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Riassunto de "L'arte di guardare gli attori" di Claudio Vicentini, Appunti di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto del libro "L'arte di guardare gli attori" di Claudio Vicentini

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 08/07/2018

Ali.F.
Ali.F. 🇮🇹

4.4

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Scarica Riassunto de "L'arte di guardare gli attori" di Claudio Vicentini e più Appunti in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! C.Vicentini, L’arte di guardare gli attori Nel campo della recitazione tutti gli attori trovano a loro disposizione una costellazione di tecniche essenziali alle quali ricorrere. Un attore ne adotta una o più di una e procede con quella per tutta la vita mantenendola come impostazione di fondo. Le tecniche di base della recitazione sono però, per lo spettatore, difficili da identificare. Ma ci sono alcuni strumenti a cui si può ricorrere. La teoria degli oggetti Il primo espediente è osservare come un attore utilizza lo spazio e gli oggetti che lo circondano. Perché ogni attore agisce sempre in uno spazio e instaurando un rapporto con gli oggetti che ha intorno. (es. Filumena con Titina ed Eduardo Di Filippo, confrontati con Liv Ullman e Erland Josephson in Scene da un matrimonio di Bergman). Esiste un modo di recitare in cui l’uso degli oggetti e dello spazio di scena è minimo ed un altro in cui invece è totale e continuo. Quando è minimo l’attore si esprime maggiormente con la mimica, i movimenti del corpo e i toni della voce. Quando è continuo l’attore recita svolgendo un’attività costante, fisica e concreta. Verificare questi due modi di recitare non è difficile, basta osservare cosa accade quando un attore abituato ad ignorare gli oggetti deve usarli per forza (es. Alberto Sordi) o, caso opposto, quando un attore abituato al dialogo con gli oggetti se ne trova sprovvisto (es. Dustin Hoffman). Esiste anche un terzo modo di recitare però, quando gli attori, senza interagire continuamente con gli oggetti, inseriscono comunque nell’azione un buon numero di attività quotidiane, alternando a questi momenti sequenze in cui non fanno nulla. Questi attori tendono a sottolineare le azioni che compiono per caricarla di un significato. Sono queste le azioni che lo spettatore ricorda, mai quelle non sottolineate, che vengono percepite come contorno. Un quarto modo di recitare è l’interazione con oggetti immaginari. Ma perché il modo d’interazione con gli oggetti è così importante? Nel ‘700 la scena era sgombra e gli attori si ritrovavano a recitare sul proscenio, al centro e rivolti il più possibile verso il pubblico. L’attore insomma declamava accompagnando le parole con gesti il più possibile marcati e convenzionali. Questo avveniva perché il gusto teatrale del tempo prevedeva che l’azione fosse esemplare e mostrare il conflitto dei personaggi e delle loro passioni umane nei loro caratteri universali. Qualsiasi riferimento concreto al particolare avrebbe compromesso l’esemplarità del dramma. Questo impianto della scena era assai rigido ed i tentativi di inserire qualche elemento che rendesse più spettacolare la rappresentazione erano guardati con sospetto. Poco a poco le cose cambiano e , nei primi anni dell’800, compaiono drammi che richiedono veri e propri prodigi di scenografia. Le opere, in linea con il nuovo gusto romantico, presentano avventure mozzafiato ricche di colpi di scena. L’attore si trova allora a dover recitare utilizzando l’intero spazio scenico a sua disposizione, coordinando i suoi gesti e spostamenti con gli elementi della scena e quelli degli altri attori. Inoltresi diffonde una nuova sensibilità per le atmosfere dei tempi passati e le scenografie devono essere riprodotte con estrema cura, per quanto riguarda sia le scene che i costumi. L’attenzione per l’esattezza dei particolari diventa poco a poco maniacale, sia per i drammi storici, che per quelli ambientati nel mondo contemporaneo. Gli attori a questo punto devono imparare a recitare in rapporto a scenografie, oggetti e movimenti degli altri attori. Ma un ultimo passo viene compiuto a fine secolo dal teatro naturalista, che vuole sulla scena la perfetta riproduzione della vita quotidiana, così come si svolge nella realtà in ogni suo dettaglio. Dunque l’attore naturalista deve comportarsi come se il pubblico non esistesse, doveva evitare ogni finzione e compiere realmente le azioni del personaggio. A questo punto carattere e stati d’animo del personaggio si rivelano non tanto attraverso ciò che dice l’attore, quanto attraverso i suoi movimenti nello spazio, le relazioni con la scena e con gli altri attori e la relazione con gli oggetti. Il gabbiano di Cechov messo in scena al Teatro D’Arte di Mosca con la regia di Stanivslaskij, nel 1898, segna una pietra miliare nella storia della recitazione del ‘900. Stani preparava gli spettacoli immaginandosi ogni gesto, dettaglio, movimento, intonazione degli attori momento per momento e li fissava su carta corredando il tutto con schizzi e disegni, l’insieme di queste note costituiva il libro di regia, utilizzato per dirigere gli attori. Una cura maniacale era riservata all’ambiente, corredato di particolari, aggeggi e attrezzi vari. In un ambiente pieno di roba a questi livelli, gli attori sono mantenuti in continua attività. Stanislavskij mantiene sempre gli attori in movimento, non solo per rendere più realistica la scena ma anche per non cadere nei clichè della recitazione. 2) Due generi di personaggi Nella vita reale ognuno esprime naturalmente i propri stati d’animo nei suoi atteggiamenti esterni, il nostro comportamento esteriore riflette immancabilmente ciò che passa in noi. Questo fenomeno era noto alla maggior parte degli attori che lo avevano sfruttato fin dai tempi più antichi. Ma è solo nel 700 e per tutto l’800 che l’impiego dell’immedesimazione è diventato un problema importante e complicato. Impediva all’attore di controllare la propria recitazione e conservare freddezza e lucidità necessarie per rispettare le esigenze dell’azione teatrale. I sostenitori dell’immedesimazione obiettavano che l’interprete non poteva limitarsi a riprodurre dall’esterno le espressioni dei sentimenti senza provarli davvero. Il problema fondamentale però era un altro: come trovare un sistema per far nascere nell’attore al momento giusto le diverse emozioni de personaggio. La svolta per i cultori dell’immedesimazione sarebbe arrivata verdoline secolo quando alcuni interpreti trasformavano il processo d’immedesimazione in una tecnica particolare e sofisticata. Tuttavia alla fine dell’800 si poneva il problema di rendere i personaggi come veri e propri individui, unici e particolarissimi e se l’attore fosse riuscito a riprodurre in sé non le semplici emozioni generali, ma i suoi stati d’animo più sfumati e sottili, avrebbe, finalmente, potuto rappresentare sulla scena una figura che, in ogni dettaglio del comportamento esterno, avrebbe rivelato la più schietta e inconfondibile individualità. Per arrivare a questo l’attore deve trattare il proprio personaggio come se fosse un individuo reale, cercare di conoscerlo dettagliatamente, contesto ed epoca storica di provenienza compresi. Stabilita poi l’immagine del tempo e dell’ambiente, gli attori cercavano di penetrare indole e personalità del personaggio e conoscere tutte le esperienze attraversate nel corso della sua vita. Solo a questo punto l’attore poteva proiettarsi nella parte, traducendo nelle espressioni del volto, nei gesti e nelle azioni le più intime sfumature del personaggio. I procedimenti di Stanislavskij sono moltissimi e difficili da impiegare: l’attore deve compiere un lungo tirocinio e dedicarsi ad una miriade di esercizi che continua a praticare per tutta la vita. Stanislavskij ha inoltre modificato il complesso dei procedimenti utilizzati. I suoi allievi, a loro volta, li hanno diffusi e adattati in varie maniere. Il primo di questi procedimenti essenziali è quello del “Magico se”, che si ispira ai giochi infantili. Ma mentre ai bambini per giocare basta stabilire le circostanze fantastiche, l’attore deve immaginare dettagliatamente ogni minimo particolare della situazione. L’efficacia di questo processo è affidata a due componenti: la precisione con cui l’attore definisce ogni particolare della situazione e l’immediata vivacità con cui riesce a immaginare la situazione in modo da avvertirla concreta e presente di fronte a sè. Secondo procedimento è quello della memoria emotiva, messo appunto da stani e ripreso da Strasberg. E’ basato sul recupero di quelle esperienze, emozioni, del nostro passato che restano sepolte dentro di noi e che possono riaffiorare se una precisa percezione fisica le riattiva agendo da richiamo. Individuato il ricordo si tenterà di recuperare tutti i dettagli esteriori della situazione. Sono tutti particolari sepolti nella memoria che l’attore deve ricercare ed estrarre uno ad uno. Se poi il processo è condotto correttamente, poco a poco, riaffioreranno anche le sensazioni fisiche effettivamente provate: su queste dovrà concentrarsi l’attore. E’ un processo lungo e difficile ma, ripetuto più volte, l’attore riuscirà a compierlo in pochi istanti. - Problema della rappresentazione simultanea di due stati d’animo diversi Sul conflitto di più sentimenti nell’animo di un personaggio è costruita tutta la drammaturgia europea. Bolevskij, allievo di Stanivslaskj analizza il problema enunciando il fondamentale principio. Per un attore è impossibile riprodurre a freddo la compresenza di due stati d’animo, l’unico modo per recitarli insieme è riviverli, cercare nel proprio passato un’esperienza più o meno simile a quella da recitare. Quando un interprete esprime sulla scena, più o meno bene, due sentimenti simultanei, sta sicuramente utilizzando le tecniche dell’immedesimazione. - effetto di trascinamento, entrare in scena Le tecniche di immedesimazione permettono di risolvere anche il problema del passaggio da uno stato d’animo a un altro completamente diverso. L’attore deve riuscire ad esprimere efficacemente tutte queste variazioni d’umore. Nella vita reale le espressioni di due stati d’animo consecutivi restano sempre collegate e tutti noi conserviamo nelle emozioni successive qualche traccia delle precedenti. Riprodurre questo effetto sulla scena non è facile, non c’è altro modo che immedesimarsi nelle emozioni del personaggio. Sfruttando questo processo di trascinamento emotivo, l’attore può rendere il passaggio tra due stati d’animo conservando sullo sfondo del secondo le tracce del primo. Se invece non si immedesima le sue espressioni appariranno troppo dure e schematiche, prive delle giuste tonalità di sfumature. Un altro fenomeno è la difficoltà a recitare appena si entra sulla scena. Accade che gli attori siano freddi all’inizio e che si scaldino recitando tutti insieme presi dalle vicende del dramma. Stanivalskij insiste sui metodi d’immedesimazione preventiva, studiando a lungo il problema dell’ingresso dell’attore all’inizio del dramma: l’unica soluzione per superare questa difficoltà è dotare di un’eco emotiva anche l’atteggiamento iniziale del personaggio. Per produrla l’attore deve immaginare la situazione del personaggio prima dell’ingresso sulla scena. Gli spettatori avvertono la presenza dell’eco emotiva senza neppure rendersene conto, quando conoscono la situazione di partenza e quella d’arrivo è difficile individuarle con precisione e capire che si tratta di tracce di emozioni precedenti. <si può usare l’espediente di vedere come il personaggio recita una reazione di sorpresa: per quanto violento sia il salto emotivo, quando l’attore si immedesima davvero, il passaggio è sempre progressivo, la seconda espressione non sostituisce meccanicamente la prima. Perciò se l’attore utilizza correttamente le tecniche d’immedesimazione è impossibile individuare l’istante preciso in cui avviene il cambiamento dallo stato iniziale a quello finale. 4) Le sensazioni fisiche e l’inconscio del personaggio Proprio come emozioni e sentimenti, anche le azioni fisiche modificano la nostra fisionomia, gesti e comportamento. Gli attori per lo più trascurano la stragrande maggioranza di queste sensazioni che dovrebbero colpire il personaggio, limitandosi a rendere solo quelle più intense, soprattutto quelle indispensabili allo sviluppo della vicenda. Questo lo fanno non solo gli attori scarsi ma anche quelli eccellenti. Questo perché la maggior parte delle sensazioni che proviamo nella vita si tradurrebbe sulla scena in espressioni microscopiche che non verrebbero notate da nessuno, ma anche quando la sensazione è imponente (es. caldo della giungla di Tarzan) non per questo diventa rilevante ai fini della storia. Quando è necessario riprodurre sulla scena non solo le emozioni ma anche le sensazioni fisiche indispensabili allo sviluppo della vicenda, la maggior parte degli attori ricorre ad un procedimento particolare: anziché mescolare le emozioni le altalena. Se l’attore dosa abilmente i tempi, recitandole in sequenze più o meno rapide, il pubblico non lo nota. Il trucco per capire se l’attore impiega questa tecnica è osservarlo nei momenti in cui deve esprimere un forte dolore fisico e al contempo un’emozione particolarmente violenta. Proprio in scene del genere è molto più facile osservare l’alternanza. E’ una maniera di recitare che non indica affatto una scarsa capacità attirare comunque. figura da rappresentare. Ma hanno anche un’altra indispensabile funzione: nascondere agli occhi dello spettatore tutto quello che non c’entra con il personaggio. E quando l’attore impiega efficacemente la rete dei segnali forti, i segni insignificanti e anonimi scompaiono. Il segreto della trasformazione dell’attore sta in fondo nell’elaborazione di un’intelaiatura di segni espressivi così precisi, evidenti ed efficaci per il personaggio da far scomparire tutto il resto. La disputa derivante dalla distinzione tra acteur e comèdien nasce da un equivoco. Nessuno quando recita resta mai sé stesso ma comunque si trasforma. Però un attore maturo, di sicuro talento ed effettive capacità, possiede comunque uno stile proprio ed originale, che si rivela in tutte le sue realizzazioni, per diverse che siano. Esistono alcuni attori che si mostrano particolarmente abili nella creazione di una gamma estremamente ampia di personaggi diversissimi tra loro. Ma la meraviglia che possono suscitare non ci deve far cadere nell’errore di credere che l’abilità trasformista sia di per sé segno di particolare bravura e grandezza dell’attore. Il numero e la diversità dei personaggi del repertorio non hanno infatti nessuna particolare importanza. 6) Le tecniche dell’imitazione L’attore che utilizza le tecniche dell’imitazione esprime dei segni chiari, indica ( critica di Strasberg) al pubblico la figura, i gesti e le espressioni più caratteristiche del personaggio. Queste tendono ad essere più evidenti, ad avere un effetto più marcato, volutamente diverso rispetto alla vita quotidiana. A cominciare dall’uso degli oggetti, che al contrario dell’attore che ricorre all’immedesimazione per cui sono punti di riferimento indispensabili, le tecniche di imitazione non ne hanno alcun bisogno. Per cui vengono usati solamente in due casi: - quando sono necessari allo sviluppo dell’azione - quando sono utili per esprimere in un modo del tutto particolare lo stato d’animo del personaggio. In entrambi i casi l’attore li maneggia con un gesto evidente, chiaro ed inequivocabile. Poi c’è la questione degli stati d’animo complessi, dove il personaggio è attraversato da più stati emotivi, magari anche in conflitto tra loro. L’attore che si immedesima sfrutta l’effetto dell’eco emotiva, ma per l’attore che imita e che tende a produrre segni chiari, netti, precisi ed inconfondibili questo non è possibile. Perciò, semplicemente, alterna le espressioni in successione, lasciando che sia lo spettatore a ricomporle. E’ una sorta di montaggio delle espressioni. Per quanto riguarda i gesti minimi non è possibile usarli, l’ambiguità disturberebbe. Perciò l’attore che ricorre all’imitazione li esibisce, indicando consapevolmente. I tipi e i caratteristi Per orientarsi nella creazione del personaggio, l’attore che utilizza l’imitazione finirà per riferire il suo personaggio a una o più categorie del genere umano e proprio cogliendo il personaggio come rappresentante di una rosa di categorie conduce la ricerca dei tratti esteriori più densi e significativi. In questo modo le tecniche dell’imitazione tendono a produrre figure che sono tipi esemplari di una o più classi dell’umanità. Si possono distinguere tre generi diversi di figure: -livello più basso. tipi ovvi e risaputi resi con pochi tratti scontati - invenzione di figure che riprendono e aggiornano tipi già stabilizzati e tradizionali - costruzione di tipi nuovi che riescono a tradurre in personaggio una categoria umana presente nella società del momento ma che non ha ancora trovato delle figure capaci di renderla in maniera acuta ed evidente. Aldilà di questa distinzione, esiste un genere di attori che si specializzano nella resa di figure, a volte scontate e a volte acute e brillanti, ma comunque sempre animate dall’intenzione di rappresentare qualche categoria precisa d’umanità. Questi attori sono definiti “caratteristi” e ottengono i risultati migliori nella creazione di personaggi che sono dei tipi. Infatti spesso quando creano un personaggio-tipo che funziona, la pressione dell’industria dello spettacolo li porta a ripeterlo continuamente finche l’intelaiatura di segni che hanno creato si irrigidisce, diventando una composizione di cliché che si lega all’attore. (es. P.Villaggio con fantozzi). Enfatizzazione ed effetti comici Ma le tecniche d’imitazione non servono solo a creare i tipi. Sono il mezzo più semplice ed immediato per produrre effetti comici e scene d’orrore. Tutto nasce della qualità dei segni espressivi dell’attore, che sono, per un attore che usa l’imitazioni, inevitabilmente ingranditi, enfatizzati rispetto alla quotidianità. Il senso della misura nell’ingrandire e sottolineare le espressione è quindi una dote essenziale per impiegare efficacemente le tecniche d’imitazione, che proprio per questa tendenza ad ingrandire si prestano bene per le scene comiche e quelle dell’orrore. Per quanto riguarda la comicità non ci sono dubbi, le tecniche d’imitazione sono le più facili da utilizzare, perché tendono ad enfatizzare. Per far ridere il pubblico esistono infatti due modi fondamentali: presentare un personaggio buffo, segnato da tratti esagerati, assurdi e inconsueti e proiettare la sua particolarità, per esempio l’avarizia, in ogni singola situazione. In questo modo lo spettatore viene proiettato, scena dopo scena, in una singolare condizione mentale. La seconda strada della comicità consiste nel predisporre un equivoco per cui il personaggio crede di trovarsi in una situazione e le circostanze sono invece diverse. Perché funzioni è necessario che il pubblico conosca l’equivoco. Come se la cavano gli attori della scuola dell’immedesimazione? - Sfruttano qualche elemento delle tecniche d’imitazione che riescono a introdurre nel loro stile - Ricorrono ad un sapiente uso dei tempi e dei ritmi, segnando in modo incisivo il comportamento del personaggio. Le varianti dell’imitazione Dalla maniera in cui queste caratteristiche sono trattate nascono diversi stili di recitazione, a loro volta molto diversi tra loro. Il più recente si è formato nel 900, quando si sono moltiplicati i drammi ricchi di figure complesse e personaggi sfumati. Di fronte a queste opere gli attori non si sono arresi e hanno sviluppato un nuovo stile che riduce al minimo effetti di enfatizzazione e deformazione. L’attore continua a sottolineare le azioni ma cerca di attirare l’attenzione non sul singolo movimento ma sull’insieme complessivo. Inoltre è stata perfezionata la tecnica del montaggio delle espressioni. Il modo di recitare dei caratteristi, quando viene accentuato, arriva ad uno stile ulteriore: quello delle macchiette. Il macchiettista porta l’enfatizzazione dei tratti e delle espressioni al punto estremo, le rende particolarmente desume intense e calcate, in modo di trasformare il personaggio non solo in tipo ma in caricatura. I prodotti di questo modo di recitare funzionano soprattutto nello spazio di brevi monologhi o di scenette, non possono reggere i tempi lunghi di una vicenda un minimo più complessa. I modi essenziali delle tecniche d’imitazione sono tre. -stile minimo che riduce enfatizzazione dei gesti e movimenti -stile del caratterista -stile del macchiettista Oggi lo stile utilizzato dalla maggior parte degli attori si colloca tra il primo ed il secondo. ma ogni buon interprete sa muoversi tra stile minimo e stile da caratterista secondo le esigenze della parte. 7) L’intreccio delle tecniche, l’attenzione del pubblico, i tempi dello spettatore Le due famiglie delle tecniche di base, seppur differenti e distanti, non possono procedere senza contagiarsi l’un l’altra almeno un po’. considerata un dono innato. E’ una qualità che fa sì che un interprete appaia sempre prossimo,vicino, impellente, anche allo spettatore più distante. Questa dote dipende da un uso efficace della concentrazione. Se l’attore entra in scena perfettamente concentrato sulla sua parte e sulle azioni che deve compiere diventa immediatamente convincente. Quando l’attore ci riesce gli spettatori sono immediatamente portati a credere che quello che fa sia esatto, giusto e se non capiscono qualcosa sia in fondo colpa loro. Il trucco per capire se un attore è concentrato è provare a pensare che un azione che compie (es.leggere il giornale) sia finta. Se non si riesce a pensarlo allora è davvero concentrato. Bisogna insomma cercare di smentirli mentalmente, se sono concentrati risulta impossibile farlo. Il raggio dell’attenzione dello spettatore segue sempre quello dell’interprete, per questo nei dialoghi ci si deve sempre ascoltare. Il trucco per capire se un attore sta ascoltando davvero l’altro è, di nuovo, provare a smentirlo mentalmente, se ciò riesce, allora è vero che non sta realmente ascoltando. tempi e attesa Sulla scena il tempo è una costruzione artificiale. La ragione è semplice: ciò che accade sul palco è diretto agli spettatori che stanno guardano e la velocità o lentezza delle azione è esclusivamente regolata sui tempi di reazione del pubblico. A teatro quello che importa non è il tempo effettivo, ma quello che il pubblico percepisce. L’attore deve sfruttare il meccanismo dell’attesa: a teatro il pubblico, a partire da una situazione iniziale (es. personaggio che riordina carte) è convinto che qualcosa debba accadere, se lo aspetta. Ed è su questa attesa che la recitazione regola i suoi tempi. Si tratta di produrre una situazione, renderla comprensibile, sollecitare la domanda nel pubblica, risolverla producendo una nuova situazione, e così via. Per mantenere la giusta tensione l’attore deve giocare continuamente con l’attesa del pubblico, sorprenderlo, provocarlo, variando lo spazio di tempo assegnato alle sue reazioni. In alcuni casi l’attore impedisci che l’attesa si stabilizzi e la brucia per sorprendere la platea. E’ un’accellerazione improvvisa solitamente usata in chiave comica. Altre volte invece allunga i tempi fino all’inverosimile. Ma a parte questi procedimenti particolari, ogni attore che si rispetti deve essere in grado di rallentare l’andamento della scena mediante il ricorso a pause più o meno lunghe. QUando un’interpretazione è messa perfettamente a punto ed eseguita come si deve, dall’alternarsi di accelerazioni, pause, rallentamenti e frenate, emerge un ritmo particolare che caratterizza l’attore ed il suo stile. 8) Lo schermo e la scena Le immagini dei primi anni di cinema hanno uno stile di recitazione più o meno generalizzato, schematico, elementare e allo stesso tempo esagerato, pesante, insistito e ridotto ad una lunga serie di cliché. Gli interpreti dei primi film sembrano avere la sola preoccupazione di farsi capire, far vedere al pubblico nel modo più ovvio ciò che il suo personaggio fa, pensa e prova, escludendo qualsiasi movimento o indicazione un po’ più complessa. La mancanza della parola riduceva i mezzi espressivi dell’attore ed i personaggi, privi di precise battute, restavano indeterminati e le situazioni nelle quali si calavano ovvie e risapute: non offrivano spunti per una recitazione più articolata. Con gli anni, pur rimanendo il problema del muto, la recitazione appariva meno esasperata: questo era dovuto però alla macchina da presa e non agli attori. Nel corso degli anni si era sviluppato il gioco delle inquadrature, mentre prima restavano fisse per tutta la durata della scena. La selezione di un oggetto, la messa in evidenza di un gesto, l’angolazione di una scena in modo da stabilire la gerarchia tra gli elementi ripresi, sono venute a costruire un linguaggio complesso, fondato sulla variazione delle inquadrature, che si è sviluppato tra primo e secondo decennio del 900, rimanendo inalterato nei suoi tratti fondamentali fino ad oggi. E’ un linguaggio che incide nella maniera più nascosta e insinuante sulla mente dello spettatore. Non ho finito di riassumere il capitolo perché parlava di cose abbastanza inutili, tutte riferite al cinema. 9) Il meccanismo fine dell’arte dell’attore Recitazione cinematografica e teatrale possono sembrare molto diverse, in realtà le cose sul palcoscenico e sul set non sono sempre così differenti: entrambi gli attori di questi due ambiti devono saper manovrare alla perfezione la concentrazione su ciò che è utile, relegando sullo sfondo ciò che può disturbare. Ed è proprio la stessa cosa che deve fare l’interprete sul set, davanti ai tecnici e alla macchina da presa. Non è diverso il problema dei movimenti di scena: qualsiasi vero professionista, di cinema o teatro che sia, dev’essere in grado di regolare gesti, passi, spostamenti, con estrema precisione, ripetendoli quando necessario senza variare di un millimetro. Sul set sono accentuate e condotte fino alle possibilità estreme forme di recitazione che l’attore di teatro usa in modo più semplice e occasionale: di fronte alla macchina da presa, ad esempio, l’attore deve regolare i gesti a seconda dell’inquadratura. Per molti aspetti il cinema riprende e sviluppa tecniche teatrali delle quali è, in fondo, l’erede. Ma vi sono due elementi che incidono profondamente sull’impostazione della recitazione a cinema e a teatro. 1) presenza del pubblico 2) L’azione della macchina da presa e del montaggio Per quanto riguarda il primo, la mancanza del pubblico sul set viene colmata dalla presenza della macchina da presa. L’interprete cinematografico trova davanti a sé uno sguardo capace di cogliere tutti i suoi movimenti e tutte le sue espressioni. Il rendimento di un attore sul set si basa sulla sua capacità di avvertire questa presenza.Gli attori più dotati per cinema e televisione sviluppano questo sesto senso che li anima e li orienta mantenendoli costantemente in contatto con l’azione dell’operatore. Questo sesto senso gli permette anche di evitare l’errore della ridondaza nella recitazione, che viene spesso rimproverato agli attori teatrali. Il motivo è che a cinema buona parte del lavoro dell’attore è svolto dalla macchina da presa e tutta l’abilità dell’attore teatrale di gestire lo sguardo dello spettatore e proiettare l’attenzione su un particolare, sul set diventa inutile: ci pensa il movimento delle inquadrature. Ma, soprattutto, la macchina da presa lavora sulla rete delle tensioni che a teatro percorre l’intera scena. Il problema dell’attore, a questo punto, non è catturare e mantenere l’attenzione del pubblico, ma trattenere su di sé l’obiettivo della macchina da presa. Poi c’è la questione del montaggio, che regola la durata delle azioni, prolunga o abbrevia l’estensione delle pause, interviene su tempi e ritmi, risistema con i propri mezzi tutti i meccanismi d’attesa che tengono lo spettatore incollato alla vicenda rappresentata. Per questo nel cinema si può far recitare anche i cani. Al polo opposto dei cani ci sono gli attori teatrali che sono abituati a fare gran parte del lavoro che di solito spetta alla macchina da presa. Non sempre recitando per il cinema riescono a limitarsi: in questi casi il regista lascia fare e riduce al minimo il gioco delle inquadrature e le risorse del montaggio. Quando l’attore usa una recitazione d’impianto teatrale e il regista non lo segue nasce l’effetto di ridondanza della recitazione. La recitazione passiva e il meccanismo finale dell’arte dell’attore. Le esigenze della recitazione cinematografica hanno prodotto uno stile efficace portato alla perfezione da alcune figure della golden age di Hollywood come Gary Cooper, John Wayne, Humphrey Bogart. Le loro facce sono stranote, ma le espressioni che caratterizzano i loro personaggi sono pochissime. Eppure funzionano alla perfezione. I personaggi appaiono convincenti e dotati di una profonda vita interiore.
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