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Riassunto: "Dante Alighieri. Una vita" (Paolo Pellegrini), Sintesi del corso di Filologia italiana

Riassunto dettagliato e suddiviso in capitoli dell'opera.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 22/02/2022

caterinabertussi
caterinabertussi 🇮🇹

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Scarica Riassunto: "Dante Alighieri. Una vita" (Paolo Pellegrini) e più Sintesi del corso in PDF di Filologia italiana solo su Docsity! RIASSUNTO: “Dante Alighieri. Una vita.” CAPITOLO PRIMO “FIRENZE TRA XII E XIII SECOLO” 1. Dai consoli al podestà Per capire gli episodi che hanno caratterizzato la vita di Dante, è necessario ricostruire il contesto storico. Le prime testimonianze relative a una qualche forma di governo organizzato a Firenze nella seconda metà del XII secolo si riferiscono alla figura dei consoli delle città “CONSULES CIVITATIS”. C’erano altri istituti che condividevano la gestione del potere: i CONSULENS MERCATORUM E CONSULENS MILITUM cioè i rappresentati dei mercanti e di chi esercitava l’arte militare, quindi ciò evidenziava che non esisteva una singola magistratura governativa all’epoca, i altri documenti compaiono altri membri come i rappresentativi degli artigiani delle città: le corporazioni più importanti erano quelle dei mercanti di Calimala e Por Santa Maria, quella della Lana, quella del cambio e quella dei giudici notai. Fino al 1204 c’era questa situazione. Dopo questa data non si hanno ulteriori notizie fino agli anni venti del duecento. Si conoscono pochi nomi di consoli che non hanno contribuito a tracciare un profilo sociale: in una prima fase questi costituiscono un gruppo non omogeneo. Solo 4 famiglie fiorentine manterranno contati con il potere pubblico del XI secolo fino all’età comunale mentre le altre famiglie che si affermano erano del secolo recente. Tra XII e XIII secolo la fisionomia del gruppo dirigente si consolidò e si assistette a una rigida chiusura del consolato: i nomi dei consoli appartenevano sempre agli stessi gruppi familiari. Loro appartenevano ad un’aristocrazia di origine cittadina, erano pochi, tra i consulens, i cittadini di stirpe signorile, cioè i detentori di castelli nel contado o quelli legati da fedeltà vassallatica al vescovo di Firenze. Tra questi si può ricordare la stirpe dei BUONDELMONTI, discesa dai signori del castello di Montebuoni. Saranno invece le famiglie cittadine più ricche ad acquistare a loro volta signorie di castello dai nobili o dagli enti ecclesiastici indebitati. Molte di queste famiglie consolari, indipendentemente dalla loro antica origine esercitavano frequentemente il commercio del denaro e l’assenza di legami feudali le spingeva a consorziarsi nelle così dette “società di torre”, delle vere e proprie alleanze militari sorte attorno a complessi fortificati urbani. Allo schiudersi del duecento fece comparsa il PODESTA’ in modo più frequente, ma sempre alternandosi al regime consolare, e anch’egli era chiamato a mitigare le liti tra le fazioni cittadine ma anche a guidare più efficacemente il comune. Proprio per le frequenti campagne militari, ci furono dei MUTAMENTI POLITICI che interessarono il terzo decennio del duecento. Il consiglio generale del Comune si allarga ai Sesti. A questo si affianca il consiglio speciale del Comune che ingloba quelli che sono i dirigenti. Poi il potere si allargò, infatti tra 1244 e 1246 al podestà, si affianco la figura di CAPITAN DEL POPOLO. 2. Cavalieri e Popolo. Guelfi e Ghibellini Il gruppo dei dirigenti era formato principalmente dai MILITES (cavalieri) e dai loro consorti. Loro si dedicavano alla vita militare e si potevano permettere il mantenimento dei cavalli. Ci sono due livelli sociali di milites: -uno strato superiore, protagonista della politica cittadina; -uno strato inferiore, meno attivo e aperto al dialogo con latri settori della società; Per diventare milites, si doveva attuare quella che era la cerimonia di “addobbamento” che dava una serie di insegne ben precise come il mantello, lo sprono ecc. chiaramente questo evidenziava una distinzione sociale non indifferente. Il primato che conseguiva alla ricchezza e alla superiorità militare, si consolidava su un preciso sistema di valori e stile di vita che spesso sconfinava in violenza, sopraffazione, nel mancato rispetto delle leggi. Tale primato era definito da un titolo “Dominus” che spesso prendeva l’accezione di “Messere” (usato solo per i giudici): dunque nella documentazione la sua presenza deve essere intesa come “cavaliere addobbato”. Solo dopo a questa parola si aggiunse il titolo di MAGNATES ma che richiederà termini ben precisi. Al milites si contrapponeva la figura del popolo cioè il POPULARES. Era un corpo stratificato che si è soliti dividere in POPOLO MINUTO E POPOLO GRASSO, dove le diversità economiche erano palesi. Alcuni gestivano attività molto redditizie, mentre altri erano banchieri, mercanti, giudici, notai. Loro si distinguevano dal resto perché credevano nel valore delle istituzioni comunali e soprattutto cercavano di prendere quanto più possibile, le distanze da quella che era la violenza. Proprio la presenza di giudici al loro interno, aveva fatto in modo che essi diventassero un’autorità di giustizia (poiché sapevano il diritto) e quindi di difendersi contro la violenza dei magnates. Però anche loro contribuivano alla milizia cittadina andando a formare la “Fanteria”. Alcuni di essi erano abbastanza ricchi da andare a formare lo schieramento degli “equites”. Non bisogna però dare per scontato che milites e populares siano due realtà distinte, perché vi saranno milites che verso la metà del secolo abbandoneranno il loro schieramento per andare a far parte del popolo e invece altre famiglie popolari che raggiungeranno un grado di ricchezza tale che verranno scelte nel gruppo magnatizio. Su questa divisione interna della società fiorentina, si innescava un ulteriore sovrapposizione tra GHIBELLINI (sostenitori dell’IMPERATIRE, castello di Waibling) e i GUELFI (sostenitori del PAPA, da Welf, duca di Baviera). Gli scontri tra queste due fazioni si manifestarono già a partire dal XII secolo, vedendo come primi protagonisti la Famiglia dei Caponsacchi per i primi e per i secondi i Della Tosa e i Visdomini. A far precipitare gli eventi nel 1216 fu un temerario , BUONDELMONTE BUONDELMONTI, che promesso sposo alla fanciulla della casata ghibellina degli Amidei, il giorno prima delle nozze l’abbandona per sposare una fanciulla della casata Donati (guelfi). Gli Amidei si erano vendicati uccidendo Buondelmonte in un agguato. Questo racconto è frutto di una rilettura degli eventi che ci è stata consegnata da dei cronisti fiorentini del trecento, tutti popolani e guelfi. Se si fa un’analisi più accurata, si capisce come a questo episodio si volesse attribuire una stigmatizzazione negativa perché si voleva promuovere la concordia sociale, il rifiuto della violenza privata e il rispetto delle istituzioni. Ma al di là di questo episodio, le discordie erano presenti già da prima però solo negli anni trenta del trecento le cose iniziarono effettivamente a precipitare e si verificarono i primi allontanamenti delle città dalla parte avversa: un primo episodio di allontanamento dei guelfi risale al 1239 e poi al 1249. Poi fu la volta dei ghibellini nel 1250 che rientrano nel 1260, solo dopo la battaglia di Montaperti, allorchè fu eletto novello podestà Guido Novello conte dei Guidi. Infine, morto il figlio dell’imperatore Federico II, Manfredi, e crollato l’esercito svevo a Benevento, furono i ghibellini ad esulare nuovamente dalla città, alcuni dei quali per non farvi più ritorno. Questo è il racconto che Dante nell’Inferno affida a Farinata degli Uberti nel canto X. Come già detto in precedenza, il fatto che ci fossero due fazioni, non impediva all’una e all’altra di avere scambi di informazioni con la fazione avversa, spesso entrambe venivano sottoposte a tentativi di riconciliazione sia tramite le istituzioni che attraverso unioni riparatrici. Spesso questi tentativi fallivano, ma almeno dimostravano tentativi alternativi rispetto alla vendetta privata. 3. Dal governo del Primo Popolo al governo guelfo. Gli scontri tra guelfi e ghibellini offrirono il pretesto per il cambio di governo cittadino. Si è visto come nel 1248 ci sia stata la svolta ghibellina e nel 1246, con l’inasprimento degli scontri cittadini, si era verificato il secondo consistente esodo di guelfi fiorentini nel contado. A seguito di un rovescio militare partito per mano dei guelfi fuoriusciti nel settembre del 1250, i rappresentati ghibellini in Firenze di Federico d’Antiochia (vicario imperiale di Toscana), furono cacciati e i populares imposero una nuova struttura politica: accanto ai due consigli del comune, nacque un CONSIGLIO DEGLI ANZIANI, espressione schietta dei populares, composto da 12 membri dei Sesti. Nel 1250 nasceva così il GOVERNO DEL PRIMO POPOLO, caratterizzato da 5 assemblee rappresentative e dagli anziani, destinato a durare fino al 1260. Dunque molto famiglie abbandonarono il loro schieramento ed entrarono a far parte di quello nuovo. Fra essi ci sarà anche DI BEATRICE. Lippa era a sua volta matrigna di Giovanni Boccaccio, mentre il padre di Boccaccio, Boccaccio di Chiellino, compare spesso nei documenti di archivio accanto a Lippa. Lo stesso Boccaccio racconta che a rivelargli l’identità della Beatrice Dantesca fu proprio Lippa. I documenti d’archivio inoltre ci dicono come le case di Geri e Bellincione confinavano con quelle dei Donati ed erano prossime alle abitazioni di Giochi. 2. Gli antenati: Cacciaguida e gli Elisei Negli ultimi anni, nello studio dei documenti d’archivio è emerso come alcuni dei personaggi dei documenti che presentavano rilevante vicinanza geografica potessero presentare anche una rilevante vicinanza personale e quindi questo è servito a studiare meglio la famiglia di Dante. Dante ci racconta la storia della sua stirpe, nel Paradiso, tramite le parole che escono dalla bocca dell’avo Cacciaguida. Il nome “Alighiero” che passerà al nonno Dante, pare dunque legato alla parte femminile della stirpe, cioè alla moglie di Cacciaguida originaria della valle del fiume Po. Il cognome ALDIGHIERI O ADIGHIERI era abbastanza diffuso in area settentrionale. L’autore del “Ottimo commento” e il notaio e commentatore della Commedia Andrea Lancia, fa sapere che “Alleghiera” era il nome della sposa di Cacciaguida. Il Boccaccio scrive che la sposa di Cacciaguida era “una donzella nata dagli Aldighieri di Ferrara”, ma Boccaccio scrisse dopo Ottimo e Lancia dunque può darsi che ne sia stato influenzato. Anche Ricobaldo menziona gli “Aldigeri de Fontana”. A essi si legherebbe l’episodio del tradimento di Alessio Novello, vescovo di Feltre e di Belluno, di cui Dante ci parla nel Paradiso. Basserman ha visto in questo episodio un legame tra Dante e la famiglia di Ferrara. Non abbiamo documentazioni ma è vero anche che nella Commedia, Dante parla spesso di Ferrara e della Romagna. Quanto alla grafia del nome che si trova attestata nelle varietà sopra citate, la maggior parte dei documenti porta l’attestazione Alaghieri. Tuttavia, Boccaccio nel Trattello mostra come lui preferisca la variante Alighieri ed è proprio questa che è stata preferita anche da Filippo Villani. Per bocca di Cacciaguida, Dante ci comunica anche la data di nascita dell’avo e fornisce indicazioni topografiche molto precise sul luogo in cui sorgevano le case. Quando Dante scrive “cinquecento cinquanta e trenta” ci fa capire, secondo studi effettuati come lui conoscesse molto bene l’anno 1091 che per altri è il 1110. Quanto al luogo di nascita di Cacciaguida, si è portati verso il sesto di Porta di San Pietro dove oggi c’è Piazza della Reppublica. Cacciaguida ci dice che è stato cavaliere dell’imperatore Corrado III di Svevia e di averlo seguito nella crociata di Terrasanta del 1147, dove trovò la morte. Sulla realtà storica di Cacciaguida, ormai non ci sono più dubbi, infatti il 28 aprile 1131 un certo Cacciaguida D’Adamo compare come testimone ad un contratto d’affitto per un pezzo di terra con casa nei pressi della porta della Badia Fiorentinna. Nell’onomastica fiorentina, il nome Cacciaguida è rarissimo e la Badia fiorentina non lontana dal podio di San Martino del Vescovo, luogo di nascita del poeta. Inoltre ci sono altri due trattati dove compaiono il nome di una certa Berta che è figlia di Adamo, chiamato anche Macro. Quanto ai suoi fratelli, Cacciaguida ci fa sapere che si chiamavano Moronto ed Eliseo. A partire da questo, Boccaccio ricondusse la stirpe di Dante ad un Eliseo frangipane che sarebbe stato tra i protagonisti della seconda rifondazione di Firenze al tempo di Carlo Magno. Gli Elisei compaiono anche in quelle che sono definite Storie fiorentine. L’umanista Leonardo Bruni dice che non ha notizie di Moronto ma localizza con precisione la casa degli Elisei e la colloca esattamente dove ha detto Cacciaguida (all’ingresso della porta di San Piero). Nel Due e Trecento compaiono altri membri della famiglia degli Elisei de Arcu, in un documento della Badia fiorentina compare un certo “Morontus de Arco” i cui figli e nipoti detenevano una proprietà confinante con il terreno di San Martino del Vescovo, in una località Pinti. Qui sorgeva un ospedale fondato da un progenitore della famiglia Donati e sulla quale i Donati avevano il controllo. I Donati sono una famiglia molto vicina a quella di Cacciaguida. Si potrebbe suppore che Moronto e Adamo, che attorno al 1070 hanno figli e nipoti, potessero essere fratelli, trisavoli di Cacciaguida, e che Adamo padre di Cacciaguida riprendesse nei figli il nome di uno degli avi, come consuetudine a quel tempo. 4. La stirpe degli Alighieri. È sempre Dante a rivelarci il nome del proprio bisnonno e lo fa sempre per bocca di Cacciaguida. Se la “cognazione” cioè la stirpe, prende il nome del bisonno, questo dovrà chiamarsi Alighiero. Sicuramente lui era ancora vivo nel 1189, Preteinitto e Alighiero, figli di Cacciaguida, che risulta già morto, promettono a Tolomeo, prete della chiesa di San Martino, di tagliare un fico cresciuto presso il muro della Chiesa. Sembra una questione non considerevole, ma in realtà lo è perché nello stesso momento il prete San Martino è impegnato in una controversia analoga contro la potente famiglia dei Donati: sono documenti che non solo testimoniano la vicinanza tra le due famiglie, ma anche suggeriscono che a quell’epoca la famiglia di Cacciaguida si fosse già stabilita nel popolo di San Martino. Nell’agosto del 1201 Alighiero e suo figlio testimoniano a una promessa rilasciata da un protomaestro, una sorta di funzionario della repubblica di Venezia, di non avanzare ulteriori richieste economiche nei confronti del Comune di Firenze. Attenzione che questo è un momento di uscita da una forte divisione per cui il comune era stato protagonista e quindi aveva la necessità di pacificarsi, quindi questo documento è importante perché testimonia il tentativo dell’aristocrazia consolare fiorentina di cercare alleati tra l’aristocrazia di seconda fila esclusa dal consolato a cui apparteneva Alighiero. Alghiero I ebbe due figli, Bello e Bellincione, quest’ultimo nonno di Dante. Ai loro nomi si lega, nella storia della famiglia del poeta, una fase cruciale che alla metà del duecento segnerà l’avvio di due percorsi differenti. Bello compare per la prima volta in un atto del 1256. Nei documenti in cui compare lui viene indicato sempre come “dominus” quindi probabilmente era un “cavaliere addobbato”, questa sua appartenenza alla fascia ricca della società è evidenziata in un altro documento. È evidente anche la militanza a favore del partito dei guelfi: il figlio di Bello, Geri, compare a Bologna nel 1266, probabilmente tra i fuoriusciti che avevano dovuto lasciare Firenze dopo la sconfitta patita nel 1260 a Montaperti a opera dei ghibellini. A quell’epoca, tra il 1260-66, il padre di Bello compare già morto. Confermano il rango familiare di Bello anche altri documenti del 1301 in Cione compare sempre come Dominus. Il percorso politico del nonno di Dante, Bellincione, è diverso. Il nome sembra legato alla figura di Bellincione di Berta che uno studio evidenzia appartenere alla famiglia dei Ravignani. Bellincione di Berta compare invece poco dopo il 1170 in una serie di documenti che interessano proprio l’area di San Martino e della Badia fiorentina e gli stessi ambienti in cui operavano gli Alighieri. Accanto ai Donati, agli Alighieri e ai Bellincione, intervengono esponenti della famiglia degli Uberti. Bellincione di Berta maritò due figlie con membri delle potenti famiglie Uberti e Adimiri; una terza figlia Gualdrada sposò il celebre Guido VII detto anche Guido Guerra III dei conti Guidi. L’onomastica porta a pensare che proprio una quarta figlia abbia sposato Alighiero I e proprio attraverso il ramo femminile il nome del suocero Bellincione sarebbe entrato nella stirpe di Dante. Su Bellincione di Alighiero, che Dante non cita mai nelle sue opere, esiste un abbondante documentazione relativa a operazioni commerciali svoltesi a Prato, a poca distanza da Firenze, soprattutto a ridosso della metà del Duecento. In questo documento compaiono anche tutti i suoi figli, il che ha fatto pensare forse ad un allontanamento volontario da Firenze a seguito degli scontri tra guelfi e ghibellini degli anni quaranta: in tal caso bisognerebbe ipotizzare un più deciso schieramento guelfo anche del ramo Bellincione. Come si è detto, nel 1250 si verificò un cambio radicale nella politica fiorentina con l’affermazione del regime del Primo Popolo che, da un lato favorì la partecipazione di nuovi settori della società alla vita cittadina e, dall’altro, segnò l’affermazione di un’ideologia politica meno legata alle logiche di fazione. Le famiglie nobili più importanti furono escluse dal governo cittadino; gli Alighieri del ramo di Bellincione si schierarono decisamente con il nuovo regime. Più tardi, alla vigilia di Montaperti, troveremo uno zio di Dante, Brunetto di Bellincione tra i fanti del carroccio dell’esercito fiorentino in guerra contro Siena, il che conferma il netto schieramento guelfo degli Alighieri. 4. Da Alighiero II a Dante Si è visto come il nonno di Dante, Bellincione, fosse impegnato in una serie di operazioni commerciali. Il ricavato di vendita dei terreni fu concesso ad Alighiero II, che provvide a investirlo attraverso una serie di prestiti di denaro. Dietro questa pratica di Alighiero si cela forse la velata accusa di usura che l’amico Forese Donati rinfacciò malignamente a Dante nella tenzone dove diceva che vagava tra le tombe e questo avveniva a seguito dell’avvenuta scomunica che poi non contemplava la sepoltura. Questo è il nodo che Dante avrebbe dovuto sciogliere secondo Forese, e che invece non sciolse, costringendo l’anima del padre a vagare insepolta al cimitero. Comunque sia la documentazione superstite permette di capire che il padre di Dante riuscì certamente a garantire alla famiglia un discreto benessere economico. Alighiero si sposò una prima volta, verosimilmente agli inizi degli anni ’60 con Bella degli Abati, matrimonio da cui nacque Dante e Tana. Forse dopo il 1273 Alighiero contrasse un secondo matrimonio con Lapa figlia di Chiarissimo Cialuffi, dalla quale nacque Francesco, certamente prima del 1279 poiché nel dicembre 1297 egli poteva già contrarre dei debiti insieme con Dante, atto per il quale bisognava aver compiuto almeno diciott’anni. Giovanni Boccaccio nelle esposizioni racconta che Dante ha un’altra sorella che era andata in sposa a Leone Poggi, dal quale ebbe un figlio di nome Andrea che sarebbe stato molto somigliante a Dante. La sorella, come emerge da un documento, si dovrebbe chiamare Ravenna e sarebbe più vecchia di Dante. Nel febbraio del 1277 era stato stipulato il contratto matrimoniale con cui Gemma, figlia di Manetto Donati, portava in dote allo sposo Dante Alighieri ben 200 fiorini piccoli (fiorini d’oro). Si conosce il documento non perché è stato conservato, ma perché ne conosciamo alcuni elementi solo attraverso la citazione contenuta in un atto successivo del 1329 riguardante Gemma Donati. Anche gli elementi della datazione non sono certi. Anche la giovanissima età dei contraenti ha suscitato qualche perplessità: come si è detto, il diritto civile stabiliva che compiuti i 7 anni di età fosse consentito contrarre solo una promessa matrimoniale (gli sposalia), per il contratto vero e proprio, cioè quello che implica la dote, era necessario raggiungere i 12 anni per le femmine e i quattordici per i maschi. Dante, ma anche Gemma, a quell’età avevano dodici-tredici anni: si trattava dunque di un matrimonio tra impuberes. La documentazione primo-trecentesca relativa a controversie giudiziarie matrimoniali di area anglosassone mostra che la pratica di matrimoni tra impubers non era poi così rara. Anche la documentazione del patriarcato di Acquileia recentemente editata mostra qualche caso. La dote di Gemma si presenta come decisamente modesta, a confronto quella di Tana, sorella di Dante, risultava essere il triplo. La famiglia Donati era una famiglia aristocratica: Ubertino, suo bisnonno, e Vinciguerra, erano fratelli, ma l’entità della dote costringe a pensare che il ramo familiare di Gemma avesse progressivamente perduto importanza rispetto agli altri. Quello che è certo, è che i due giovani dovettero aspettare un po’ prima di consumare effettivamente il matrimonio perché anagraficamente erano troppo giovani. Dall’unione con Gemma, Dante avrà 4 figli: Pietro, Iacopo, Giovanni e Antonia. Non sappiamo l’età, ma dato che sono stati condannati a morte del 1315, si presume che avessero già compiuto il quindici anni, età minima per ricadere nella sentenza. Alighiero sicuramente nel 1283 era già morto perché Dante cedette a Tedaldo del già Orlando Rustichelli, i diritti acquisiti dal padre per eredità su un credito di 21 lire che questi vantava. Alighiero ai propri figli lasciò in eredità sia denaro contante, che venne reinvestito, sia in appezzamenti di terra documentati in diverse località dentro e fuori le mura di Firenze. Il fatto che Dante non esercitasse un mestiere e che riuscisse a mantenere un cavallo da solo o in associazione con altri, testimonia di una buona condizione economica. ragione, nella sua edizione delle Rime di Dante, pubblicata postuma dal suo collaboratore Francesco Maggini, il Barbi aveva deciso di stampare i testi separatamente dal resto dell’opera come ‘Rime della “vita nuova”’.per i riflessi di carattere biografico può essere interessante ricordare anche il sonetto “Messer Brunetto, questa pulzelletta” con cui Dante accompagnava forse l’invio di un secondo testo poetico a un Brunetto che è stato identificato in Brunetto Brunelleschi ma anche in Brunetto Latini ma questo sarebbe da datare prima del 1293. Si invita Brunetto a ricorrere a “Messer Giano” e tra le varie identificazioni si è riconosciuto in Giano Guillame de Loris chiamato anche Jean de Meug del Roman de la Rose e che il testo inviato in lettura insieme a ciò sia il Detto d’Amore. È un poemetto di settenari che nel manoscritto originario si trovava accordato al “Fiore”. Il “Fiore” rappresenta a sua volta un rifacimento in volgare di 232 sonetti proprio del Roman de la Rose. L’ipotesi della paternità dantesca è di antica data, ma il primo che a seguito di una lunga analisi filologica gli attribuì questi sonetti, fu Gianfranco Contini nella sua edizione critica del 1984. Da allora si sono fatte indagini più attente. 7. Armi, poesia e filosofia: dalla “Vita nuova” alle “disputazioni delli filosofanti” Leonardo Bruni nei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum e soprattutto nella Vita di Dante racconta di aver visto alcune epistole scritte dalla mano del poeta e purtroppo oggi perdute e ce ne descrive la grafia come “magra e lunga e molto corretta”, è l’ultima testimonianza che si ha di un autografo dantesco. Tra le epistole a cui si fa riferimento, ce n’è una anche in cui Dante descriveva la battaglia di Campaldino dell’11 giugno del 1289 a cui aveva preso parte dicendo che aveva partecipato vigorosamente a cavallo nella prima schiera. si è sempre pensato che Dante appartenesse ai feditori dei cavalli perché Villani disse ciò riferendo della battaglia nella sua Cronica. Nel corso del Duecento la tradizionale milizia a cavallo, formata in buona sostanza dalle famiglie di cittadini ricchi abituati al combattimento pesante per consuetudine familiare, era stata sostituita dal sistema delle cavallate, che reclutava tra i cavalieri cittadini il cui reddito permetteva loro di mantenere un cavallo e di montarlo in battaglia. Ciò chiaramente non significa che tutti i cavalieri fossero uguali. Era questa parte della cavalleria, composta dai così detti milites addobbati che portavano il titolo di “domini” e loro rappresentavano la schiera dei feditori a cavallo. Accanto a loro l’esercito di Campaldino schierò una buona quota di cavalieri professionisti assoldati e un discreto numero di equatores o semplici cavalieri di retroguardia, mal equipaggiati e mal allenati. Secondo studi recenti Dante non avrebbe potuto far parte di questi, il suo ruolo potrebbe essere più facilmente compatibile con un semplice EQUITATOR, un popolano soggetto alla cavallata. In questo caso si potrebbe pensare che la promozione alla “prima schiera” sia frutto di una lettura enfatizzata di Bruni. Nonostante ciò, questo certifica la sua presenza in un episodio rilevante della storia cittadina. Quella di Capaldino però non fu l’unica impresa militare in cui Dante prese parte. Dante partecipò anche all’assedio dove cinsero il castello pisano di Caprona nella Valle dell’Arno, infatti nel canto XXI dell’Inferno descrive il timore provato. Dopo le due spedizioni militari, in una data che Dante fissa, Beatrice morì l’8 giugno 1290. Nel dicembre dell’anno prima morì anche il padre di Beatrice. La morte di Beatrice colpì dolorosamente il poeta e ciò lo spinse a riflettere maggiormente sulla sua poesia, avviandola verso forme e contenuti nuovi. Dante aveva visto nella donna il TRAMITE DELLA SALVEZZA E SCALA VERSO DIO, la sola degna di essere lodata dal poeta: forse sarà questo uno dei motivi per cui ruppe l’amicizia con Cavalcanti che aveva un tipo di concezione poetica diversa. Dopo la morte di Beatrice pare che una “donna gentile”si accostasse in modo compassionevole al poeta condividendone il dolore e distogliendolo dal pensiero di lei. Fu uno smarrimento di breve durata da cui Dante si riprese subito per tornare alla fedeltà verso Beatrice. Da qui sarebbe nato il desiderio di mettere periscritto questa vicenda interiore. La Vita Nuova rappresenta allora la vera prima opera organica di Dante. È un prosimetro che accosta prosa e poesia (allora non era una novità). La poesia preesiste alla prosa e l’autore ragiona su di essa come un commentatore secondo il modello della Retorica di Brunetto ben noto a Dante. La Vita Nuova fu scritta da Dante in volgare su richiesta esplicita del Cavalcanti e anche perché le donne destinatarie dell’opera erano ignare del latino. Per la ragione detta prima, la stesura risale a dopo la morte di Beatrice. Nel Convivio Dante interpretò la donna gentile della Vita Nuova come allegoria di filosofia, che sarebbe venuta a consolare il poeta in un momento di profonda afflizione. Sempre secondo il Convivio questa apparizione si sarebbe manifestata a oltre trent’anni dalla morte di Beatrice (1168). Ciò significa che Dante non avrebbe messo mano alla Vita Nuova prima dell’agosta del 1293 e lo stesso Dante precisa che l’amore per la filosofia l’avrebbe condotto a leggere faticosamente i testi di Boezio e Cicerone che poi alla fine ha apprezzato. Se l’incontro con la filosofia e quello con la donna gentile vanno intesi come un’unica esperienza conclusa dal ritorno a Beatrice, e se il prosimetro nacque dalla chiusura di questa esperienza con la vittoria della Filosofia, saremmo allora portati per l’avvio della Vita Nuova, ai primi del 1296. A questa rilettura dantesca, Barbi non volle credere come anche altri studiosi, secondo i quali, nel Convivio il poeta volle reinterpretare una fase precedente della sua vita alla luce di un’esperienza diversa e successiva. È parso dunque più ragionevole collocare la stesura della Vita Nova all’altezza del 1293, cioè qualche dopo il primo anniversario della morte eventualmente promulgandone la composizione fino al 1296. Tale conclusione si può forse integrare con un altro elemento. Il penultimo sonetto della Vita Nuova è dedicato ad alcuni pellegrini di passaggio per Firenze diretti a Roma a venerare la reliquia del velo della Veronica. Il poeta si rivolge a loro immaginando che non sappiano nulla della vicenda di Beatrice e desiderando di spiegare il motivo per cui la città era in afflizione. Questo filologo è stato fissato da un filologo molto acuto Pio Rajna. A ridosso della Vita nuova, Dante si avviò dunque allo studio della teologia e della filosofia secondo quanto egli stesso riferisce nel già citato canto del Convivio. La maggior parte degli studiosi tende ad associare le scuole di teologia degli ordini medicanti, in particolare Dante si formò dai domenicani. La formazione domenicale era riservata solamente ai frati, e tuttavia proprio la limitazione dell’accesso laicale potrebbe far pensare che i contatti effettivamente avvenissero. Poiché a Firenze non c’era l’università, si è anche pensato che Dante si fosse recato a Bologna a frequentarelo “Studium” dove da qualche decennio si insegnava filosofia presso la facoltà delle Arti, una frequenza di cui fece cenno anche il Boccaccio nel Trattatello. C’è una maggiore incertezza sull’interpretazione del tema “filosofanti”: alcuni suggeriscono che questi si potessero indicare come i teologi che si presentavano all’esercizio della filosofia secondo i metodi della cultura filosofica, o più semplicemente quelli che fanno esercizio di speculazione. Un’altra interpretazione individua con questo temine una categoria precisa cioè professori di filosofia che proprio in quegli anni iniziavano ad insegnare nelle facoltà universitarie. Dante nel Convivio parla di “dispute dei filosofanti” ma probabilmente intendeva delle dispute tra i teologi in quanto la filosofia si stava da poco affermando. Ciò non toglie che Dante sia stato a Bologna come diceva dove qui ha assisto alle dispute e discussioni da cui ha potuto trarne beneficio. Tirate le somme, i dubbi sull’apprendistato a Bologna di Dante permangono, per contro, la circolazione di manoscritti e di idee a Firenze alla fine del Duecento, poteva offrire più di un’opportunità per la formazione culturale a un laico come Dante. 8. Rime dottrinali, rime petrose e tenzoni Il Dante dottrinale che si conosce può darsi che sia frutto di una sua nuova sperimentazione lirica che metteva alla prova la sua arte di rimatore con ispirazione dottrinale, derivata dal possibile interesse che aveva per la teologia e la filosofia. D’altro canto, come lui stesso ci ha detto nel Convivio, la composizione della canzone “Voi che ‘ntendendo il ciel movete” è avvenuta dopo quasi 30 mesi di studio dall’incontro con la donna gentile/filosofia, come si diceva la cronologia quindi porterebbe al 1296, ma in un episodio del Paradiso è proprio Dante stesso a mettere nella bocca di Carlo Martello l’incipit di questa canzone e Carlo rievoca l’incontro del poeta, che se davvero ci fu, dovette cadere all’incirca nel 1294, quando passò per Firenze, quindi in questo caso la canzone dovrebbe essere anticipata di un paio d’anni. Questa canzone insieme a “Amor che nella mente mi ragiona” e “Le dolci rime d’amor, ch’io solea” sono state insierite e commentate una decina di anni dopo nel Convivio. Tuttavia la datazione di tali canzoni è difficile da individuare. Ad esempio nell’ultima canzone, Dante il tema della nobiltà e sostiene che in nessun modo la nobiltà possa legarsi alle ricchezze materiali ma che essa sia legata alle virtù della singola persona. Si tratta di principi aristotelici a cui Dante rimanda e che dunque si collocherebbe molto bene in quel periodo di letture filosofiche a cui si faceva cenno. Allo stesso tempo però la stessa riflessione sulla natura e sulla nobiltà richiama quella fase della vita di Dante che a partire dal 1295 lo vede direttamente protagonista dell’attività politica di Firenze. In tal caso quindi la lirica potrebbe essere stata composta molto prima del Convivio. Alcuni critici, come Maria Corti, hanno ipotizzato invece che questa sia stata una composizione funzionale al convivio e lei ipotizza che la stesura andrebbe addirittura abbassata al 1308. Informazioni in più per la datazione le abbiamo per le rime petrose. Si tratta di 4 canzoni dalla stesura metrica complessa e dallo stle ricercati ispirate ad Arneut Daniel, lirico provenzale. Sono indirizzate ad un donna crudele, che si mostra insensibile alle sofferenze del poeta e ne ricorda la durezza di una pietra. Una di queste canzoni contiene un carattere astronomico che permette di datarla con certezza al 1296 il che potrebbe valere anche per le altre 3. Certamente anteriore al 1296 è la tenzone con l’amico Forese Donati, perché nel 1296 Forese veniva sepolto nella chiesa di Santa Reparata di Firenze. La tenzone è una lirica dove ci si scambia rime pungenti in modo ingiurioso. Questo è un gruppo di 3 coppie di sonetti. I dubbi sulla autenticità della tenzone sono tanti e non ancora placati: ci sono stati numerosi studi in cui si cercava di affermare l’autenticità della tenzone, infatti specialmente le due canzoni centrali, provengono da due manoscritti diversi e più recenti che sono stati considerati una tarda contraffazione. È giusto dire che la tenzone era nota ai primi commentatori di Dante, e ancora una volta emerge la testimonianza di Andrea Lancia che mostra di conoscere molto bene lo scambio di sonetti. Questo accenno alle rime ricorre ad una serie di affermazioni: secondo le indagini di Domenico De Robertis una serie di manoscritti testimoni delle rime di Dante, trasmette, sia pure con alcune differenze nella disposizione, una sequenza sostanzialmente omogenea di 15 canzoni dottrinali. Nel suo Trattatello, Boccaccio ci fa sapere che Dante aveva cominciato a commentare le prime “tre canzoni distese” (cioè complete nella struttura strofica) incluse nel Convivio con l’intenzione di commentare anche le successive undici. Lo stesso Boccaccio copiò il corpus delle canzoni distese, con identica disposizione, nei suoi 3 manoscritti in cui veniva raccogliendo le opere di Dante. Per questa ragione Michele Barbi che questa operazione di assemblaggio spettò proprio al Boccaccio, e che dai suoi codici fossero derivati poi tutti gli altri testimoni che trasmettevano il medesimo blocco di 15 canzoni. In effetti, fatta eccezione per la canzone, “Così del mio parlar vogli’essere apsro”, la disposizione delle canzoni nei codici risponde in qualche caso allo sviluppo tematico del Convivio, che si apriva con “Voi che’ ntendo” per chiudersi secondo quanto si può desumere dal trattato, con Doglia mi reca. Una prima perplessità intorno al ruolo di Boccaccio nasce dal fatto che egli sembra avere del Convivio una conoscenza indiretta e superficiale: non lo copiò nei propri manoscritti e non lo citò mai. Infatti le indagini di De Robertis hanno individuato un’altra serie di manoscritti posteriori a Boccaccio ma non riconducibili ai suoi codici e a quell’ordinamento preesistente. Dunque esclusa la responsabilità del Boccaccio si è ipotizzato che il corpus delle canzoni potesse riflettere una disposizione voluta da Dante stesso sulla base di un progetto non molto diverso da quello del Convivio. L’ipotesi può essere suggestiva ma capiamo che con le indagini di De Robertis, l’ordinamento delle canzoni potrebbe risentire della tradizione boccacciana. Dopo la cacciata dei Neri, nel 1302 avverrà quella dei Bianchi. Il 14 aprile del 1301, Dante interverrà come savio nel collegio deputato all’elezione dei nuovi priori, come già aveva fatto nel 1295: di nuovo si fronteggiarono due proposte alternative, la prima orientata a favorire le Arti e la seconda lasciava discrezionalità ai sapienti nominati dai propri uscenti. Dante prese posizione nei confronti della seconda alternativa quindi anche in questo caso prese una posizione di netto più moderata. Il 19 giugno 1301 fu votata una delibera delicatissima: Bonifacio aveva chiesto aiuti per la spedizione in Maremma, il notaio che stese quell’atto, lascia intravedere la drammaticità di quell’episodio. La delibera venne dibattuta prima nel Consiglio dei cento e poi votata ai consigli riuniti. I neri, favorevoli agli aiuti, cercarono di far passare la proposta ai consigli riuniti dove si votava alzandosi in piedi. Ma questo azzardo non riuscì, infatti la discussione fu rimandata al consiglio dei cento. Fu proprio in questo passaggio che i Neri dovettero decidere per la delibera inserendo un termine temporale, cioè il mese di settembre, per la durata degli aiuti. Era evidente che se fosse entrata in consiglio, così come stava, la delibera avrebbe rischiato la bocciatura. A proposito di questa riforma, Dante votò a sfavore. La delibera passa con una consistente opposizione. La seconda delibera passa con un solo voto contrario quindi in questo caso la posizione di Dante è ancor più di moderata e ciò genererà uno dei capi d’accusa da parte di Bonifacio VIII. Papa Bonifacio aveva inviato Carlo di Valois a Firenze, con l’intento di mettere pace tra Bianchi e Neri, ma secondo alcuni cronisti, un suo secondo intento era quello di favorire i neri. Forse nel tentativo di scongiurare ciò, i Fiorentini elessero tre ambasciatori tra cui c’era anche Dante e li mandarono a Roma. Dante solo venne trattenuto a Roma perché considerato il più pericoloso dal papa. Non appena arrivò a Firenze, Carlo Valois pose la città in mano ai Neri, si susseguirono incendi e saccheggi. I priori diedero le dimissioni. Il 9 novembre fu eletto il podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio che rimarrà in carica fino al 30 giugno del 1302. Il nuovo governo non tardò a condannare i Bianchi che avevano fatto del periodo politico del tempo, dopo un’analisi accurata Dante Alighieri e Altoviti vennero ritenuti colpevoli di aver estorto denaro o aver ottenuto guadagni illeciti dalla compravendita di cariche pubbliche e di essersi serviti del denaro per opporsi al papa Bonifacio VIII e a Carlo di Valois. Le accuse erano state decretate dopo un’inchiesta del podestà. I condannati dovevano restituire il denaro estorto e tutti i beni entro 3 giorni dalla sentenza, se così non fosse stato la pena era la distruzione o confisca dei loro beni. Dopo di ciò sarebbero stati esclusi dalle cariche pubbliche e confinati due anni dalla Toscana. Il 10 novembre venne emessa la condanna al rogo per coloro che non si erano presentati. In questi figurava Dante. A noi lettori moderni potrebbe sembrare inammissibile condannare a morte solo per la “pubblica fama” ma ai tempi non era così insolito. CAPITOLO QUARTO “IL PRIMO ESILIO” 1. Le guerre mugellane e la prima missione a Verona Alcuni scontri militari si registrarono dopo la condanna di Dante, nei mesi di marzo e aprile. A maggio i Fiorentini assediarono nuovamente e senza successo Pistoia difesa dal ghibellino Tolosato degli Uberti. A fine giugno fu attaccato anche il castello di Piantravigne, dopo tre settimane di assedio, Bianchi e ghibellini che lo occupavano cedettero per il tradimento di Carlino de’pazzi, cui era stato un ricco compenso e che Dante metterà nell’inferno come traditore della patria. Stando a ciò che dice Leonardo Bruni, Dante saputa della condanna, andò prima a Siena e poi a Goronza. A questo punto i Bianchi si sarebbero riuniti nelle vicinanze di Arezzo (il podestà qui era Uguccione della Foggia), qui elessero il capitano Alessandro dei conti Guidi da Romena e nominarono come rappresentati dodici consiglieri tra cui Dante. A questo evento si fa risalire la nascita dell’Università o Parte dei Bianchi. La documentazione ci dice che già a febbraio il papa aveva ottenuto una riconciliazione tra guelfi e ghibellini romagnoli. Per quanto riguarda Dante, i documenti fiorentini che si riferiscono ad avvenimenti anteriori all’agosto del 1302 non lo menzionano tra coloro che presero parte ad azioni militari contro Firenze. È certo però che nel giugno di quell’anno lui si ritrovò con i fuoriusciti a San Godenzo del Mugello: in quel contesto Dante si impegnò a risarcire con altri diciassette Fiorentini, ogni eventuale danno che avesse toccato alla famiglia degli Ubaldini in occasione dell’imminente guerra contro il castello di Monte Accianico. Che il comandante fosse Alessandro Da Romena è confermato dai documenti. Mentre sono più fragili i documenti che indicano quando i Bianchi sarebbero passati da Arezzo a Forlì. Un contributo importante viene dalle Historiarum decades redatte verso la metà del Quattrocento dallo storico Biondo Flavio che dichiara di essersi avvalso di fonti di prima mano. Lui riferisce che i primi a giungere a Forlì furono i Bianchi, seguiti a breve distanza dai ghibellini con i quali elessero come capitano Scarpetta Ordelaffi. A bianchi e ghibellini si sarebbero riuniti Uguccione della Foggiola e i guelfi bolognesi. Secondo Biondo, la nomina di Scarpetta avvenne nel gennaio del 1303. Un simile avvicendamento si spiega solo facendo riferimento al fatto che Alessandro da Romena era venuto a mancare. Infatti a proposito di ciò c’è un’epistola di Dante che fa le condoglianze alla famiglia e si scusa per non essersi presentato al funerale a causa della povertà che lo aveva colpito in quel momento. In questa lettera vediamo come Dante sia padrone dell’ars dictandi e ricorda i benefici ricevuti dal conte e lamenta la propria condizione di esule senza colpa. È chiaro che Dante sia in esilio. Ma questa lettera non evidenzia una rottura che ci sarà di lì a poco dopo i primissimi mesi del 1303, quando ci fu la ROTTA DI PULICCIANO. Il Bruni riassume in poche righe la fase dell’esilio dantesco e di quella testimonianza va accolta solo la notizia dell’affidamento ad Alessandro delle primissime campagne militari, fino all’inverno del 1302-1303. A questo punto si può pensare che Dante e il resto dei Bianchi si stessero muovendo da Arezzo a Forlì. Campana, filologo acuto, ha ipotizzato che Biondo (quando dice di aver letto personalmente delle lettere scritte dall’ “epistolarium magister”) avesse avuto sotto mano uno zibaldone cancelleresco o meglio “una cronaca di natura più letteraria che storica” di quegli anni nella quale Calvi aveva inserito lettere cui aveva avuto accesso prestando servizio presso l’Ordelaffi. All’epoca per racchiudere i documenti cancellereschi, molti si avvalevano dei notai cittadini e probabilmente fu il caso dello stesso Calvi. Nel corso del tempo Biondo Flavio era stato sottovalutato come testimone di valenza ma ad oggi invece è una risorsa importante perché ci ha detto molto a proposito del Pellegrino Calvi e sempre secondo il suo resoconto, Dante fu inviato in missione a Forlì da Verona per ottenere aiuti militari di fanteria e cavalleria dagli Scaligeri. Non c’è ragione di credere che la sua testimonianza sia inventata, anche se non sappiamo l’esito del viaggio di Dante, possiamo solo dire che i cronisti che dell’epoca non registrano la presenza di milizie veronesi in questa fase della campagna militare, questo però non vuol, dire che non ci siano state richieste. Ai primi di marzo, guidati da Scarpetta Ordelaffi e sostenuti da un contingente di aramte bolognesi Bianchi e Ghibellini si mossero verso il castello di Pulicciano. Questo castello era stato conquistato da Firenze divenendo un avamposto per le missioni oltre l’Appennino. Un primo contingente di Neri fiorentini si diresse a Pulicciano al comando de podestà Fulcieri da Calboli. Arrivarono aiuti da Lucca che sbaragliarono i fuoriusciti che erano stati abbandonati dai bolognesi. Tra il 12 e 13 marzo furono catturati Bianchi e ghibellini e alcuni di essi vennero decapitati. Due mesi dopo di Pulicciano, anche il castello di Montale (pistoiese) dovette cedere a seguito di un tradimento. Attacchi duri ma non devastanti. Nel maggio del 1303 fu siglata un’alleanza contro Azzo VIII d’Este (a sua volta alleato dei Neri) che, accanto a Bianchi, ghibellini, ai comuni di Faenza, Forlì, Pistoia, Imola includeva anche quel Bernardino da Polenta autore, con Uguccione e Federico da Montefeltro dell’assalto a Cesena dell’ottobre precedente. Come ricorda Compagni il 18 giugno ritroviamo esponenti bianchi che con il loro capitano Scarpetta Ordelaffi chiedono un prestito a Bologna per pagare fanti e cavalieri della loro parte. In tutte queste liste il nome di Dante non figura mai e pare molto strano dato che aveva avuto un ruolo di rilievo. 2. La separazione dai Bianchi e il primo soggiorno veronese (1302-1304) In assenza di documenti che riguardano questa parte di vita del poeta, si ricostruisce sulla base di ciò che ha scritto nel canto XVII del Paradiso dove fa parlare il suo avo Cacciaguida. Infatti in questa parte, l’avo predice al nipote l’esilio, l’abbandono della sua parte politica e l’approdo a Verona dove potrà incontrare Cangrande della Scala. Dante ci dice che i suoi compagni dell’esilio si rivolgeranno contro di lui e che sarà lui a separarsi da loro. Subito dopo i Bianchi andranno incontro ad una grossa sconfitta militare, e Dante troverà rifugio dal “gran Lombardo”. La sconfitta a cui si fa riferimento, probabilmente allude alla Battaglia della Lastra dove c’è stata la sconfitta definitiva dei Bianchi, ma probabilmente Dante dopo i forti dissidi che ci sono stati con gli altri esuli, si è allontanato da loro in una fase precedente alla sconfitta come dicono i commentatori. D’altro canto, secondo quanto ci dice il figlio di Dante, Pietro Alighieri, il gran lombardo sarebbe Bartolomeo della Scala che ha governato a Verona fino agli inizi del marzo del 1304. È chiaro che se il distacco di Dante va collocato a ridosso della sconfitta della Lastra, il gran lombardo non può essere Bartolomeo, a meno che non si pensi che il racconto di Cacciaguida predica la scelta di separarsi dai Bianchi, scelta che è parsa a tutti contestuale. La consequenzialità cronologica degli eventi ha fatto supporre a qualche dantista in passato, e più recentemente a Umberto Carpi, che in realtà l’ospite di Dante non fosse Bartolomeo della Scala ma bensì il fratello di Albonino; questo nonostante il fatto che Dante nel Convivio tracci un ritratto di Albonino negativo. Di recente è stata proposta una successione degli eventi differente. La sconfitta militare a cui Dante accenna nei suoi versi non sarebbe da attribuire alla Lastra ma alla battaglia precedente di Pulliciano del 12 marzo 1303. In tal caso Dante si sarebbe separato dai Bianchi nell’estate del 1303 o secondo Pellegrini tra il febbraio e il marzo di quell’anno, un po’ prima di Pullinciano. In questo caso è giusto richiamare la testimonianza dell’Ottimo Commento, il cui autore dice di aver conosciuto personalmente Dante e commentando la profezia di Cacciaguida, l’Ottimo cerca di spiegare le ragioni che indussero Dante ad abbandonare i Bianchi, e secondo quanto scrive il motivo della rottura sarebbe stato un cattivo suggerimento dato dal poeta ai fuoriusciti di parte Bianca, di attendere cioè la Bella stagione per attaccare in Forze Firenze e impiegare gli aiuti militari offerti o creduti disponibili l’inverno precedente da un non ben precisato alleato. Infatti era abitudine attendere che passasse il gelo, affinchè fanti e cavalieri non fossero messi in difficoltà. Un altro commentatore dice che l’attacco militare fu posticipato alla primavera successiva ma l’alleato non rinnovò ulteriormente la sua disponibilità, perciò Dante fu accusato di tradimento e decise di separarsi dalla sua parte. non sappiamo effettivamente quale sia l’attendibilità di queste chiose, quel che è certo però è che Dante nell’Inferno non si stava riferendo all’episodio della Lastra perché non era stata una battaglia lungamente preparata ma improvvisata, mentre l’Ottimo fa un chiaro riferimento ad un piano premeditato. Dai documenti sembra proprio che l’alleato a cui si fa riferimento sia Bartolomeo della Scala. È importante ricordare che per tutto il 1302 fu podestà di Verona Lapo di Farinata degli Uberti: Dante lo conosceva perché qualche mese prima aveva sottoscritto con suo nipote Lapo di Azzolino, il documento di San Godenzo del Mugello e Bartolomeo della Scala doveva essere ben informato sull’impegno polito-militare di Lapo. Se Bartolomeo comunicò il proprio disimpegno a breve distanza dalla spedizione e Dante si separò dai Bianchi contestualmente, dovette tornare a Verona tra fine febbraio e i primi di marzo del 1303. A confermare quanto detto sopra, giunge un’altra testimonianza di carattere araldico: un’analisi puntuale e documentata delle insegne scaligere ha rilevato come l’impianto araldico dell’aquila imperiale poggiata sulla scala sia tipico proprio del ramo familiare che fece capo a Bartolomeo, in virtù del matrimonio da questi contratto nel 1291 con Costanza d’Antiochia, pronipote di Federico II. Ebbene, nel recinto della Chiesa di Santa Marta Antica a Verona, si trovano le arche sepolcrali Maria Corti, analizzando il Convivio, segnale une netta cesura tra dottrinale e stilistica tra i primi 3 libri del Convivio e il IV, che menzionano la morte di Gherardo di Camino del marzo del 1306. La Corti proponeva di collocare i primi 3 libri del Convivio a Verona tra il 1303 e il 1304, il quarto tra il 1306 e il 1308, forse durante il soggiorno in Lunigiana. Durante questo periodo Dante avrebbe steso il De Vulgari di cui la Corti lasciava aperta l’ipotesi di Bologna. Questa è stata ripresa di recente e si è visto come tra i primi libri del Convivio e il De vulgari si assiste ad un cambio di atteggiamento da parte di Dante. Nel Convivio si mostra ancora nella condizione di esule costretto a chiedere ospitalità e a umiliarsi a causa della povertà, una condizione che finisce per svilire la persona tanto quanto le sue opere, inoltre Dante dichiara di rivolgersi a coloro che conoscono il latino. Secondo gli studi, questi atteggiamenti di riguardo si spiegherebbero nella condizione di ospitalità presso gli Scaligeri a Verona compatibili dunque con la datazione dei primi 3 libri del Convivio tra 1303 e primi mesi del 1304. Quanto al De vulgari, lui metterebbe in atto un atteggiamento di forza, come colui che è approdato in un ambiente capace di apprezzare i valori e le doti intellettuali, un ambiente che dunque corrisponde molto bene all’università di Bologna. La cronologia per il De vulgari eloquentia ha proposto alcune perplessità proprio in merito alla collocazione della scrittura: infatti la battaglia della Lastra avrebbe impedito a Dante di trovare rifugio subito a Bologna. Non c’è una documentazione a riguardo ma se si pensa al fatto che il contingente bolognese, saputo dell’esito della battaglia della Lastra, è tornato a Bologna, probabilmente si può pensare ad un accordo avvenuto tra Dante e il contingente per andare a Bologna. Qui sarebbe rimasto alla fine di maggio del 1306 quando la presa della città da parte dei neri lo costrinse ad andarsene. Ma questa argomentazione a Pellegrini sembra facile perché questa testimonianza ci viene riportata solo da Villani che in quel periodo si trovava nelle Fiandre quindi non fu testimone vicino degli eventi, inoltre ulteriori analisi mirano a definire il distacco di Dante dai Bianchi nel 1303, cui seguì invece il riavvicinamento del 1304, dopo quella data non si sa più nulla dei rapporti tra Dante, i bolognesi, e i fuoriusciti. Recentemente è stata proposta una collocazione bolognese anche del Convivio soprattutto in considerazione della maggiore disponibilità delle fonti. Si tratta di volumi molto pesanti, ancorati ai tavoli che Dante non avrebbe potuto portare nelle sue peregrinazioni. La collocazione bolognese non riguarderebbe i IV libro del trattato che narra della morte di Gherardo da Camino. Pur riconoscendo lo stacco tra III e IV libro, la cesura stilistica e dottrinale documentata nel citato saggio della Corti non è stata accolta dal più recente editore del trattato, Fioravanti, secondo cui Dante avrebbe interrotto la stesura del trattato per ragioni di pura contingenza e quanto alla cronologia, la stesura del IV libro andrebbe spostata più avanti, verso il 1308, quando Dante era Lucca e avrebbe potuto avere più disponibilità di libri. Individuare gli spostamenti di Dante sulla base delle consistenze delle biblioteche è una buona strategia ma che deve essere collegata sempre alla biografia. Uno degli ostacoli che ha richiesto tranquillità per la stesura potrebbero essere stati anche i continui spostamenti a cui Dante era soggetto. Si potrebbe ipotizzare che Convivio e De vulgari eloquentia fossero stati scritti contemporaneamente ma siamo certi che la stesura del De vulgari eloquentia è avvenuta dopo la pace di Caltabellotta. Dopo innumerevoli considerazioni, l’ipotesi più economica avanzata dal punto di vista cronologico rimane proprio quella di Barbi e Petrocchi e cioè che Dante stendesse i primi tre libri del Convivio tra il 1303 e il 1304, il quarto più tardi, forse dopo il 1306 e il De Vulgari nell’intervallo tra essi. 5. 1304-1306: il secondo soggiorno veronese e Alboino della Scala L’ipotesi degli spostamenti di Dante oscilla fra una permanenza a Bologna e un soggiorno a Treviso, mentre Verona fu presto esclusa a causa della menzione poco onorevole di Alboino della Scala he è contenuta nel libro IV del Convivio: discutendo riguardo la parola NOBILE, Dante nega che essa si leghi al verbo latino “nosco” e possa riferirsi a una persona conosciuta da molti. Se così fosse, Alboino della Scala che è molto più conosciuto di Guido da Catello, sarebbe molto più nobile di lui, il che conclude Dante è del tutto falso. Su queste basi, la maggioranza dei biografi ha escluso che Dante potesse scrivere queste parole mentre dimorava a Verona. Il compianto di Umberto Carpi era convinto invece che Dante dopo la battaglia della Lastra, si fosse recato a Verona e quindi, se si fa riferimento alla cronologia, ciò indicherebbe che si sarebbe recato durante il governo di Alboino. Carpi studia la commedia come una sorta di instant book, in cui Dante registrava in presa diretta gli avvenimenti politici a lui contemporanei e prendeva posizione comminando condanne e assoluzioni sulla base delle proprie convinzioni politiche del momento. L’altissimo elogio agli Scaligeri presente nel Paradiso, dimostra come lui in quel preciso momento sostenesse l’impero e Cangrande. Poi un’altra considerazione, anche Alboino poteva essere considerato il “gran lombardo” se si proiettava retrospettivamente la nuova visione politica. Però in seguito Carpi dovette rivedere le proprie considerazioni perché il soggiorno a Verona si collocava ad una piccolissima parte/sosta, un passaggio lungo l’itinerario veneto che portò Dante a Treviso da Gherardo da Camino. Questa prospettiva è fragile, seppur lodevole perché ha riaperto un dibattitto negli studi filologici danteschi, basti pensare al IV libro del Convivio dove Dante tesse un elogio per il condottiero Guido da Montefeltro definendolo il “più nobile degli italiani” e ricordiamo che lui era l’acerrimo nemico dello schieramento guelgo e filo-papale, poiché ghibellino. L’ipotesi di un soggiorno veronese dopo il 1304 era stata avanzata già da Isidoro del Lungo nell’ottocento sulla base di alcune considerazioni che oggi non sono più accolte. In ogni caso questo soggiorno era datato al 1306. Di ripetuti passaggi a Verona, ne parla Boccaccio nel Trattatello e in modi sostanzialmente sovrapponibili in entrambe le redazioni: Dante si sarebbe recato prima dei passaggi del Casentino, in Lunigiana e di nuovo presso l’appennino-tosco romagnolo presso i della Faggiola, quindi dopo una sosta a Bologna e a Padova il poeta avrebbe fatto sosta di nuovo a Verona. Al soggiorno veronese faceva riferimento anche Bruni, collocandolo dopo la battaglia della Lastra, quindi presso Alboino. Da Verona Dante si sarebbe adoperato scrivendo alcune lettere per tornare dall’esilio. È stato notato come l’affermazione di Bruni ricalca perfettamente le parole dette da Cacciaguida in Paradiso, però seguendo il profilo di Biografo di Bruni, ciò non sembra plausibile in quanto non stila le sue analisi sulla base della Commedia. Ci si chiede perché Bruni associa l’invio delle lettere a Verona e l’ipotesi più economica che emerge è che le lettere maneggiate da Bruni e contrassegnate dal sigillo di Dante fossero datate proprio a Verona e che proprio questo abbia motivato la sua ricostruzione. C’è anche una testimonianza di Biondo Flavio derivata da un resoconto diretto ma soprattutto dantesco e ne loda la magniloquenza: potrebbero trattarsi di resoconti presi da Giovanni Villani o dallo stesso Bruni, ma le lettere non convergono. In questo caso se si vuole dare, con prudenza, fiducia al Biondo, è probabile che questa osservazione sia stata ricavata dalla lettera POPULU MEE. Partendo dalla testimonianza di Bruni e solo su questa base, a Pellegrini pare naturale che, chiudendosi le speranze di rientrare a Firenze dopo la Lastra, Dante facesse ritorno proprio là dove era stato accolto così benevolmente fino a pochi mesi prima e cioè a Verona, nei primi mesi dell’autunno del 1304 e forse proprio passando per Padova. E forse e proprio qui che ha assistito alla cerimonia del “drappo verde” che si svolgeva la prima domenica di Quaresima e che ha raccontato nell’Inferno. Rispetto a questo itinerario non si riescono a trovare candidature più plausibili, se come dice Bruni, Dante avesse scritto le lettere a Verona, è possibile che a Verona abbia trascorso il tempo necessario per rendersi conto che la situazione era cambiata e che Alboino non avrebbe avuto i medesimi riguardi di Bartolomeo ma anche il tempo necessario per poter trovare una sistemazione alternativa e sicura. È vero che la fama di Alboino avrebbe potuto raggiungere Dante, ma dal ritratto del Convivio richiede comunque un tempo utile perché da un lato Alboino acquisisse il ruolo necessario per proporsi come emblematico, dall’altro perché Dante ne potesse constatare di persona la poca liberalità. Gli incontri con personaggi veneti a cui Dante fa spesso riferimento nella Commedia potrebbero risalire proprio a questo periodo. La reggenza di Alboino fu infatti caratterizzata da una febbrile attività di carattere diplomatico che coinvolse in modi e tempi diversi Padova, Venezia, Treviso, Mantova e altre città. Lui è stato protagonista di alleanze e di spedizioni militari, il che certo non contrassegnava un soggiorno tranquillo per Dante, forse proprio questo spinse il poeta ad avanzare la richiesta di essere riammesso a Firenze che Bruni colloca in questa fase. Ad ottobre del 1306 Dante era in Lunigiana dove portava a termine per volere dei Malaspina un compito diplomatico. È ragionevole pensare che ci fosse arrivato qualche tempo prima e che avesse lasciato Verona prima. Verona non offriva le stesse opportunità di Bologna ma certamente non era priva di stimoli culturali. Nel 1285 fu stabilito l’obbligo per ciascun maestro delle Arti liberali di tenere mensilmente una disputa pubblica durante la stagione invernale. Molto più complesso risulta il discorso sull’accesso alle biblioteche ecclesiastiche o ai libri conservati nella biblioteca Capitolare. Nel De vulgari Dante menziona consecutivamente i 4 prosatori latini LIVIO, PLINIO, FRONTINO E PAOLO OROSIO e dice “amica sollicitudo nos visitare invitat”. La traduzione di questo passo è tutt’ora controversa: Pier Vincenzo Mengaldo lo rende “un appassionato affettuoso interesse che ci induce a frequentare”, intendendo INTERESSE come riferito a Dante stesso. Altri preferiscono conservare il senso letterale traducendo “sollecitudine amica ci invita a visitare” e intendo amica in riferimento ad una persona concreta, un amico di Dante. Un grande maestro filologo, Giuseppe Billanovich, negava che Dante avesse avuto a conoscenza diretta questa “lista sghemba di prosatori illustri” dei quali in effetti non c’è traccia di lettura nelle sue opere, ma già la lista di per sé è sorprendente per la presenza di Frontino: la biblioteca capitolare ospitava i testi Livio, Plinio e Frontino ma non si conoscono altre biblioteche dell’epoca che Dante avrebbe potuto consultare dove tutti e tre i testi di questi autori ci fossero contemporaneamente. Quarant’anni dopo gli Scaligeri si rivelano al corrente della loro presenza. È stato notato che Plinio e Frontino risultano vicini a Orosio anche nel Policraticus di John of Salisbury che Dante avrebbe potuto conoscere. Tuttavia oltre a segnalare che il Policraticus era presente nella biblioteca capitolare, l’assenza di Livio da quella rassegna, unita alla suggestione amica sollecitudo, ad avviso di Pellegrini è l’ipotesi più economica. A Verona non mancavano personaggi con cui Dante avrebbe potuto discutere a proposito di ciò. In tal caso occorre però osservare che nel passo in questione, il verbo al presente “invitat” farebbe chiaro riferimento a una situazione presente, non a un avvenimento passato, il che confligge con la collocazione bolognese del De vulgari. Inoltre sempre legandosi al discorso della buona disponibilità dei libri, va segnalato che Verona era legata con Mantova e qui c’erano buoni libri. Dunque, tirando le somme, le poche fonti disponibili fatte reagire con quanto Dante stesso ci dice nella Commedia e nel Convivio e nel De vulgari, e poste accanto gli elementi cronologici dei due trattati, ci permettono di avanzare con cautela, l’ipotesi di una stesura tutta veronese dei primi tre libri del Convivio seguita da un’interruzione che coincise probabilmente con il ritorno in Toscana. Il De vulgari venne esteso a partire dall’estate del 1304, dopo la Lastra e forse nella stessa Verona di Alboino. Nell’estate del 1306, Dante da Verona si mosse verso la Lunigiana. Chi colloca Dante a Bologna tra il 1304 e il 1306 sostiene che nella primavera del 1306 il poeta avrebbe rinnegato la sua appartenenza ai Bianchi, certificata dall’impostazione filo-imperiale del Convivio, per passare decisamente ai Neri e recarsi in Lunigiana presso i Malaspina, guelfi neri. Tale passaggio sarebbe riflesso con moltissima evidenza nel passaggio dell’elogio di Guido da Montefeltro però nella commedia viene condannato nei fraudolenti. L’improvvisa conversione dovette avvenire quindi a Bologna. Ricordiamo però che l’elogio di Guido da Montefeltro si trova nel capitolo XXVIII del Convivo che è stato composto nel 1306 quindi questo collocherebbe il voltafaccia politico di Dante, molto più avanti. Per la partenza di Dante da Bologna s’invoca la data del 23 maggio, dopo che il cardinale e legato papale Nicolò Orsini giunge a Bologna per pacificare le fazioni e invece è accusato di tramare contro i bianchi. Dunque per capirci meglio, bisogna collocare forzatamente Dante al seguito di Napoleone Orsini nella sua fuga verso Imola: quindi solo allora Dante avrebbe rinnegato la propria fede ghibellino-imperiale mentre percorreva la Lunigiana. Queste ipotesi non sembrano piacere a Pellegrini in quanto ci sono alternanze politiche eccessivamente rigide. 6. In viaggio per il Veneto e oltre d’amore che decise di abbandonare. Nelle meditationes c’è chi vede un riferimento agli studi filologici legati al Convivio e c’è chi pensa direttamente alla Commedia. La collocazione geografica presso l’Arno ha finito per generare diverse ipotesi riguardo al poeta in Casentino. Ciò è stato studiato da Boccaccio, da Carpi, da Mazzoni. L’onorevole menzione del conte Guido Guerra, nonno di Guido Salvatico, nel canto 16 dell’inferno li ha spinti a credere che il canto sia stato scritto a ridosso del soggiorno in Casentino mentre Dante era ospite di Guido Selvatico e forse l’ha scritto anche per compiacerlo. Tuttavia il conte apparteneva al ramo dei conti guidi di Davadola che si associava sul versante Romagnolo vicino a Forlì. Ciò non corrisponde alla descrizione dell’Arno in Casentino proposta nelle lettere. Inoltre Dante in una canzone che si chiama “Amor da che conviene” Dante alluderebbe all’innamoramento per una giovane di Pratovecchio che è una località del Casentino. Se Dante si trovava in Casentino è possibile individuare altre più ragguardevoli sedi per la sua permanenza come i castelli di Romena e di Poppi, entrambi situati in prossimità dell’Arno e Dante conobbe i suoi feudatari. Ricordi nitidi del Casentino emergono nella rievocazione affidata al falsario Mastro Adamo. Però tutte queste osservazioni sono ipotesi poco probabili. 3. Tra i banchi dell’università di Parigi? Tra il 1309 e il 1310, le tracce di Dante si perdono di nuovo. È un buco non indifferente su cui sono state avanzate diverse ipotesi e quella più discussa riguarda il presunto viaggio a Parigi. Il primo a darne conto è Giovanni Villani, poi Boccaccio nel Trattatello, poi più avanti aggiunge che sarebbe andato a Parigi da Verona dopo aver sentito dell’elezione di Enrico VII sarebbe rientrato in Italia quando l’imperatore era all’assedio di Brescia, inoltre Boccaccio aggiunge che Dante a Parigi, ha potuto dimostrare la sua intelligenza in modo ineccepibile tramite delle dispute. Boccaccio inoltre amplifica retoricamente il soggiorno parigino portando il poeta in Inghilterra con evidente riferimento al duplice riconoscimento accademico di Parigi e Oxford. Altri commentatori non ne parlano e anche i commentatori a lui più vicino come l’OTTIMO o LANCIA non ne parlano. Questo è un punto importante della discussione: le ipotesi del viaggio a Parigi si fondano soprattutto sugli accenni di Dante alle modalità di svolgimento della disputatio nel 23esimo del Paradiso. Il riferimento diretto alla “Rue du Fouarre” ha fatto pensare ad un’esperienza diretta del poeta. In realtà Pio Rajna, il sostenitore più convinto e lucido del viaggio a Parigi, osservava che un’indicazione simile ricorda da vicino le immagini del sepolcreto di Arles o delle dighe dei Fiamminghi prese a paragone per indicare gli argini infernali, quindi si può ipotizzare che Dante sia andato anche qui. Ciò che Rajna sottolineava era invece la “condizione mentale” descritta da Dante in Paradiso 24esimo e proprio a suo avviso solo di chi avesse potuto compiere un viaggio del genere. Il dettaglio più curioso è quello del tempo del viaggio. I biografi successivi si sono schierati ora a favore del viaggio ma anche contro, alcuni hanno sorvolato, altri hanno sospeso giudizio. Oggi sappiamo che molto probabilmente Dante nell’estate del 1310, si trovava a Forlì da dove scrisse una lettera a Cangrande della Scala di cui rende conto Biondo Flavio. Stando agli studi, quella lettera risaliva proprio all’ambasceria inviata da Enrico VII a Firenze il 2 luglio del 1310. All’ambasceria di Enrico VII i Fiorentini avrebbero replicato in modo così sprezzante che nella lettera Dante non esitò ad accusarli di petulanza e cecità. Cadrebbe dunque questo punto della ricostruzione di Boccaccio e si vuole prestare fede dell’andata a Parigi non resta che collocare il viaggio tra il 1309 e il 1310. Bisogna sottolineare come ai tempi di Dante molti andavano a studiare teologia e filosofia a Parigi. Premessa che come si impara dalle biografie di Brunetti latini, un viaggio a Parigi in tempi non troppo lunghi si poteva affrontare anche a quell’epoca e che dunque non è questo un argomento ostativo, però secondo Pellegrini la menzione del viaggio pare agganciata troppo all’episodio di Sigeri e al desiderio, soprattutto da parte di Boccaccio, di giustificare la sua formazione filosofica. ATTENZIONE  Benchè gli argumenta e il silentio, cioè ciò che in positivo possiamo ricavare dal silenzio delle fonti, vadano usati con estrema cautela e Pellegrini stesso ricorre a loro mal volentieri ma spesso contengono informazioni importanti e notevoli. 4. L’inizio della Commedia Tempi e luoghi della composizione della Commedia costituiscono da sempre uno degli argomenti più dibattuti della biografia dantesca, lo stesso Giorgio Petrocchi ha avuto difficoltà nella datazione e il fatto che ci sia un’oscillazione cronologica non porterà mai ad una datazione puntuale e precisa. Un elemento sicuramente acquisito è che l’Inferno fu avviato dopo l’interruzione del Convivio, dunque nell’autunno del 1306. La Commedia segna uno stacco preciso dalle altre opere. In questo senso perde di valore il dibattito sui primi 7 canti perché il Dante del duecento è diverso dal Dante dell’esilio. Pellegrini pensa che per datare la Commedia ci si debba basare solo sugli eventi per i quali la menzione nella Commedia sia certa: ciò consente non di dire quando è stato scritto quel canto, ma solo che è stato scritto dopo quell’avvenimento. Inoltre è un’illazione pensare di stabilire una cronologia sulla base dei silenzi perché Dante avrebbe potuto volontariamente tacere determinate questioni per diverse ragioni. CAPITOLO SESTO “ENRICO VII” 1. “Pedes tuos manus mee tractarunt”: l’incontro con l’imperatore. Il 27 novembre 1308 Enrico VII era stato eletto re dei Romani dai principi elettori di Germania con sei voti favorevoli e uno contrario. Nel settembre del 1309 Enrico VII aveva annunciato ai principi tedeschi la volontà di scendere in Italia ma sulla possibilità di realizzare l’impresa, soprattutto per ragioni di carattere finanziario, nulla era prevedibile. Così per racimolare qualcosa, diede ordine ai mercanti lombardi di trovarsi nelle Fiandre ma l’impresa richiese così tanto tempo che i primi ambasciatori furono inviati solo nel 1310. Nel marzo precedente guelfi di Toscana e Bolognesi avevano concluso un accordo per una lega militare i cui scopi erano tanto impliciti quanto evidenti. Nel maggio successivo la lega si estendeva ai guelfi di Lombardia. Nella lettera di luglio di Clemente V, il papa, lui, aveva fissato l’incoronazione per il 2 febbraio 1312 rifiutando di anticiparla come richiedeva Enrico. Questa venne fissata per il 15 agosto ma non avvenne perché Enrico VII era impegnato nell’assedio di Brescia. Questo ci fa capire che il pontefice non aveva cambiato strategia. Prima si è detto che il 2 o 3 luglio del 1310 Enrico VII inviò ambasciatori a Firenze per chiedere un atto di sottomissione all’impero. Si trattò di un’ambasciata fallimentare. Gli Ambasciatori lasciarono Firenze diretti ad Arezzo. Presso Arezzo, dopo una spedizione militare condotta contro gli Aretini alla fine di giugno, l’esercito fiorentino aveva costruito un battifolle e fissato il proprio accampamento. Anche alle milizie fiorentine gli ambasciatori ingiunsero di deporre le armi senza successo. Non c’era dunque molto da illudersi sulla posizione di Firenze, e gli inviati di Enrico VII proseguirono il proprio itinerario verso Volterra e Siena. In quell’estate del 1310 Dante si trovava probabilmente a Forlì, stabilmente in mano a Scarpetta Ordelaffi forse fino al 30 settembre 1310, quando Roberto d’Angiò ricevette le insegne del vicario papale in Romagna. Secondo la testimonianza dello storico Biondo Flavio, da Forlì Dante scrisse, a nome suo e forse anche dei fuoriusciti, la lettera a Cangrande della Scala alla quale si è fatto cenno. Il resoconto della replica dei Fiorentini che l’umanista forlivese dice di estrarre dalla lettera dantesca è tanto puntuale da ricordare l’inquisitio del 20 novembre 1311 con cui l’imperatore li accusava formalmente di ribellione. Biondo fa riferimento non solo all’ambasciata forlivese del poeta ma anche all’ambasciata imperiale del 1310 e al successivo passaggio per Arezzo e conferme puntuali sulla cronologia si ricavano sia dal Villani che dal Compagni. Non è improbabile che da Forlì Dante inviasse l’Epistola V, forse all’indomani della bolla di Clemente V del I settembre. A questo punto Enrico VII cominciò a muoversi e fece una serie di viaggi che lo portarono in diverse città. Il 6 gennaio 1311 Enrico VII cinse la corona di ferro. Nell’epistola VII del 17 aprile del 1311 così come nell’epsitola di Cangrande, Dante dice molto bene di aver incontrato l’imperatore. Ad aprile infatti Enrico VII era ancora a Milano. Quando era lì aveva ricevuto giuramento di fedeltà da parte di Cangrande, e qui erano giunti anche Moroello Malaspina e Altoviti. Può essere che Dante si presentasse a Enrico durante l’incoronazione di Milano. Però sembra più economico pensare che il poeta da Forlì raggiungesse prima Verona e che la lettera a Cangrande servisse proprio per preparare il suo approdo in riva all’Adige. Da Verona Dante potrebbe essersi accordato all’ambasciata veronese diretta ad Asti: in quel momento Cangrande era l’unico con cui Dante aveva un contatto sicuro e autorevole, grazie a cui i buoni uffici si sarebbe potuto avvicinare ad Enrico VII. Dal Piemonte o da Milano Dante fece presto ritorno in Casentino. Da qui il 31 marzo 1311 indirizzò l’Epistola VI contro gli scelleratissimi fiorentini accusandoli di disubbidire alla volontà divina (poiché si opponevano al futuro imperatore) la lettera non fa pensare minimamente al papa, il che fa pensare che tenesse ancora buono il suo appoggio. Non si dimentichi che il 17 aprile Clemente V aveva confermato la cerimonia di incoronazione anticipandola addirittura al 15 agosto. Dello stesso 17 aprile 1311 probabilmente dalla stessa località è la già citata Epistola VII all’imperatore, in cui Dante rievocava l’incontro con il sovrano avvenuto poco tempo prima. La lettera fonde la viva memoria di quell’evento con la calda esortazione a non indugiare nell’Italia settentrionale e a scendere in Toscana. Enrico VII infatti era alle prese con una serie ininterrotta di ribellioni da parte dei guelfi del Nord forgiati dai finanziamenti provenienti da Firenze. In consonanza con la lettera precedente, Dante ribadisce che la vera causa della ribellione è Firenze e che contro di lei il sovrano deve volgere il suo esercito e in essa il poeta menziona alcune città come Brescia, Padova, Vercelli ecc. Le successive tre lettere sono più brevi e sono state inviate a Margherita di Brabante moglie di Enrico VII, a nome di Gherardesca, moglie di Guido da Battifolle dei conti Guidi: il nome di Dante non compare. Inizialmente si era pensato, grazie ad alcune somiglianze, di tre versioni diverse dello stesso testo ma poi recentemente è stato sottolineato come contenuto e lessico siano diversi, inoltre Guido da Battifoglie aveva la disposizione una cancelleria, quindi avrebbe potuto dare ad essa il compito di scrivere, ma ha preferito “la mano” di un fior di letterato. Una di esse, l’attuale Epistola X, data da Poppi, nel 1311, rende plausibile che da Poppi siano state inviate anche le Epistole VI e VII che immediatamente precedono nel codice che le ospita e dunque che Dante, dopo il passaggio in Piemonte e in Lombardia, sia stato subito accolto da Guido Battifolle. Se l’epistola a Moroello fu scritta dal Casentino tra la fine del 1308 e il 1309, e nell’estate del 1310 Dante era probabilmente a Forlì, si potrebbe pensare che egli fosse già ospite di Poppi da qualche tempo, giunto da Lucca. Ciò significa anche la scrittura dell’Inferno risalirebbe in buona parte a questa fase. Recentemente si è ipotizzato che le epistole VI e VII non potessero essere state scritte da Poppi per il loro tenore antifiorentino, essendo i Guidi di Battifolle guelfi e per il fatto che Poppi fosse lontano dall’Arno. Studi recenti fatti da Zingarelli, hanno pensato a Porciano, sede del ramo dei Guidi da Porciano schierato con i ghibellini. È una lettura politica che se da un lato risolve, dall’altro pone ulteriori dubbi. 2. La prima amnistia (2 settembre 1311) e l’epilogo di Enrico VII L’ultima notizia certa di questa fase risale al 18 maggio del 1311 quando dante si trovava ancora a Poppi, per gli spostamenti successivi solitamente ci si affida ad una testimonianza di Francesco Petrarca. Nell’epistola Familiare XXI 15 Petrarca ricorda di aver incontrato Dante una sola volta nella prima parte della sua puerizia (iniziava agli 8 anni di età). Lui ci fa pensare che quando aveva sette anni, si è trovato per un periodo a Pisa. Dopo dovette compiere un viaggio che lo portò prima in Francia e poi a Genova. In Provenza approdò nei primi mesi del 1312 ma andarono via perché reputarono Avignone una città troppo affollata e in quell’anno si stava svolgendo anche il Concilio di Vienne, motivo per cui si trasferirono a Capentras. Petrarca incontrò Dante proprio a Pisa o a Genova quando lasciò la Francia. CAPITOLO SETTIMO “RITORNO A VERONA” 1. Prima diffusione dell’Inferno e stesura del Purgatorio A cavallo della morte dell’imperatore risale la prima diffusione dell’Inferno e la conclusione di buona parte del Purgatorio. Per l’Inferno il dato di maggiore rilievo è il testo di una glossa che Francesco da Barberino appose al manoscritto dei suoi documenti d’amore. Databile alla seconda metà del 1314, essa è la più antica testimonianza della diffusione della cantica. Anche per il Purgatorio gli elementi di datazione sono deboli. Nei canti XVI e XVII del Purgatorio Dante esprime un giudizio molto severo nei riguardi delle corti settentrionali, infatti lancia un giudizio sferzante verso Alberto della Scala e di suo figlio Giuseppe, abate di San Zeno di Verona. Queste affermazioni sono parse incompatibili con la presenza di Dante a Verona, si ipotizza che i due canti non li avesse scritti tra l’estate del 1310 e il marzo del 1311. 2. Verona 1312: Dante, Cangrande e l’appello all’imperatore Si parte dal presupposto che non si ha sempre la posizione certa di Dante all’interno di quello che è il periodo dell’esilio, in particolar modo si hanno due buchi temporali: gli anni dal 1302 al 1306, e poi gli anni corrispondenti alla discesa di Enrico VII. Di questo periodo non abbiamo documenti che attestino la posizione di Dante, ma c’è una LETTERA DI RECENTE SCOPERTA dove si sottolinea come ci sia stato uno scambio epistolare tra Cangrande ed Enrico VII. Cangrande chiede aiuto a Enrico VII per problemi locali ma dietro a ciò c’è anche una sorta di elogio. La cosa importante è che non c’è effettivamente citato Dante, ma sono stati trovati una serie di riscontri con le opere dantesche, ovvero una serie di binomi e sintagmi che si trovano già in opere di Dante, quindi calcano l’usus scribendi dell’autore, in particolar modo nel Monarchia e nell’Epistola I composta nel 1304. Dunque ciò fa pensare che Dante sia stato a Verona in quell’anno e che sia stato lui a scrivere quelle lettere destinate all’imperatore. È una documentazione indiretta ma che può certificare la presenza di Dante alla corte di Cangrande e che quindi andrebbe a sottolineare il rapporto di amicizia e il cambio temporale tra i due. 3. Il rifiuto dell’amnistia La cronaca non ci dà abbastanza informazioni per definire cosa succede nel biennio che va dal 1313 al 1314. Forse riprese le sue peregrinazioni o forse si fermò a Verona. A partire dalla primavera del 1315 il condottiero di Pisa, Uguccione della Faggiola, avvia una serie di operazioni militari contro Firenze finché non espugnò la città di Lucca. Firenze, in risposta, cercò di riammettere degli esuli in città a condizione che pagassero una certa somma di denaro. Il 15 ottobre Dante Alighieri e i suoi figli, furono condannati a morte e alla confisca dei beni per non essersi presentati e vennero confinati come sospetti ghibellini. Tra il maggio e l’ottobre 1315 giunsero nuovi provvedimenti che convertivano la pena pecuniaria in obbligo di confino accompagnato al versamento di una somma come garanzia. All’indomani dell’amnistia alcuni amici di Firenze dovettero scrivere a Dante invitandolo ad approfittare del provvedimento e porre fine all’ esilio. Il poeta ha rinunciato alla possibilità di tornare, Dante ha scelto Verona come sua residenza. A questa fase possiamo far risalire l’avvio della stesura del Paradiso. 2. Il nodo dell’Epistola Cangrande Uno dei nodi che hanno fatto discutere gli studiosi di Dante è l’Epistola XIII, detta anche Epistola a Cangrande. L’epistola è il testo con cui il poeta ha dedicato a Cangrande il Paradiso. Non si tratta però di un’epistola canonica perché ad una prima parte (da 1 a 13, redatta secondo i canoni tradizionali dell’epistolografia ) ne segue una seconda redatta sotto forma di accessus ,cioè di introduzione alla commedia ,accompagnata anche da un saggio di esegesi dei primi versi della terza cantica ,qui Dante invita a interpretare secondo il senso letterale, allegorico, morale, anagogico. A partire dalla prima metà dell’Ottocento cominciarono a mettere in discussione l’autenticità integrale o parziale del testo, attribuendo a Dante solo i primi 13 paragrafi. Hanno iniziato a pensarlo perché quello che è stato scritto non si riflette nel carattere orgoglioso del poeta, come la richiesta di denaro a Cangrande. Petrarca nel Rerum Memorandarum alludeva a un rapporto non semplice tra Dante e Cangrande. Altri studiosi misero in evidenza le differenze di stile e contenuto tra i primi tredici paragrafi dell’epistola e l’accessus (il quale non esibisce le clausole ritmiche solite, non sembra all’altezza di Dante). Gli antichi commentatori della Commedia mostravano di conoscere solo la seconda parte del testo, Filippo Villani citava l’epistola per intero. L’epistola poi propone una lettura della commedia paragonandola alle sacre scritture. A fronte dell’indagine filologica la teoria che metà dell’epistola sia stata scritta per mano di qualcun altro non regge per diversi motivi: -la compattezza della tradizione testuale diretta (tutti i testimoni manoscritti assegnano la paternità a Dante). -la prima parte dell’epistola è autentica e presenta citazioni uguali a quelle del Convivio, rielaborate in modo identico -solidarietà delle due sezioni dell’epistola e coerenza con lo stile dantesco, tutti i testimoni manoscritti contengono al termine del paragrafo 13 la formula di passaggio alla seconda parte. Inoltre troviamo intrecci tra le due parti dell’epistola e la Commedia. -precocità della tradizione testuale indiretta: il notaio Lancia, commentando la Commedia citò l’epistola come interamente dantesca. Anche l’autore dell’Ottimo commento conosceva la seconda parte dell’epistola. Firenze mostra nel primo ventennio dopo la morte del poeta, una frequentazione tutt’altro che episodica di materiali provenienti dallo scrittoio dantesco: negli stessi anni in cui circola l’Epistola XIII si ha testimonianza della lettura di un’opera come il Convivio. Anche la tradizione manoscritta dell’epistola si offre come del tutto speculare a quella del Convivio: è una tradizione interamente d’ area toscana che evidenzia una quota consistente di errori d’archetipo. Forse l’epistola non arrivò a Cangrande, arrivò a Firenze tramite Pietro Alighieri. Nel determinare la cronologia della lettera viene talvolta richiamata l’osservazione secondo cui la richiesta di sostegno economico richiesto da Dante a Cangrande, pare difficile da spiegare una volta che il poeta si accasò presso Guido da Polenta a Ravenna. A questo si associano alcuni passaggi dell’epistola che rimandano all’elaborazione degli ultimi canti del Paradiso. L’epistola lascia poi emergere i segni di un’evidente tensione polemica, una preoccupazione difensiva che testimonia un momento di crisi nella vicenda biografica del poeta. Dante si rivolge a Cangrande per chiedere sostegno perché ci sono molti suoi oppositori che latrano contro di lui. Vediamo dei contatti con la Questio de aqua et terra, essa ha sicuramente un tenore diverso rispetto all’epistola ma la tensione psicologica e i richiami lessicali appaiono gli stessi. Cangrande però era occupato a concentrare le sue forze contro Padova. Dante poi vorrà spostarsi a Ravenna, sicuramente si trova qui nel 1319. 2. La Monarchia Una più plausibile collocazione cronologica dell’Epistola a Cangrande può aiutare ad affrontare un secondo nodo dantesco: la Monarchia. La Monarchia è un trattato politico diviso in 3 libri in cui il poeta affronta, con procedimento sillogistico, il tema dei rapporti tra potere religioso e autorità imperiale. Nel libro I Dante afferma la necessità dell’esistenza dell’impero come unica istituzione che, in quanto universale e dunque non soggetta a nessun altro potere, può effettivamente garantire all’umanità la pace, la giustizia e dunque la felicità. Nel II libro spiega come autorità imperiale spetti di diritto ai romani, popolo destinato dalla provvidenza divina a questo preciso scopo. Nel III libro chiarisce che l’autorità imperiale discende direttamente da Dio così come l’autorità pontificia: in nessun modo dunque l’una delle due può ritenersi superiore all’altra. La questione della supremazia del potere spirituale aveva interessato molto anche Bonifacio VIII. Uno dei tratti rilevanti della Monarchia sta nell’assegnare ai Romani un ruolo provvidenziale e nel connettere il potere imperiale direttamente a Dio senza intermediazione del pontefice, che avrebbe dovuto riconoscere semplicemente la volontà divina. I manoscritti che trasmettono la Monarchia sono privi di datazione e quindi gli studiosi si sono affidati agli elementi di contenuto e di stile. Pier Giorgio Ricci ha preferito una data più bassa, posteriore al 1316. Giorgi Petrocchi pensò a datarla all’epoca della discesa di Enrico VII basandosi sulle consonanze con il canto di Marco Lombardo, poi fondandosi sulle osservazioni di Ricci, preferì collocarla a dopo il 1316. 3. La questio de acqua et terra Se la monarchia fu davvero licenziata, senza revisione, a ridosso della stesura dell’Epistola a Cangrande, un altro testo dantesco sembra testimoniare la medesima temperie di quei mesi burrascosi: La Questio. La Questio è la trascrizione di una disputa scientifica relativa all’origine delle terre emerse. Secondo la teoria aristotelica infatti tra le sfere concentriche degli elementi la terra doveva occupare la sede più interna ed essere interamente ricoperta dalle acque, circostanza negata dall’evidenza delle terre emerse. Nell’operetta Dante narra di aver assistito a una disputa filosofica sull’argomento mentre si trovava a Mantova. Il 20 gennaio 1320 nella chiesa di Sant’Elena a Verona Dante tenne una relazione sull’argomento e ne offrì la determinatio, cioè la soluzione magistrale: una volta dimostrato che le sfere degli elementi hanno un medesimo centro, Dante spiega come la sfera terrestre presenti una gobba dovuta all’attrazione delle stelle, per cui essa emerge solamente nell’emisfero boreale, rendo così possibile la vita .La tesi era stata già trattata da altri teologi e filosofi come Egidio Romano e Antonio Pelacani da Parma (Dante anche se prende spunto da lui non lo cita mai). Il testo della Questio ci è stato trasmesso unicamente da un’edizione a stampa del 1508 pubblicata dal rettore dagli agostiniani di Padova Giovanni Benedetto Moncetti. Nella sua lettera di dedica al cardinale Ippolito d’Este, Moncetti scrive che il manoscritto della Questio giaceva dimenticata in archivio e quindi ha deciso di stamparlo per non perderlo. Il fatto che ci fosse un solo testimone ha fatto sorgere qualche dubbio sull’autenticità del testo. Molti studiosi hanno fatto notare però l’assoluta coerenza del testo e dello stile con ciò che ritroviamo in Dante, anche se il falsario fosse stato bravo non sarebbe riuscito a riprodurre così bene le sue abitudini scrittorie . Bruno Nardi invece ha affermato che il testo fosse falso, evidenziando delle contraddizioni tra la Questio e quanto è stato scritto nel canto XXXIV dell’Inferno dove Dante ha affermato che la terra fosse primamente emersa nell’emisfero australe e solo dopo dello sconvolgimento causato dal precipitare di Lucifero si sarebbe ritratta riemergendo nell’emisfero opposto. Nardi non ammette nessuna contraddizione nel pensiero del poeta. La questio doveva essere una falsificazione nata forse in ambiente veronese a opera di qualche filosofo imbevuto di teologia il quale, per mettere in circolazione certe idee la attribuì all’Alighieri, tra 1330 e 1350. Perché esistesse un falsario così si deve dare per scontato che i testi di Dante circolassero liberamente e fossero di dominio pubblico, cosa impossibile visto che il Convivio venne poco considerato per molto tempo. Recentemente contro l’autenticità della Questio si è obiettato che alcune teorie che sono presenti in essa, sarebbero arrivate in Italia solo dopo gli anni 50 del Trecento, come rielaborazione delle Questiones del filosofo Giovanni Buridano sul de Caelo di Aristotele. Dante ragiona che alcune parti del corpo terrestre pur avendo un peso specifico minore di altre si possono trovare rispetto a queste ultime in una situazione di equilibrio compensando il difetto con un volume maggiore (come se poggiassimo sui due piatti della bilancia due oggetti di volume diverso ma che, in forza del diverso peso specifico, si mantengono in equilibrio). In tal modo il centro di gravità non coincide con il centro di grandezza e ciò spiegherebbe l’emersione di parte della terra dall’acqua. L’ipotesi
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