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riassunto degli eventi storici tra guelfi e ghibellini, Sintesi del corso di Storia Medievale

La storia dei guelfi e dei ghibellini dalle origini al 1282

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 10/05/2023

savio-luca
savio-luca 🇮🇹

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Scarica riassunto degli eventi storici tra guelfi e ghibellini e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! LA FALSA INIMICIZIA Guelfi e Ghibellini nell’Italia del Duecento INTRODUZIONE Guelfi e Ghibellini sono termini nati nel 1240. Prima di allora per far riferimento ai due schieramenti si utilizzava l’espressione “pars Ecclesiae” e “pars Imperii”. I termini derivano dalla contesa per la corona imperiale tra Federico II (il suo castello avito era Weiblingen, ghibellino in italiano) e Ottone IV (discendente del duca Welf, ovvero Guelfo, di Baviera). Gli schieramenti però non erano chiamati in questo modo, furono i cronisti degli anni 40 del XIII secolo che definirono con queste parole i membri di coloro che patteggiavano per la Chiesa e per l’impero. Entreranno nel contesto toscano solamente con il cronista Andrea Ungaro. Si noti quindi come questi due termini nascano nel momento più crudo dello scontro tra papato e impero, quindi nello scontro tra Federico II e Gregorio IX. Oggi i termini sono usati in modo assolutamente improprio, ma è da Risorgimento che ciò accade. Lo scopo del libro è scoprire che all’epoca non tutta la vita pubblica orbitasse intorno a questa polarizzazione. Era legata invece a gruppi di potere che manipolavano a loro vantaggio il conflitto. Anche le varie espulsioni degli avversari erano compiute per poi avere potere contrattuale con una futura riammissione. Un esempio di errore è il luogo comune che vede contrapposte Siena e Firenze: Firenze divenne guelfa nel 1250 e si contrappose alla ghibellina Siena fino al 1260. Dal 60’ al 66’ appartennero entrambe allo schieramento filoimperiale per poi ripassare in una decina di anni entrambe a quello guelfo fino al 1400 inoltrato. Il mondo comunale italiano era troppo dinamico per essere intrappolato in un rigido bipolarismo politico. Le due fazioni erano soggette ad un continuo processo di redefinizione, frantumazione e ricomposizione. Queste etichette erano strumenti ideologici che chi deteneva il potere cercava di manipolare a proprio favore. 1. LA NASCITA DELLE PARTI (1236-1250) 1) Poteri universali a confronto: l’impero contro la Chiesa Il 20 marzo 1239, papa Gregorio IX scomunica l’imperatore e re di Sicilia Federico II. Dopo che Fede era già stato scomunicato nel 27 e che nel 29 delle truppe al soldo del papa cercano di invadere il regno di Sicilia; ma questa volta la rottura era definitiva. Nel maggio del 41’ Gregorio indisse un concilio per chiamare la Chiesa a raccolta contro l’imperatore, ma la flotta pisana al servizio di Fede intercettò le navi e fece tutti prigionieri. Dopo la morte di Gregorio IX nel 41’ e il brevissimo pontificato di Celestino IV, venne eletto papa Innocenzo IV, per breve tempo vi fu la speranza di una riconciliazione. Le trattative però fallirono e il papa fuggì nella corte di Luigi IX sotto la sua protezione. Da Lione il papa lanciò un invettiva durissima contro Fede, il quale venne scomunicato, dichiarato deposto oltre che spergiuro ed eretico. Lo scontro tra papato e impero era strettamente legato con il conflitto che si combatteva nell’Italia settentrionale tra fede e i comuni che volevano difendere la loro autonomia appoggiati dal papa e raccolti intorno a Milano. Dal 36 al 38 l’imperatore sconfisse e assoggettò Padova, Treviso, Vicenza e Mantova. Nel Novembre del 37’ fede ottenne anche una vittoria importante a Cortenuova dove annientò l’esercito di Milano. A fermare l’avanzata di Federico dopo questa vittoria si deve il merito a Gregorio da Montelongo, un notaio e suddiacono inviato da Gregorio IX che riuscì a sventare due potenti offensive a Milano e a Brescia. Il meccanismo bellico era ormai in funzione e nelle prospettive delle singole città schierarsi voleva dire ricevere sicurezza in caso di aggressione ma anche compiere sforzi, a volte insostenibili, per rispondere a chiamate di soccorso. A volte la mobilitazione poteva essere davvero imponente. Nel 47’ i due schieramenti si contesero Parma, la quale era difesa dai suoi cittadini, contingenti milanesi, piacentini e genovesi, nonché anche da dagli esuli veronesi filopapali. Tutte queste parti avevano propri comandanti, coordinati tra loro da Gregorio da Montelongo. Fede a sua volta guidava le forze imperiali composte da cavalieri tedeschi, fuoriusciti parmigiani, dall’esercito cremonese e da truppe inviate da Pavia, Modena, Reggio Emilia, Vicenza, Padova, Verona. 2) Imponendo dall’alto: la parte dell’impero Una guerra così lunga era destinata ad avere profondi cambiamenti nelle singole comunità e la neutralità era impossibile. Nelle città le decisioni politiche erano prese determinate dalla volontà popolare che si esprimeva nei consigli e assemblee: L’impero e la Chiesa cercarono fin da subito di condizionare queste decisioni per assicurare il controllo della città da famiglie o personaggi a loro fedeli. Il caso di Padova è interessante: nel 37 passo al lato imperiale dopo una serie di sconfitte e i guelfi abbandonarono la città. Di solito era scontata la fedeltà di chi rimaneva per il loro schieramento, ma in questo caso Ezzelino da Romano, vicario imperiale, perseguitò anche chi era restato, per lui erano comunque “traditori dell’impero”. Questa fu una novità: sul fronte imperiale opporsi al governo in carica diventava direttamente opporsi all’impero, quindi alto tradimento e lesa maestà. L’ambiguità delle leggi sulla lesa maestà permetteva quindi anche elasticità nelle loro interpretazioni. Non andava meglio ai prigionieri di guerra, anch’essi visti come traditori da condannare. In alcuni casi lo stesso Federico fece condannare durante assedi alcuni prigionieri per mettere pressione sui difensori e indurli alla resa. Più la guerra proseguiva e più Federico si faceva spietato: nel 46 ci fu una rivolta di aristocratici nell’Italia meridionale, la congiura fallì e la repressione fu spietata e Fede perse la fiducia nel genere umano. Le persecuzioni potevano sfociare in veri e propri pogrom. Quando nel 46 si credette che stessero crescendo venti guelfi a Parma case e torri dei parmigiani che andarono in esilio o furono presi come ostaggi, per gli altri che non abbandonarono la città si aprì un periodo di persecuzioni e discriminazioni. Così valse anche per Reggio e Firenze. In quest’ultima, nel 48’, ci fu una profonda rivolta contro Federico di Antiochia, figlio illegittimo di Fede, il quale fu nominato dall’imperatore come podestà. Il risultato fu un gran numero di espulsioni e l’incendio di numerose case di guelfi. Un tale livello di violenza non era consueto e spesso fu legato proprio alla presenza dell’imperatore. Spesso gli ufficiali cittadini erano molto più clementi. 3) Operando dal basso: la parte della Chiesa Nel campo della Chiesa, l’attacco agli avversari politici avvenne in forme assai diverse, ma non meno efficaci. Nello schieramento imperiale l’iniziativa arrivava dagli ufficiali nominati da Federico alla guida delle città, la Chiesa invece, decise di agire dall’interno e non al di sopra dei comuni. Cercò di persuadere più che obbligare, per far ciò essa disponeva di un efficacissimo apparato di pressione: domenicani e francescani: i quali parlavano nei luoghi pubblici creando un diffuso moto di opinione a loro favorevole e chiedendo ai governi comunali di promuovere la pace interna e di agire contro gli eretici, gli usurai e i giocatori d’azzardo. La propaganda imperiale dipendeva dall’abile penna di Pier de delle Vigne, quindi era scritta, non era quindi per tutti. La Chiesa scelse di agire in maniera diversa: i letterati della Curia rispondevano a Pier con altrettanta maestria con testi scritti, ma dall’altra parte francescani e domenicani agivano per via orale. Le strategie per mettere i cittadini contro l’impero furono molte. A Milano nel 40’ Gregorio di Montelongo promosse una riforma fiscale per ripartire le tasse in maniera più equa. Fu data attenzione alle donne, ad esempio usando la figura di Maria come protettrice dagli attacchi imperiali (è il caso di Parma imperiale si ritrovò indebolito dalle defezioni. Come talvolta accade però, la fine della guerra portò conseguenze più favorevoli ai vinti che ai vincitori. In quegli anni infatti quasi tutte le città filoimperiali rimasero sotto il controllo dei vecchi rettori imposti dallo svevo, mentre quelle della parte della Chiesa conobbero una drammatica stagione di turbolenze; i grandi costi della guerra crearono una grande instabilità interna ed esterna. Vediamo il caso di Piacenza, da sempre baluardo antimperiale. Qui nell’estate del 1250 il podestà locale fu accusato di aver dirottato verso Parma, sua città d’origine, una parte di frumento mietuto nelle campagne piacentine. Non è chiaro cosa accade, ma i popolari piacentino insorsero contro il podestà chiamando un rettore guelfo genovese, ma alcune famiglie ghibelline furono riammesse in città. Fu creata la nuova carica di Capitano del popolo, alla quale fu eletto Uberto Iniquità. Nel 1252 i tentativi di far rimanere la città neutrale e pacifica fallì e Piacenza passò al campo svevo. La stessa Milano aveva vinto sì la guerra, ma al prezzo di sacrifici umani e finanziari spaventosi. Dopo Cortenuova il comune dovette inventarsi le cosiddette “carte di debito del comune” per pagare i cittadini che avevano prestato servizio militare…pesarono per decenni sull’economia milanese. Qui poi gli scontri politici si confondevano con quelli religiosi: nobili accusati di essere filoimperiali furono colpiti da scomunica in quanto dichiarati eretici. Per risolvere la situazione agli inizi del 53 fu chiamato per podestà un ex-collaboratore di Fede, Manfredi Lancia il quale non stava andando di amore e d’accordo con il nuovo imperatore Corrado. Era urgente arrivare ad una pace generale la quale stabilizzasse la situazione e mettesse a freno i conflitti sociali e politici. A tal fine si adoperò papa Innocenzo IV. Il quale abbandonò la politica intransigente antimperiale per una più pacifica. Scrisse una prima volta nel 51 ad una serie di comuni filoimperiali (Cremona, Pavia, Torino, Bergamo, Padova) senza ottenere risultati. Col peggiorare delle lotte interne le concessioni del papa si allargarono e intervenne in favore dei ghibellini di Parma e Genova. Fu incaricato dal papa Filippo da Pistoia di riportare la pace tra le due fazioni in tutta la Romagna che arrivò nel 53’. Dall’altra parte il vicario imperiale Uberto Pelavicino fu incaricato dall’imperatore di fare lo stesso. Si deve notare come la fine della guerra fu in realtà un’occasione per le forze del Popolo di assumere il potere o un ruolo politico più rilevante. Il caso più noto è quello di Firenze. Nel 1250 gli esponenti di Fede furono cacciati e gli antimperiali furono riaccolti. Tuttavia le famiglie filosveve non furono allontanate e i popolari cercarono di garantire la convivenza delle due fazioni. In questi anni i podestà di Firenze provenivano da centri che avevano combattuto contro l’imperatore negli anni precedenti. Sotto questi personaggi Firenze ottenne quelle vittorie contro le città ghibelline toscane che gli permisero di assumere quel ruolo di potenza regionale per la prima volta. Si vede come in queste operazioni di pacificamento si cercava non il superamento della divisione fazionaria ma un modus vivendi il più possibile pacifico tra le due parti. Comunque segnato dalla prevalenza di una. Nel caso di Firenze la mediazione fu presa dal popolo ma in altri casi essa fu affidata a figure autorevoli esterne. La pace e la guerra finivano col favorire le ambizioni di potere dei singoli personaggi. È il caso di Gilberto da Gente che prese il potere a Parma e nel 1253 ottenne la “grande concordia” con i cremonesi. Nell’Italia comunale la situa era confusa e quelli che noi etichettiamo come passaggi da un campo all’altro erano in realtà spesso convulsioni interne o tentativi di pacificazioni, dalle quali potevano emergere figure che cercavano di muoversi opportunisticamente fra i due schieramenti al fine di consolidare il proprio potere personale. Erano personaggi con identità labili e ci rendiamo conto di quanto le etichetti di “guelfo” o di “ghibellino” suonino inappropriate. Torniamo a Piacenza: nel 1250 ascese la figura di Oberto Iniquità. Gli annali della città, scritti 40 anni dopo, ci dicono che la figura di Oberto preoccupò molto i milanesi in quanto era un ghibellino convinto. Ma la biografia precedente smentisce tale definizione visto che egli aveva guidato la difesa di Brescia contro Fede nel 38. La definizione del cronista quindi risulta costruita a posteriori solo per dare coerenza ideologica a delle operazioni che erano guidate solamente dall’ambizione personale dell’Iniquità. Manfredi Lancia è l’altro caso esemplare di voltafaccia, il quale nel 53 abbandonò Corrado IV e divenne podestà di Milano…I milanesi non si fecero scrupoli ad essere guidati da uno dei più fedeli a Federico II e che fino a pochi anni prima aveva combattuto contro di loro. 2) Il ritorno della guerra I progetti di pacificazione ebbero nella maggior parte dei casi vita breve, si rivelarono vere e proprie imprese. Un superamento e una scomposizione dei due raggruppamenti fu impossibile: quindici anni di conflitti ed esili avevano conferito a guelfi e ghibellini una solida identità e un’altrettanta solida organizzazione interna. L’idea, come abbiamo visto, era quella di un mediatore che doveva fungere da arbitro per mediare. Ma il risultato era che l’arbitro veniva prima o poi inglobato in uno dei due schieramenti. Nell’Italia settentrionale abbiamo visto come la parte imperiale si mostrò più compatta, grazie soprattutto a due personaggi: Oberto Pelavicino e Ezzelino da Romano. I quali riuscirono a mantenere il controllo delle comunità a loro soggette. Paradossalmente quindi, malgrado il fallimento del progetto di Fede e la mancanza sia di un re di Sicilia che di un imperatore legittimo, nell’Italia settentrionale si creò un consenso nei riguardi dei signori che in qualche modo si proclamarono continuatori dell’esperienza sveva. Questo giovò molto a Corrado IV, il quale poté in questo modo riorganizzarsi e nel 51 scese in Italia alla tedesca di qualche centinaio di cavalieri tedeschi e dopo aver riunito i suoi seguaci proseguì verso sud per affermare la sua autorità in Sicilia. Non si fece attendere la risposta pontificia: serie di iniziative armare pagate dalla curia e comandate dai suoi esponenti. Questa era una novità, fino a quel momento la guerra contro l’impero era sempre stata lasciata ai laici. Aveva iniziato nel 48 quando Ottaviano degli Ubaldini fu messo a guidare una spedizione per proteggere Parma. (Anche se non ottenne nelle sue campagne molti risultati). In questi anni si svolse anche lo scontro tra il cardinale Filippo da Pistoia e Ezzelino da Romano. Filippo era un uomo fidato del papa, Alessandro IV promise anche i privilegi dei crociati a chiunque l’avrebbe seguito. Filippo conquistò nel 56 Padova e resistette ad una controffensiva ezzeliniano. Nel 51 Milano e Pavia avevano concluso una pace, ma l’azione del Pelavicino e la discesa di Corrado IV misero termine a queste ambizioni; dopo 18 mesi le due città si stavano già facendo la guerra. Le due parti gravitarono velocemente verso Corrado IV e il papa. Inoltre c’era anche la questione dell’Italia meridionale… 3) I troppi eredi dell’impero Comprendere gli sviluppi politici nell’Italia centro settentrionale senza prendere in considerazione gli avvenimenti del meridione è impossibile. Federico II aveva stabilito una precisa linea di successione: 1) Corrado IV 2) Enrico 3) Manfredi (figlio nato dall’amante dell’imperatore con Bianca Lancia d’Agliano) Dato che Corrado viveva in Germania, Manfredi ottenne, oltre ad alcuni principati, anche il governo del regno come vicario. Inutile dire che Corrado non la prese bene. Dopo essersi organizzato nel 52 arrivò in Sicilia a capo di un numeroso esercito. Enrico morì all’improvviso, si sospetta sia stato un ordine del fratello maggiore e Manfredi nonostante si fosse sottomesso pacificamente, venne estromesso dal governo e privato di una parte delle sue contee. I suoi parenti Lancia furono banditi e Napoli fu assediata, conquistata e punita. Corrado aveva la situa in pugno, tuttavia morì improvvisamente nel 1254 lasciano come unico erede Corradino di soli 2 anni. Manfredi si proclamò protettore dell’ignaro nipote e assunse il potere a suo nome. Come aveva fatto Manfredi Lancia, anche Manfredi lo Svevo si schierò con Milano dalla parte della Chiesa, ottenendo l’appoggio di Ottaviano degli Ubaldini. Innocenzo IV però, che era diffidente nei confronti di Manfredi, si schierò da quello che fu designato inizialmente come tutore di Corradino: Bertoldo di Hohenburg. Scoppiata la guerra civile Manfredi decise di rivendicare l’autorità che gli giungeva dalla propria discendenza portando dalla sua parte i combattenti saraceni di Lucera nel 54 (fedeli a Federico II) i quali li consegnarono anche il tesoro della corona, con il quale Manfredi arruolò molti cavalieri tedeschi. Ad Innocenzo IV gli succedette Alessandro IV, il quale decise di inviare subito un esercito nel Meridione contro Manfredi, guidato ancora da Ottaviano degli Ubaldini. Ottaviano condusse le spedizioni con una lentezza a dir poco sospetta per poi accordarsi con il principe di Taranto e abbandonare il Regno nel 55 senza il consenso del papa. Manfredi aveva strada spianata e nel 38 poteva dirsi padrone del regno. Assunse la corona di Sicilia nel 58 a Palermo con una grande cerimonia nel duomo di Palermo. Lo schieramento filoimperiale in Italia aveva un nuovo campione. Gli anni di Manfredi si possono leggere come un confronto tra due blocchi distinti che sfociò nella battaglia di Montaperti nel 1260 e nella disfatta guelfa che seguì. Per giustificare l’incoronazione Manfredi vece circolare la fake news che Corradino era schiattato, i parenti svevi non la bevvero, anche perché il piccolo era con loro… mandarono degli ambasciatori per protestare ma Manfredi li intercettò e li uccise. Manfredi però, a differenza di Fede non aveva alcun interesse diretto nei territori a nord del fiume Liri, ma comunque agire nell’Italia comunale voleva dire rivendicare l’autorità politica del padre, ma questa doveva fare i conti, tra gli stessi ghibellini, con molti rivali… 3.L’ITALIA DI MANFREDI (1258-1265) 1) La battaglia di Cassano d’Adda Mentre Manfredi combatteva per il trono di Sicilia, la corona imperiale rimaneva vacante. Il papa propose Riccardo di Cornovaglia, altri principi tedeschi però, non volendo che il papa si impicciasse, cercarono un’alternativa e la trovarono in Alfonso X, re di Castiglia…egli sarebbe stato un importante fattore di divisione nel campo ghibellino. Una prima fattura all’interno del fronte ghibellino avvenne in Toscana in quanto Pisa, interessata alle vie commerciali con la Spagna, sostenne proprio Alfonso; dall’altra parte Siena era schierata con Manfredi. La frattura più grande si ebbe però in Lombardia… Oberto Pelavicino (Lombardia ed Emilia) e Ezzelino da Romano (Veneto), entrambi leader imperiali, mostravano una facciata di amicizia, anche se in realtà erano forti rivali. Nel 58 combatterono insieme per difendere Brescia da Filippo di Pistoia. Filippo fu catturato, Brescia passò dalla parte imperiale e nelle mani di Ezzelino. Quest’ultimo dettaglio infastidì il buon Pelavicino, il quale aveva sacrificato più truppe per la difesa di Brescia. Inoltre i due guardavano due figure diverse per la continuazione dell’impero: Ezzelino sosteneva Alfonso X e Oberto sosteneva Manfredi. Uno scontro aperto divenne inevitabile e il casus belli fu fornito da Milano. Questa era sempre stata guelfa, ma viveva una forte conflittualità interna che sfociò nel 59 in una serie di scontri tra i mercanti e proprietari fondiari contro gli artigiani; Milano era nel caos ma prevalsero gli artigiani guidati da Martino della Torre. Un gruppo di aristocratici lasciò allora Milano e cercò l’appoggio di Ezzelino, era richiesto un intervento militare in cambio della signoria sulla città. Ezzelino non ci pensò due volte. A questo punto il rimescolamento fu totale. Martino della Torre, pur appartenendo ad una famiglia da sempre guelfa non esitò a rivolgersi a Oberto Pelavicino. Anche lui accettò subito e chiese inoltre una mano al guelfo Azzo d’Este (signore di Ferrara e 4) La pace e i flagelli Nell'estate del 1257 un vulcano in Indonesia esploso in maniera devastante, sollevando una massa di tonnellate di terra e roccia; il sole fu velato a lungo da tale massa di materiale causando due o tre anni di pesante maltempo, che rovino i raccolti e causo carestie. Anche l'Italia fu colpita e un po ovunque si trovano menzioni di alluvioni esteri lamenti di fiumi che devastarono le coltivazioni. In questo difficile contesto ambientale non risulta difficile comprendere successo dei cosiddetti flagellanti. Si trattava di un movimento religioso dai forti contenuti escatologici che predicava l'imminente abbattersi dell'ira divina sul mondo e invitava gli uomini alla penitenza e alla conversione per evitarlo . Segno visibile della penitenza era la mortificazione del proprio corpo tramite l'autoflagellazione pubblica, mentre lo scopo finale era l'adesione a un progetto di pace generalizzata. Ehi l'esperienza dei flagellanti ebbe inizio nell'aprile del 1260 a Perugia, la quale era estranea ai grandi scontri ideologici che avevano travolto il resto dell'Italia. Qui il movimento si intrecciò con la politica con lo scopo di imporre una legislazione assai innovativa che consentiva alle autorità comunali di intervenire per imporre la pace terra le grandi famiglie senza una loro richiesta. La devozione dei flagellanti si diffuse nel resto della penisola. In un ambito politico diverso però, le richieste dovettero cambiare. A differenza di quanto avvenuto a Perugia nei centri dove la lotta politica degli anni precedenti aveva portato a provvedimenti di espulsione degli oppositori politici la pace poteva passare che dalla cancellazione di tali provvedimenti, al fine di promuovere una nuova convivenza tra le parti. La stessa devozione dei flagellanti poteva essere manipolata ai fini di parte, non per pacificare ma per destabilizzare la città. Nacquero anche associazioni di laici che intendevano proseguire l'esperienza note come confraternite dei battuti. Parallelamente a questi, nel 1261, nacque a Bologna anche una confraternita esplicitamente rivolta ai membri dell'élite cittadina, che verrà chiamata successivamente come frati gaudenti. L'ordine accoglieva sia religiosi, sia laici, era stato fondato dai membri di alcune delle più importanti famiglie aristocratiche emiliane. Ovviamente anche per i Gaudenti la pace era un obiettivo primario e negli statuti della congregazione non si prevedeva solo la preghiera come mezzo per ottenerla (armi e armature per sedare tumulti e difendersi). La richiesta di una soluzione ai conflitti espressa sia dai movimenti religiosi popolari sia dalle élite cittadine tentava di supplire all'assenza di una politica regia in tale direzione. Manfredi, benché a parole dicesse di voler la pace virgola non sembra aver mai preso iniziative per obbligare i suoi seguaci a trovare forme di convivenza e collaborazione con gli avversari politici. Inoltre, nonostante il suo prestigio personale, le risorse economiche e militari del Regno e le grandi vittorie ottenute sul campo, non solo non riuscì a sconfiggere del tutto i partigiani del Papa, ma neppure a creare uno schieramento ghibellino coerente e disciplinato. Su tali contraddizioni seppe battere abilmente la diplomazia Pontificia fino a capovolgere inaspettatamente porti di forze. 4. RE GUELFI E PAPI GHIBELLINI (1266-1282) 1) La spedizione di Carlo d’Angiò Dopo le grandi vittorie dei suoi alleati in Lombardia e in Toscana Manfredi aveva assunto un atteggiamento sempre più ostile verso il pontefice, a cui stava cercando di sottrarre le Marche. Papa Urbano IV aveva bisogno di un nuovo campione esterno e lo trovò allora nel 1263 in Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX, conte di Provenza. Egli era un personaggio ambizioso e coraggioso, Carlo non rinunciò all’occasione e acconsentì ad assumere il titolo di “senatore di Roma”. Inoltre il buon Carlo aveva conquistato nel 59’ una serie di territori in Piemonte. Quindi egli disponeva non solo di una base operativa in Italia, ma anche di una buona esperienza politica e militare nella penisola. Prima di partire volle prepararsi la strada intessendo una serie di alleanze in Lombardia e in Emilia Romagna, in modo da spostare il suo esercito nel sud Italia. Gli andò anche di culo che in quel momento il fronte ghibellino era spezzato, soprattutto a Milano, in quanto il rapporto tra Martino della Torre e Oberto era rimasto saldo, ma Martino morì nel 63 e gli subentrò il fratello Filippo, il quale non vedeva di buon occhio Oberto. Nel dicembre del 63, con un colpo di mano, filippo cacciò da Milano il podestà nominato dal Pelavicino. Di questa situa approfittò Carlo d’Angiò, appoggiato sia da Urbano IV e sia dal suo successore Clemente IV. Il 23 gennaio del 64’ Carlo d’Angiò e la stirpe dei della Torre stipularono un’alleanza politica e militare. Il 24 maggio l’Angiò arrivò a Roma via mare alla testa di alcune centinaia di uomini, mentre il grosso del suo esercito procedette via terra attraverso la Lombardia, la Romagna e l’Umbria, incontrando solo nel primo tratto del percorso una debole resistenza da parte delle forze di Oberto Pelavicino, il quale faceva di tutto per evitare lo scontro aperto. La resistenza ghibellina fu quasi inesistente. Quando tutte le forze di Carlo raggiunsero Roma si preparò l’invasione verso il Regno di Sicilia. Il 26 febbraio 1266, davanti alla città di Benevento, l’esercito di Manfredi fu disastrosamente sconfitto e il re di Sicilia e in persona cadde mentre guidava i suoi uomini in un ultimo, e disperato assalto. Carlo d’Angiò rimaneva padrone del Regno di Sicilia…almeno per il momento… 2) Intermezzo: la pace di Clemente IV La vittoria di Carlo risolveva sicuramente alcuni problemi per il papa, ma non tutti. Fin dal primo momento tra Clemente IV e Carlo non andarono d’accordo e il papa fu ben lieto quando Carlo lasciò Roma per conquistare il Regno di Sicilia, dandogli anche un appoggio considerevole. Dopo la battaglia di Benevento il rapporto torno a guastarsi. L’esercito angioino, a corto di viveri e denaro, si era dato al saccheggio di Benevento, la quale però era un’enclave soggetta al papa. Inoltre Clemente non voleva che alla minaccia sveva si sostituisse quella angioina, quindi fece il possibile per temperare Carlo. Solo la minaccia di Corradino fece riavvicinare i due. Dopo la battaglia di Benevento, Clemente IV lanciò una poderosa offensiva diplomatica nell’Italia centro- settentrionale, cercando di allontanare gli ultimi alleati rimasti di Manfredi. Il papa aveva cautamente sondato la disponibilità del governo ghibellino di Firenze per aprire una trattativa, e poco dopo che si era sparsa la notizia della sconfitta di Manfredi l’iniziativa si concretizzò: nel marzo del 1266 il consiglio comunale della città inviò un’ambasciata in Curia a giurare la sottomissione di Firenze al pontefice. Seguirono l’esempio nelle settimane successive Pistoia, Prato, Arezzo mentre Pisa e Siena continuarono ad opporsi. Clemente IV fece nominare rettori di Firenze i due frati gaudenti bolognesi si trattava di una mossa di garanzia, la quale doveva rassicurare le due fazioni impedendo gli eccessi partigiani e favorire una pacificazione. Per tutta l'estate, Firenze rimase presidiata da una forte guarnigione di cavalieri tedeschi comandati dal leader ghibellino Guido novello. Soltanto a novembre, grazie a una rivolta del popolo, venne cacciato il leader ghibellino. Tuttavia, Carlo era già giunto nella regione, deciso a imporre il governo della parte a lui più vicina. Sapendo dell'iniziativa di Corradino, Il Papa cessò le ostilità con Carlo, affidandogli l'incarico di pacificatore. Il 17 Aprile 1267 le truppe angioine entrarono a Firenze, cacciandone i ghibellini e instaurando un regime guelfo, guidato da Carlo stesso. Presa Firenze, Carlo ottenne facilmente la sottomissione di Lucca, Prato, Pistoia, Arezzo. Poco dopo Carlo si autoproclamò vicario di tutta la Toscana. Nel settentrione, l'iniziativa Pontificia ebbe invece risultati migliori. Quando arrivarono da sud le notizie della sconfitta di Benevento il fronte ghibellino collassò definitivamente. Ehi per prevenire un colpo di mano guelfo, a Parma i popolari scelsero e imposero una via diversa, schierandosi a favore della Chiesa. Ehi poco dopo giunsero nella regione due ambasciatori nominati da Clemente quarto perché inducessero le città ancora dominate da Oberto Pelavicino ha cambiare schieramento . A settembre, in una solenne cerimonia tenuta nella piazza della cattedrale di Piacenza, Oberto Pelavicino fu assolto da tutte le scomuniche attraverso l'umiliante rituale della flagellazione pubblica. Oberto si rifugiò poi nei suoi castelli dove morì nel 1269. Seguirono inoltre il rientro degli esiliati guelfi a Piacenza e a Cremona, nacquero inoltre dell'associazioni politico militare organizzate su base territoriali, che dovevano partecipare alla vita comunale e condizionarla in favore della parte della Chiesa. La cosiddetta pacificazione si tradusse in realtà in una piena presa del potere da parte della fazione guelfa che nelle due città era riuscita a conquistare ormai saldamente il potere senza ricorrere alla forza militare angioina. 3) La spedizione di Corradino I centri ghibellini superstiti avevano bisogno di un nuovo punto di riferimento, e si guardarono dunque a Corradino di Svevia. L'operazione prese avvio dalla Toscana, soprattutto ad opera di Pisa. Questa, insieme a Siena e ai ghibellini di Firenze, mandarono ambasceria in Germania dove i messi toscani si incontrarono con alcuni superstiti dell'entourage di Manfredi, i quali erano sopravvissuti alla battaglia di Benevento e si erano recati a loro volta a proporre al loro aiuto a Corradino. Questo non era scontato, infatti Corradino era stato privato della sua legittima eredità del trono di Sicilia proprio da parte di Manfredi. Corradino comunque acconsenti, il giovane principe fu molto abile a comprendere che doveva rivendicare l'eredita dello zio più che quella del padre e si affrettò a circondarsi dei consiglieri superstiti di Manfredi. Nell'autunno del 1267 Corradino valico il Brennero alla testa di un migliaio di cavalieri pesanti tedeschi. La marcia di Corradino rivela ancora una volta quanto fossero fragili i grandi coordinamenti sovralocali nell'Italia del 200. La rete guelfa, così laboriosamente intessuta dai legami pontifici nei due anni precedenti, si dimostrò addirittura meno motivata e combattiva di quanto non fosse stata quella ghibellina nel 65 e 66 contro Carlo d'Angiò. Corradino fu accolto a Verona dove raccolse altri uomini, a gennaio attraverso la Lombardia senza alcuna opposizione di Milano Ehi e arrivo a Pavia. Ad Aprile Corradino era Pisa, e le sue forze erano quasi raddoppiate. A giugno l'esercito di Corradino entrò a Siena, per poi raggiungere Roma, dov'è il 24 luglio fu accolto festosamente da buona parte della popolazione. Il Papa, rifugiato a Viterbo, fulminò scomuniche e interdetti contro tutti i sostenitori dello Svevo, ma non fu in grado di contrapporgli alcuna efficace opposizione armata. L'avventura di Corradino si concluse tragicamente il 23 agosto 1268 l'esercito di Carlo d'Angiò intercetto quello del giovane Svevo nella piana di Tagliacozzo, In Abruzzo. Sebbene fossero inferiore di numero, le forze angioine ottennero una vittoria schiacciante. Corradino fu catturato, imprigionato e condannato a morte, secondo quanto prevedevano le costituzioni di Federico II, le quali paragonavano chi muoveva in armi contro il Regno a chi attentava alla maestà del re. Il giovane Svevo fu decapitato nella piazza di Napoli il 29 ottobre. La pena capitale per il crimine di lesa maestà, previsto da Federico II nella sua legislazione del 1231 e da lui intensamente utilizzata, venne infine rivolta contro il suo ultimo discendente diretto. 4) L’Italia angioina La vittoria di Tagliacozzo segnò la definitiva affermazione del potere di Carlo d'Angiò, ma le ambizioni del nuovo sovrano non si limitavano al suolo Regno di Sicilia. Dopo aver spento i focolai di rivolta nel meridione, Carlo era pronto per scatenare una vera e propria offensiva diplomatica nel settentrione. Sarà il 1269 e il 1271 scrisse una serie di lettere ai suoi ufficiali nel Nord Italia delegando loro di volta in volta l'autorità per trattare la sottomissione diverse città, creando contatti con quelle parti della cittadinanza a lui favorevoli, si è incinta che fino a quel momento erano stati ostili, sia in comuni alleati. La maggior parte di queste iniziative non riuscì, ma comunque potete estendere il proprio potere in Piemonte, prendendo il controllo di Alessandria, fra Lombardia e Emilia, con la sottomissione di Brescia e Piacenza. In Toscana assoggettò anche Siena e Pisa. Carlo si comporto sempre in modo diverso in base ai suoi interlocutori. Dove prevaleva l'aristocrazia, Carlo la appoggiava dove invece predominava il popolo, Carlo ne riconosceva l'organizzazione e le rivendicazioni. Ehm nei piccoli borghi del Piemonte occidentale, lancio assunse un controllo quasi totale sull'apparato comunale. Nei grandi comuni invece il re accettò di scegliere i Podestà fra rose e propostegli dai cittadini e favorì l'affermazione delle Società di Popolo, nominandone i capitani. Nel momento in cui Carlo accettava la dedizione di una comunità stipulava con essa dei dettagliati patti di sottomissione, che definivano precisamente i poteri concessi al re e le competenze che restavano alla cittadinanza. Di norma questi accordi lasciavano buoni margini di autonomia alle collettività urbane. I vantaggi, anche per le opportunità, erano molti. Nell'Italia centro settentrionale Carlo si presentava dunque come il vero erede di Federico e di Manfredi proponeva al complesso, ma anche conflittuale, mondo delle città italiane un disegno politico alternativo, monarchico che offriva maggiore stabilità politica e l'inserimento in quadri territoriali più vasti. La storiografia ha di norma trascurato la forza di questo modello che spiega la forte adesione su cui poterono contare prima gli imperatori svevi e Manfredi e poi gli Angiò in seno al mondo comunale. C’era anche un'importante fattore culturale: l'Italia comunale era una realtà forte e ricca, di cui i cittadini potevano andare orgogliosi, ma era anche un'eccezione in un mondo di re e
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