovietica. Sul piano interno, continuò a muoversi entro le linee tracciate da Atatirk, che aveva guidato con mano di ferro il paese lungo un percorso di accelerata modernizzazione e di forzata laicizzazione. Nel secondo dopoguerra in parallelo con l'apertura di nuovi spazi di democrazia, le maglie del controllo sui cittadini si allargarono e fu concessa una maggiore tolleranza nei confronti delle 86 tradizionali forme di culto. Protagonista di questa fase politica fu Adnan Menderes, primo ministro per l'intero decennio 1950-60. Menderes fu rovesciato nel 1960 e mandato a morte da un colpo di Stato militare. Da allora la Turchia visse una vita politica alquanto agitata, in cui una vivace dialettica partitica veniva periodicamente interrotta dagli interventi dei militari. Anche l'Iran, nel primo dopoguerra, aveva intrapreso un percorso di modernizzazione economica e politica sotto la monarchia di Reza Pahlavi, un militare insediatosi al trono nel 1925 col titolo di scià (imperatore) dopo un colpo di Stato che aveva rovesciato la dinastia turca dei Cagiari. Durante la seconda guerra mondiale, il paese, collocato in posizione strategica fra il mondo arabo, la Russia e il subcontinente indiano, fu sottoposto alla duplice occupazione di britannici e sovietici, che nel 1941 imposero allo scià di abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi. Il giovane monarca continuò la politica del padre ma si avvicinò alle potenze occidentali, in paiticolare alla Gran Bretagna, legata all'Iran da un accordo per lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Untentativo di svolta si ebbe nel 1951, quando divenne primo ministro Mohammed Mossadeg, fautore di una democratizzazione del sistema politico e di un'emancipazione del paese dalla subordinazione economica all'Occidente. La decisione di Mossadeq di nazionalizzare l'industria petrolifera provocò però la reazione del governo britannico, che questa volta, diversamente da quanto sarebbe accaduto qualche anno dopo con la crisi di Suez, ottenne la collaborazione degli Stati Uniti. Nel 1953 un colpo di Stato militare organizzato dai servizi segreti anglo-americani depose il primo ministro e restituì il potere assoluto allo scià. L’indipendenza dell’Africa nera: La partita decisiva della decolonizzazione si giocò in quei paesi dell’ Asia e del Nord Africa che avevano alle spalle una lunga storia di dominio coloniale. Peri paesi dell’Africa a sud della fascia sahariana, che erano stati tutti colonizzati nel giro di pochi decenni. La grande stagione dell'emancipazione africana si apr nei territori britannici con l'indipendenza del Ghana nel 1957. Frale colonie francesi la prima ad affrancarsi fu la Guinea nel 1958. Nel 1960 ottennero l'indipendenza ben diciassette nuovi Stati: fra questi la Nigeria, il Congo belga (Zaire), il Senegal e la Somalia. Nel 1961 fu la volta del Tanganica e nel 1963 di Zanzibar, che nel 1964 si unirono dando vita alla Repubblica di Tanzania, sotto la guida di Julius Nyerere. Il cammino verso l'indipendenza fu più travagliato dove erano in gioco interessi più forti o dove più consistente era la presenza dei coloni bianchi. Il Kenya, per esempio, prima di raggiungere l'indipendenza nel 1963, fu insanguinato dalla violenta campagna terroristica condotta dai Mau-Mau, cui rispose un'altrettanto spietata repressione da parte dei britannici. Nella Rhodesia del Sud, la minoranza bianca, per difendere le sue posizioni, non esitò a rompere con la Gran Bretagna: nel 1965 il governo razzista di Ian Smith proclamò unilateralmente l'indipendenza e l'uscita dal Commonwealth. Solo nel 1980 il paese fu restituito alla maggioranza nera e prese il nome di Zimbabwe. Nell’Unione Sudafricana il dominio della forte minoranza bianca si reggeva su un regime di segregazione razziale, l'apartheid, che fu inasprito e reso più rigido già nel corso degli anni '50. Il tentativo di concentrare una parte della popolazione nera in piccoli Stati semi-indipendenti non servì ad attenuare le tensioni, che si concentravano soprattutto nelle citas a spegnere la protesta, anche violenta, della maggioranza nera, organizzata nell'Anc (African National Congress), fuori legge dal 1960. Solo nell'ultimo decennio del secolo, come vedremo, si sarebbe giunti a una soluzione pacifica 87 favorevole del periodo postbellico. Osteggiato dai conservatori, dai vertici delle forze armate, dalle gerarchie ecclesiastiche e alla fine anche dai ceti medi, Peròn fu rovesciato nel 1955 da un colpo di Stato militare e costretto ad abbandonare l'Argentina. Il paese visse anni agitati, in una continua alternanza fra deboli governi civili e dispotici regimi militari. Nel 1972, in presenza di una situazione sempre più delicata, soprattutto sotto il profilo dell'economia e dell'ordine pubblico (erano attivi nel paese diversi gruppi di guerriglia, sia di ispirazione marxista sia di obbedienza peronista), furono gli stessi militari a sollecitare il ritomo in patria dell'esule Peron. Rieletto alla presidenza della Repubblica nel ‘73, il leader fallì completamente nel compito di riportare l'ordine nel paese. La dittatura militare, per combattere i movimenti di opposizione, usò metodi estremamente brutali: decine di migliaia di persone furono arrestate e uccise o scomparvero nel nulla. Simili furono le vicende del Brasile, dove si era sviluppato già negli anni '30 il primo esperimento di govemo populista dell'America Latina, quello di Getulio Vargas. Rovesciato nel 1945 dai militari, Vargas tornò al potere nel 1950, ma si scontrò con difficoltà analoghe a quelle incontrate da Peròn in Argentina. Nel 1954, esautorato nuovamente dai militari, Vargas si suicidò. I suoi successori seguirono una politica di non allineamento nelle relazioni internazionali e rilanciarono i progetti di industrializzazione e modernizzazione ma non riuscirono a cancellare i gravissimi squilibri di un paese immenso, caratterizzato dalla presenza di vaste zone di arretratezza (soprattutto nel Nord-Est). Nel 1964 un nuovo colpo di Stato riportò al potere i militari, che imposero una svolta autoritaria, basata sulla repressione dei conflitti sociali e sull'incoraggiamento all'afflusso dei ca stranieri: l'economia brasiliana registrò buoni risultati a prezzo, però di ulteriore aggravamento degli squilibri. Assunse enorme rilievo la vicenda di Cuba, dove il regime corrotto e dittatoriale di Fulgencio Batista fu rovesciato nel gennaio 1959, dopo una guerriglia iniziata tre anni prima sulle montagne della Sierra Maestra, da un movimento rivoluzionario guidato da Fidel Castro. Schierato inizialmente su posizioni democratico-riformiste, Castro avviò subito una riforma agraria che colpiva il monopolio esercitato dalla United Fruit Company sulla coltivazione della canna da zucchero, principale risorsa dell’isola. Gli Stati Uniti, che pure non avevano osteggiato la rivoluzione e avevano prontamente riconosciuto il nuovo regime, assunsero a questo punto un atteggiamento ostile e iniziarono un boicottaggio economico verso l'isola, imponendo l'embargo nei suoi confronti. Castro rivolse allora all'Urss, che si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano a prezzi molto superiori a quelli del mercato intemazionale e a rifornire l'isola di petrolio e macchinari. Nel giro di pochi anni, il regime cubano, che aveva rotto le relazioni diplomatiche con gli Usa, si orientò sempre più decisamente in senso comunista. L'economia fu in gran parte statalizzata e venne istituito un regime a partito unico. In questo contesto emerse Ernesto “Che" Guevara, medico argentino che aveva preso parte alla guertiglia contro Batista e ricopriva ora ruoli di primo piano nel governo cubano. I successi in questo campo furono scarsi: nel 1967 lo stesso Guevara, che si era impegnato in prima persona nel tentativo di accen. dere focolai di guerriglia in America Latina, fu catturato e ucciso in Bolivia. La sfida rivoluzionaria ebbe l'effetto di inasprire le tensioni inteme nei paesi latino-americani e di fomire muovi pretesti per gli interventi repressivi dei militari, già affermatisi in buona parte del Sud e del Centro America. Nella prima metà degli anni '70, i militari assunsero il potere anche in paesi di tradizione democratica. Fuil caso dell'Uruguay, dove il regime liberale, indebolito da una gravissima crisi economica e dalle spettacolari azioni di guerriglia urbana messe in atto dal movimento clandestino dei tupamaros, fi rovesciato nel '73. Ma la vicenda più emblematica fu quella del Cile, dove nel 1970 il socialista 90 Salvador Allende aveva assunto la presidenza, a capo di una coalizione di Unità popolare. Allende tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e di radicali riforme sociali, ma dovette scontrarsi, oltre che con la debolezza della sua base elettorale, anche con una situazione economica ai limiti del dissesto, con l'opposizione della borghesia e con l'aperta ostilità degli Stati Uniti, nonché con le intemperanze estremiste di una parte dei suoi stessi seguaci. Nel settembre 1973 Allende fu rovesciato da un colpo di Stato militare e ucciso mentre tentava un'estrema resistenza nel palazzo presidenziale. Il potere fu assunto dal generale Augusto Pinochet, che schiacciò con la violenza ogni possibile opposizione e diede vita a un regime dai tratti duramente autoritari. Capitolo 11 - L’Italia repubblicana L’Italia nel 1945: Nel giro di pochi anni, fra il 1945 e il 1949, l'Italia si lasciò alle spalle l'esperienza della dittatura fascista ed entrò in una nuova fase della sua storia unitaria. Con la fine del secondo conflitto mondiale, l'Italia aveva recuperato libertà e unità territoriale. Ma la sua situazione era quella di un paese materialmente devastato. La produzione industriale era scesa a meno di un terzo di quella dell'anteguerra. La quantità media giornaliera di calorie a disposizione di ogni cittadino era meno della metà di quella del '38. L'inflazione era aumentata in modo vertiginoso: i prezzi al consumo erano cresciuti di 18 volte in sei anni, polverizzando i risparmi e ridimensionando drasticamente i salari reali. La fame, la mancanza di alloggi e l'elevata disoccupazione contribuivano a rendere precaria la situazione dell'ordine pubblico. La fine della guerra aveva ridato slancio a una conflittualità sociale che gli stessi leader della sinistra faticavano a tenere a freno. Un serio problema era poi costituito da quegli ex partigiani che intendevano liquidare i conti del ventennio con misure di giustizia sommaria nei confronti dei fascisti. Ma la minaccia più grave, nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla malavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera (ossia al commercio clandestino di generi razionati). In Sicilia, in particolare, si assisteva a una ripresa in grande stile del fenomeno mafioso, favorita anche dal comportamento delle autorità militari americane, che non avevano esitato, al momento dello sbarco nell'isola, a servirsi di noti esponenti della malavita italoamericana per stabilire contatti con la popolazione. Sempre negli anni dell'occupazione alleata, si sviluppato in Sicilia un movimento indipendentista, strettamente legato agli agrari e alla vecchia dirigente prefascista e condizionato da una forte presenza mafiosa. Il movimento fu affrontato eneigia e stroncato dai governi del dopo-liberazione. Ma molti suoi aderenti rimasero alla macchia, dando vita ad alcuni fra i più gravi episodi di banditismo del dopoguerra nel Sud. Fenomeni come questi erano solo i segni più evidenti della disgregazione morale, oltre che politica, in cui la guerra aveva gettato il paese. Da una parte, al Sud, l'occupazione alleata, la continuità istituzionale sotto il segno della monarchia, la sostanziale tenuta dei vecchi equilibri sociali. Dall'altra, nel Centro-Nord, l'occupazione tedesca, la guerra civile, un'insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si intrecciava alle istanze rivoluzionarie L'Italia era una nazione sconfitta e occupata militarmente, dipendeva dagli aiuti alleati e non poteva dunque considerarsi completamente arbitra del proprio destino. Il compito di affrontare questi problemi spettava in primo luogo ai partiti che si erano raccolti nel Comitato di liberazione nazionale. I più attrezzati da questo punto di vista erano i partiti di sinistra: il Partito socialista, che portava allora il nome di Psiup, assunto nel '43, ed era guidato da Pietro Nenni; e il Partito comunista, nato nel 1921 da una scissione del Psi. Il Paitito socialista era storicamente il primo partito della classe operaia 91 italiana, ma era diviso ancora una volta fra la tradizione riformista e le spinte rivoluzionarie, che lo portavano a mantenere uno stretto legame coni comunisti. Giocava inoltre a sfavore dei socialisti il ruolo non di primo piano svolto nella Resistenza. Al contrario, il Paitito comunista traeva forza e credibilità proprio dal contributo offerto alla lotta antifascista. Il «partito nuovo» che Palmiro Togliatti aveva cercato di costruire dopo la "svolta di Salerno" era un autentico partito di massa e aspirava a mantenere un ruolo di govemo, senza però allentare il suo stretto legame con l'Urss e senza accantonare del tutto l'opzione rivoluzionaria. Fra gli altri paititi, l'unico in grado di competere con le sinistre sul piano dell'organizzazione di massa era la Democrazia cristiana. La DC si richiamava all'esperienza del Paitito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma, ispirato alla dottrina sociale cattolica e ne ereditava la base contadina e piccolo-borghese. Anche il gruppo dirigente, a cominciare dal segretario Alcide De Gasperi, veniva in buona parte da quel pastito, ma era stato rafforzato dall'afflusso delle nuove leve cresciute politicamente durante il ventennio nelle file dell'Azione cattolica. Il Partito liberale poteva contare su una serie di adesioni illustri oltre che sul sostegno della grande industria e dei proprietari terrieri. Ma il rapporto personale e clientelare fra i leader liberali e la loro base elettorale era ormai definitivamente compromesso dopo vent'anni di dittatura fascista. Forte del prestigio che gli veniva dal notevole contributo dato alla lotta partigiana, il Pda si faceva promotore di ampie riforme sociali, ma era privo di una base di massa e faticava a trovare una sua identità, diviso com'era fra un'ala socialista e un'ala liberal-democratica. Si sarebbe presto sciolto, così come il piccolo Partito democratico del lavoro che pure aveva fatto parte del Cln. Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima del dopo-liberazione. Assente ancora un movimento neofascista organizzato (solo nel dicembre '46 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano), gli elettori di destra si raccolsero in parte sotto le bandiere monarchiche e in parte contribuirono all'affermazione di un nuovo movimento: l'Uomo qualunque. I qualunquisti rifiutavano qualsiasi caratterizzazione ideologica e si limitavano ad assumere le difese del cittadino medio, oppresso dalle tasse e dalla nuova "dittatura" dei partiti del CNL. Un ruolo importante nell'Italia del dopoguerra fu svolto anche dalla Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), ricostruita su basi unitarie, nel giugno '44, nella Roma ancora occupata dai tedeschi. Le tre componenti — socialista, comunista e cattolica erano rappresentate pariteticamente negli organi dirigenti, ma erano molto squilibrate fra loro come peso numerico. La loro convivenza non fu sempre facile e richiese un incessante lavoro di mediazione politica. La Cgil riusci tuttavia a realizzare alcune impoitanti e durevoli conquiste normative: il riconoscimento delle commissioni inteme, che rappresentavano il sindacato all'interno delle aziende. La prima occasione di confronto fra i partiti del Cln all'indomani della liberazione si presentò al momento di scegliere il nuovo capo del governo. Dopo un lungo braccio di ferro fra socialisti e democristiani, l'accordo fu trovato sul nome di Fernuccio Parri, esponente del Partito d'azione e già capo militare della Resistenza. Main questo modo si attirò l'opposizione delle forze moderate, in particolare del Partito liberale, che nel novembre tolse la fiducia al governo, determinandone la caduta. La DC riuscì allora a imporre la candidatura del leader Alcide De Gasperi. Il nuovo governo si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln, ma inaugurava una svolta di segno moderato destinata a rivelarsi irreversibile. La Repubblica e la costituente: All'inizio del 1946, dopo molti rinvii dovuti alla difficile situazione del paese il governo fissò al 2 giugno la data per le elezioni dell'Assemblea costituente, che sarebbe stata incaricata di scrivere la nuova Costituzione italiana. 92 Nella sua campagna elettorale il partito di De Gasperi poté giovarsi dell'aiuto di due potenti alleati. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII, si impegnò in una vera crociata anticomunista e mobilità tutte le sue organizzazioni in una propaganda spesso grossolana, ma indubbiamente efficace, a sostegno della DC. Decisivo fu anche l'appoggio degli Stati Uniti, che consenti ai democristiani di presentarsi come i più accreditati rappresentanti della massima potenza mondiale e di agitare la concreta minaccia di una sospensione degli aiuti del piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre. Giocavano quindi a favore della DC, oltre alla paura di mutamenti radicali. Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori e insistendo sui toni democratici e populisti rispetto a quelli classisti e rivoluzionari. Ma la loro propaganda fu fortemente danneggiata da ‘una stretta adesione alla causa dell'Urss e alla politica estera di Stalin, in un momento in cui l'immagine del comunismo sovietico era inevitabilmente associata a quanto stava accadendo nell'Europa dell'Est, in particolare in Cecoslovacchia. Le elezioni si risolsero in un travolgente successo del partito cattolico, che ottenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, attirando sulle sue liste i suffragi dell'elettorato moderato e anticomunista, istintivamente portato a concentrare i suoi voti sul paitito più forte (le destre risultarono infatti in netto calo). Bruciante fu la sconfitta di socialisti e comunisti, che uniti ottennero il 31 % contro il 39,6% del 1946. Il peso della sconfitta ricadeva per intero sul Psi, che vede va più che dimezzata la sua rappresentanza parlamentare e pagava così l'allineamento sulle posizioni del Pci. Cadevano le speranze della sinistra di guidare la trasformazione del paese L'insofferenza dei militanti di sinistra per questo risultato esplose tre mesi dopo le elezioni, quando, il 14 luglio del '48, il segretario comunista Togliatti fu ferito gravemente mentre usciva da Montecitorio da un giovane di destra che gli sparò alcuni colpi di pistola. In tutte le principali città, militanti dei patiti di sinistra scesero in piazza, scontrandosi con le forze dell'ordine. L'agitazione si esaurì in pochi giorni, anche per il comportamento prudente dei dirigenti comunisti e per l'appello alla calma lanciato dallo stesso Togliatti. Ma le tensioni nel paese risultarono ulteriormente esasperate. Un'altra conseguenza delle giornate del luglio '48 fu la rottura all'intemo della Cgil, che era stata ricostituita nel 1944 su basi unitarie. Con le elezioni del 18 aprile '48, gli elettori italiani non solo scelsero il pastito che avrebbe governato il paese negli anni a venire, ma si espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale. Sul terreno della politica economica, i governi dell'immediato dopoguerra non introdussero riforme strutturali di rilievo: anche perché la corrente di pensiero dominante fra gli economisti vedeva nella pianificazione un prodotto dei regimi autoritari. Comumisti e socialisti, finché restarono al governo, si limitarono sostanzialmente a un'azione di difesa dei salari e dell'occupazione. Anche questa linea di resistenza cadde però con l'estromissione delle sinistre dal governo e la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, in cui il ministero del Bilancio era tenuto dall'economista liberale Luigi Einaudi. Mentre le sinistre si impegnavano in un'impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuò una manovra economica che aveva come scopi principali la fine dell'inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. La manovra si attuò su tre distinti livelli: una serie di inasprimenti fiscali e tariffari; una svalutazione della lira che doveva favorire le esportazioni e incoraggiare il rientro dei capitali, attratti dal cambio favorevole. Una energica restrizione del credito che limitò la circolazione della moneta e costrinse imprenditori e commercianti a mettere sul mercato le scorte accantonate in attesa di un aumento dei prezzi. Nel complesso, la "linea Einaudi" tenne i risultati che si era prefissa: la lira recuperò potere d'acquisto, i capitali esportati rientrarono in Italia. I fondi del piano Marshall furono utilizzati per finanziare le importazioni di derrate alimentari e materie prime, ma non per sviluppare la domanda interna. La durezza dello scontro sociale che ne 95 scaturì non impedì comunque al paese di trovare lo slancio necessario per una ricostruzione più rapida del previsto: nel 1950 furono infatti raggiunti i livelli produttivi dell'anteguerra. L'adozione di un modello di sviluppo fondato sull'iniziativa privata, sia pur corretta dall'intervento pubblico, era anche il risultato di una crescente integrazione con le economie dell'Occidente capitalistico e contribuì a definire la collocazione internazionale del paese. Così, quando, alla fine del '48, furono gettate le basi per il Patto atlantico, il governo italiano, per volontà soprattutto di De Gasperi e del ministro degli Esteri Sforza, decise di accettare la proposta di adesione che era stata rivolta all'Italia, nonostante l'opposizione di socialisti e comunisti e le perplessità di una parte del mondo cattolico. L'adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento, dopo un acceso dibattito, nel marzo 1949. De Gasperi e il centrismo: I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-53) segnarono il periodo di massima egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Nonostante potesse contare sulla maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, la DC mantenne l'alleanza coni partiti laici minori; associò ai suoi governi, sempre presieduti da De Gasperi, rappresentanti del Pli, del Pri e del Psdi. Fu questa la formula del centrismo, che vedeva una Dc molto forte occupare il centro dello schieramento, lasciando fuori dalla maggioranza sia la sinistra socialcomunista, sia la destra monarchica e neofascista. Componente essenziale della politica centrista era una moderata dose di riformismo che rafforzasse la base di consenso popolare dei paititi di governo. Da questo punto di vista, l'iniziativa più importante fu la riforma agraria del 1950, che prevedeva l'esproprio e il frazionare conto di parte delle grandi proprietà terriere in ampie aree geografiche del Mezzogiorno e delle isole c del Centro Nord. Gli obiettivi a più lungo termine erano l'incremento della piccola impresa agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini indipendenti, tradizionalmente considerato un fattore di stabilità sociale e largamente egemonizzato dalla DC, attraverso la potente Confederazione dei coltivatori diretti. Questi obiettivi si sarebbero però rivelati illusori. Le nuove piccole aziende agricole si dimostrarono per lo più poco vitali. E la riforma non servì a contenere quel fenomeno di migrazione dalle campagne che, cominciato all'inizio degli anni '50, avrebbe assunto proporzioni imponenti alla fine del decennio. Nell'agosto 1950, contemporaneamente alla riforma agraria, fu varata un'altra legge importante: quella che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture. I primi interventi adottati dalla Cassa per il Mezzogiorno mirarono al miglioramento dell'agricoltura e alla costruzione di infrastrutture atte a favorire l'industrializzazione: strade, linee elettriche e acquedotti. A partire dal 1957 la politica della Cassa fu orientata verso il sostegno diretto, attraverso la concessione di crediti agevolati alle industrie che si fossero impiantate in aree Prescelte dallo Stato, i cosiddetti poli di sviluppo. Nel giro di pochi anni grandi complessi industriali si insediarono a Taranto, Brindisi, Cagliari, Gela, Bagnoli, Pomigliano d'Arco e Pozzuoli. Le riforme varate dai governi centristi accanto a quelle già citate si devono ricordare la legge Fanfani sul finanziamento alle case popolati e la riforma tributaria Vanoni furono fortemente avversate dalla destra: gli stessi liberali si ritirarono dal governo nel '50 in quanto contrari alla riforma agraria. D'altro canto le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi un'opposizione dura, motivata anche dallo stato di disagio in cui ancora versavano le classi lavoratrici. La politica economica del governo continuava infatti a basarsi sull'austerità finanziaria e sul contenimento dei consumi privati. I partiti di sinistra e la Cgil reagirono mobilitando le masse operaie in una serie di scioperi e manifestazioni, che spesso si concludevano in scontri con le forze dell'ordine. Comunisti e socialisti 96 furono "schedati" e a volte discriminati negli impieghi pubblici. Il ministro degli Interni Mario Scelba, che tenne quasi ininterrottamente la carica fra il '47 e il '55, divenne, agli occhi dei militanti di sinistra, il simbolo di una politica illiberale e repressiva. Costretti a fronteggiare la pressione della sinistra e minacciati dalla crescita della destra, De Gasperi e i suoi alleati tentarono, nell'imminenza delle elezioni del '53, di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi elettorali. Il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera a quel gruppo di partiti "apparentati" (ossia uniti da una preventiva dichiarazione di alleanza) che ottenesse almeno la metà più uno dei voti. Da qui le violente polemiche che accompagnarono la discussione in Parlamento della riforma elettorale, ribattezzata dalle sinistre "legge truffa". La legge fu approvata nel marzo '53, dopo una durissima battaglia parlamentare. Nelle elezioni che si tennero in giugno, però, la coalizione di governo fu sorprendentemente sconfitta: sia la DC sia i suoi alleati persero consensi rispetto al '48, mentre ne guadagnarono monarchici e neofascisti. L'obiettivo del 50% fu mancato per poche decine di migliaia di voti. II premio di maggioranza non scattò e, dopo le elezioni, la legge fu abrogata. Uscito di scena De Gaspeti, che si dimise nel '53 e Sviluppo e morì un anno dopo, i successivi governi a guida democtristiana continuarono ad appoggiarsi sulla ormai esigua maggioranza centrista. La crescita economica si consolidava. E si rafforzavano di pari passo i legami con l'Europa più avanzata, che sarebbero poi stati ribaditi, nel marzo 1957 con l'adesione alla Comunità Economica Europea. Nell'estate 1955 fu presentato in Parlamento il cosiddetto piano Vanoni (dal nome dell'alloca ministro del Bilancio), che indicava fra gli obiettivi prioritari della politica economica l'assorbimento della disoccupazione e la cancellazione del divario fra Nord e Sud. Un'altra novità importante di questi anni, sul piano delle istituzioni, fu l'insediamento, nell'aprile '56, della Corte costituzionale. La Corte avrebbe svolto una funzione importante nell'adeguare la vecchia legislazione ai principi costituzionali e nel far cadere alcune fra le norme più autoritarie varate in periodo fascista. Due anni dopo si sarebbe insediato il Consiglio superiore della magistratura, anch'esso previsto dalla Costituzione. Nella Democrazia cristiana emergeva intanto la nuova generazione cresciuta nell'Azione cattolica degli anni '30, legata alle problematiche del cattolicesimo sociale e favorevole all'intervento statale nell'economia. Il principale esponente di questa generazione, Amintore Fanfani, divenuto segretario nel 1954, cercò di rafforzare la struttura organizzativa del partito e di svincolarlo dai condizionamenti dell'industria privata, collegandolo più strettamente alle imprese di Stato: in particolare all'Eni. Nel dicembre '56 fu creato il ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l'attività delle aziende di Stato: era il segno di una nuova volontà del potere politico di intervenire più incisivamente nella gestione dell'economia. Frattanto, cominciavano a delinearsi significativi mutamenti negli scenari politici nazionali, rimasti a lungo bloccati nelle contrapposizioni della guerra fredda. Un passaggio importante verso nuovi equilibri fu rappresentato dalle ripercussioni dei fatti d'Ungheria del 1956. Mentre il Pci approvò l'intervento sovietico, il Psi lo condannò. Pietro Nenni, leader del partito ai tempi del Fronte popolare a guidare la svolta autonomista, con cui il Psi si rendeva disponibile a una collaborazione con la DC e i patiti laici. Il “miracolo economico”: Già dall'inizio degli anni '50, una volta esaurite le urgenze della ricostruzione, l'economia italiana aveva cominciato a crescere a ritmi mai conosciuti in passato. Questo processo giunse al culmine fra il 1958 e il 1963: gli anni del "miracolo economico". Fra il '51 e il'63, il prodotto pro capite crebbe mediamente del 5,8% all'anno. Lo sviluppo interessò soprattutto l'industria manifatturiera, che nel '61 giunse a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico: un incremento paiticolarmente 97
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