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RIASSUNTO de “La Bibbia al rogo” di Gigliola Fragnito - esame di Storia moderna, Sintesi del corso di Storia Moderna

RIASSUNTO de “La Bibbia al rogo” di Gigliola Fragnito per l'esame di Storia Moderna.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 15/05/2020

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Scarica RIASSUNTO de “La Bibbia al rogo” di Gigliola Fragnito - esame di Storia moderna e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! RIASSUNTO de “La Bibbia al rogo” di Gigliola Fragnito CAPITOLO 1. La riforma e le traduzioni della Bibbia La grande stagione delle traduzioni. Nel corso del dibattito intorno alle traduzioni della Sacra Scrittura nelle lingue volgari del Concilio di Trento (1546), venne evocata la diversità delle tradizioni nazionali. Disparità di situazioni su accesso al testo Sacro in lingua materna nei diversi Paese  si cerca di evitare che una deliberazione in materia suscitasse reazioni contrarie in relazione alle diverse situazioni (divieto o permesso). La questione della volgarizzazione della Bibbia fu per il momento accantonata anche se c’è da sottolineare che nella geografia biblica disegnata a Trento alla metà del ‘500 l’Italia fu annoverata tra i Paesi europei in cui vi era una diffusa pratica di lettura del testo sacro. A far calare il silenzio su questa tradizione, ha certamente contribuito una tesi tendente a collegare la diffusione della Bibbia all’espansione delle dottrine riformate  il collegamento tra propagazione delle dottrine d’oltralpe, proliferazione delle traduzioni della Bibbia e moltiplicazione dei suoi lettori esce rafforzato; si pensa allora che le versioni della Scrittura nelle lingue parlate erano all’origine dell’espandersi dell’eresia. C’era una diffusione della Bibbia in volgare anche prima di Lutero. In Italia la prima traduzione è del monaco camaldolese Malerbi e appare a Venezia nel 1471, a cinque anni dal primo volgarizzamento tedesco. In Italia è un successo: alla fine del ‘400 l’Italia si colloca al secondo posto, con 11 edizioni, nella produzione di Bibbie in volgare. Il declino si ha tra 1500 e 1530 con numero di edizioni dimezzato e i responsabili di questo calo sono state sia la saturazione del mercato sia le difficoltà incontrate nel reperire i capitali per un’impresa editoriale di grossa portata quale è la Bibbia. Non è da escludersi che il declino fosse determinato anche da motivazioni di ordine culturale: i lettori esigevano un volgare migliore di quello rozzo di Malerbi, ora che veniva recuperata la grande tradizione del toscano. Solo nel 1532 esce una nuova traduzione: versione integrale della bibbia del fiorentino Antonio Brucioli. È indubbio che il ritardo con cui comparve una nuova traduzione derivasse dalle implicazioni che l’impulso dato dall’umanesimo allo studio filologico dei testi biblici non poteva mancare di avere anche sui volgarizzamenti (nuovi metodi mettono in evidenza la necessità di rivedere la Vulgata). Quindi è probabile che i più avvertiti tra gli aspiranti volgarizzatori procrastinassero il loro lavoro in attesa delle più aggiornate acquisizioni della filologia biblica. È comunque in un clima di vivace interesse per i libri sacri che il Brucioli dovette maturare il proposito di una traduzione italiana. Se in Francia nel 1526 il Parlamento di Parigi e la Facoltà di Teologia della Sorbona, allarmate dal successo della traduzione francese del nuovo testamento di d’Étaples, aveva ordinato il sequestro di qualsiasi traduzione biblica e aveva vietato ai tipografi di stamparne in futuro, la traduzione del fiorentino, per lo meno nell’immediato, non incontrò alcun ostacolo, anzi  la traduzione integrale di Brucioli ebbe sei edizioni ed ebbe l’effetto di risvegliare un forte interesse per la volgarizzazione del testo sacro di moltiplicare le traduzioni vernacole. I dati quantitativi del periodo sulla produzione biblica volgare (1471-1567) documentano innanzitutto la sostanziale acquiescenza della Chiesa di Roma alla produzione e alla diffusione dei volgarizzamenti fino all’indomani della chiusura del Concilio di Trento. La Bibbia di Brucioli infatti non sarebbe incappata nelle maglie dei censori se non molti anni dopo la sua prima edizione. Nonostante elementi sospetti (debito con la traduzione luterana per esempio), nessuna autorità ritenne di dover vietare l’edizione del 1532 ed ancor meno di dover condannare le traduzioni bibliche in generale Nuovi volgarizzatori si fecero avanti e primi furono domenicani (Zaccheria da Firenze e Sante Marmochino: traduzioni su quella del Brucioli ma con un apparato di sussidi alla lettura e ampie revisioni) allarmati dalla versioni di Brucioli sia perché li estrometteva dal controllo sui volgarizzamenti sia perché Brucioli era laico e la sua pretesa di capire le Scritture e di renderle accessibili ad un più ampio segmento della società metteva in discussione il principio della distinzione dei ruoli culturali tra il corpo sacerdotale e i laici. Le traduzioni dei domenicani però non riscossero il successo di Malerbi e Brucioli. La Chiesa tardò a reagire: il primo divieto di tutte le traduzioni bibliche in lingue vernacole comparve solo nel primo indice romano del 1559 anche se la produzione romana in merito aveva incontrato un calo già all’inizio degli anni ’50. Sarebbe tuttavia riduttivo individuare nell’accertata eterodossia di uno dei volgarizzatori la sola ragione del calo di edizioni; occorre osservare che le difficoltà cominciarono quando l’apparato repressivo iniziò a esercitare una più efficace vigilanza sulla produzione e sulla circolazione libraria  svolta: dal 1567 le versioni integrali in volgare vennero stampate solo a Parigi, Lione, Ginevra e Norimberga per poi essere importate clandestinamente. L’Italia, dove la produzione della Bibbia a stampa nella lingua parlata era stata più precoce ed aveva avuto ritmi più sostenuti che in molti altri paesi europei e dove anche lo spettro dell’eresia non era riuscito a provocarne l’arresto, si avviava ad entrare nel novero dei paesi senza Libro. I volgarizzamenti prima di Lutero. Non ci si può non interrogare sulle ragioni di un così evidente successo editoriale e di una così prolungata permanenza sul mercato di vecchi e nuovi volgarizzamenti. Si è soliti collegare l’intensificarsi delle traduzioni alle ripercussioni in Italia della Riforma protestante, ma in realtà all’origine sembrano esserci ragioni più complesse che non consentono di interpretare il fenomeno solo come la risposta del mercato ad una domanda fortemente accresciuta in seguito alla penetrazione delle idee di Erasmo (= insiste sulla necessità di rendere la Scrittura accessibile a tutti gli strati della società; cercava di colmare una grave lacuna, ovvero la presenza di sole parziali traduzioni della Scrittura e non di una traduzione completa). Interesse sempre maggiore per la Bibbia in più ampie cerchie di lettori. Occorre sottolineare che le tirature delle edizioni bibliche fossero relativamente elevate e non va neppure trascurato il fatto che erano ampiamente praticati sia il prestito di libri tra privati si ala lettura ad alta voce di fronte ad un uditorio (pratiche di comunicazione che contribuivano a moltiplicare il numero dei fruitori di un singolo esemplare). Il fenomeno doveva aver assunto dimensioni non del tutto irrilevanti. In Italia c’è molta attenzione al libro come mezzo di diffusione si cultura e come strumento indispensabile alla conoscenza della mentalità di una società nelle sue stratificazioni; sono stati analizzati cataloghi di biblioteche e inventari di libri e attualmente è impossibile individuare il posto occupato dai volgarizzamenti biblici nelle biblioteche del tempo. Studi di questo tipo, quindi, pur non trascurando la presenza del libro di devozione, non forniscono dati utili all’individuazione del posto occupato dai materiali biblici in volgare all’interno delle liste esaminate. (da rivedere 46-47-48-49) Gli inventari evidenziano come le vie di accesso alla scrittura fossero molteplici e passassero attraverso una ricchissima varietà di scritti: spesso tradotti con intenti didattici in versi facilmente memorizzabili, consentivano al fedele di entrare in contatto con più o meno consistenti frammenti della Bibbia. Quando i libri venivano lasciati in eredità non mancava mai un esemplare di questo tipo  un elemento da tenere in considerazione se si vuole comprendere a pieno il significato e la portata dei futuri interventi della Chiesa con i volgarizzamenti biblici. Non bisogna poi separare i suoi canali linguistici di accesso alla Parola divina che dovettero a lungo correre paralleli per finire con l’intrecciarsi. [conventi femminili e confraternite] Se poco si conosce della circolazione della Bibbia, la carenza di studi sulla sua lettura rende di per sé impossibile l’individuazione dei diversi modi e dei livelli di appropriazione dei testi e il grado di familiarità con la Scrittura volgare e/o latina di chi non era un religioso o un letterato. La Chiesa di fronte alla scrittura in volgare. Nonostante lacune documentarie e storiografiche impediscano una più precisa collocazione dei volgarizzamenti biblici nella cultura e nella pietà degli italiani del tardo medioevo e della prima età moderna, appare evidente che le traduzioni circolavano. Tutto questo perché occorre aspettare il Concilio di Trento affinché il problema della liceità delle traduzioni bibliche fosse affrontato da una assise ecumenica e fosse da essa accantonato per essere risolto definitivamente nel 1596. I divieti emanati contro i volgarizzamenti dalle autorità ecclesiastiche per arginare la diffusione dei movimenti ereticali medievali ebbero carattere locale e circoscritto e non riguardarono l’Italia. Lungi quindi dal vietare le traduzioni in sé la Chiesa si preoccupò di sottrarla tempestivamente all’iniziativa dei laici e di porla sotto il vigile controllo dei domenicani, i quali non propugnavano né un accesso autonomo, né indiscriminato ai libri sacri. Le loro traduzioni offrivano contemporaneamente le Scritture e le loro rappresentazioni autorizzata, non lasciando alcuno spazio alla libertà interpretativa del lettore; inoltre raccomandavano una gradualità nell’apprendimento. I domenicani erano allarmati dai rischi del proliferare incontrastato di traduzioni che minacciavano non soltanto di intaccare l’integrità del testo ma anche di stravolgere l’interpretazione delle auctoritates bibliche. L’assenza nella penisola italiana di una tradizione di forte opposizione ai volgarizzamenti a non permettere a Roma di intervenire con la tempestività con la quale autorità civili e religiose di alcune nazioni europee avevano cercato di bloccare sul nascere il tentativo di acculturazioni biblica delle masse. Comunque dietro ad una intensa attività di volgarizzazione si celavano fortissimi interessi commerciali, sollecitati da una crescente domanda. Le esigenze del mercato sembrano a tratti prevalere sulle finalità religiose e condizionare la stessa evoluzione della struttura delle singole edizioni (bisognava rendere concorrenziale il prodotto) che usavano prestiti extracanonici da altre edizioni. In un’epoca in cui il confina tra ortodossia e eterodossia era ancora labile e indefinito, questi assemblaggi di materiali extracanonici non dovevano apparire particolarmente sospetti. nell’applicazione dell’Indice, associandolo agli inquisitori. Questa Moderatio, sebbene non portasse cambiamenti alla normativa relativa ai volgarizzamenti, prevedeva che l’ordinario potesse autorizzare la lettura  c’è l’intenzione da parte di Pio IV di contenere l’esorbitante potere acquistato dal Sant’Ufficio sotto Paolo IV; non vanno però trascurate le preoccupazioni di ordine pastorale. La scelta di restituire un ruolo agli ordinari diocesani – concedendo loro tra l’altro la facoltà di di assolvere nel foro interno e nel foro esterno lettori e proprietari di libri proibiti – serviva a compensare le carenze dell’apparato periferico dell’Inquisizione. La Moderatio risulta essere l’unico documento prodotto dalla commissione romana nelle more della pubblicazione dell’indice tridentino. L’indice tridentino è l’unico indice universale stilato da una commissione di vescovi. Pio IV non soltanto attribuiva ai vescovi competenze che fino a quella data erano state esercitate dalla Congregazione romana, ma affidava loro il compito di sottoporre a radicale revisione l’indice da essa redatto. Così nell’immediato i vescovi riebbero quella funzione di vigilanza sulla vita intellettuale e religiosa dei fedeli che era stata loro tolta da Paolo IV. Il nuovo indice non solo attenuava molti categorici divieti di quello del 1559 in favore di più moderazione, ma affiancava agli inquisitori i diocesani nell’attività censoria; aggiungeva dieci regole inedite che alleggerivano la lista dei libri proibiti. Anche per quanto riguarda le Bibbie in volgare, l’indice tridentino introduceva criteri flessibili; si attua il principio della competenza comune dell’ordinario e dell’inquisitore in materia di concessione di dispense per la lettura dei volgarizzamenti; restituzione ai parroci e confessori della responsabilità di valutare l’idoneità dei fedeli alla lettura della Scrittura. La posizione dei membri della commissione tridentina si discostava in maniera sostanziale dalle direttive di Paolo IV; vengono eliminate molte proibizioni del 1559 (esempio divieto per le donne). La commissione di Pio IV era formata soprattutto dai sopravvissuti delle correnti evangeliche: tra questi un esempio è offerto dall’arcivescovo di Toledo Carranza e dal suo Catecismo; Carranza suggeriva ai vescovi un atteggiamento responsabile e prudente, affidando loro il compito di vigilare le capacità dei propri fedeli di trarre beneficio dal diretto ed individuale contatto con la Parola divina; per coloro che essi consideravano non idonei alla lettura della Scrittura, Carranza proponeva un programma di insegnamento dei testi biblici attraverso la predicazione e la forma abbreviata e chiara del suo catechismo. Ci sono molte affinità tra questo Catecismo e la regola IV della commissione tridentina  viene autorizzata una cauta e prudente dispensazione della Parola con percorsi biblici diversificati a seconda delle capacità intellettuali del singolo fedele. Ma questa moderata e controllata concessione non sarebbe stata possibile senza la marginalizzazione del Sant’Ufficio (una tregua destinata a durare pochi anni, ovvero il tempo che a Pio IV succedesse l’intransigente Ghislieri). 1564: con la bolla Dominici gregis l’indice tridentino consentì la ripresa della stampa delle traduzioni della Scrittura. Ci fu subito una proliferazione di edizioni della Bibbia a testimonianza di come i padri conciliari incoraggiavano la lettura, seppure sotto il vigilato contributo del vescovo e dell’inquisitore. Tutto ciò dimostra che la domanda da parte dei lettori era piuttosto sostenuta dopo l’interruzione. Ci sono notizie scarne e contraddittorie che non permettono di stabilire con sicurezza se tra coloro cui spettava la facoltà di rilasciare licenze sia prevalsa la linea dell’intransigente rifiuto o quella della moderata apertura. La volontà di eliminare la Sacra Scrittura in volgare da parte delle autorità romane incontrerà molte resistenze, che verranno schiacciate solo dopo un trentennio di lotte. CAPITOLO 3. I volgarizzamenti biblici e la censura tra il 1564 e il 1583 L’indice del Sirleto. Le ricerche sulla censura ecclesiastica tendono ad accreditare l’immagine di un apparato repressivo che, dopo gli interventi moderatori dell’indice tridentino, si sarebbe avviato senza oscillazioni e contraddizioni sulla strada di un progressivo irrigidimento e di un crescente ampliamento della categoria di eresia  ne deriva una visione statica della Chiesa postridentina. Il percorso tormentato delle traduzioni bibliche nei meandri degli organismi censori, prima del loro approdo tra i testi vietati (1596) testimonia la persistenza di una viva dialettica interna alle istituzioni centrali della Chiesa. L’analisi delle posizioni della Chiesa intorno alle versioni bibliche mette in luce come il dibattito sulla loro liceità sarebbe stato definitivamente chiuso solo nel 1596. Prima di quella data si erano alternate e contrapposte posizioni profondamente divergenti: la ricostruzione delle circostanze che portarono alla condanna dei volgarizzamenti è strettamente legata alla lunga e complessa vicenda proprio dell’indice clementino. All’indomani dell’indice tridentino la Chiesa si trovò a dover affrontare l’espurgazione delle opere la cui lettura era stata sospesa; in questo campo Roma dovette presto fare i conti con l’inadeguatezza delle strutture di controllo. Inoltre, l’inarrestabile flusso clandestino verso la penisola di opere sospette o decisamente eretiche stampate oltralpe rendevano manifesta la necessità di aggiornare l’indice. Ma i primi provvedimenti in materia censoria vennero presi solo agli inizi degli anni Settanta. 1570: Pio V, deprecando l’inerzia degli ordinari e degli inquisitori, accentrava a Roma nelle mani del Maestro del Sacro Palazzo l’attività espurgatoria e la supervisione della pubblicazione presso la Stamperia Vaticana delle opere corrette. 1572: nasce la Congregazione dell’Indice con Gregorio XIII che con la sua bolla ne delinea le competenze; dietro alla brevità delle istruzioni si profilava l’accorpamento della funzione espurgatoria e di quella proibitoria, vale a dire il duplice programma di aggiornamento dell’Indice tridentino e di espurgazione delle opere in esso sospese. La prima riunione della Congregazione si tenne in casa del cardinale Souchier, ma alla morte di questo, subentrò Guglielmo Sirleto. Fino al 1587, anno in cui fu rinnovata completamente da Sisto V, la composizione della Congregazione subì quelle modifiche che si resero di volta in volta necessarie per la scomparse dei suoi membri. Fin dalle prime sedute appare manifesta la volontà dei cardinali di non limitarsi ad integrare l’elenco compilato dalla commissione conciliare; traspare dai verbali la vivacità delle discussioni suscitate dall’analisi delle regole. I cardinali dovettere presto accordarsi per la redazione del nuovo indice proibitorio (1580), ma né questo né quello espurgatorio vennero promulgati. Morto Gregorio XIII e arrivato Sisto V, la Congregazione non si riunì fino al 1587. Fin dall’inizio, quando avevano deciso di sottoporre ad un’attenta analisi le dieci regole dell’indice tridentino, i cardinali si erano trovati di fronte al problema delle versioni bibliche, oggetto della IV regola. I cardinali allora nel loro decreto del 1571 ricalcarono alla lettera il divieto dell’indice di Paolo IV che venne così ribadito, ma con maggior determinazione  primo segnale dell’orientamento intransigente dei cardinali, volto ad eliminare le mitigazioni dell’indice tridentino e a ripristinare il rigore precedente. L’intento di cancellare ogni intervento moderato dei padri conciliari non poteva essere più chiaro e coerente. La censura tra il 1571 e il 1583. Non sono note le ragioni per le quali l’indice di Sirleto non venne dato alle stampe. Alla sua mancata promulgazione non corrispose però il mantenimento in vigore dell’indice tridentino nella sua integrità. Sebbene non si possa sapere come Roma faceva pervenire alle inquisizioni periferiche istruzioni relative all’applicazione degli orientamenti censori, è da sottolineare che nei 32 anni che intercorrono tra il secondo e il terzo indice universale, si assiste ad una profonda modifica dell’indice tridentino; questo processo di svuotamento conobbe una fase di accelerazione proprio durante gli anni in cui Sirleto dirigeva i lavori della Congregazione dell’Indice. Comunque la creazione della Congregazione non comportò una ridefinizione e delimitazione dei poteri di controllo sulla stampa e sulla circolazione libraria esercitati dall’Inquisizione: i cardinali del Sant’Ufficio continuarono sia ad espurgare opere sospese sia a pronunciare condanne di libri e di autori e a trasmetterle alle inquisizioni locali (interventi tempestivi per bloccare subito opere sospette, in attesa di più mature decisioni, basate su un attento esame delle opere stesse da parte della Congregazione). La Congregazione dell’Inquisizione non era il solo organo la cui attività censoria si affiancasse o si sovrapponesse a quella della Congregazione dell’Indice; svolgeva un ruolo rilevante anche il Maestro del Sacro Palazzo = organo di trasmissione delle decisioni prese all’interno del suo ufficio e nelle due Congregazioni; redige liste di libri proibiti, inoltrate poi agli inquisitori periferici (il suo ruolo con il tempo al di fuori della sua giurisdizione viene assorbito dagli altri due organi). Ma al di là delle interferenze di altri organi, occorre sottolineare come, nonostante le prerogative loro assegnate, la dipendenza della Congregazione dell’Indice per l’applicazione dei decreti da essa emanati dal capillare apparato periferico predisposto dal Sant’Ufficio contribuisse ad assoggettarla alle decisioni dell’Inquisizione romana, la cui preminenza era rafforzata e sancita dall’essere presieduta dallo stesso pontefice. I rapporti epistolari intrattenuti da Roma con gli inquisitori locali non mancano di riflettere la complessa articolazione delle strutture deputate alla censura. Solo a partire dal pontificato di Sisto V le due Congregazioni sembrano essersi attrezzate più adeguatamente per assolvere le loro funzioni; prima di questa svolta la sovrapposizione dei ruoli in materia di censura libraria si somma all’esiguità della documentazione superstite, rendendo difficile la ricostruzione dei tempi e dei modi che portarono di fatto alla disapplicazione della regola IV dell’indice tridentino e successivamente della sua revoca (1582). Dopo il 1567 non si registrano in Italia nuove edizioni integrali della Bibbia e del solo Nuovo Testamento – segno evidente di istruzioni date alle inquisizioni periferiche di non autorizzare la stampa. Nonostante sembri esservi stata una certa consonanza di vedute tra i tre organi censori centrali ai tempi di Sirleto, alla condanna dei volgarizzamenti si giunse per piccole tappe. Nel 1577 al ripetuto divieto dei versi, latini e volgari, nei quali viene tradotto il testo della Scrittura si aggiunge quello delle Bibbie volgari di qualunque genere. Dopo il 1577 la condanna viene ampliata anche alle Epistole e Evangeli. Queste liste aggiuntive all’indice tridentino non indicavano se il divieto colpiva anche quei lettori cui era stata concessa l’autorizzazione dall’ordinario o dall’inquisitore locale in forza della regola IV. In generale l’orientamento vero uno svuotamento delle direttive tridentine risulta palese nella corrispondenza con gli inquisitori locali  un processo che viene dilazionato nel tempo, con progressivi provvedimenti fino all’ufficialità del 1582. È proprio di fronte allo stillicidio ed alla poca chiarezza dei divieti emanati dalle autorità romane nel decennio che corre tra il 1574 e il 1583 che il cardinale Paleotti avvertì il bisogno di stendere il suo importante memoriale, un documento che rappresenta un momento significativo dell’azione intrapresa da Paleotti per contenere l’erosione dei poteri episcopali e delle prerogative cardinalizie che culminò nel 1592. Scrisse il memoriale con il duplice scopo di salvaguardare i poteri conferitigli dal Concilio in quanto vescovo e di meglio definire quelli della Congregazione dell’Indice di cui era entrato a far parte. Mentre la Congregazione dell’Indice attendeva alla preparazione del catalogo dei libri proibiti che avrebbe dovuto sostituire quello del 1564, la Congregazione dell’Inquisizione era pervenuta a riacquistare quel controllo sulle opere di contenuto biblico in volgare che l’indice tridentino le aveva sottratto affidandolo agli ordinari e agli inquisitori locali. Lo svuotamento della regola IV rientrava in un progetto più vasto attraverso il quale l’Inquisizione romana mirava a sostituirsi agli ordinari diocesani nella direzione religiosa e culturale e ad erodere progressivamente i poteri loro riconosciuti dalla legislazione conciliare. Sia la moderazione che aveva caratterizzato l’orientamento tridentino nei confronti della letteratura volgare, sia i margini di autonomia che i padri conciliari avevano riconosciuto agli ordinari in questo settore sarebbero stati di lì a poco cancellati dal periodico invio alle inquisizioni periferiche di liste di condanne o sospensioni di opere di scrittori italiani. Nel 1573 viene nominato Maestro del Sacro Palazzo Paolo Costabili il quale segnò una svolta radicale nella politica culturale romana; il suo accentuato rigore moralistico non si manifestò solo nella condanna delle opere già stampate, ma condizionò pesantemente la censura preventiva. Tutte le liste aggiuntive, che partivano da Roma, privavano i vescovi della facoltà di adottare propri criteri di selezione delle letture non teologiche del proprio gregge.  Agli inizi degli anni ’80 quella che si configura come offensiva al volgare può dirsi compiutamente messa a punto. Ma in quegli anni appare avviata una politica tesa a privare gli ordinari diocesani della vigilanza e della guida spirituale e culturale del proprio gregge, sostituendoli con gli inquisitori. Questa accelerazione del cammino era stata favorita dalla piena sintonia in cui sembrano aver lavorato le due Congregazioni con Sirleto. Ma la morte di questo e la rinascita della Congregazione dell’Indice sotto Sisto V avrebbe segnato una momentanea pausa nella marcia, aprendo un nuovo capitolo della storia della censura. CAPITOLO 4. Due indici non promulgati: il sistino (1590) e il sisto-clementino (1593) L’indice sistino. L’8 febbraio 1587 la Congregazione dell’Indice veniva ripristinata da Sisto V (nomina Marcantonio Colonna, Agostino Valier, Vincenzo Lauro, Girolamo della Rovere, Costanzo Buttafuoco). Il loro numero era destinato a crescere (dopo entrano anche Paleotti e Federico Borromeo). Il pontefice vuole dare un’immagine totalmente rinnovata della Congregazione e una maggiore efficienza. L’aumento del numero dei cardinali avrebbe dovuto accelerare lo svolgimento dei lavori e consentire alla Congregazione di funzionare anche in assenza di alcuni di essi dalla Curia. L’esigenza di una maggiore professionalità è testimoniata anche dall’obbligo di giuramento di segretezza  compito della Congregazione era quello di preparare e di pubblicare un nuovo indice quanto prima. È evidente fin da subito la volontà dei cardinali di non riesumare il lavoro lasciato incompiuto dai loro predecessori: stabilirono con comune consenso che si dovessero conservare le regole dell’Indice tridentino, aggiungendovi opportuni chiarimenti. L’11 giugno 1587 la Congregazione si apprestava a sottoporre al giudizio dil pontefice regole, titolo del nuovo indice e bolla di promulgazione (molto tempo fu dedicato alla individuazione delle opere da sospendere all’espurgazione di quelle sospese). Ma gli interventi papali sulla bolla e le regole aprirono una lunga crisi nei rapporti tra la congregazione e Sisto V. Per oltre due anni i contenuti delle regole e della bolla furono oggetto di contestazione da parte del pontefice che vi apportò modifiche e aggiunte, non condivise dai cardinali. La morte del pontefice (agosto 1590) dopo tre giorni dall’approvazione poneva fine a questa fase ed impediva la promulgazione dell’indice, già stampato. Sisto V era stato membro della Congregazione dell’Indice dalla fondazione e aveva condiviso la linea intransigente perseguita da Sirleto; i cardinali da lui nominati si rivelarono non soltanto più duttili ma anche determinati a imporre la propria linea; né è da escludersi che appoggiasse la strategia di contenimento delle competenze dell’Inquisizione nel settore della censura libraria, dato che lui aveva riaffermato la propria funzione di vescovo di Roma, conducendo personalmente la visita personale. Le rettifiche e l’Observatio quindi è possibile interpretarle non tanto come un suo ripensamento quanto un atto strappatogli dal Sant’Ufficio. Emerge, da tutto ciò, anche la scarsa autonomia delle due Congregazioni, il cui operato passava sempre sotto il vaglio del pontefice e dei suoi più stretti collaboratori; ma è altrettanto evidente che a questo processo di burocratizzazione delle Congregazioni il Sant’Ufficio riusciva a sottrarsi e a esercitare un peso politico rilevantissimo. Tuttavia restano da chiarire le ragioni che indussero l’Inquisizione romana ad opporsi alla Congregazione dell’Indice sulla specifica questione dei volgarizzamenti biblici. È innanzitutto evidente che la Congregazione del Sant’Ufficio non intendeva rinunciare alla vigilanza sulla produzione e sulla circolazione libraria che aveva effettuato sin dalla sua istituzione nel 1542: una gelosa e intransigente difesa di prerogative che le erano state concesse quando entrambi i settori rientravano nelle sue competenze, oltre ad indurla a estendere la sua sfera di intervento. L’Inquisizione romana, ove non fossero state apportate rettifiche all’indice clementino, avrebbe visto sottrarre alla propria giurisdizione, con il ripristino della regola IV, i fedeli desiderosi di avvicinarsi ai testi sacri in lingua volgare (perdita di potere e di immagine). La maggiore facilità con cui chierici e laici avrebbero potuto procurarsi licenze direttamente dagli ordinari e dagli inquisitori locali avrebbe favorito una più ampia circolazione delle traduzioni in contrasto con gli orientamenti del Sant’Ufficio. I cardinali inquisitori poi dovevano essere allarmati dalla forte rilevanza che la divulgazione delle traduzioni della Bibbia aveva avuto nel fomentare la ribellione contro la Chiesa di Roma; per loro c’era la necessità di limitare l’accesso alla Scrittura solo a coloro che conoscevano il latino ed affidare alla mediazione del clero l’annuncio della Parola di Dio tra coloro che di latino erano digiuni. Inoltre, nel quadro più vasto della strategia curiale tesa alla centralizzazione a Roma del controllo sulle chiese locali e alla progressiva erosione degli ampi poteri riconosciuti dal Tridentino ai vescovi, la Congregazione del Sant’Ufficio aveva perseguito con ostinazione il disegno di espropriarli della tutela sulla cultura del loro gregge.  a prescindere da una radicata avversione dell’inquisizione romana nei confronti dei volgarizzamenti, affiorano nella tormentata vicenda della promulgazione dell’indice del 1596 profonde divergenze tra le due Congregazioni sulla funzione e sui poteri episcopali. Però sarebbe una semplificazione fermarsi su questo punto: la difesa che ne fecero i cardinali dell’indice non fu suggerita soltanto dalla loro appartenenza all’episcopato, ma fu dettata anche dalla necessità di contenere le ingerenze dell’Inquisizione in un settore (stampa) che loro consideravano di propria pertinenza (solo riconoscendo agli ordinari diocesani la competenza esclusiva in materia di censura, la Congregazione dell’Indice avrebbe potuto fare a meno per l’esecuzione delle proprie direttive del capillare apparato periferico dell’Inquisizione romana). In realtà all’origine dei conflitti che esplosero dopo il lungo periodo di positiva collaborazione tra il Sirleto e il Sant’Ufficio vi era anche una profonda divergenza di vedute su chi dovesse gestire il progetto postridentino di acculturazione e moralizzazione dei fedeli. La vicenda particolare dei volgarizzamenti evidenza l’esistenza di contrasti non soltanto sui metodi ma sui suoi stessi contenuti. Ripristinando nel 1596, dopo anni di incertezze, il divieto della lettura delle traduzioni bibliche pubblicato nel 1559, la Chiesa si apprestava a sopprimere ogni residua traccia del testo sacro in italiano. Solo nel 1758 Benedetto XIV autorizzerà chiunque a leggere versioni volgarizzate della Sacra Scrittura, purché corredate da annotazioni e approvate dalla Santa Sede. Si trattò di due secoli di rimozione coatta del Libro con incalcolabili conseguenze sulla religiosità, sulla cultura e sulla mentalità degli italiani. CAPITOLO 6. La Bibbia in Europa dopo l’indice clementino I volgarizzamenti biblici in Italia. Sconfitta ma non rassegnata, la Congregazione dell’Indice proseguì la sua battaglia a favore di una più ampia diffusione della Scrittura nelle lingue materne, mostrando che il ripristino della regola IV corrispondeva ad un’esigenza profondamente sentita. Poi l’applicazione dell’Indice riportò più volte all’ordine del giorno il problema: un posto centrale occuparono proprio i quesiti relativi alle traduzioni bibliche. Infatti, il divieto si estendeva ad ogni tipo di scritto che presentava nelle lingue vernacole estratti o parafrasi del testo sacro in prosa o in versi. I dubbi riguardavano le Epistole, sebbene la normativa adottata dal Sant’Ufficio alla vigilia della promulgazione dell’indice clementino suggeriva un’interpretazione restrittiva. Ma nel 1597 la Congregazione dell’Indice si pronunciò a favore dell’applicazione della regola IV e passando attraverso il pontefice, che in qualche modo piegò le resistenze del Sant’Ufficio, questo orientamento dovette imporsi. Anche su quel vasto settore delle traduzioni parziali della Scrittura rappresentato dai salmi la Congregazione dell’Indice assunse posizioni articolate; poi mentre ritenne che andassero escluse dal divieto almeno alcune versioni accompagnate da commenti, mantenne la proibizione per le versioni poetiche dei salmi: la reticenza verso questo tipo di testi non era nuova e la loro condanna ribadita nelle liste del 1574 e 1583 non era stata esplicitamente formulata nell’indice clementino. Brisighella, Maestro del Sacro Palazzo, di fronte alla variegata tipologia dei componimenti poetici con i temi della Scrittura, invitava a riflettere sulla complessità del problema. Nel 1605 la Congregazione ribadisce con maggiore chiarezza che il divieto non colpiva poemi o rappresentazioni sacre che parafrasavano la Scrittura . Gli insistenti interventi di Brisighella inducono a chiedersi se la richiesta di abolizione o di moderazione del divieto non fosse dettata dall’esigenza di salvare un’opera specifica piuttosto che un genere letterario. Il dibattito, che riproponeva il vecchio problema del rapporto tra teologia e poesia, tra linguaggio biblico e linguaggio poetico, non soltanto illustra le conseguenze in campo letterario delle preclusioni della chiesa nei confronti dei volgarizzamenti biblici, ma evidenzia anche una delle maggiori ossessioni della Controriforma  l’ansia di distinguere il sacro dal profano, il netto rifiuto di qualsiasi loro commissione avevano il loro distante retroterra nelle polemiche seguite alle trasformazioni verificatesi durante il pontificato di Leone X, quando l’umanesimo romano si era posto al servizio della Chiesa e si era fatto strumento di esaltazione del papato mediceo: gli umanisti romani avevano prodotto quella commistione tra temi sacri e profani, tra verità cristiana e favola pagana che si sarebbe rivelata inadeguata e rischiosa a difendere le istituzioni e la dottrina della Chiesa. Le critiche a questo orientamento si sarebbero irrigidite nel momento in cui la Chiesa avrebbe impegnato tutte le sue energie nella moralizzazione e nel disciplinamento della società, e sarebbero andate a costruire le linee portanti della politica censoria delle Congregazioni dell’Indice. L’ansia di erigere insormontabili barriere tra temi sacri e profani si riversò sui volgarizzamenti metrici della Scrittura così come sull’arte sacra su gran parte della lirica italiana. Troppo radicata era la diffidenza verso motivi profani e paganeggianti veicolati dalla letteratura e troppo forte la tendenza ad estendere la categoria di eresia alle devianze da una sempre più rigida concezione della moralità e del decoro; una diffidenza condivisa anche dalle Chiese riformate di Francia. Quindi alle aperture dei cardinali dell’Indice verso una religiosità più interiorizzata ed individuale corrispose una totale chiusura verso creazioni artistiche che non si attenesse alle rigide prescrizioni di decoro e separazione del sacro dal profano che alcuni degli stessi membri della Congregazione si accingevano a codificare attraverso provvedimenti alquanto restrittivi. I volgarizzamenti biblici in Europa. All’alba del Seicento la Congregazione dell’Indice era riuscita a sottrarre al controllo del Sant’Ufficio la lettura delle pericopi evangeliche per l’anno liturgico e di alcune traduzioni di salmi. Gli scarsi risultati riportati per quanto riguardava i volgarizzamenti biblici italiani sarebbero stati, tuttavia, controbilanciati dall’esito positivo nel resto dell’Europa cattolica. Giunsero infatti dai paesi in cui venne applicato l’indice clementino richieste di revisione del divieto e di autorizzazione a pubblicare nuove traduzioni: il problema tornò centrale. Si procedette senza una visione globale, ma valutando le singole richieste caso per caso alla luce delle situazioni e degli usi locali. Nel 1603 i cardinali, su mandato di Clemente VIII, riesaminarono globalmente il problema, esprimendosi a favore di traduzioni approvate dalle università cattoliche delle singole nazioni; la decisione poi sarebbe stata sottoposta all’approvazione del pontefice che avrebbe dovuto dare le necessarie istruzioni alle università ed ai nunzi apostolici. Questa decisione non apriva nuovi spazi alle traduzioni bibliche ma prendeva semplicemente atto dell’impotenza di Roma, senza il valido appoggio dell’autorità civile, ad arginare la loro vasta diffusione, sia che fosse fondata su antiche consuetudini sia che fosse giustificata da più recenti esigenze controversistiche. Si finì quindi con la revisione del divieto universale delle traduzioni e col ridisegnare la mappa della loro circolazione. Dalle difficoltà e dai contrasti incontrati nell’applicazione dell’indice clementino e dal pluriennale dissidio tra l’Indice e Inquisizione emergeva in area cattolica una geografia diversificata della liceità dei volgarizzamenti  autorizzata nei paesi dell’Europa centrosettentrionale ed orientale, essi continuarono ad essere vietati dalle tre Inquisizioni nella penisola iberica e sul territorio italiano. Solo per l’Italia quindi non valse il criterio della tradizione come in Germania e in Polonia: nell’ottica del Sant’Ufficio la Bibbia nella penisola italiana, dove l’eresia era stata sconfitta, sarebbe potuta servire soltanto a riattizzarla. Tuttavia dalla questione sembra che all’inizio del secolo si fosse verificato un miglioramento dei rapporti con l’Inquisizione. La stretta connessione che si venne a creare tra i due organi, grazie all’identicità di gran parte dei loro membri, portò ad uno svillimento del ruolo della Congregazione dell’Indice, testimoniato dalla sempre minor regolarità delle sue sedute. CAPITOLO 7. L’applicazione dell’indice clementino Pubblicazione ed esecuzione dell’indice clementino (1596-1603). Le ricerche sulla censura ecclesiastica in Italia hanno fin qui privilegiato la dimensione culturale e quella dei conflitti giurisdizionali. L’attenzione sembra essersi concentrata sulle conseguenze dell’applicazione degli indici sulla circolazione delle idee e sulla produzione; ma accanto a questa dimensione c’è la necessità di adottare un’ottica che, accanto alla dimensione culturale e politica, non trascuri le ripercussioni sulla quotidiana pratica censoria dei rapporti di forza tra gli organi di Curia deputati alla censura e dei loro orientamenti dottrinali e pastorali. La ricostruzione del carattere alterno dei rapporti tra gli organi di Curia deputati alla censura ha evidenziato in maniera inequivocabile l’assenza di una linea equivoca, un’assenza dovuta a vari fattori, tra i quali spiccano le pluralità dei centri decisionali, il ricambio del personale ai vertici degli stessi organi, l’influenza di uomini estranei agli apparati censori  fattori che furono determinanti nel creare smarrimento e confusione nella mente di chi doveva eseguire le istruzioni romane; ma dovettero anche consentire ai lettori più avveduti di difendere i loro libri proibiti o sospesi appellandosi alla scarsa chiarezza o alla contraddittorietà dei provvedimenti. Se e dove vi fu un certo lassismo nell’applicazione degli indici del 1559 e del 1564 ciò dipese forse in misura maggiore dalla pluralità delle autorità censorie, dalle loro rivalità e dalle oscillazioni interne ai singoli organi. Non è superfluo richiamare l’attenzione sull’evoluzione interna dei cataloghi dei libri proibiti, un’evoluzione che non avvenne solo nel segno di un progressivo irrigidimento, ma che registrò anche ripensamenti rispetto a determinazioni più intransigenti. Inoltre, i sostenitori dell’inefficacia della censura si fondano sulla conservazione nelle biblioteche italiane e straniere di opere rigorosamente vietate e sui risultati di indagini circoscritte all’applicazione dei due primi indici universali: spesso i volumi proibiti venivano sottratti alla consultazione e chiusi in luoghi inaccessibili in conventi che ospitavano l’inquisitore (ecco perché sono sopravvissuti). Per quanto riguarda invece l’esecuzione degli indici romani rimane tuttora inesplorata l’applicazione dell’indice clementino, la più sistematica, capillare, penetrante operazione degli organi censori; il rigore con cui si procedette alla sua applicazione è documentato da testimonianze coeve; tanto zelo e impegno non devono stupire: dopo i primi due indici era nata anche la Congregazione dell’Indice che con l’indice clementino vide la prima occasione per svolgere un’azione incisiva; i cardinali infatti dovettero rendersi conto che veniva offerta loro l’occasione di esercitare una qualche influenza e di riscattarsi da quello che all’esterno doveva esser parso vero e proprio immobilismo (solo chi era dentro ai complicati meccanismi della censura poteva capire quanto quella stasi fossero dipese dell’accelerazione del cammino verso un governo assolutistico della Chiesa e dello Stato pontificio). Profondamente cambiata era anche la situazione delle chiese locali: dopo il Concilio la grande maggioranza degli ordinari era andata a risiedere nelle proprie diocesi. Mutato poi sembra anche l’atteggiamento delle autorità civili nei confronti della politica di controllo della Chiesa: indebolimento delle capacità di resistenza da parte degli Stati alle ingerenze romane.  sebbene la frammentarietà della documentazione relativa ai due precedenti indici universali non consenta di ricostruire le procedure e i metodi seguiti per la loro applicazione, non sembra che essi siano stati oggetto si una campagna di informazione estesa quanto quella del 1596 (massima pubblicità anche attraverso le predicazioni). Inoltre, profonde discrepanze sono rilevabili circa i criteri prescritti per la compilazione degli elenchi. Per incoraggiare i detentori di opere proibite o sospese a denunciarne il possesso, la Congregazione dell’Indice chiedeva a Clemente VIII di concedere agli ordinari ed agli inquisitori la facoltà di assolvere chi avesse letto o tenuto libri proibiti. La Congregazione si accinse a seguire puntigliosamente le varie fasi dell’applicazione, sollecitando ripetutamente la collaborazione dei nunzi pontifici. L’azione di rastrellamento dei libri proibiti e sospesi posseduti da laici si svolse in tempi brevi, anche se non mancarono ritardi dovuti probabilmente ai problemi creati dall’estensione della giurisdizione dell’ordinario su più stati o dalla decisione di alcuni cardinali di affidare a speciali commissari l’esecuzione dell’Indice. È indubbio che a rallentate ulteriormente l’operazione contribuirono le istruzioni della stessa Congregazione dell’Indice: essa volle accertarsi dell’efficacia con la quale erano state eseguite le proprie direttive e allora cominciarono a richiedere le liste dei libri proibiti e sospesi giacenti negli archivi degli inquisitori. Assai più complessa si rivelò l’applicazione dell’indice clementino nelle biblioteche monastiche e conventuali: la ricchezza del patrimonio librario rendeva in molti casi la cernita laboriosa; ma al di là dell’obiettiva complessità dell’operazione si avverte da parte dei regolari una chiara riluttanza a soddisfare le richieste romane, usando tutti gli argomenti possibili per ritardare la consegna delle liste. I cardinali non cedettero e entro il 1603 i cataloghi richiesti giunsero a Roma  si mise in moto quella che viene impropriamente chiamata l’inchiesta clementina sulla in maniera generica da non essere identificabili): al momento della pubblicazione degli indici o delle liste aggiuntive veniva ingiunto ai laici e al clero secolare di consegnare libri proibiti, ma chi non si curava delle sanzioni spirituali e non temeva denunce poteva trattenere presso di sé i testi; invece le biblioteche degli ordini religiosi erano state, anche prima del 1596, sistematicamente setacciate. Le rarissime liste relative ai monasteri femminili confermano che il testo sacro circolava anche nelle biblioteche delle monache. Le edizioni parziali e gli scritti di contenuto biblico. Assai complessa si rivelò l’applicazione dell’indice clementino in relazione a quel settore più vasto, ma anche meno definito, di opere di contenuto biblico, ovvero da quell’ampia tipologia di scritti che ricadeva sotto la normativa prevista dall’Observatio sulla regola IV, in quanto presentava materiali di derivazione scritturale in volgare. I Compendi erano largamente diffusi e costituivano una delle voci più presenti nelle liste dei libri sequestrati, scritti per venire incontro alle difficoltà sempre maggiori dei fedeli di ottenere licenze per la lettura del testo integrale. La popolarità di questi scritti illustra la tempestività con la quale il mercato librario prendeva atto della necessità di rispondere ai divieti di lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento attraverso la produzione di surrogati, ma anche quanto fosse alta da parte dei fedeli la domanda di opere che li mantenessero in contatto con la Parola. Se gli esecutori dell’indice procedettero senza oscillazioni al sequestro dei Compendi della Sacra Scrittura, espressero invece non pochi dubbi circa altri gruppi di opere in volgare nelle quali erano stati inseriti florilegi di brani biblici o parafrasi della Scrittura. La perplessità nasceva dalla genericità della Observatio, ma anche dalla vastità della produzione che il divieto intendeva colpire. Anche se effettivamente alcuni di questi scritti consentivano quell’accesso al verbo divino non mediato, vi erano altri elementi che concorrevano a renderli invisi ai supremi tutori dell’ortodossia: (1) il nudo testo poteva offrire una traduzione eseguita non dalla Vulgata; (2) scritti che parafrasavano i brani della Scrittura potevano veicolare dottrine non ortodosse o credenze superstiziose, oltre a mescolare sacro e profano; (3) molti si presentavano senza nome d’autore, cosa di per sé sospetta  operare una selezione all’interno di questo vastissimo settore poneva indubbiamente nodi problematici di non facile soluzione. Il Sant’Ufficio fece delle concessioni in risposta alle pressioni della Congregazione dell’Indice, restia a sottrarre radicalmente il testo sacro a clero e popolo e preoccupata delle conseguenze che ne sarebbero derivate sul piano pastorale data l’estesa ignoranza del latino fra gli ecclesiastici con cura d’anime. Allora vennero autorizzate le Epistole et Evangeli e alcune raccolte; una relativa apertura che non facilitò il compito degli esecutori dell’indice. Furono sempre più frequenti le edizioni con annotazioni, commenti di aggiunte di sermoni, parabole: da una parte queste nuove edizioni annotate compensavano la progressiva sottrazione del nudo testo, dall’altra offrivano al clero con cura d’anime, spesso digiuno di latino, gli strumenti necessari per poter spiegare ai fedeli le lezioni della messa. Discernere all’interno di tutto questo cosa c’era di eterodosso era complicato per gli stessi censori. Molti di questi procedettero con disinvolta approssimazione ed è probabile che accortisi degli errori di valutazione non restituissero i libri ai proprietari. È più che possibile che tra le masse requisite senza note d’autore ve ne fossero molte di autori di provata ortodossia autorizzate da Roma. Minori problemi crearono agli esecutori delle prescrizioni censorie le traduzioni parziali o integrali dei salmi, in prosa o in versi, accompagnate o meno da commenti. Le traduzioni metriche della Bibbia, sia in latino che in volgare erano state vietate fin dagli anni’70 in alcune liste aggiuntive inviate da Roma, ma non erano state oggetto di un’esplicita condanna nel 1596; poi la Congregazione dell’Indice fece un chiarimento: le versificazioni integrali o parziali della Bibbia apparse dopo il 1515 erano proibite. Solo nel 1605 si arriverà a permettere che la Sacra Scrittura venisse parafrasata in versi. La Congregazione intervenne in maniera meno pressante sul fronte delle versioni complete o parziali dei salmi, ottenendo la sospensione del divieto solo per le versioni del Panigarola e di de’ Nobili; in tal modo il compito degli esecutori fu notevolmente facilitato.Il divieto del volgarizzamento investì anche le Figure della Bibbia, già sospese in alcune liste aggiuntive diramate da Roma tra il 1574 e il 1583 e negli indici non promulgati del 1590 e del 1593, che si prefiggevano di diffondere una cognizione elementare della Scrittura e nel contempo di invogliare il lettore ad avvicinarsi ai testi biblici integrali. La loro ricorrente presenza nelle liste inviate a Roma, se documentano la loro ampia diffusione, giustifica la frequente assenza del nome. Gli esecutori dell’indice clementino poi dovettero fare i conti anche con un altro genere di scritture devote che mescolavano testi della Vulgata con passi dei vangeli apocrifi e cronache medioevali come i Fioretti della Bibbia, florilegi di brani evangelici che narravano episodi della vita di Gesù o erano tratti o tradotti dal Nuovo Testamento. Tra queste opere anonime non dovettero mancare i testi popolarissimi di rappresentazioni e drammi sacri, spesso ricchi di elementi parodistici ritenuti non più accettabili. Sarebbe riduttivo però interpretare solo alla luce del divieto dei volgarizzamenti biblici, il sequestro di questi testi devozionali, buona parte dei quali aveva alimentato fin dal ‘300 la religiosità dei fedeli, godendo di una straordinaria diffusione. Oltre al problema dell’anonimato di questi testi, sembrano potersi cogliere nella soprressione di una parte almeno di questa letteratura devoto anche gli effetti di un disegno teso ad eliminare testi su cui si erano sedimentate nel corso dei secoli incrostazioni superstiziose e magiche. Tale disegno emerge con maggiore chiarezza dagli interventi di quegli stessi anni della Congregazione dell’Indice volti a regolamentare alcune pratiche culturali ritenute abusive, come per esempio la recita di particolari litanie o la diffusione di false indulgenze. Si voleva eliminare quei testi che avevano favorito il diffondersi di una spiritualità schiettamente cristocentrica e di una pietà individuale a scapito di quelle pratiche devozionali esteriori e collettive che la Chiesa della Controriforma intendeva privilegiare. CAPITOLO 9. La distruzione del Libro sacro I sondaggi effettuati nelle liste dei libri proibiti o sospesi danno un primo bilancio dei materiali biblici in volgare tolti dalla circolazione con l’indice tridentino, ma soprattutto hanno permesso di misurare la sorprendente ed insospettata ampiezza e ricchezza della tipologia dei testi che rientravano nella generale categoria dei volgarizzamenti. Qual era la sorte di questi materiali? Molti inquisitori non avevano esitato a mandare al rogo edizioni volgari della Bibbia; si potrebbe obiettare che questo furore incendiario era espressione dell’esuberante zelo di qualche isolato esecutore, ma le istruzioni che vennero fornite dalla Congregazione non lasciano spazio a dubbi: le opere contrassegnate da una croce andavano bruciate. Dopo 50 anni di accesi dibattiti ai vertici della Chiesa, nella penisola italiana la vicenda dei volgarizzamenti biblici si concludeva: la Congregazione dell’Inquisizione poteva finalmente celebrare la sua indiscussa vittoria. L’abbondanza del materiale biblico sequestrato e poi distrutto dal fuoco aveva confermato quell’estesa dimestichezza degli italiani con la sacra Scrittura, nella sua variegata tipologia che i cardinali avevano sempre cercato di sradicare. In nessun caso peraltro la detenzione dei libri sacri sembra aver destato preoccupazione e sospetto ed aver indotto vescovi ed inquisitori periferici a dubitare dell’ortodossia di che glieli consegnava  d’ora in avanti il patrimonio culturale e spirituale dei fedeli avrebbe cessato di arricchirsi attraverso la conoscenza delle sorgenti della fede. Un incontro individuale e diretto con la Bibbia nella sua integrità non sarebbe più stato concesso a chi non sapeva il latino. La Chiesa avrebbe dispensato con parsimonia il verbo attraverso l’iconografia e la predicazione; alla Sacra Scrittura avrebbe assegnato solo una funzione subalterna e sussidiaria alla catechesi: un mutamento rilevante. Anche se è ormai acclarato che sia Erasmo sia i riformatori protestanti, dopo un’iniziale propaganda a favore di un accesso diretto e indiscriminato del popolo alla Sacra Scrittura nelle lingue materne, ripiegarono su posizioni di maggior cautela, se non addirittura di diffidenza, e se è stato dimostrato che la Bibbia ebbe un ruolo assai meno preminente nelle letture individuali e nella formazione religiosa e culturale di coloro che avevano aderito alle nuove confessioni, la tendenza ad equiparare le posizioni dei protestanti a quelle dei cattolici è quanto meno fuorviante. Nelle facili analogie non si tiene conto della diversità delle situazioni nell’Europa: per le popolazioni cattoliche dell’Europa meridionale la via della salvezza passò attraverso il catechismo; l’apprendimento e la memorizzazione di un corpo limitato di nozioni chiare e basilari e la trasmissione orale attraverso la voce autorizzata del clero e di pochi lacerti biblici furono ritenuti bagaglio intellettuale sufficiente  si preferì la passiva recezione di un indrottinamento elementare ed essenziale; si anteposero fervide devozioni collettive e scenografiche cerimonie esteriori. Alla invocata uguaglianza del popolo di Dio si rispose approfondendo il solco tra la cultura delle élites colte e quella della massa dei fedeli digiuna di latino. Dunque, il Sant’Ufficio sembra aver mantenuto sempre un atteggiamento guardingo anche nei confronti di testi di cui aveva autorizzato la lettura. Dalla documentazione relativa all’indice del 1596 rimangono tracce dei conflitti di competenza degli organi: l’ipotesi è che l’Inquisizione tendesse ad allargare sempre di più la propria sfera di competenza a scapito dei poteri episcopali. Quanto questa interferenza in un settore delicatissimo e fondamentale della cura d’anime abbia inciso sulla flessione dell’impegno pastorale dei vescovi dopo il forte slancio postridentino, rimane problema aperto. Comunque, la lotta ai volgarizzamenti biblici non si esaurì con la loro sistematica distruzione all’indomani della promulgazione dell’indice clementino e con gli ingenti ed irrimediabili danni che essa arrecò al patrimonio librario. Allora ogni sforzo venne dispiegato per impedire l’introduzione clandestina nella penisola di versioni italiane stampate nei paesi protestanti. Roghi e divieti infatti non avevano del tutto spento negli italiani il desiderio di procurarsi il testo della Scrittura nella lingua materna anche a costo di rischi. Il divieto dei volgarizzamenti non poté non incidere anche su quel vasto settore della letteratura devota di contenuto biblico, che non si presentava in versi; tuttavia se gran parte di queste opere fosse stata sequestrata, la Congregazione dell’Indice avrebbe autorizzato la lettura di opere più recenti dopo un’attenta revisione di esse. La tradizionale consuetudine di un popolo con la Sacra Scrittura venne bruscamente interrotta per due secoli, per non essere mai più recuperata. I vari contrasti illustrano con quanta sofferta impotenza una parte dei vertici della Chiesa e della gerarchia ecclesiastica subì la drastica e devastante rimozione di quei testi biblici in volgare a cui generazioni di cristiani si erano accostati senza necessariamente trarre dalla loro libera lettura spunti sovversivi capaci di mettere in discussione l’assetto tradizionale della Chiesa di Roma. Che con la penetrazione nella penisola delle dottrine protestanti la Sacra Scrittura non soltanto abbia conosciuto una capillare diffusione, ma abbia acquistato una centralità nella riflessione è fuori discussione (centinaia di processi inquisitoriali lo testimoniano). Le liste di fine ‘500 documentano il tenace attaccamento ai testi biblici e l’audace e rischiosa difesa di un’antica tradizione. Ma l’equazione Sacra Scrittura=Eresia era penetrata troppo profondamente nella cultura, nella mentalità e nella prassi della Congregazione del Sant’ufficio perché quella tradizione potesse essere mantenuta. Proibita e rimossa perché fonte di eresia, la Sacra Scrittura finì col confondersi, nel vissuto degli italiani, con gli scritti eretici (il clero contribuì ad aumentare tale convinzione). Non stupirà allora se, di fronte ad una diffusa percezione ereticale del Libro, nelle istruzioni ai sacerdoti, là dove si affrontava il problema delle pene riservate a chi avesse letto opere proibite, si avvertì la necessità di fare specifiche distinzioni.
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