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Riassunto de "Psicologia delle Organizzazioni", Sintesi del corso di Psicologia Delle Organizzazioni

Storia e prospettive della psicologia del lavoro e delle organizzazioni.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 17/04/2023

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Scarica Riassunto de "Psicologia delle Organizzazioni" e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Delle Organizzazioni solo su Docsity! PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI INTRODUZIONE La Psicologia delle organizzazioni si occupa dei vari aspetti dell’esperienza organizzativa, ponendo l’accento sulle interazioni che la riguardano (interazione organizzazione/ambiente esterno, organizzazione/individuo e tra gli individuo operanti al suo interno, in un intreccio tra individualità e collettività) e sui processi psico-sociali che si sviluppano nel contesto lavorativo. Lo studio di questa disciplina intende promuovere benessere, apprendimento ed efficacia sia individuale che collettiva, e porre in risalto l’importanza del ruolo delle emozioni (che attualmente godono di scarsa considerazione – come la dimensione della soggettività –, in quanto è la razionalità ad essere maggiormente posta in risalto). Cosa è un’organizzazione? Si tratta di una forma di azione collettiva in continua relazione con l’ambiente circostante (non è a priori né avulsa dalla realtà), di un insieme di soggetti che, attraverso una divisione del lavoro formalizzata, tende alla realizzazione di un fine, anch’esso formalizzato, mediante l’utilizzo di risorse strumentali. I suoi princìpi di base sono:  Differenziazione strutturale: implica differenziazione del lavoro e specializzazione;  Integrazione funzionale: implica cooperazione e coordinamento. Si può parlare di princìpi di integrazione ↓. Rende possibili classificazione, descrizione e previsione; inoltre deve implicare elementi di regolarità, intenzionalità da parte degli attori, comunicazione (passaggio di significati, che può essere distinta in formale e informale). In particolare, la comunicazione può avvenire tra due persone o tra enti astratti (es. nel caso di un marchio): nel primo caso il destinatario è individuabile, nel secondo no. Oltretutto vanno distinti quali elementi di differenziazione della comunicazione organizzativa le finalità della comunicazione, gli strumenti che impiega, diretti o indiretti che siano, e i partecipanti alla stessa. Si può anche parlare di condotta lavorativa (tutto ciò che viene fatto all’interno di un’organizzazione), che va analizzata su più livelli in quanto risultante di numerose variabili:  FATTORI ORGANIZZATIVI (struttura, regole, clima, competenze);  FATTORI RELATIVI ALL’AMBIENTE;  FATTORI RELATIVI ALLE TECNOLOGIE;  FATTORI EXTRA-LAVORATIVI (famiglia, tempo libero);  FATTORI RELATIVI AI COMPITI (complessità, ritmi, esigenze, tempi);  FATTORI INTERNI (età, sesso, scolarizzazione, personalità);  OUTCOMES – risultati (salario, appartenenza sociale). del numero verde per contattare l’azienda e fare reclami, o svolgimento di inchieste campionarie), perché gli utenti possano esprimere la propria opinione sul servizio/prodotto e possano contribuire al processo di produzione dello stesso tramite l’apporto di migliorie. Non è più l’organizzazione a fare da mittente, ma in questo caso si pone nei panni di ricevente del messaggio. In questo caso, l’organizzazione ripropone le tre funzioni (di contenimento, di accoglienza e contrattuale). L’organizzazione non si esaurisce nella comunicazione. Quali sono gli elementi costitutivi di un’organizzazione?  Norme (regole, dimensione normativa);  Persone.  Strumenti e tecnologie. Princìpi di integrazione: ↑ 1. Condivisione e formalizzazione delle norme: la norma fissa delle procedure formali condivise, e garantisce equità tra i componenti dell’organizzazione; 2. Comunicazione: un’organizzazione che impiega lo stesso stile comunicativo è efficace; 3. Tecnologia: insieme delle risorse strumentali: più sono condivise, meglio l’organizzazione lavora (es. rete aziendale); 4. Sistema informativo: regola qualunque tipo di organizzazione. Storicamente parlando, si può far riferimento al fatto che, prima della svolta tecnologica, il protocollo informativo era manuale: la procedura poteva essere facilmente corrotta in qualsiasi momento ed era estremamente lenta. La svolta tecnologica fu rivoluzionaria: le pratiche quotidiane, informatizzate, sono divenute più celeri, gli attori organizzativi hanno ridimensionato la propria identità lavorativa, poiché tutti possono utilizzare gli strumenti tecnologici e dunque si delinea una dimensione di maggiore equità a livello lavorativo. Anche lo smart working resosi necessario per via della pandemia da COVID-19 ha apportato notevoli mutamenti nell’importanza attribuita alla tecnologia impiegata in ambito organizzativo. 5. Cultura organizzativa: è il punto di contatto tra approcci organizzativi e approcci psicosociali. Edgar Schein, padre della psicologia aziendale e dell’approccio culturale dispose le sue componenti in un sistema di organizzazione piramidale: alla base vi sono gli elementi meno visibili e difficilmente modificabili, gli assunti valoriali, l’inconscio dell’organizzazione, con cui ci si confronta quotidianamente e che son stati fissati dai fondatori dell’organizzazione. Implica:  Conoscere la storia dell’organizzazione, importante perché è fondamentale conoscere gli assunti valoriali stabiliti dai fondatori dell’organizzazione. Vuol dire conoscere i caratteri culturali e li obiettivi originari;  Valori strategici, che comprendono le strategie aziendali attraverso cui si declina la politica aziendale e che rappresentano il modo di essere di un’organizzazione;  Modo di agire dell’organizzazione, spesso sottovalutato nell’analisi sebbene importantissimo;  Simboli, ossia l’insieme delle modalità comportamentali dell’organizzazione, degli artefatti simbolici (es. slogan, brand), dei riti e dei miti ad essa legati:  riti: insieme dei comportamenti specifici dell’organizzazione;  miti: comportamenti non reali ma che, nel tempo, hanno contribuito ad affermare l’identità dell’organizzazione. Ha la funzione di amplificare il valore della stessa. La dimensione simbolica ha duplice funzione:  interna, quando ci si riferisce alla funzione di integrazione (interna ai membri dell’organizzazione);  esterna, quando ci si riferisce alla funzione di riconoscimento all’esterno dell’organizzazione (es. indossare una divisa permette il riconoscimento del proprio ruolo lavorativo). Possono coesistere più culture organizzative all’interno di un’organizzazione? Sempre Schein vede la cultura organizzativa come un principio non necessariamente monolitico: secondo alcuni studiosi possono convivere più culture in forma di sottoculture, che possono essere di sostegno alla cultura dominante o possono anche contrapporvisi. TEORIE ORGANIZZATIVE Una delle modalità per descrivere il fenomeno organizzativo è costituito dall’impiego di metafore, che ne illustrano sia l’apparenza che l’essenza. Eccone alcune: APPROCCI ENTITARI → Hosking e Morley. Sono di due tipi:  Aziendalista (organizzazione = macchina razionale), tra cui Taylor/contingentisti.  Soggettivista (organizzazione = relazioni personali), tra cui Mayo e Maslow. Presentano alcuni limiti:  Propongono un’immagine statica delle organizzazioni;  Pone un’eccessiva attenzione sul “contenitore” (organizzazione) e non sul “contenuto” (attori). Come superare gli approcci entitari? Soluzione = approccio psico-sociale, che propone un’analisi basata sulla dimensione relazionale (relazione tra individui e tra individuo e organizzazione). Vengono individuate tre tipologie di processi relazionali relativi ai fenomeni organizzativi:  Di tipo politico: l’immagine più adatta per descrivere un’organizzazione è una “arena politica”: i gruppi all’interno di una organizzazione si fronteggiano e creano coalizioni in competizione.  Di tipo sociale: gli attori organizzativi sono inseriti in dinamiche di interazione sociale, caratterizzate da differenze individuali relative a interessi, valori, preferenze ecc. Queste differenze possono delineare le relazioni come “conflittuali” o “consensuali”.  Di tipo cognitivo-simbolico: le organizzazioni sono anche “costruzioni di significato”. In questa compagine si colloca anche il Sensemaking di Weick: l’oggetto di studio sono i processi cognitivi attraverso cui i soggetti conferiscono senso al flusso di esperienza. Di conseguenza:  Il mondo esterno non ha un suo senso intrinseco, ma solo il senso che i soggetti gli attribuiscono sulla base di mappe cognitive causali che creano attraverso i flussi di esperienza; SECONDO TIPO: Es. APPROCCIO CONTINGENTISTA 2. Organizzazioni come organismi: ↑  Approccio contingentista (o sistemico) → Fa parte degli approcci entitari, insieme al taylorismo. Le organizzazioni sono influenzate dalle contingenze ambientali, da flussi di input e output, e la loro efficienza è data dalla considerazione di tutti gli elementi all’interno e all’esterno dell’organizzazione (in quella che viene definita black box). Perché viene definito “contingentista”? Il concetto di contingenza rimanda ai fattori che influenzano il comportamento delle organizzazioni. Quali sono questi fattori? Principalmente la tecnologia, le dimensioni dell’azienda e la strategia. Questa metafora nasce dal lavoro svolto dall’équipe di psicologi (con a capo Milton Mayo) di cui prima si è detto, che tentò di indagare ciò che sembrava mancare, a livello motivazionale, nel modello tayloristico, e che impiegò due opzioni metodologiche: indagò in primo luogo l’organizzazione logistica della fabbrica (uso dei macchinari, relazione uomo-macchina – in un primo approccio all’ergonomia, es. illuminazione della postazione di lavoro, comfort del luogo di lavoro), e in seguito la questione relazionale (in seguito ad esperimenti in cui gli operai, nel loro intervallo di riposo, venivano condotti in una stanza per trascorrerlo assieme in compagnia, si vide che la produttività aumentava). Nasce così l’approccio delle human relations. Nell’effettuare queste indagini, Mayo partì da alcune importanti premesse:  L’uomo è motivato da bisogni di natura sociale , ed ottiene nel rapporto con gli altri il suo senso di identità personale;  In conseguenza della rivoluzione industriale e della razionalizzazione del lavoro, il lavoro stesso appare privo di significato;  Il lavoratore è più influenzato da incentivi sociali piuttosto che da quelli economici;  Il lavoratore risponde alla direzione nella misura in cui essa sa rispettare i suoi bisogni sociali. Se la direzione crea una situazione in cui i dipendenti si sentono frustrati, ne consegue che essi si costituiranno in gruppi in cui le norme di condotta saranno in contrapposizione agli scopi aziendali. Alcuni eventi determinarono una maggiore sensibilità nei confronti di queste tematiche:  la crisi del ’29 (crollo della Borsa di New York e inflazione);  lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Si diede maggiore importanza alla persona e alla psicologia.  il processo, sviluppatosi in Giappone a seguito dell’attacco atomico e della sconfitta nel secondo conflitto mondiale, di ripresa dell’industrializzazione (le prime fabbriche a ricostituirsi sono quelle relative all’industria pesante, che creano automobili principalmente. Nascono la Honda, la Toyota, che producono on demand, su richiesta del mercato dei consumatori sposando la logica della produzione di massa). In Giappone si ha una cultura del lavoro differente rispetto a quella europea e statunitense: il lavoro è la principale fonte di costruzione e rafforzamento dell’identità personale, e dunque i livelli di stress risultano essere maggiori, sia per la mole di lavoro sia per l’emozione di vergogna spesso accompagnata all’inefficienza;  lo sviluppo del Tavistock Institute in area londinese: un insieme di ricercatori, non riconducibili a una specifica disciplina, che si occupano in generale di “relazioni umane”. Si riflette su nuovi modi di considerare le relazioni da un punto di vista psicologico; le organizzazioni non sono viste come un sistema chiuso, bensì similmente ad un organismo vivente in interazione con l’ambiente circostante. Quali sono le proprietà dei sistemi aperti?  Apertura all’ambiente : dinamica input/output;  Entropia : misura del grado di ordine/disordine di un sistema sociale (proprietà mutuata da princìpi della termodinamica);  Omeostasi : capacità di mantenere un equilibrio interno al variare delle condizioni esterne. Più un sistema sociale ha un grado di entropia negativa, più esso è disordinato e registra maggiori difficoltà nel regolare i flussi di input e output;  Correlazione tra struttura e funzione : ogni parte del sistema deve assolvere alla funzione attribuita (stesso principio della divisione del lavoro), solo così possono essere garantite uniformità ed equifinalità;  Centralità dei processi di Differenziazione strutturale e Integrazione funzionale;  Equifinalità : tutti i sottosistemi devono avere il medesimo obiettivo, ossia contribuire alla realizzazione dell’obiettivo generale dell’organizzazione. Si noti che la maggior parte di questi termini sono mutuati dall’ambito biologico e fisico, proprio a sottolineare l’assimilazione del sistema organizzativo ad un organismo vivente. Non solo: questo approccio vede i lavoratori come un mero sottosistema (sottosistema umano). L’uomo non è il centro della riflessione, si ha un’immagine entitaria dell’organizzazione (organizzazione come entità astratta), e non viene fatto alcun riferimento all’operaio: se nel taylorismo esso era l’uomo-bue, un semplice ingranaggio del sistema di produzione di massa, qua non viene minimamente considerato. Quali sono le critiche all’approccio contingentista?  Riduzionismo: viene tacciato di essere riduttivo;  Passività della relazione tra contesto ambientale e relazionale.  Organizational Development Theory (Teoria dello Sviluppo Organizzativo, OD) → Bennis Si tratta del primo vero modello di psicologia applicata all’azione organizzativa, e fa parte della categoria delle teorie delle contingenze. Le sue caratteristiche sono:  accentuazione della dimensione informale (Mayo e l’importanza delle relazioni umane, Barnard e gli studi sulla propensione alla cooperazione come movente principale dell’agire organizzativo)  tentativo di risolvere il problema dell’integrazione tra individuo e organizzazione. Qual è la novità? Le teorie precedenti parlavano del lavoratore piuttosto vagamente, mentre adesso ci si concentra su di esso. Qual è il suo obiettivo? Porre l’attenzione sul soggetto. 3. Organizzazioni come sistemi sociotecnici: Per Trist le organizzazioni devono essere considerate alla luce dell’intreccio di variabili tecnologiche (impianti, informazioni, processi di lavorazione) e sociali (relazioni tra gli individui). Queste variabili definiscono due sottosistemi, quello tecnologico e quello sociale, la cui combinazione garantisce l’efficienza CAPITOLO 6 – RISORSE PERSONALI E LORO ESPRESSIONE NEL CONTESTO ORGANIZZATIVO La Psicologia positiva nasce nel terzo millennio (sulla scia della nascita della Psicologia umanistica negli anni Sessanta da parte di Abraham Maslow, con cui ha in comune l’accento posto:  sulle qualità positive dei soggetti (es. ottimismo, resilienza, determinazione, tutti fattori di protezione rispetto allo stress ad esempio)  sui fattori che stanno alla base del benessere piuttosto che del malessere. L’obiettivo è quello di promuovere il benessere e l’autoefficacia, valorizzando le risorse in possesso dei soggetti e le potenzialità individuali. La Psicologia positiva acquista particolare significato, in questo caso, nell’indagine circa i contesti lavorativi più adatti a favorire la soddisfazione e il benessere dei lavoratori. Cosa si intende per risorse personali? Si tratta delle caratteristiche individuali (e non dunque specifiche abilità professionali) che permettono di affrontare lo stress e raggiungere risultati significativi, aventi valore per il soggetto stesso. Le risorse personali non sono semplicemente possedute, ma possono essere anche acquisite o potenziate. Quali sono considerate risorse personali?  Capacità agentiche: alla base vi è l’agenticità, che vede il soggetto non solo come “possessore” di strutture cognitive e “ricevente” di stimoli, ma anche come agente nella realtà che lo circonda orientando e controllando il proprio operato: in altre parole, L’UOMO AGISCE IN MODO PROATTIVO E TRASFORMATIVO SUGLI EVENTI. La proattività è una risorsa importante in ambito lavorativo, sia per la crescita individuale che per la crescita dell’organizzazione. Secondo Albert Bandura, cinque sono le capacità cognitive che la supportano:  Simbolizzazione: Cosa è? Facoltà di tradurre l’esperienza in rappresentazioni cognitive. Sulla base di questa facoltà possono funzionare le successive.  Anticipazione: Cosa è? Facoltà di prefigurarsi scenari e azioni futuri, elaborando rappresentazioni cognitive delle conseguenze delle proprie azioni e dei risultati da raggiungere, nonché degli eventuali ostacoli in cui il tentativo di perseguimento degli obiettivi potrebbe incorrere. Come si applica al contesto lavorativo? Nel contesto lavorativo, l’anticipazione è correlata positivamente con i concetti di:  job crafting, ossia di “personalizzazione del proprio ruolo lavorativo per renderlo più in linea con i propri interessi e le proprie capacità”, principalmente per il fatto che il soggetto prefigura così le svolte inespresse che il proprio ruolo potrebbe avere, alimentando la proattività;  work engagement, cioè coinvolgimento nelle attività lavorative, che si traduce in zelo ed energia impiegata nel lavoro. È possibile intervenire sulla capacità di anticipazione mediante la strategia del goal setting, esercizio di prefigurazione che prevede l’assegnazione di obiettivi sfidanti. Si rivolge al futuro.  Autoregolazione: Cosa è? Facoltà di auto-governo, ossia di controllare autonomamente il proprio operato e di regolare le proprie emozioni e la propria condotta, in modo tale che sia in linea con gli obiettivi prefissati e che sia cambiata in caso di azioni improduttive. Si rivolge al presente.  Autoriflessione: Cosa è? Facoltà di riflettere sulla propria esperienza, di elaborare un pensiero sul proprio operato per valutarne l’efficacia, ed è un valido strumento perché permette di individuare:  le strategie più efficaci e quelle da evitare perché improduttive (tramite il paragone della propria esperienza con i risultati raggiunti da altri/con le info fornite da esperti/con la logica per determinare un termine di paragone realistico);  i propri punti di forza/punti deboli. Una strategia per intervenire sulla capacità di autoriflessione è la lesson learned, che prevede che il gruppo di lavoro che la impiega si riunisca al termine di un progetto per ripercorrere l’esperienza ed analizzarla. Un’altra strategia può essere il feedback: i superiori possono fornire informazioni di rimando sulle performance dei dipendenti, concentrandosi su elementi modificabili. Come si applica nel contesto lavorativo? Nel contesto lavorativo, anche l’autoriflessione è positivamente correlata al job crafting e al work engagement: in entrambi i casi, l’autoriflessione si traduce in consapevolezza delle proprie capacità e del contribuito fornito nel raggiungimento del risultato finale, che a propria volta si traducono in maggiore entusiasmo e motivazione.  Apprendimento vicario: Cosa è? Facoltà di acquisire competenze, valori e atteggiamenti mediante l’osservazione della condotta altrui, i cui elementi di base saranno compresi e riprodotti. Secondo Bandura, questo tipo di apprendimento si compone di 4 sottoprocessi:  Processi attentivi , che prevedono la regolazione del focus attenzionale durante l’osservazione e che determinano gli elementi da registrare;  Processi motivazionali , che consentono di rilevare il fatto che alcuni elementi della condotta altrui sono importanti anche per sé e per il proprio operato;  Processi di rappresentazione cognitiva delle azioni osservate, che permettono la memorizzazione e dunque l’apprendimento;  Processi comportamentali , che contano i successivi tentativi di mettere in atto quanto è stato osservato e rappresentato cognitivamente. Sarà la ripetizione ad affinare le analogie tra la propria condotta e il modello iniziale. Come si applica nel contesto lavorativo? Consente:  l’acquisizione relativamente veloce dei codici comportamentali e delle modalità relazionali vigenti all’interno dell’ambito lavorativo;  l’apprendimento di strategie e sequenze di azioni importanti/costitutive della performance lavorativa (es. osservazione di un collega più esperto nella gestione delle proprie mansioni). In ultima analisi, anche l’apprendimento vicario risulta positivamente correlato con il job crafting e con il work engagement. È anche possibile sviluppare le capacità di apprendimento vicario, tramite affiancamento. + 1. Efficacia personale: rimanda alle convinzioni che i soggetti hanno circa le proprie capacità e il grado della propria efficacia nello svolgimento del proprio lavoro. Differenza con i due costrutti precedenti: a differenza di efficacia personale e determinazione, il focus non è solo sul soggetto: l’ottimismo si estende anche a persone e contesti (es. futuri) di cui l’individuo non ha ancora avuto esperienza e attorno ai quali pertanto non può costruire alcun sistema di convinzioni circa la propria autoefficacia o alcun sistema di percorsi per orientare la propria agenticità. Come si applica nel contesto lavorativo? L’ottimismo si correla positivamente con la performance lavorativa, la soddisfazione lavorativa e il benessere sul lavoro. Anche l’ottimismo può essere potenziato tramite delle strategie (es. accettazione del passato: si ripercorre il corso degli eventi e si accetta di aver commesso degli errori, rendendosi più fiduciosi verso la possibilità di non ripeterli in futuro; apprezzamento per il presente: ricercare motivi di gratitudine nel presente, rendendosi più consapevoli degli aspetti positivi della propria vita attuale; ricerca di opportunità per il futuro: accettare la componente d’incertezza che riserva il futuro, e rendendosi consapevoli delle proprie capacità e della possibilità di impiegarle efficacemente nel controllo degli eventi futuri). È bene specificare che l’ottimismo non deve mai mancare di realismo: un ottimismo eccessivo e sfrenato, difatti, potrebbe portare a comportamenti irresponsabili e altamente rischiosi. 4. Resilienza: è la capacità di riprendersi dalle avversità, dai fallimenti o da eventi (positivi o negativi) che hanno comportato cambiamenti invasivi e difficilmente affrontabili, adattandosi e riorganizzando la propria vita di fronte alle difficoltà senza perdersi d’animo. Il termine trova la sua etimologia dal latino “resalio”, “saltare”, “tornare indietro”: si voleva intendere la proprietà di subire modificazioni senza rompersi. La resilienza richiede l’impiego di strategie di coping, ossia di azioni in grado di porre rimedio alle difficoltà sia sul piano effettivo e concreto che sul piano emotivo; inoltre, non implica l’assenza di risposte negative ad eventi stressanti, bensì una maggioranza di risposte positive. Differenze con i tre costrutti precedenti: è un costrutto che si caratterizza per essere reattivo anziché proattivo, poiché mobilita risorse a seguito del presentarsi di circostanze contestuali (definiti stressor). Tuttavia, anche la resilienza presenta la caratteristica dell’agenticità:  anch’essa implica la relazione tra persona, comportamento e ambiente, tipica di questo elemento;  anch’essa implica l’attivazione del soggetto nell’incidere sulle circostanze, tentando di diminuirne la portata minacciante o di aumentarne il vantaggio. Come si applica nel contesto lavorativo? La resilienza è positivamente correlata con la performance lavorativa, all’apertura a nuove esperienze, all’adattamento in ambito lavorativo, al benessere anche a fronte di situazioni stressanti. Anche la resilienza può essere sviluppata e potenziata (es. strategie di focalizzazione sul rischio: riduzione dei fattori esterni che potrebbero aumentare la probabilità che si verifichino eventi indesiderati, nonché prevenzione dallo stress/assistenza sanitaria che prevenga patologie quali burnout o abuso di sostanze; strategie focalizzate sulle risorse: rafforzare gli elementi che nel contesto risultano essere in grado di raggiungere i risultati desiderati; strategie focalizzate sul processo: mobilitarsi per realizzare un sistema di adattamento che consenta di affrontare al meglio eventuali fattori di rischio). Tutti questi elementi sono interrelati, in un modello definito PsyCap (capitale psicologico), che rimanda a: “Uno stato psicologico positivo caratterizzato da a) avere la convinzione di riuscire a mettere in atto gli sforzi necessari per raggiungere obiettivi sfidanti (efficacia personale), b) perseverare verso gli obiettivi e, se necessario, cambiare strategia per raggiungerli (determinazione), c) guardare positivamente alla propria riuscita presente e futura (ottimismo) e d) reagire attivamente alle difficoltà superandole con successo (resilienza).” Secondo questo modello, IL CAPITALE PSICOLOGICO (che è un costrutto) DERIVA DALL’INTERAZIONE TRA CAPACITÀ AGENTICHE (es. anticipazione ecc.) E STATI PSICOLOGICI PIÙ COMPLESSI (es. efficacia personale ecc.) ORIENTATI ALLA REALIZZAZIONE PERSONALE E PROFESSIONALE. In che modo? Es. Anticipazione e determinazione sono legate in quanto dalla prima si genera la possibilità di delineare mentalmente dei percorsi da seguire per arrivare ai risultati desiderati. Questo modello predice gli esiti desiderabili (es. buona performance lavorativa, benessere psicologico) e quelli indesiderati (es. malessere psicologico, comportamento controproduttivi), contribuendo a delineare le strategie per il successo organizzativo. “clima”), nonché per focalizzarsi sulla relazione intercorrente tra il clima e le altre variabili organizzative (es. soddisfazione sul lavoro). NON CAPISCO E NON CE LA FACCIO PIÙ, CONTINUARE DA PAG. 192 (ricerche- intervento ecc.) Quali strumenti utilizzare per la valutazione del clima? 1. Strumenti tailor-made: costruiti “su misura” per la specifica realtà organizzativa in esame, che dunque trovano la propria ragione di essere solo per quanto la riguarda. Vantaggio: lo strumento è perfettamente calzante e mirato. Svantaggio: non ha un sufficiente livello di qualità metriche scientificamente valide. 2. Strumenti ready-made: forniscono info scientificamente valide per valutare la situazione climatica di un’organizzazione. I parametri che impiegano sono nazionali. Si riscontrano innumerevoli strumenti di misurazione, a dimostrazione della mancanza di chiarezza nelle conclusioni raggiunte da ciascuno studio che si è occupato della misurazione del clima organizzativo. Quali fasi prevede l’analisi del clima? 1. Precondizioni: si deve:  stabilire per quali ragioni si intende analizzare e “diagnosticare” il clima organizzativo di un’organizzazione proprio in un determinato momento;  stabilire quali strumenti si hanno a disposizione e quali risorse sono utilizzabili;  essere consapevoli del fatto che l’analisi del clima può comportare conseguenze positive quanto rischi e costi, che saranno minori quanto più la procedura di analisi sarà svolta correttamente. Quali sono gli aspetti positivi? L’analisi:  Fornisce informazioni precise sulla realtà organizzativa (punti di forza e di debolezza) che permettono di delineare programmi d’intervento mirati;  Contribuisce alla presa di consapevolezza di eventuali problemi; Quali sono i rischi? L’analisi potrebbe:  scatenare tensioni latenti;  creare resistenza da parte di coloro che non hanno voluto la ricerca;  creare frustrazione e sfiducia nei confronti dell’organizzazione.  scegliere la tempistica. Quando effettuare un’analisi?  In condizioni di stabilità e normale funzionamento dell’organizzazione (quando non i sono scadenze imminenti o in assenza di preoccupazioni);  In condizioni di particolar e instabilità (durante crisi e periodi di difficoltà, che necessitano di un riassestamento). La decisione spetta ovviamente ai manager dell’azienda: non vi è un momento che sia assolutamente ideale, ma lo è quando l’organizzazione sente l’esigenza di fare la diagnosi. 2. Procedura: la parte critica del processo di analisi sta nella corretta gestione della procedura. Gli step operativi sono:  Step 1: Individuazione del gruppo di lavoro. Va innanzitutto costituito il gruppo di lavoro oggetto del processo di analisi, che dovrà rimanere costante per tutta la sua durata (sarà composto da membri dell’organizzazione stessa aventi un ruolo nella direzione, e da ricercatori). Ai membri dovrà essere ben chiaro il proprio ruolo, ed essi dovranno presenziare a tutti gli incontri.  Step 2: Definizione degli obiettivi generali. Implica la condivisione degli obiettivi che il gruppo intende raggiungere.  Step 3: Analisi preliminare del conteso organizzativo. I professionisti avviano la prima analisi esplorativa del clima, cogliendo gli aspetti che non è stato possibile rilevare dalla semplice descrizione effettuata dai responsabili aziendali. Tra gli strumenti: osservazione delle prassi organizzative, colloqui e interviste individuali con i dipendenti.  Step 4: Definizione degli obiettivi specifici. Dopo una prima analisi esplorativa, il team delinea gli obiettivi che realisticamente potranno essere raggiunti.  Step 5: Scelta della popolazione. È ora necessario definire la popolazione coinvolta nel processo di raccolta delle informazioni. Si può decidere di interpellarla tutta o di intervistare solo un campione rappresentativo, ma è pur sempre necessario essere consapevoli del fatto che questa scelta sarà fondamentale per le fasi successive.  Step 6: Messa a punto della metodologia e scelta degli strumenti di rilevazione. Possono essere individuati due approcci differenti:  quantitativo (avente carattere in prevalenza descrittivo), che impiega in genere questionari strutturati, permettendo la raccolta di info direttamente da parte dei soggetti, informazioni che consentiranno di quantificare le percezioni di ogni intervistato;  qualitativo, che può utilizzare interviste individuali e/o di gruppo e che permette di aver contatto con la percezione soggettiva del dipendente in presa diretta. Questi due approcci possono anche essere usati insieme, se necessario.  Step 7: Verifica della funzionalità della procedura e delle tecniche impiegate. Occorre verificare se la procedura applicata sarà funzionale: per farlo, sarà simulata su un gruppo messo a punto appositamente, che in seguito sarà chiamato a riflettere e commentare circa l’applicabilità della procedura. L’obiettivo è anche capire se li strumenti sono accessibili e comprensibili per tutti.  Step 8: Raccolta estensiva dei dati. La popolazione scelta interagirà attivamente con il gruppo di ricerca.  Step 9: Elaborazioni statistiche. I dati quantitativi raccolti tramite gli strumenti sono sottoposti a elaborazioni statistiche, per confrontare i risultati ottenuti con i dati a livello nazionale. Dopodiché sarà possibile individuare gli elementi di criticità e i punti di forza dell’organizzazione nel suo insieme.  Step 10: Prima lettura dei risultati e stesura del report provvisorio. La prima lettura è attuata all’interno del gruppo, e a questa fase seguono le ipotesi circa l’interpretazione dei risultati ottenuti. Si provvederà in seguito a stilare un report che conterrà sia dati che ipotesi interpretative, che andranno discusse con i responsabili dell’organizzazione.  Step 11: Incontro con i responsabili. Il feedback dei dati è fondamentale. Si discutono le ipotesi interpretative avanzate.  Step 12: Ritorno delle informazioni ai partecipanti. I risultati sono esposti anche ai partecipanti. Questa fase ha un duplice obiettivo: Infine, esistono le cosiddette task forces: si tratta di gruppi creati appositamente per il raggiungimento di un obiettivo, che cesseranno di esistere e operare quando ciò sarà fatto. Quali elementi sono necessari per analizzare un gruppo di lavoro? VARIABILI DI STRUTTURA 1. Obiettivo: dà senso all’attività del gruppo, è il suo scopo, che deve essere chiaro e condiviso da tutti (o almeno quanto più possibile vicino agli obiettivi individuali dei membri del gruppo). Si usa la dicitura SMART per indicare le caratteristiche che un obiettivo adeguato dovrebbe avere. Deve essere:  Specifico : non vago, ma chiaro e preciso;  Misurabile : per criteri qualitativi o quantitativi (i dati di questi ultimi sono più facili da misurare);  Attuabile : realistico e raggiungibile in base alle capacità e alle risorse disponibili. L’attuabilità lo rende stimolante e raggiungibile dal gruppo. Obiettivi non attuabili rischiano di compromettere la motivazione;  orientato al Risultato : deve essere reso chiaro in che modo il raggiungimento dell’obiettivo contribuisce al raggiungimento del risultato finale;  orientato al Tempo : deve essere chiara la tempistica a disposizione e la scadenza. 2. Metodo: insieme delle norme operative che regolano l’agire del gruppo, che comprende le modalità che costituiscono l’attività e dai criteri su cui essa si basa. Nello specifico, le principali attività che richiedono la definizione di un metodo sono:  Analisi delle risorse/dei vincoli : è bene sapere di cosa il gruppo dispone: le risorse sono ciò che il gruppo può usare nello svolgimento della propria attività, i vincoli sono ciò che la limita;  Discussione : confronto tra i membri, che richiede un metodo definito perché sia utile e costruttivo;  Decisione : nel prendere decisioni è fondamentale che siano regolati il livello di consenso circa la decisione presa, nonché il livello di aderenza di quest’ultima al problema;  Pianificazione del tempo : è bene definire preventivamente le azioni da compiere e i tempi previsti per la loro attuazione;  Problem solving : è necessario un metodo che renda lineare la procedura di problem solving. 3. Ruoli: stabiliscono quali compiti e quali attività competono a ciascun membro del gruppo, a seconda del ruolo che ricopre per l’appunto; il fatto che si differenzino i ruoli implica che ognuno ha competenze, capacità ed esperienze diverse, messe al servizio dell’impresa: se il metodo tende a unificare e a uniformare le modalità di lavoro, la differenziazione in ruoli tende a valorizzare le differenze. VARIABILI DI PROCESSO 4. Comunicazione: orienta le relazioni, alimenta collaborazioni/conflitti. È un processo interattivo, informativo e trasformativo per il quale avviene lo scambio di informazioni e tramite il quale si genera cambiamento. Le sue componenti principali sono:  Confronto e scambio : a livello sia contenutistico (scambio delle informazioni in possesso) che di relazione);  Ascolto : fondamentale se si riconosce l’altro come una risorsa utile per la propria crescita;  Esposizione : intende trasmettere elementi considerati significativi allo scopo di suscitare interesse e coinvolgimento;  Feedback : vuol dire dare/richiedere informazioni di rimando per verificare la comprensione dei contenuti comunicati. 5. Clima: è l’insieme di elementi, sentimenti e percezioni che descrivono l’atmosfera che si respira all’interno di un gruppo. Vi sono alcuni indicatori in grado di delineare il clima di un gruppo:  Sostegno : indica il livello di fiducia nei confronti della possibilità di ricevere aiuto in caso di bisogno/ricevere le informazioni giuste per lo svolgimento del compito quando richieste;  Calore : si riferisce alla qualità delle relazioni e al grado di vicinanza tra i membri: più vicinanza c’è, più il clima sarà disteso e il lavoro sarà condotto serenamente;  Riconoscimento dei ruoli : si riferisce al grado di accettazione delle differenze individuali;  Apertura e feedback : indica la possibilità di garantire e ricevere ascolto, di potere esprimere le proprie opinioni all’interno del gruppo e di poter dare e ricevere riscontri su comportamenti e risultati. 6. Sviluppo: quando un gruppo si trasforma in gruppo di lavoro si vengono a costituire delle capacità gruppali, parallele alle competenze individuali e al loro sviluppo. Questo sistema di competenze del gruppo di lavoro conta:  Conoscenze del gruppo (o cultura del gruppo): contenuti specialistici dell’attività e del funzionamento del gruppo stesso;  Capacità . VARIABILE DI SNODO TRA LE PRIME DUE (supporta processi sia strutturali che processuali) 7. Leadership: garantisce la continuità e la crescita del gruppo. Ne esistono vari tipi:  Leadership funzionale: la leadership è supportata da diversi membri del gruppo, come avviene di solito;  Leadership istituzionale: se il leader è uno solo e formalmente scelto;  Leadership di servizio: vede leader e gruppo indistinguibili in quanto il leader lavora per il gruppo ma anche con esso. Quali fasi conta il ciclo di vita di un gruppo? Si distinguono vari modelli, ma quello di maggior consenso è il Modello di Tuckman:  Fase 1: FORMING I membri si incontrano, le relazioni sono di tipo superficiale e finalizzate alla conoscenza reciproca e alla discussione delle norme iniziali del gruppo. In questa fase la fiducia è bassa.  Fase 2: STORMING Iniziano ad emergere le differenze personali, e ognuno cerca di inserirsi ella struttura e di capir e il proprio ruolo. Le interazioni sono finalizzate a capire chi tra i membri risulterà essere il più forte, e possono comprendere varie forme di ribellione, conflitti, scontri.  Fase 3: NORMING Si definiscono i ruoli con le relative norme da seguire e aspettative. Comincia a costruirsi la fiducia reciproca, che si traduce in maggiore coesione all’interno del gruppo (che porta al superamento delle differenze e le motivazioni individuali).  Fase 4: PERFORMING I membri portano avanti le attività che determinano l’esistenza stessa del gruppo. Vi sono collaborazione, supporto reciproco e la comunicazione.  Fase 5: ADJOURNING (aggiunta in un successivo ampliamento)  Gestire il conflitto in maniera costruttiva.  Norme e ruoli: il loro rispetto è fondamentale (norme = regole di comportamento, ruoli = definiscono le aspettative connesse alla posizione ricoperta);  Conflitto: ne esistono di due tipi:  Conflitto legato al compito: relativo al confronto riguardante le decisioni da prendere e le modalità di esecuzione di un compito;  Conflitto legato alle relazioni interpersonali: relativo ai comportamenti, agli atteggiamenti. La seconda tipologia è sempre un ostacolo per la performance, mentre il primo tipo solo in alcuni casi; pertanto, può anche rappresentare un fattore di efficacia (in casi in cui vi sia un clima di sicurezza) che per il gruppo è inevitabile (es. nella fase di storming). 5. Fattori affettivi: per quanto riguarda le relazioni tra i membri del gruppo, tra i fattori affettivi che favoriscono l’efficienza vi sono:  Coesione: può essere socio-emotiva (i membri sono soddisfatti dal lavorare insieme e desiderano continuare a farlo) o strumentale (i membri sono reciprocamente dipendenti dal lavoro l’uno dell’altro per il raggiungimento degli obiettivi). In un gruppo coeso sono forti l’identità collettiva e il senso di appartenenza.  Cooperazione: integrazione degli sforzi individuali per il raggiungimento di un obiettivo comune. In quest’ottica sembra essere di maggiore importanza rispetto alla competizione.  Fiducia: indica il confidare nelle buone intenzioni altrui, pur senza poterle confermare.  Sicurezza psicologica: più i membri si sentono sicuri nell’ambiente lavorativo, più saranno disposti a condividere le proprie idee.  Team efficacy: come l’efficacia individuale, l’efficacia di gruppo riguarda la convinzione che il gruppo sia in grado di raggiungere i propri obiettivi con successo. Quali pratiche permettono a un gruppo di lavorare con efficacia? Una ricerca sul campo ha individuato 4 aspetti attorno a cui gravitano queste pratiche: 1. Obiettivo: i gruppi efficaci hanno ben chiaro qual è il loro obiettivo, la motivazione per la quale il gruppo è stato costituito. 2. Metodo: insieme di regole che i componenti del gruppo utilizzano per governare le proprie relazioni e azioni. Dunque, per metodo s’intende l’insieme delle modalità di interazione considerate adeguate all’attuazione del compito. Un gruppo efficace ha ben chiare le modalità di interazione da adottare o da rifiutare sulla base dell’obiettivo da raggiungere. Dunque è bene specificare il metodo prima che il lavoro da svolgere cominci, senza tuttavia avere fretta (spesso legata ad un sentimento narcisistico di sopravvalutazione di sé e delle proprie capacità e di svalutazione degli altri, nella misura in cui ci si considera in grado di svolgere da sé il compito senza la collaborazione degli altri e imponendo le proprie idee). 3. Risorse e vincoli: un gruppo efficace ha consapevolezza delle risorse a propria disposizione e dei vincoli che limitano l’attuazione del compito (risorse = competenze, informazioni, ambiente, strumenti; vincoli =regole, protocolli da seguire, budget). 4. Coordinamento: si tratta di:  Ricordare l’obiettivo al gruppo, in modo da non perderlo di vista;  Garantire che si segua il metodo (evitando situazioni che potrebbero ostacolarlo quali fretta o abitudini);  Promuovere la consapevolezza delle condizioni in cui il gruppo si trova, delle risorse a disposizione e delle capacità dei membri del gruppo di affrontare i problemi. Il coordinatore, ossia la figura che effettua il coordinamento, non è indispensabile in quanto anche tutti i componenti del gruppo possono assumere questo ruolo. Quali evoluzioni vanno considerate? 1. Gruppi autogestiti: gruppi di lavoro cui viene riconosciuta autonomia gestionale e supervisione delle proprie attività. Non manca tuttavia un leader esterno, che seppur non interviene facilita l’autogestione. Vantaggi: aumento di produttività, migliore qualità dei risultati e del lavoro. Svantaggi: spesso questo tipo di gruppi arriva al fallimento, sovente a causa del fatto che il leader esterno on è in grado di svolgere le proprie mansioni senza coinvolgimento. 2. Gruppi virtuali: gruppo di lavoro che possono esistere senza la presenza fisica dei membri mediante l’utilizzo dei moderni mezzi tecnologici. Vantaggi: flessibilità, maggiore efficienza (data dal fatto che è possibile mettersi in contatto con persone qualificate e competenti senza problemi, a prescindere dall’area geografica in cui si trovano; ciò è potenziato dal fatto che è possibile sfruttare la giornata lavorativa di 24 ore, poiché possono essere sfruttati i diversi fusi orari), risparmio economico. Svantaggi: abbassamento del livello di coesione, fiducia, comunicazione e senso di responsabilità. 3. Gruppi transculturali: gruppi di lavoro composti da individui aventi culture diverse. Vantaggi: sviluppo di apertura mentale e di diversi approcci di problem solving, maggiore creatività. Svantaggi: possibile presenza i membri chiusi mentalmente e pregiudiziosi. sfavorevole) e che rileva anche elementi caratteristici della situazione: relazione leader/follower, struttura del compito, potere di posizione (facoltà del leader di assegnare compiti – se elevato, la situazione è favorevole perché il leader abbia maggiore influenza).  il modello della maturità dei collaboratori come fattore fondamentale della situazione: una volta valutata questa variabile, il leader può scegliere lo stile più adeguato, ponderando attenzione al compito e alle persone. 4. Modello “path-goal” e teoria “leader-member exchange”: A. Modello “path-goal”: Lo stile di leadership adottato non è dovuto a una predisposizione del leader, bensì al tipo di situazione da affrontare, scegliendo tra 4 stili di leadership principali con lo scopo di massimizzare la prestazione e la soddisfazione dei lavoratori:  Direttivo: adatto alle situazioni in cui i follower devono essere seguiti da vicino per realizzare i propri compiti, come anche quando il loro locus of control è in prevalenza esterno e quando le loro abilità sono basse;  Di sostegno: adatto a follower aventi un locus of control interno e abilità ed esperienza;  Partecipativo: adatto a follower aventi locus of control interno e abilità, ma partecipazione limitata;  Realizzativo: locus of control interno, abilità elevata. Si tratta di un misto tra la leadership direttiva e quella di sostegno. Critiche al modello: non è sempre facile stabilire quale tipo di leadership sia più adatto alle situazioni da affrontare. B. Modello LMX: Ha le sue basi sul modello della relazione diadica tra leader e ciascun follower, e si focalizza sulle relazioni di scambio tra leader e follower, individuandone due principali:  In-group exchange: leader e follower sviluppano un rapporto fondato sulla condivisione;  Out-group exchange: il leader ha un ruolo di controllo. I MODELLI PRESENTATI FINO AD ORA RIGUARDANO LA LEADERSHIP “TRANSAZIONALE”, CHE SI FONDA CIOÈ SULLA TRANSAZIONE TRA LEADER E FOLLOWER. Il primo utilizza le risorse a disposizione dei secondi per motivarli e influenzarli, e inoltre attua azioni correttive quando necessario. 5. Leadership trasformazionale: a differenza di quella transazionale, l’interazione leader-follower si basa sulla fiducia, e la motivazione è stimolata su un piano emozionale. Da rilevare inoltre l’importanza dell’empowerment: alla leadership viene richiesto di “essere empowering” facendo in modo che i collaboratori possano apprendere le conoscenze necessarie per lo svolgimento dei compiti, dando loro il potere di prendere decisioni significative e riconoscendo il loro contributo. Il leader è dunque colui che accompagna i collaboratori nel processo di apprendimento ed esecuzione dei propri compiti. 6. Leadership autentica: si caratterizza per le capacità del leader di:  Possedere capitale psicologico positivo (ottimismo, resilienza);  Guidare mediante il proprio esempio;  Promuovere lo sviluppo dei follower;  Promuovere un clima positivo. Quali sono gli aspetti negativi che in genere sono associati alla leadership? Eccesso nel potere, prevaricazione, eccessiva autocrazia. CAPITOLO 10 – LA FOLLOWERSHIP Che cos’è? È il processo messo in atto dai follower quando seguono un leader in maniera intenzionale, volendo raggiungere un obiettivo comune. Non si tratta di mera subordinazione, bensì della costruzione di un rapporto tra follower e leader basato su fiducia, collaborazione e reciprocità (ciò non toglie tuttavia l’asimmetria che naturalmente implica la relazione leader-follower). Anche i follower possono esercitare influenza sul leader. Quali studi sono stati condotti sulla followership? 1. Shamir e il ruolo dei follower: sulla base del ruolo attivo/passivo che i follower esercitano, possono essere distinti in:  Destinatari dell’influenza del leader: i follower non hanno un ruolo attivo;  Moderatori dell’impatto del leader: questa categoria si rifanno le teorie della contingenza (leadership situazionale di Hersey e Blanchard, Path- Goal Theory di House), e ne fanno parte i follower aventi alcune caratteristiche dei collaboratori (es. atteggiamenti, competenze ecc.);  Sostituti nella leadership: i follower hanno ruolo attivo e possono anche fare a meno dei leader;  Costruttori della leadership: la leadership è generata dai follower (es. per “proiezione” in periodi di particolare crisi);  Leader : le teorie che sostengono questa categoria vedono la leadership come “diffusa”, e non distinguono un confine netto tra leadership e followership (es. il leader è, a turno, uno dei membri del gruppo). 2. Crossman e Crossman: distinguono due insiemi di teorie:  Uno (comprendente le teorie sulla leadership trasformazionale), che riguarda la leadership top-down, teso a studiare le caratteristiche che rendono i leader adatti al loro ruolo;  L’altro (comprendente la LMX), che riguarda la leadership bottom-up, atto a contrastare la primarietà del leader (la leadership è ancora centrale, ma ai follower viene attribuita maggiore rilevanza);  Un altro ancora si focalizza sulla leadership condivisa (possono esserci più leader, e non vi è un confine netto tra leader e follower);  L’ultimo vede la followership “esistere di per sé” (“followership di per sé”), come un processo del tutto differente rispetto alla leadership. Quest’ultima categoria sarà analizzata più nello specifico. CAPITOLO 11 – CAMBIAMENTO E SVILUPPO ORGANIZZATIVO Il contesto organizzativo – incerto, complesso e in continua evoluzione – richiede di frequente dei cambiamenti, pianificati o improvvisi. Le spinte al cambiamento possono essere interne o esterne. Cosa è un cambiamento? Si tratta di un atto (in genere deliberato) caratterizzato dalla transizione dallo stato A ad uno stato futuro B, atto ad affrontare problemi; lo stato A presenta l’insorgere di criticità, che interferiscono con la stabilità dell’organizzazione, per questo si rende necessario attuare delle modifiche, i cui risultati auspicabili rappresentano lo stato B. Possono anche intervenire cambiamenti non desiderati, e in quel caso si tende a minimizzare il danno e a massimizzare il beneficio che si può trarre dalla situazione inattesa. Quali modelli sono stati proposti per analizzare il cambiamento? 1. Modello di Lewin: Lewin fa riferimento all’omeostasi, cioè la capacità degli organismi (e, dunque, dei gruppi) di mantenere un proprio equilibrio interno. Si distinguono varie fasi:  Fase 1: partendo da una situazione ideale di equilibrio, le spinte al cambiamento si scontrano con le resistenze oppostevi;  Fase 2: UNFREEZING: le spinte superano le resistenze, dunque rottura dell’equilibrio esistente;  Fase 3: CHANGE: si arriva al cambiamento vero e proprio mediante delle specifiche azioni di cambiamento;  Fase 4: REFREEZING: successiva fase di ricongelamento, dunque raggiungimento di un nuovo status quo: i cambiamenti raggiunti sono istituzionalizzati come parte della routine. 2. Modello di Lussier: integra al modello di Lewin la circoscrizione del problema: sostiene che innanzitutto si debba definire il cambiamento dei suoi aspetti strutturali, che si debbano identificare le resistenze al cambiamento (es. capire la fonte), che lo si debba pianificare quanto più possibile e che si debba non solo controllarlo, ma anche esplicitare gli effetti che avrà e adattare gli obiettivi sulla base di ciò che cambierà. 3. Modello sistemico: sostiene che il cambiamento agisce “a cascata”: un cambiamento in una parte del sistema avrà delle ripercussioni anche sulle altre. Tre sono gli elementi da considerare:  Input: nell’affrontare il cambiamento, vanno considerate la missione dell’organizzazione (il perché esiste) e la visione (che indica la direzione da prendere per raggiungere ciò che è auspicato). Da ciò deriva il tipo di strategia che verrà messa in atto per ottenere gli obiettivi prefissati sulla base del cambiamento accorso;  Oggetti del cambiamento: si tratta degli aspetti dell’organizzazione che possono essere oggetto di cambiamento (aspetti organizzativi, leadership, metodi, obiettivi, attori organizzativi);  Output: i risultati che ci si aspetta al termine del processo di cambiamento. Il raggiungimento di questi risultati dipenderà da come il cambiamento è stato affrontato. Il modello viene definito “sistemico” poiché gli oggetti del cambiamento devono essere tra loro in relazione sistemica (ogni cambiamento su una dimensione ha effetti sulle altre). Cosa dire invece delle resistenze? La resistenza si genera dal timore dell’impatto negativo del fallimento del cambiamento. Il cambiamento, difatti, può avere un impatto emotivo non indifferente, e per questo va ben gestito. Possono essere:  Individuali : in genere sono dovute all’incertezza per il nuovo e al timore di abbandonare abitudini consolidate. Sebbene necessario, il cambiamento può generare risposte emotive di rifiuto, poiché spesso associato all’imprevedibilità e alla possibilità di mettere in discussione i propri comportamenti o i propri schemi mentali. Queste resistenze possono essere psicologiche (il soggetto percepisce minacciata la propria identità a livello professionale) o economiche (quando si teme una riduzione dello stipendio o il mancato riconoscimento delle proprie competenze). L’autoefficacia e il locus of contro interno sembrano essere positivamente correlati con reazioni positive al cambiamento. FINIRE? CAPITOLO 12 – PRENDERE DECISIONI NELLE ORGANIZZAZIONI La vita lavorativa richiede la presa di decisioni di diverso genere. Cosa vuol dire prendere decisioni? Si tratta del processo che comporta la scelta tra soluzioni alternative per giungere a una situazione auspicata. A caratterizzare la decisione nelle organizzazioni sono due elementi:  Dimensione di una decisione: Devono essere considerate tre dimensioni:  Rilevanza : si riferisce all’impatto che la decisione avrà sui processi organizzativi. La rilevanza può essere bassa o alta (es. definire una strategia a lungo termine);  Temporalità : riguarda l’effetto, immediato o a lungo termine, che la decisione avrà nel tempo;  Contesto : concerne le condizioni ambientali in cui viene presa una decisione. Vi sono situazioni di certezza (l’esito della decisione può essere previsto accuratamente), di rischio (conoscenza parziale delle info e quindi è possibile fare solo delle ipotesi circa l’esito della decisione) e di incertezza (non si dispone di abbastanza info per prevedere l’esito della decisione).  Tipo di decisione: Possono essere:  Decisioni programmate (o operative): affrontano problemi strutturati (di routine) e conosciuti, che richiedono l’ideazione di una procedura standard di gestione (es. rinnovare le scorte, processi di manutenzione). Sono decisioni a bassa rilevanza, hanno effetti a breve termine e sono a basso rischio;  Decisioni non programmate : affrontano problemi non strutturati (situazioni inaspettate che non possono essere affrontate con procedure standard). Hanno in genere alta rilevanza, possono influire anche per lungo tempo sull’organizzazione e vengono prese in condizioni di rischio/incertezza. Possono essere:  Decisioni didattiche : non hanno alta rilevanza ma richiedono comunque soluzioni nuove e con effetti a breve-medio termine;  Decisioni strategiche : hanno alta rilevanza e più alto livello di rischio poiché modificano di molto le strategie a lungo termine. Richiedono un livello minimo di delega da parte del management aziendale. rivestiti di sufficiente autorità, anche se la decisione da prendere deve essere tempestiva). 3. Influenze sia interne che esterne: fenomeno dell’intensificazione dell’impegno, che consiste nella tendenza a persistere anche se i risultati ottenuti sono insufficienti e sebbene si verifichi, per questo, uno spreco di risorse. Questo fenomeno è determinato da:  Fattori psicologici individuali e sociali , tra cui difesa della propria immagine (come persona efficace, efficiente, competente), sottovalutazione dei rischi, sopravvalutazione delle probabilità di successo (paraocchi percettivo: si verifica quando per proteggere un certo equilibrio il decisore seleziona le informazioni che riceve che confermano la sua scelta, ignorando ogni segnale negativo);  Fattori organizzativi , tra cui deficienze nella comunicazione, che possono far sì che un’azienda insista in un percorso d’azione sbagliato;  Caratteristiche del progetto : quando un decisore non vede profitti immediati può scegliere di portare comunque a termine la linea decisionale, ritenendo le perdite come facilmente correggibili o temporanee;  Fattori contestuali : pressioni sociali non sotto il controllo dell’organizzazione possono sollecitare a prendere decisioni fallimentari. Come si configurano le decisioni di gruppo? Possono essere individuali o di gruppo. Vantaggi:  Qualità della decisione: ogni membro del gruppo porta con sé competenze e informazioni. In gruppo si hanno più punti di vista.  Gestione efficace del tempo: è possibile creare sottogruppi, velocizzando il processo di analisi delle componenti del problema;  Motivazione: ogni membro contribuisce all’entusiasmo e all’impegno del gruppo. Svantaggi:  Tempo: i gruppi sono in genere meno efficienti dei singoli; perciò, il tempo di decisione è maggiore;  Dispersione di risorse: i gruppi richiedono un investimento maggiore rispetto ai singoli;  Maggiore probabilità di conflitti;  Monopolio della discussione gruppale da parte di alcuni componenti;  Conformismo: alcuni soggetti, per non subire ostracismo, potrebbero conformarsi all’idea preponderante. I processi decisionali di gruppo implicano 6 modalità di raggiungimento di una decisione:  Decisione per mancanza di risposta (il gruppo, non riuscendo a mettersi d’accordo su una decisione soddisfacente per tutti, sceglie “il male minore”);  Decisione per autorità (il leader prende una decisione per tutti);  Decisione della minoranza (una piccola parte del gruppo riesce a gestire l’andamento del processo decisionale);  Decisione della maggioranza ;  Decisione all’unanimità . Quali metodi permettono ai gruppi di prendere decisioni?  Brainstorming (che richiede: partecipazione di tutti, abolizione della critica, trascrizione di tutte le idee, attenzione verso le idee di ciascuno). Svantaggi: difficoltà di alcuni membri a superare la timidezza, limitatezza delle idee emerse.  Gruppo Nominale (i partecipanti, che costituiscono un gruppo “solo di nome”, sono invitati a trascrivere su un foglio le idee che vengono loro in mente, in maniera indipendente. Successivamente, ciascuno le esporrà e giudicherà quelle degli altri).  Gruppo Delphi (stessa cosa del Gruppo Nominale, ma in via virtuale, per quei partecipanti che non possono incontrarsi di persona).  Avvocato del diavolo (il gruppo viene diviso in due parti: ognuno esporrà le proprie idee, e l’altro dovrà cercare argomenti contro e omissioni, fino a che entrambe le parti non saranno soddisfatte);  Avvocato dell’angelo (il gruppo viene diviso in due parti: ognuno esporrà le proprie idee, e l’altro dovrà cercare argomenti favorevoli o sottolineare gli aspetti che trova positivi). Quali disfunzioni possono presentarsi nel processo di decisione di gruppo? 1. Conformismo: tendenza dell’individuo a cambiare le proprie idee/il proprio comportamento in modo da uniformarsi allo stile del gruppo di appartenenza. Si può parlare di acquiescenza alla pressione sociale (si ha quando il soggetto si conforma alla posizione della maggioranza del gruppo per mantenere un legame positivo con gli altri, per trasmettere un’immagine positiva di sé, per guadagnare l’approvazione altrui. Non si registra tuttavia un’accettazione privata profonda, per questo tale tipo di conformismo viene definito influenza normativa) o di obbedienza all’autorità (che si ha quando il conformismo è originato dalla volontà di attenersi agli ordini dei superiori); 2. Pensiero di gruppo: in gruppi molto affiatati c’è la tendenza a mettere in secondo piano la presa di una buona decisione in favore del mantenimento di un legame positivo all’interno del gruppo. 3. Rischio aggiunto: i gruppi sono più propensi a rischiare di quanto farebbero i singoli agendo da soli. Difatti, il decidere in gruppo equivale a liberarsi, a livello individuale, della responsabilità che consegue alla decisione.  Intrapersonale: si origina dal contrasto tra caratteristiche personali dei soggetti e richieste dell’organizzazione. Può assumere varie forme (conflitto persona/ruolo, conflitto tra due ruoli contraddittori affidati alla stessa persona, conflitto tra le emissioni – più emissari affidano a un unico soggetto ruoli diversi);  Intergruppo: conflitto tra membri che appartengono allo stesso gruppo di lavoro;  Intergruppi: conflitto tra diversi gruppi di lavoro entro una stessa organizzazione. 3. Oggetto del conflitto : possono essere questioni legate al lavoro/al compito (task conflict, riguardanti dispute su punti di vista opposti circa le procedure o le finalità), oppure questioni emozionali o relazionali (relationship conflict, riguardanti dispute legate a stili personali, valori di riferimento, preferenze ecc.). 4. Impatto sulla vita organizzativa : può esservi un frequente turnover, alti livelli di stress e bassi di benessere organizzativo e soddisfazione lavorativa. 5. Esiti del conflitto : il conflitto può essere sia positivo sia negativo per l’organizzazione. Nel primo caso si ha un dibattito costruttivo e un maggiore dialogo, nonché se necessaria una rivisitazione delle procedure attuate fino a quel momento nell’azienda. Nel secondo caso, possono esservi clima ostile, disfunzioni all’interno del gruppo, aumento di emozioni negative (ansia, timore, insoddisfazione, frustrazione). 6. Conflitto e soddisfazione lavorativa : un alto grado di soddisfazione lavorativa influenza l’insorgere del conflitto, e viceversa. Il malessere lavorativo è sia causa che effetto del conflitto. 7. Conflitto ed efficacia personale : al riguardo, ci sono due punti di vista:  Information-processing persective: si focalizza sull’intensità del conflitto, che non deve essere né troppo alta né troppo bassa per essere funzionale;  Conflict typology framework: non si basa sull’intensità bensì sulla tipologia del conflitto, task e relationship oriented. Mentre quest’ultimo influisce sui compiti di performance (causando minore senso di efficacia), il primo non la intacca, ma si focalizza sulla ricerca di una soluzione per generare consenso. 8. Conflitto e team di lavoro : si può parlare di cultura organizzativa del conflitto: essa determina la maniera in cui i contrasti sono valutati e gestiti. La cultura organizzativa media le relazioni tra il tipo di conflitto e le reazioni affettive dei lavoratori. CAPITOLO 15 – LE EMOZIONI NELLA VITA ORGANIZZATIVA Differenze tra:  Affetto : termine generico usato come sinonimo di “sentimento, “emozione”;  Emozione : stato affettivo intenso e transitorio associato a cause esterno o interne al soggetto. È accompagnata da modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti caratteristici a seconda di ciò che si prova;  Sentimento : più durevoli e meno intensi delle emozioni;  Umore : stato emotivo con intensità minore ma durata maggiore rispetto alle emozioni. Le persone possono esser stabili o umorali (possono cioè sperimentare cambiamenti repentini di umore). Tutti questi elementi non si presentano distintamente, ma si può parlare di trama emozionale o tessuto emotivo. Che ruolo hanno le emozioni nelle organizzazioni? 1. Il loro ruolo inizia ad essere considerato negli anni Trenta del Novecento da Elton Mayo, che per primo condusse ricerche sull’importanza della dimensione emotiva in ambito lavorativo. Allora, il paradigma dominante era quello taylorista-fordista, che prevedeva un andamento organizzativo del tutto razionale ed efficiente, considerando ininfluenti o non degni di nota i sentimenti degli operai in quanto di ostacolo all’efficienza organizzativa. Mayo sostenne invece che non erano da ostacolo, ma se ben gestiti, un fattore di efficienza ancor più solido. 2. Max Weber suggerì che la massima efficienza che la burocrazia raggiunge lo fa in condizioni di disumanizzazione, separando ragione ed emozioni. Questa visione sarà rinnegata dalle ricerche promosse nel Tavistock Institute di Londra, che vedrà come in realtà, nei contesti organizzativi, la visione idilliaca di un equilibrio interno è continuamente minacciata dalle esperienze di stress e ansia che gli operai vivono in ambito lavorativo, per combattere la quale si ricorre a meccanismi di difesa (proiezione, introiezione, spersonalizzazione, distacco professionale). 3. Negli anni Sessanta vengono effettuate varie ricerche sul campo, che porteranno a due filoni teorici principali: uno che si risolverà nella Affective Events Theory (modello psicologico che mostra come la soddisfazione lavorativa, il commitment e la performance siano influenzati dalla reazione emotiva dei lavoratori in ambito aziendale), e l’altro che arriverà alla formulazione della teoria psicodinamica delle organizzazioni (sviluppata da studiosi del Tavistock Institute of Human Relations di Londra).
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