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Riassunto dei canti dell'Inferno di Dante Alighieri, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto completo ed esaustivo dell'edizione commentata La Divina Commedia, Inferno, Dante Alighieri di Anna Maria Chiavacci Leonardi.

Tipologia: Appunti

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Scarica Riassunto dei canti dell'Inferno di Dante Alighieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA DIVINA COMMEDIA INFERNO DANTE ALIGHIERI -Canto I Inferno Il canto I dell’Inferno fa da prologo a tutto il poema, presenta quindi la situazione iniziale e le ragioni del viaggio allegorico di Dante. Siamo fuori dall’oltre mondo e si dispiega ai nostri occhi un paesaggio, la selva, che rappresenta dal punto di vista simbolico il peccato dell’uomo. Ma in questo paesaggio cammina un uomo ben reale e concreto che a metà della sua vita, quindi nell’anno 1300,quando stava per compiere 35 anni, si smarrisce in questa selva “selvaggia e aspra e forte”. È questa la grande novità della commedia: in una dimensione eterna porta la presenza storica in tutta la sua concretezza e ci racconta la presenza umana non per astratte figure ma per singole, reali persone con tutte le sua sfumature. In questo cammino Dante raffigura insieme se stesso e tutta l’umanità: tutta la commedia tende in modo ben esplicito a un rinnovamento della ‘humana civilitas’ nella pace e nella giustizia con la sconfitta della cupidigia e il ristabilirsi delle umane virtù. L’inizio del poema si apre con un indicazione temporale ben precisa ‘ nel mezzo del cammin di nostra vita’ dove Dante indica i suoi 35 anni considerati allora il punto medio della durata della vita. Inoltre l’aggettivo ‘nostra’ attribuisce a quel linguaggio dimesso una risonanza universale ed epica: infatti Dante assume in prima persona questo viaggio, che è di tutti gli uomini e la sua vicenda personale diventa segno dell’universale vicenda umana. ‘Mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita’ : Dante vuole qui indicare un reale periodo di traviamento della sua vita in cui aveva smarrito la diritta via, la via del bene e descrive così la situazione in cui all’improvviso viene a trovarsi, ovvero in mezzo a una selva oscura, origine del male e dell’errore. Presa coscienza di tale condizione,Dante tenta di uscirne dirigendosi verso il colle in salita, soleggiato dalla luce di Dio che si contrappone alla selva oscura: qui per la prima volta egli alzò lo sguardo verso l’alto ovvero verso le cose alte ed eterne e non più verso le cose temporali. Ma una nuova e inattesa figura appare sulla scena ‘ una lonza leggera e presta molto che di pel macolato era coverta’ che rappresenta il simbolo della lussuria, un leone ‘con la testa alta e con rabbiosa fame che rappresenta il simbolo della superbia ed infine una lupa ‘che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza’ che rappresenta il più grave peccato, l’avidità insaziabile dei beni di questo mondo e nella sua magrezza sembrava carica di tutte le bramosie umane. Con l’apparizione di questi tre felini Dante perse ogni speranza come l’avaro che perde tutti i beni che ha accumulato e piange e si dispera in cuor suo. Quando tutto sembra perduto entra in scena un nuovo elemento: l’uomo solitario in balia delle tre fiere non è più solo, qualcuno si è mosso a salvarlo portando con se due novità fondamentali: la prima è la voce umana che si leva per la prima volta e spezza l’atmosfera di sogno finora dominante , la seconda sarà la realtà storica che irrompe in quel mondo irreale. ‘Non omo, omo già fui’ così il nuovo personaggio salvatore irrompe sulla scena in modo inaspettato, come un’apparizione spettrale tant’è che Dante gli chiede timoroso se sia un ombra od omo certo. La risposta del poeta è una vera prosopopea, un’elegante auto-presentazione in cui egli risponde a Dante dicendo che egli non era più un uomo ma un’ombra, uomo lo fu in un altro tempo, ciò rappresenta un elemento essenziale in quanto questo personaggio non è un essere astratto, una figurazione allegorica ma ha una sua concreta e ben individuata realtà storica. Colui che parla è Virgilio, illustre poeta, nato a Mantova, al tempo di Giulio Cesare,vissuto sotto la corte di Augusto e che nella Divina commedia rappresenta la luce della ragione umana che guida gli uomini verso la via del bene. Dante riconosce in lui prima di tutto il poeta che fu ‘poeta fui e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ‘l superbo Ilion fu combusto’ egli fu dunque l’autore dell’Eneide, poema considerato il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista,Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana in quanto fondatore della stirpe romana. Virgilio dirà a Dante che egli per raggiungere la felicità non dovrà percorrere la via diretta al monte il cui cammino è impedito dalla lupa ma all’uomo è necessaria una strada più lunga che passi attraverso la via del peccato (inferno) e la deliberata purificazione e distacco da esso (il purgatorio). ‘ A te convien tener altro viaggio ...’ ‘ se vuò compar d’esto loco selvaggio’ : queste parole sembrano racchiudere un’intuizione più profonda e cioè che il problema della lupa e del colle vale a dire dell’umana felicità non è risolvibile in termini umani ma che solo oltre la storia, nell’eternità si possa attingere veramente tale soluzione. Nel suo discorso Virgilio preannuncia la venuta del ‘ veltro’, che propriamente era un cane da caccia in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio, a cui sarà affidato il compito di uccidere la lupa dal mondo. Con questa figura enigmatica Dante indica un personaggio provvidenziale, inviato da Dio a ristabilire l’ordine del mondo e in grado di riportare la giustizia troppo spesso calpestata dagli ecclesiastici corrotti e dagli uomini politici che è poi la situazione di degrado morale e di disonestà che il poeta denuncia a più riprese nella Commedia. Tale profezia si ricollega forse a quella contenuta nel Canto XXXIII del Purgatorio, dove si dice che un «messo di Dio» ucciderà la prostituta che simboleggia la Chiesa compromessa con la monarchia di Francia. Finita la profezia di Virgilio, Dante non solo accetta ma richiede di essere condotto in questo mondo ultraterreno e proprio questa coscienza dà la possibilità di cominciare il viaggio: questa condizione tipicamente cristiana per cui nella salvezza dell’uomo Dio fa tutto ma l’uomo deve accettare che lo faccia, sta alla base del poema dantesco. - Canto II dell’Inferno Il secondo canto è in realtà il primo della Cantica ed è per questo che si apre con il proemio, ovvero l’invocazione alle Muse e la definizione dell’argomento. Lasciata la grande scena simbolica ci troviamo ora in un’ora serale in cui l’oscurità già prelude al mondo di tenebra in cui si sta per entrare, egli dovrà sostenere un vero e proprio combattimento fisico e morale che gli susciterà asprezza e nello stesso tempo compassione per le pene dei dannati. Dante si affiderà alla memoria, elemento centrale dell’opera, che serve a porre la veridicità del suo racconto che non va preso dunque come un’invenzione una semplice fictio poetica ma come realtà ricordata e ritratta dal vero. Questo secondo canto inizia con l’invocazione alle Muse che nella poesia classica è un topos letterario mantenuto dai poeti cristiani, per le quali le Muse rappresentano l’ispirazione poetica e con l’invocazione al proprio ingegno e alla propria memoria per poter raccontare ciò che egli vide. In questo nuovo scenario Dante affronta un nuovo timore e nuovi dubbi che non esita a manifestare alla sua guida Virgilio: Dante infatti non si sente all’altezza della missione di cui è investito, si chiede con quali forze potrà affrontare un simile compito, come può essere che un semplice mortale e per di più peccatore sia degno di tale impresa. Dante citerà Enea e Paolo, due figure centrali ed emblematiche nella tradizione classico-cristiana in quanto Enea è legato alla successiva fondazione di Roma e mentre san Paolo è un’altra realtà, di luce e di speranza, e dove il dolore è irrevocabile perdita di un bene infinito che all’uomo è pur dato raggiungere. ) Dante chiese al suo maestro chi fossero coloro che si lamentavano così forte e Virgilio rispose dicendo che qui si trovavano le anime ‘che visser senza ‘nfamia e senza lodo’, ovvero gli IGNAVI. Ci troviamo nell’ antinferno, una specie di vestibolo che precede l’inferno e dove si trovano coloro che non hanno avuto il coraggio di compiere né il bene né il male; il loro contrassegno è la viltà, essi sono i così detti pusillanimi che non hanno esercitato la facoltà di arbitrio per cui l’uomo è tale e vive, che non hanno mai preso posizione, non hanno mai fatto una scelta e si può dire che per questo non abbiano mai vissuto. Per loro Dante mostra il più profondo disprezzo proprio perché manca in loro ciò che distingue l’uomo e che egli sempre onora fin nel più profondo dell’inferno. Per Dante non aver scelto è peggio di aver scelto il male, quindi si trovano in una condizione morale peggiore di uno che ha fatto una scelta sbagliata. Questi ‘non hanno speranza di morte’ non possono sapere neppure di morire, cioè di essere annullati per sempre: questa è la condizione di tutte le anime dannate che invocano la morte senza speranza, ma gli ignavi invidiano ogni altra sorte cioè anche i peccatori più gravi nei più gravi tormenti tanto la loro vita è ignominiosa. Per la legge del contrappasso chi non ha seguito in vita nessuna bandiera –né buona né cattiva- è costretto qui a correre senza riposo dietro ad uno di questi segni. Inoltre venivano punti da mosconi e vespe, vili animali, che si nutrivano del loro sangue e delle loro lacrime. Dante tra queste anime dannate riconobbe un’ombra di una persona ben nota: chi sia questo personaggio è questione ancora discussa, ma i più antichi commentatori senza alcuna esitazione riconobbero Clementino V, l’eremita Piero da Morrone che rinunciò al papato dopo pochi mesi di regno nel 1294 e a cui seguì Bonifacio VIII. La scena a questo punto cambia inizia la terza parte del canto e con il ‘gran fiume’ Acheronte torna in primo piano il modello virgiliano, abbandonato sulla scena degli ignavi. L’acheronte, come nell’Eneide, segna il confine del mondo infernale ed è il primo dei quattro fiumi della mitologia classica che Dante ha posto nel suo inferno ( stige, flegetone, cocito) che con i loro nomi ben noti creano una specie di riconoscibile geografia nel mondo dell’aldilà. Ecco che appare il vero protagonista dell’episodio ovvero Caronte, il nocchiero che traghetta le anime dannate e che Dante descrive traendo spunto dal personaggio virgiliano del libro VI dell’Eneide: rispetto al Caronte classico, tuttavia quello dantesco appare con tratti decisamente demoniaci e ciò è coerente con la interpretazione in chiave cristiana delle figure mitologiche, in quanto le divinità infere venivano spesso considerate personificazione del diavolo e lo stesso farà Dante con altre creature infernali come Minosse,Cerbero,Pluto. L’arrivo di Caronte è improvviso e violento, egli rompe l’atmosfera sospesa del canto e domina la scena, minaccioso ma con una sua maestà ‘ Guai a voi anime prave’ grida con autorità alle anime dannate, poi si rivolge a Dante e cerca di spaventarlo e di impedire il suo viaggio attraverso l’inferno, infatti queste figure simboleggiano gli impedimenta di natura peccaminosa che ostacolano il cammino di redenzione dell’anima umana e non a caso sarà sempre Virgilio a zittirli e a consentire il passaggio di Dante: ‘ Caron, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare’. Significativo è il fatto che qui Caronte predica a Dante la sua salvezza, dicendogli che approderà ad altri porti e che sarà portato da una barca più lieve della sua, ovvero quella dell’angelo nocchiero del purgatorio. I dannati sono descritti nella loro fisicità, come corpi nudi e prostrati,che si assiepano sulla riva dell’Acheronte ansiosi di passare dall’altra parte. Essi bestemmiano e maledicono il giorno in cui sono nati, hanno un aspetto corporeo in quanto le pene che dovranno subire provocheranno in loro un dolore fisico. ‘come d’autunno si levano le foglie l’una appresso de l’altra, fin che ‘l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie’ la grande similitudine virgiliana ritorna a suggellare questo primo canto infernale; se è vero che Virgilio vuole sottolineare soprattutto la quantità, mentre Dante fa attenzione al modo con cui le anime entrano una per una nella barca, in realtà le due immagini si corrispondono nel senso profondo e nella malinconia che le avvolge. Qui scorgiamo il segreto dell’affinità tra i due grandi poeti dell’occidente latino: il guardare attento e commosso all’eterna e dolorosa vicenda mortale dell’uomo. La giustizia divina fa sì che il naturale terrore della pena si cambi in desiderio, cioè essi sono trascinati ad assecondare quell’ineluttabile giustizia. Il motivo è profondo perché indica nella coscienza del dannato il riconoscimento della giustizia della propria pena: questo è un tema che tornerà più volte nell’Inferno a ricordare che anche nei dannati resta pur sempre ciò che è proprio dell’uomo cioè l’intelletto e la coscienza. La scena finale non descrive il passaggio di Dante al di là del fiume Acheronte, infatti Dante perderà i sensi inseguito al terremoto improvviso e al fulmine violento. Questi due fenomeni naturali sono il segno che qui avviene qualcosa di straordinario che si compie per intervento divino, di cui non si è specificato il modo. Il canto dunque si chiude con questo drammatico sconvolgimento che sembra riassumere il tragico significato di ingresso nel regno del male. -Canto III dell’inferno Questo quarto canto che ospita il primo cerchio infernale, il Limbo (significa ‘lembo’ e indica l’orlo estremo della voragine infernale), è come una pausa, un intervallo dal tono mesto e severo come gli atti dei suoi più nobili abitanti. Qui i sospiri si succedono ai pianti e alle grida, e una singolare luce si accende in mezzo alla massa delle tenebre infernali; tuttavia qui è significata la sorte del mondo antico, di tanti nobili spiriti per sempre esclusi dalla suprema visione di Dio, unica meta dell’uomo: è questo il luogo di Virgilio. La magnanimità di questi spiriti non fu sufficiente a condurli oltre il limite dell’umana ragione, e dell’umana virtù, a quel Dio che si concede solo per grazia, mediante la fede: sono le anime di colore che vissero virtuosamente ma non furono battezzati o vissero prima di cristo, perciò essi non sono dannati, la loro unica pena consiste in un desiderio eternamente inappagato di vedere Dio e non c’è soluzione a questa condizione. In questo canto emergono due concetti fondamentali che servono a comprendere meglio i temi fondamentali dell’inferno: il concetto di pietà e il concetto di angoscia. L’inferno di dante è una realtà molto complessa poiché non è semplicemente il luogo dove c’è il Male: nel limbo siamo di fronte a personaggi di grande valore e per certi aspetti eroici e virtuosi e il fatto che siano nell’inferno comunque non cancella ciò che di buono essi rappresentano. Il problema di Dante personaggio è quello di dover constatare come la virtù non sia sempre sufficiente alla salvezza: la pietà è l’angoscia di constatare che il bene sia stato sopraffatto dal male; in questo senso i personaggi sono ANTIEXEMPLA. Emerge anche l’idea di magnanimità: questi personaggi hanno lasciato una memoria sulla terra però la fama che era quel tipo di immortalità sulla terra, il fine dell’uomo ma essa ha comunque nell’aldilà dei limiti, questa condizione è per lui motivo di sofferenza e angoscia. Dunque la vera vis poetica non sta tanto nell’esaltazione di tale magnanimità, ma proprio dalla sua esclusione dalla vera beatitudine dell’uomo perché dove manca la grazia anche la più alta facoltà umana non può toccare la beatitudine della vita divina. Nella teologia cristiana il Limbo era concepito come il luogo dei santi patriarchi ebrei morti prima della venuta di Cristo e da lui liberati subito dopo la sua morte; in seguito era rimasto il luogo dei fanciulli innocenti, morti senza battesimo e quindi macchiati del solo peccato originale. Non esisteva nella tradizione teologica un Limbo per gli adulti: è questa dunque un’invenzione di Dante che accoglie qui gli adulti giusti del mondo pagano e anche infedeli del tempo cristiano. ‘Or discendiam qua giù nel cieco mondo’ l’attacco di Virgilio è solenne e doloroso, egli entra in quel mondo di dolore privo di luce materiale e morale che è anche il suo. Con grande dolore il poeta latino spiegherà a Dante che qui si trovano colore che non peccarono contro la legge naturale così gravemente da meritare la dannazione per le loro colpe ma le opere buone non bastano senza LA GRAZIA a raggiungere Dio. Per la mancanza di fede e di battesimo queste anime compresa quella di Virgilio sono perduti, come tutte gli altri abitanti dell’inferno, proprio perché vivono nel desiderio eterno di Dio senza speranza di poterlo mai appagare. Virgilio spiega a Dante la venuta di Cristo, il quale non viene mai nominato esplicitamente, agli Inferi. Egli incoronato dalla croce, segno di vittoria, manifestò la potenza di Dio e trasse dall’inferno i principali patriarchi dell’antica alleanza, primo fra tutti Adamo,progenitore di tutti gli uomini, poi Mosè, Giacobbe e i suoi dodici figli e la moglie Rachele; dunque la liberazione delle anime giuste avvenne solo con la discesa di Cristo, nessuno poté salvarsi prima. ‘quand’io vidi un foco’ inizia così la seconda parte del canto in cui Dante vede una fiamma che formava tra le tenebre una semisfera illuminata, è la luce della mente umana dei grandi filosofi e poeti antichi che qui dimorano: è questo il luogo dove propriamente Virgilio vive. Queste anime onorevoli sono separate dallo stato delle altre anime in un luogo ben distinto e appartato, ovvero il ‘nobile castello’ poiché la fama che di essi ancora risuona in terra ottiene in cielo uno speciale favore che li avvantaggia così sugli altri: è questa la figura poetica con cui Dante riconosce ed onora la grandezza umana dei filosofi e dei poeti antichi, rimasti in un’eterna sospensione del desiderio. Dante, fra questi spiriti magni,riconosce quattro fra i principali poeti classici secondo il pensiero medievale: Omero, cantore delle armi, Orazio, autore delle Satire, Ovidio, il poeta latino più famoso dopo Virgilio, Lucano, autore della Pharsalia ed è dopo Virgilio il secondo grande modello epico di Dante. Essi figurano in ordine cronologico i tre stili principali: umile ( Orazio) comico (Ovidio), e tragico( Lucano), Omero è il signore della poesia epica, è il rappresentate per eccellenza dello stile tragico. All’interno di questo castello vide un primo gruppo di eroi della storia di Roma, nella quale rientra anche quella di Troia; il valore provvidenziale e profetico che Roma e il suo impero hanno per Dante nella storia del mondo sono all’origine di questa scelta. Il secondo gruppo di filosofi e poeti si raccoglie intorno ad Aristotele, che rappresenta l’umana sapienza. I due gruppi rappresentano quindi le virtù morali ed intellettuali proprie dell’uomo, la massima dignità e il massimo onore che l’uomo raggiunge con le sue forze, rinchiuso nel concetto di MAGNANIMITA’ ma che non basta a portarlo fino a Dio. -Canto V dell’Inferno ‘la bocca mi basciò tutta tremante’ il profondo realismo di questo verso e la viva intensità e serietà con cui prende figura concreta il tremante Paolo è la grande novità poetica che fa per sempre di Paolo e Francesca l’esempio vivo dell’umana passione di amore. ‘Galeotto fu il libro e chi lo scrisse’ in quanto ebbe la stessa funzione fra loro due, che GALEHAULT compì tra Lancillotto e Ginevra, inducendo lei a baciarlo. Ma questa volta il colpevole non fu un uomo ma un libro largamente letto e ammirato al tempo. Paolo accompagnava le parole di Francesca piangendo: è un pianto silenzioso proprio dell’uomo cosciente e nello stesso tempo schivo del parlare che colpisce fino in fondo l’altro uomo vivo che guarda e ascolta. La pietà che aveva colto Dante all’inizio qui lo soverchia fino a fargli perdere i sensi ‘ e caddi come corpo morto cadde’: il significato di tale svenimento è più profondo di quanto si possa credere, esso va raccolto da tutto l’andamento della storia e dell’incontro qui narrati, e non ridotto ad una semplice commozione per una singola tragica vicenda, è la perdita della violenza dell’interno sentire che qui raggiunge un grado di intensità eccezionale. Questo coinvolgimento profondo è dovuto al fatto che Dante vede se stesso in Francesca ma anche la creatura umana nella sua dignità e bellezza che si perde per consapevole scelta e tragico errore. C’è una forte contraddizione: come può lo stesso desiderio portare F. e P. alla distruzione e quello D. e B. alla salvezza? -Canto VI dell’Inferno Con questo canto entriamo nel terzo cerchio dove è punito il vizio della gola, il secondo nella scala dei peccati di incontinenza, la cui pena è degradante e miserevole, infatti i golosi sono stesi a terra, immersi nel fango sotto una pioggia greve e maleodorante. In questo canto verrà affrontato il tema politico della tragica condizione di Firenze, la città partita, che occupa tutto il centro del canto e ne segna l’acme drammatica, con l’alta profezia della sconfitta dei Bianchi. Come si vedrà, ai sesti canti Dante affida in tutte e tre le cantiche lo svolgimento del tema politico: qui nell’Inferno protagonista è la città, nel Purgatorio sarà l’Italia, nel Paradiso l’Impero universale. Questo canto introduce un nuovo atteggiamento del raccontare dantesco infatti l’attacco delle prime terzine indica una temperie diversa, di più libera e semplice narrazione: Dante qui usufruirà dello stile comico,secondo la norma retorica della convenienza dello stile al contenuto. ‘io sono al terzo cerchio, de la piova etterna,maledetta,fredda e greve’ così è presentato il cerchio dei golosi, che è uno dei sette vizi capitali ed è considerato colpa più grave della lussuria perché la gola è causa della lussuria e non il contrario. La punizione di questi peccatori ovvero una pioggia eterna e pesante unita a grandine e neve, è di origine biblica ma dantesca è l’idea di applicarla ai golosi, con chiaro contrappasso; appare evidente il contrasto fra quest’acqua pesante e maleodorante e le delicate bevande di cui questi peccatori si saziarono. Questa pioggia è caratterizzata nella sua qualità infernale da quattro aggettivi: etterna, che non avrà mai sosta, maledetta, perché deve nuocere, fredda, che non porta alcun piacere, e greve ovvero pesante che grava sui peccatori e li opprime a terra. In questo infernale scenario appare Cerbero,antico mostro dell’Averno classico, rappresentato come un cane a tre teste con colli avvolti di serpenti; era noto per l’impresa di Teseo che per penetrare nell’Ade, lo aveva vinto e trascinato fuori in catene, Dante lo assume come guardiano infernale, trasformandolo in demonio rabbioso e cieco nella sua ingordigia e ne fa il custode specifico del cerchio dei golosi. Dante indica qui per la prima volta una caratteristica importante delle anime dell’aldilà: esse hanno l’apparenza del corpo e la capacità di soffrire ma non ne hanno la consistenza. L’idea virgiliana viene ripresa da Dante in quanto essa rende possibile il suo viaggio, senza contraddire alla dottrina cristiana per cui i corpi risorgeranno il giorno del giudizio finale. Queste anime erano stese a terra sotto la pressione della pioggia ma all’improvviso un’ombra si levò a sedere,colpito dal fatto che un uomo ancora vivo,Dante, sia condotto attraverso l’inferno. Per il momento quest’ombra non rivela niente di se stessa se non che ha conosciuto in vita colui che ora cammina nell’inferno e la città da cui proviene. Come Francesca anche quest’anima indicherà come prima cosa la sua patria di origine, ma questa volta la determinazione non è geografica bensì politica ‘la tua città,ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco’ si introduce così il tema civile, centrale in tutto il canto e coinvolge Dante personalmente in quanto si parla proprio di Firenze,piena di invidia, origine delle discordie civili dovute all’avidità di possesso. Sarà ricordata insieme alla superbia e all’avarizia come uno dei tre peccati che bruciano i cuori dei fiorentini, non a caso l’invidia è citata già nel primo canto come fonte della cupidigia che travolge il mondo: il male e la rovina del mondo appaiono qui in una realtà ben determinata, nella città che è all’origine di tutta la meditazione civile di Dante. ‘voi cittadini mi chiamaste Ciacco’ dalla notizia degli antichi Ciacco era un uomo di corte che frequentava le nobili famiglie fiorentine, dedito con eccesso ai piaceri della tavola, ma non privo di acume, una specie di saggio giullare, probabilmente ben noto nella Firenze del tempo. Forse per questa situazione di conoscenza approfondita degli ambienti politici più qualificati Dante lo sceglie a giudice e profeta della condizione della città. ‘per la dannosa colpa de la gola come tu vedi a la pioggia mi fiacco’ notiamo come sia presente nel dannato un elemento essenziale ovvero la ben chiara coscienza etica per cui egli riconosce la propria colpa e considera giusta la propria condanna. Tale coscienza che fonda la dignità umana dell’uomo nell’inferno, sarà riscontrabile in ognuno dei personaggi incontrati, fino all’ultimo cerchio dell’abisso. Dante porrà a Ciacco una serie di domande sulla condizione della città di Firenze :dove li condurranno le loro discordie, se vi è in essa, seppur così divisa, almeno qualcuno che sia giusto, cioè che resti al di sopra dell’odio di parte e la causa prima, l’origine di tale discordia. Le domande di Dante sono dunque tre, esposte con una sobrietà che sembra adeguarsi allo stile di Ciacco e poste in ordine inverso rispetto al tempo(futuro,presente,passato). ‘la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione’ così Ciacco risponde a Dante dicendo che la parte venuta dal contado caccerà la parte magnatizia dei Neri: nel giugno del 1301 furono esiliati tutti i principali esponenti del partito dei Donati; in seguito dovrà accadere che la parte selvaggia dei Bianchi decada dalla sua egemonia entro l’arco di tre anni. La profezia di Ciacco è immaginata come preannunciata nella primavera del 1300,data del viaggio dantesco; il predominio dei Neri in Firenze e la cacciata dei Bianch cominciò nei primi mesi del 1302. Ciacco parlerà di un tale, qualcuno di cui non si vuole pronunciare il nome che si mostrerà imparziale tra le due parti: non vi è dubbio che Dante si riferisca qui a papa Bonifacio VIII. Dante farà a Ciacco un’altra richiesta ovvero quale sia la sorte eterna di alcuni tra i più noti dei grandi cittadini delle generazioni passate, di cui si parlava in Firenze con ammirazione e rispetto: Farinata degli Uberti, il grande capo ghibellino, Tegghiaio Aldobrandi guelfo, Iacopo Rusticucci guelfo, Arrigo degli Arrigucci, Mosca dei lamberti. ‘ Ei son tra l’anime più nere’ essi sono gli eretici, i sodomiti, e i seminatori di discordie, i quali si trovano tutti dentro le mura della città di Dite che dividono nell’inferno dantesco le anime dei peccatori per incontinenza da quelle dei peccatori per violenza e frode. La risposta di Ciacco ci pone davanti per la prima volta il profondo divario di valori tra la prospettiva terrena e quella eterna che si ritroverà al fondo di tutto il poema, infatti Il ben far umano non appare sufficiente alla salvezza dell’uomo. Ciacco chiederà a Dante di ricordarlo alla memoria dei vivi: per le anime dell’inferno questa è la sola maniera di vivere ancora, ed è cioè che sempre e soltanto chiederanno al vivo che passa davanti a loro. Concluso il dialogo con Ciacco, l’attacco nuovo e improvviso di Virgilio apre una nuova e solenne prospettiva che conclude con potenza il canto. Da tale sonno di morte Ciacco non si risveglierà più, prima del suono della tromba angelica che annuncerà il giudizio universale, quando giungerà la ‘nimica podesta’ si intende Cristo che verrà in veste di giudice nell’ultimo giorno, nemico per coloro che saranno dannati. Ciascun rivedrà la triste tomba, ripiglierà sua carne e sua figura..’il dogma cristiano della resurrezione delle carne cioè dell’aspetto corporeo è alla base dell’invenzione della Commedia e qui appare per la prima volta in una potente raffigurazione: il giudice, la tromba angelica, l’umanità giudicata. Virgilio dirà a Dante che dopo la resurrezione della carne saranno maggiori i tormenti dei dannati come sarà maggiore la gioia dei beati poicè tanto più l’essere è perfetto tanto più sia capace di sentire la gioia e così anche il dolore. Alla fine del canto dante porrà Pluto, dio greco della ricchezza,origine di ogni male. -Canto VII dell’Inferno Ci addentriamo con questo canto tra le colpe più gravi che ledono profondamente la dignità dell’uomo ovvero il peccato di avarizia o brama di denaro. I peccatori di questo cerchio sono suddivisi, in omaggio alla classificazione aristotelica delle colpe in avari prodighi in quanto hanno usato del denaro con dismisura cioè con eccesso nei due opposti modi del dare e del tenere. Ma il vero vizio di incontinenza a cui Dante guarda con profonda condanna è il primo, cioè la cupidigia e l’attaccamento alle ricchezze poiché questo peccato,a differenza di lussuria, gola,ira,accidia corrode e corrompe alla base la convivenza civile dell’uomo sulla terra. Il tema della ricchezza e della sua fallacia è un tema letterario ben vivo nella tradizione classica ma la forza del testo di Dante sta nel fatto che quel modello letterario diventa in una tragica realtà storica. La sua personale amara esperienza politica, la riflessione sulla generale condizione civile del suo tempo lo avevano condotto a riconoscere in quella ‘ lupa’ posta nel primo canto, come insormontabile ostacolo all’uomio sulla via della salvezza, la vera origine ai mali dell’umanità. Nella sua unità questo canto appare variato rispetto ai precedenti in cui dante faceva coincidere il canto con un determinato ambiente o cerchio, qui egli anticipa sulla fine, in un breve scorcio di trenta versi, la discesa e la prima visione d’insieme del cerchio successivo, nella quale appaiono gli iracondi e accidiosi. Questa nuova struttura narrativa è invenzione che rompe l’inevitabile monotonia del sovrapporsi di ogni canto ad ogni cerchio, inoltre tale composizione porta all’accostamento di vari tipi di linguaggio istituendo una pluralità di stili differenti che solo una commedia poteva permettersi: il primo e dominante che accompagna la scena degli avari e prodighi è realistico e petroso, il secondo che introduce il tema della fortuna è teologico, il terzo usato alla fine ha un livello medio. ‘Pape Satàn,pape Satàn aleppe’ il canto comincia all’improvviso con le parole di Pluto, parole che risuonano oscure e con voce che sembra disumana. Secondo uno schema narrativo ricorrente nel corso della Cantica, anche Pluto tenta vanamente di opporsi al passaggio di Dante e anche in questo caso l'ostacolo è superato da Virgilio, che sembra afferrare il senso delle sue misteriose parole e lo mette a tacere con la solita formula che rammenta l'ineluttabilità del viaggio dantesco, anche col riferimento all'arcangelo Michele che condanna. Costui era un fiorentino di parte nera avverso a Dante e probabilmente suo nemico personale,appartenente alla consorteria degli Adimari: ‘questo fu al mondo persona orgogliosa’ così Dante definisce Filippo Argenti. Egli era noto per la sua arroganza orgogliosa e il cui tono domina largamente l'intero episodio, e ci riconduce al clima di lotte intestine e rivalità tra consorterie di cui era preda Firenze all'inizio del Trecento. il poeta latino sottolinea che molti in vita si ritengono altezzosamente dei gran regi, mentre il loro destino ultraterreno è di essere tuffati dentro nel fango dello Stige come porci in brago, tant’è che Dante esprime il desiderio di vedere questa scena solennemente approvata da Virgilio,in quanto dietro la figura di quella persona orgogliosa in realtà qui vengono condannati tutti coloro che con la loro superbia, opprimono gli altri e provano quelle terribili discordie civili che allora affliggevano la città di Firenze e sconvolgevano tutta la vita politica ai due poeti nota. L'episodio si conclude con gli altri dannati che fanno a pezzi l'Argenti, soddisfacendo il personale desiderio di rivalsa del poeta che lascia la descrizione del personaggio con profondo disdegno (più non ne narro), in quanto la sua attenzione è catturata da ben altro spettacolo che si offre ai suoi occhi. La terza parte del canto è infatti occupata dalla descrizione della città di Dite,vera e propria città infernale che si staglia con le sue mura e le torri rosse per il fuoco che divampa all’interno e che racchiude il basso inferno accogliendo i peccatori più gravi e distinguendoli dall’alto inferno che racchiude invece i cerchi dell’incontinenza. In questa scena drammatica appaiono per la prima volta i diavoli che raffigurano lo scontro, la guerra che deve sostenere il pellegrino dell’inferno. Qui la parola di Virgilio che ha quietato i guardiani dei primi cerchi, non sarà più sufficiente a dominare la situazione,infatti un solo messo dal cielo permetterà l’entrata ai due poeti. La reazione dei diavoli è una forte ira, di fronte al viaggiatore che osa avventurarsi da vivo nel regno dell'Oltretomba, ed essi si oppongono al passaggio dei due poeti non diversamente dalle altre figure diaboliche fin qui incontrate, minacciando addirittura di trattenere lì Virgilio e obbligare Dante a tornare da solo sui suoi passi. Dante sarà pervaso da una grande paura quasi infantile che di fonte ad un pericolo desidera soltanto fuggire, ma il duca non rinuncerà all’impresa e cercherà di dare il giusto conforto e la sicurezza a Dante, come fece in altre occasione. Ma i diavoli questa volta chiusero le porte ai due poeti sottolineando così la sconfitta di Virgilio: questa sconfitta è il vero tema di questa fine del canto. Infatti la figura di Virgilio si rivela apertamente nel suo valore simbolico, egli appare come mai altrove umano e vivo nell’atto e nelle parole e la sconfitta è l’insufficienza dell’umana ragione a vincere da sola le forze del male. È la prima volta che Virgilio si muove e parla fuori dal clichè abituale: si veda il suo ritorno sconsolato, a fronte bassa e con passi rari, il suo riprendersi per far coraggio a dante e la sua sicura speranza nei versi finali. -Canto IX dell’Inferno Il canto IX si prefigura come la necessaria conclusione di quello precedente, che si era chiuso nell’attesa dell’arrivo del messo celeste preannunciato da Virgilio per rassicurare Dante e vincere l’opposizione dei diavoli della città di Dite, decisi a non permettere l’ingresso di Dante ancor vivo nella città del foco. L’insieme del canto IX appare tuttavia privo di quella unità fantastica che ha fin ora caratterizzato le altre unità narrative, e ciò è dovuto alla forte presenza di figure allegoriche che creano un’atmosfera solenne di dramma sacro. Il pallore che aveva subito il volto di Dante alla vista dei diavoli, fece sì che Virgilio dominasse il suo turbamento, tanto da far sparire dal proprio volto quel colore che lo manifestava; come sempre Virgilio dimostra un dominio assoluto dei propri sentimenti, pur essendovi totalmente esposto come tutti, anzi provandoli come pare più intensamente e finemente degli uomini. Virgilio è fermo in atteggiamento di ascolto, come per supplire con l’udito alla vista che non può andar lontano nella nebbia oscura, come ritratto in un immobilizzarsi improvviso di chi attende qualcosa. Tutto il discorso di Virgilio – la certezza, il dubbio che affiora, e la risposta rassicurante ‘se non’ che lo tronca, come ad esprimere una sorta di esitazione (‘se non accada che la promessa non sia mantenuta e bisogna tornare indietro..’), è rivolto a se stesso e non a Dante che comunque coglie ogni sfumatura. Dante cogliendo i sospiri di irrequietezza di Virgilio, gli domanda se lui conosce la strada che conduce al basso inferno mettendo implicitamente in forse la sua autorità fin’ora indiscussa. Virgilio spiega che dopo poco la sua morte la maga tessala Eritone lo aveva evocato per far tornare in vita un morto, quindi egli conosce perfettamente la strada che conduce al fondo dell’inferno (Dante si ispira sicuramente a un episodio del Bellum civile di Lucano, VI, 508 ss., in cui si dice che Eritone aveva resuscitato un defunto per rivelare a Pompeo l'esito della battaglia di Farsàlo; non sappiamo a quale altro caso riguardante Virgilio faccia riferimento qui Dante). L’atmosfera arcana e di sortilegio prosegue con l’apparizione improvvisa delle Furie che distolgono Dante dal discorso di Virgilio e attirano la sua attenzione: esse sono personaggi della mitologia classica, figlie di Acheronte e della Notte, tormentatrici dei colpevoli di delitti di sangue. Le Erinni ( nome greco delle Furie) al servizio di Plutone e Proserpina sono Megera Aletto e Trisefon, le quali si affacciano agli spalti di Dite e minacciano Dante evocando Medusa, notissima figura della mitologia greca, la terza delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco, il cui volto rendeva di pietra chiunque lo guardasse. Il mito era noto a dante che se ne servì per simboleggiare eventi della fenomenologia etica cristiana: medusa rappresenta qui con maggiore probabilità la disperazione della salvezza. La minaccia è reale e spinge Virgilio a chiudere gli occhi al discepolo, altrimenti nulla sarebbe di tornar mai suso (il maestro non si accontenta che Dante si copra gli occhi, ma mette le sue mani su quelle del poeta per evitare ogni rischio). Le Furie e Medusa sono la consueta demonizzazione di divinità classiche del mondo infero, che anche in questo caso si oppongono vanamente al prosieguo del cammino di Dante, anche se la Gorgone non viene mostrata direttamente ma solo evocata dalle minacciose parole delle tre Erinni, che citano la discesa all'Averno di Teseo e si rammaricano di non averne respinto l'assalto: l'eroe classico è da accostare ad Ercole, citato più avanti nel discorso del messo celeste, e forse entrambi rimandano alla figura di questo inviato che ridurrà al silenzio i demoni, secondo lo schema dell'eroe che sconfigge il mostro e che è comune tanto alla mitologia quanto al racconto biblico. Dante si appella al lettore, la cui mente non sia corrotta dal male, perché comprenda un momento cruciale della storia, dove l’evento letterale raffigura un importante evento morale, e bisogna sforzarsi di comprendere il significato. Il ritmo in questa seconda parte del canto si fa più solenne ed annuncia con una grande similitudine l’arrivo non più di un mostro infernale ma di un essere che viene dall’alto. Il suo arrivo è anticipato da un rumore violento, da un forte vento che diventa quasi una persona per la superbia con cui avanza atterrando tutti e facendo innalzare un fumo denso poiché davanti a lui tutte le anime si tuffano sott’acqua nel fango, sollevando così il vapore del pantano. ‘così dinanzi ad un ch’al passo passava Stige con le piante asciutte’ il ricordo evangelico a tutti noto del Cristo che cammina sulle acque indica chiaramente l’origine divina del nuovo arrivato. L’angelo mostra il suo disdegno contro chi si ostina ad opporsi a Dio, non a caso i demoni sono qui denominati dalla loro eterna condanna ovvero la cacciata che seguì alla ribellione di Dio. L’angelo qui richiama la narrazione dell’Eneide in cui Cerbero fu incatenato e trascinato fuori dalla porta dell’inferno da Ercole, perché si era opposto al suo ingresso e Dante riprende tale mito come quello della discesa di Teseo, come un exemplum, seguendo la tradizione cristiana secondo la quale Ercole e Teseo erano interpretati come figure di Cristo e Cerbero e gli altri mostri come figure del demonio che si oppongono invano alla volontà di Dio. Grazie alla venuta dell’angelo si conclude la scena infatti ogni resistenza è sparita, dei demoni non c’è più traccia, e il messo apre le porte a Dante e a Virgilio. L’ultima scena del canto è riservata ai prossimi peccatori che si trovano subito dopo la città di Dite: gli eretici. Dentro la città si spiega allo sguardo u nuovo paesaggio, ampio e doloroso, una pianura di tombe infuocate che nella sua profonda sospensione preannuncia una grande e drammatica scena. Dante non vedrà alcuno spirito ma udirà soltanto i lamenti dei dannati dentro alle tombe ma con i coperchi alzati poiché le eresie non sono ancora finite e una volta terminate con la fine del mondo, i coperchi verranno a chiudersi sulle tombe. La punizione di questi eretici, raggruppati in base al tipo di eresia in diverse zone del sepolcreto, è analoga a quella riservata agli eretici nel mondo: la tomba significa che essi sono morte rispetto alla fede e vivono come sepolti perché nascondono il loro errore. I due poeti volgono a destra invece che a sinistra perche gli eretici e fraudolenti hanno in comune la falsità, gli uni nella dottrina e gli altri nella parola per cui si trovano a sinistra, mentre Dante e Virgilio devieranno a destra perché essa indica la via della rettitudine. Il grande passaggio che si delinea in questa chiusura del canto ha una grande solennità: l’immensa distesa di tombe , il fuoco che ne esce, il non vedere alcuno, sono tutti elementi che annunciavano il nuovo mondo in cui si è entrati e denunciano la gravità e potenza del male che qui si punisce. L’eresia, infatti, male terribile per il cristiano perché significa il cosciente e volontario porsi al di fuori della fede e della chiesa era un problema profondamente sentito e vissuto al tempo di dante. In Firenze stessa era largamente diffusa l’eresia catara e processi contro quegli eretici si erano celebrati proprio al tempo della giovinezza di dante. Si tratta dunque di un testo estremamente vivo e attuale per dante, che suscita echi profondo nell’animo di chi aveva vissuto ben vicino a tali persone. -Canto X dell’Inferno Il canto X è uno dei più grandi dell’Inferno per la sua complessità tematica, per la forza e la bellezza del suo stile e per la sua perfezione compositiva. Le due grandi figure che si levano d’un tratto al passaggio di Dante portano con sé tutto ciò che formò la vita del poeta a Firenze prima dell’esilio. Il grande capo ghibellino delle generazioni passate da un lato e il padre del primo amico, compagno e maestro di poesia di Dante dall’altro, portano sulla scena dell’inferno un’onda potente di ricordi. Il tema centra su cui si svolge tutta la trama del canto X è la grandezza fisica e morale di questi uomini tanto che so potrebbe chiamarlo il canto dell’umana magnanimità : Dante lascia ad A Farinata sta a cuore unicamente la dimensione politica ed è evidente in lui il rimpianto per il dolce mondo e la sua città, specie quando chiede a Dante il motivo di tanto accanimento di Firenze contro i membri della sua famiglia. La risposta di Dante fa riferimento al disastro di Montaperti, ovvero la sconfitta guelfa che fu sempre ricordata come un bagno di sangue ('l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso) e che indusse a pronunciare tale orazion nel... tempio, ovvero a emanare duri provvedimenti contro tutti i discendenti di Farinata. Questi ribatte che ci fu una ragione per quello scontro, rivendicando il merito di essersi opposto alla distruzione di Firenze che i capi ghibellini avevano ipotizzato. La conclusione del Canto è la logica conseguenza di questo discorso, con Virgilio che ricorda a Dante che sarà proprio Beatrice a spiegargli nel dettaglio la sua vita futura, quindi rammentando che la grazia, non la sola conoscenza razionale, è l'obiettivo del viaggio dantesco. Per l'ennesima volta viene ribadito che la sola filosofia razionale è insufficiente a salvarsi, come ben dimostra la presenza nel Cerchio di illustri pensatori quali Epicuro, Federico II, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, tutti destinati a essere chiusi in eterno nelle loro tombe infuocate il giorno del Giudizio, dopo essersi rivestiti delle loro carni (e il Giudizio viene citato da Virgilio in apertura di Canto come da Farinata in conclusione, a voler dire che la sentenza finale sarà implacabile con tutti quelli che pretendono di arrivare alla salvezza eterna solo per altezza d'ingegno). -Canto XI dell’Inferno Attraversata la piana degli eretici, Dante e Virgilio giungono ad una balza scoscesa che li porterà nel settimo cerchio. Questo canto è una sorta di pausa del cammino come espediente narrativo ideato da Dante per introdurre una spiegazione strutturale sulla ripartizione delle colpe dell’Inferno. La sua funzione è didascalica ma necessaria in quanto dà alla grande narrazione infernale una misura e un ordine razionale: quell’ordine che è specchio della sapienza che regola tutto l’universo dal volgere dei cieli all’abisso dell’inferno. Qui regna infatti la giustizia divina che si riflette della perfetta razionalità e simmetria delle sue ripartizioni. La spiegazione di Virgilio prende ovviamente spunto dalla filosofia aristotelica ampiamente ripresa dalla teologia medievale e che distingueva tre principali peccati: di eccesso, di violenza e di frode, che sono di gravità crescente e quindi puniti nelle zone infernali che via via si avvicinano al centro della Terra. La frode propria solo dell’uomo è considerata peccato più grave perché richiede l’uso della ragione e mortifica quindi la più alta qualità umana ed è suddivisa a sua volta in due specie di diversa gravità secondo che sia commessa contro chi non si fida, o contro chi per vincolo speciale di parentela o patria o amicizia o beneficio dato naturalmente si fida di colui che lo tradisce. [Così la città infernale ospita tre grandi cerchi dopo quello degli ERETICI: il primo(SETTIMO DELL’INFERNO) è destinato AI VIOLENTI, e distinto in tre gironi, secondo che la violenza sia fatta CONTRO IL PROSSIMO, CONTRO SE STESSI, O CONTRO DIO(ad esempio Bestemmiatori: Dante specifica che la vera bestemmia qui punita parte da un rifiuto interiore, cioè non si tratta della bestemmia che nasce da un impeto d’ira ‘ma da pensata malizia’. Si distinguono dunque due tipi di bestemmia: negare o asserire di Dio ciò che non gli conviene) e due diversi modi di compierla(solo con il cuore o anche con la bocca). Oltre ai bestemmiatori abbiamo anche coloro che peccano contro la natura( i sodomiti) e contro la bontà di Dio(gli usurai). Nel secondo(L’OTTAVO DELL’INFERNO) sono puniti i FRAUDOLENTI, ingannatori del prossimo nei modi più vari(RUFFIANI, SEMONIACI, LADRI, FALSARI); tra di loro si distinguono coloro che si fidano e coloro che non si fidano. Nell’ultimo cerchio infine( IL NONO) stanno i TRADITORI e come si vedrà al loro centro sta confitto Lucifero. I peccati di incontinenza sono lasciati fuori dalla città di Dite perché sono coloro che sono stati travolti dalla passione che non seppero contenere, dunque la loro colpa è meno grave rispetto ai peccato di MALIZIA(violenti, fraudolenti traditori). Aristotele spiega infatti che l’incontinenza opera per passione, mentre la malizia opera per elezione: nella prima il giudizio sul bene e sul male è ancora retto,anche se non seguito, il secondo è pervertito; sono i peccati commessi con la ragione che sempre si procura odio presso Dio; lo scopo è l’ingiustizia, cioè la violazione del diritto a danno altrui(INGIURIA) che può compiersi o con la violenza o con la frode. Il concetto di colpa è fondato quindi sul concetto romano di diritto. Alla fine del canto verrà affrontato un ultimo problema relativo all’usura che viene punita tra i peccati contro Dio, poiché l’usuraio non vive né dei frutti della natura né di quelli del suo lavoro ma disprezza la natura sia in se stessa sia nell’arte, poiché ripone la sua fiducia in qualcos’altro, cioè negli interessi del denaro prestato. L’aver dato spazio al peccato di usura è dato dal fatto che questa pratica avesse grande rilievo nella società di quel tempo: l’usura portava infatti a rovina le famiglie e con le famiglie le città stesse. Per questo motivo,Dante dedito a ciò che riguardava l’umana convivenza, dedica tale spazio nello scorcio finale del canto, a quella che era una delle insidie peggiori nella sua subdola realtà. -Canto XII dell’inferno Entriamo ora nel cerchio dei violenti, ai quali sono dedicati ben cinque canti, e questo primo girone è riservato ai violenti contro il prossimo. Esso non ha però la stessa forza drammatica degli altri due infatti i violenti contro il prossimo, immersi in un fiume di sangue restano come ai margini della scena: essi non hanno voce né volto pur avendo dei nomi. Tra loro e il viandante dell’oltre mondo non si instaura alcun rapporto, nessuna scintilla a creare le grandi situazioni drammatiche delle cantiche precedenti. Seppelliti nel fiume di sangue che essi stessi fecero scorrere su nel mondo, essi lasciano come vuota la scena, che viene riempita dalle figure vivissime dei Centauri, guardiani del cerchio. Questi peccatori, a differenza dei sodomiti e dei suicidi che mantengono ancora la nobiltà d’animo, l’umana dignità, essi sono come tagliati fuori da ogni possibile confronto umano. Il sangue è la cornice di tutto il girone e di tutta la scena e la violenza regna come tema conduttore di tutto il canto, salvo l’intervallo dei Centauri. Dante ha posto all’inizio del canto la figura del Minotauro, essere mostruoso per metà uomo e per metà toro nato da Parifae e da un toro di cui essa si era invaghita, è simbolo della violenza che è il peccato di chi, pur dotato di ragione umana, si è abbandonato a istinti bestiali e ha arrecato danno al prossimo, nella persona fisica o nei beni. Il Minotauro, che probabilmente è custode di tutto il VII Cerchio e non solo del primo girone dove sono puniti assassini e predoni, tenta di ostacolare il passaggio dei due poeti come altre figure demoniache già viste in precedenza, ma è ammansito da Virgilio che gli ricorda la morte inflittagli da Teseo, ammaestrando su come ucciderlo dalla sorella del Minotauro, Arianna. Il maestro spiega inoltre a Dante che la causa del crollo rovinoso dove i due devono scendere è il terremoto che scosse tutta la Terra il giorno della morte di Cristo, mentre non c'era ancora quando lui passò di lì la prima volta, evocato dalla maga Eritone. Virgilio si appella alla dottrina di Empedocle cercando di fornire una spiegazione razionale al fenomeno eccezionale a cui ha assistito: lo scuotersi dell’Inferno non può essere altro che l’inizio del caos se si esclude un evento soprannaturale quale fu la discesa di Cristo. Ecco che appaiono i violenti contro il prossimo, spinti al peccato dalla cupidigia e dall’ira ed immersi nel sangue bollente. In questa scena si fanno largo i centauri che corrono verso Dante e Virgilio, spinta dalla loro brama di ferire. I centauri, armati di archi e freccette, pensano che i due nuovi arrivati siano destinati a quel girone ma Virgilio spiegherà a loro che il pellegrino è ancora vivo e il suo viaggio è stato voluto dall’alto dei cieli. I tre centauri sono Nesso,impulsivo e precipitoso per natura, la cui morte fu dovuta alla passione che nutrì per Deianira. Il mito narrato da Ovidio narra che Nesso si innamorò della moglie di Ercole, mentre la portava sulla groppa per farle traversare il fiume e tentò quindi, passato il fiume di fuggire con lei, ma Ercole lo raggiunse con una delle sua frecce avvelenate, morendo il centauro donò a Deianira la sua camicia insanguinata dicendole che se Ercole si fosse innamorato di un’altra donna e avesse indossato la camicia sarebbe tornata all’amore per lei, così quando ercole si innamorò di Iole, ella le fece indossare la camicia ma ercole morì avvelenato dal sangue del centauro, così nesso poté vendicarsi da sé. Poi c’è Chiorne, aio di Achille, sapiente esperto di musica che non ha niente della tradizionale ferocia dei centauri. Dante gli mantiene questo carattere di saggio dando maestoso rilievo alla figura, e poi abbiamo Folo che alle nozze di Piritoo, furioso per l’ebrezza cercò di rapire la sposa e altre donne presenti. Questi centauri hanno il compito di impedire ai dannati, immersi nel fiume di sangue, di emergere dal bulicame più di quanto abbia stabilito la giustizia divina, compito che essi assolvono saettando gli spiriti che cercano di trasgredire. Nesso, su ordine di Chirone, porta Virgilio e Dante al di là del fiume bollente, al di sotto del quale ci sono i peccatori del cerchio che Dante chiama Tiranni. I tiranni sono propriamente coloro che esercitano il potere illegalmente e si servono del potere non per il bene comune ma per il vantaggio personale. Dante vuole indicare qui i veri signorotti che approfittando delle fazioni si impadronirono del potere nelle città comunali italiane del suo tempo. Essi presero non solo i beni dei loro sudditi ma anche il loro sangue per questo sono immersi ora in questo fiume bollente [ Il Flegetonte è uno dei quattro fiumi infernali (gli altri sono l'Acheronte e lo Stige, già visti, e il quarto sarà il Cocito), formato da sangue bollente in cui i violenti sono immersi in misura diversa a seconda del peccato commesso: i tiranni fino agli occhi, gli assassini fino al collo, i predoni e i ladroni da strada fino al petto, altri ancora fino ai piedi (questo è il punto in cui il sangue è più basso, dove Nesso può effettuare il guado). Il fiume non è esplicitamente nominato in questo Canto, ma sarà illustrato a Dante da Virgilio nel Canto XIV (115 ss.), nel corso della sua digressione sull'origine dei fiumi infernali.] Tra questi tiranni spiccano Alessandro Magno, Dionisio Fero, Azzolino,Opizzp da Esti. Il centauro Nesso, spigando ai due poeti chi si trova in questo gironi, ad un cero punto si arresta davanti ad una schiera di peccatori che emergono fino alla gola, quindi meno gravemente puniti dei tiranni: sono gli omicidi. C’è un’ombra che sembra essere isolata da tutte le altre perché unico per la violenza e il sacrilegio è il delitto che ha commess: costui è Guido di Montfort, figlio del duca di Leicester, che per vendicare il padre morto in battaglia contro Enrico III d’inghilterra uccise il giovane Enrico, figlio di Riccardo di Cornovaglia. -Canto XIII dell’inferno Lasciato il fiume di sangue, Dante e Virgilio entrano in un grande bosco, che occupa tutto il girone dei violenti, contro se stessi. Questo bosco è in qualche modo il protagonista del canto, nella sua terribilità: esso infatti appare da subito disumano, senza alcun tratto di ciò che fa belli i boschi sulla terra, tant’è che L’idea centrale di DANTE nella Commedia è del resto la decadenza e corruzione dell’umanità presente che deve essere restaurata: quella restaurazione per la quale è scritto il poema. L’umanità è qui raffigurata nella sua storia di corruzione. -Canto XV dell’inferno Dante e Virgilio lasciata la selva dei suicidi,attraversano il sabbione, calpestando i margini di pietra del Flegetonte e una schiera di dannati,scottati dalla pioggia di fuoco, viene incontro ai due poeti, che si scorgono a stento attraverso la fosca atmosfera infernale. Uno di loro riconosce Dante e lo prende per il lembo del vestito, gridando di Meraviglia, Dante scruta quel viso e lo riconosce ‘Siete voi qui, ser Brunetto?’; la complessità dei sentimento che questo verso racchiude è così profonda tanto da conferire alla domanda un colore particolare di reverenza. Questo canto infatti è interamente dedicato all’incontro con Brunetto Latini, notaio e uomo politico fiorentino, maestro di retorica venerato in vita da Dante e ora ritrovato tra i sodomiti sotto la pioggia infuocata dell’inferno. In questo personaggio convivono due facce ben visibili: il viso abbrusciato del peccatore e la cara e buona imagine paterna ancora viva nella memoria di Dante e che ancora la venera. Nonostante ciò comunque Dante lo colloca tra i dannati, il che dimostra che c'è un contrasto netto tra la fama e i meriti terreni, letterari e politici, e la giustizia divina, implacabile con chi si è macchiato di gravi colpe. Superata l’incertezza del riconoscimento, inizia un dialogo sorprendente che ricorda tanto gli incontri terreni fra maestro e scolaro. Brunetto si dimostra poco consapevole della propria colpa e ancora attaccato alla vita terrena, dal momento che si complimenta con Dante per il privilegio di poter visitare da vivo il regno dei morti e sembra credere che ciò sia dovuto esclusivamente ai suoi meriti di intellettuale e politico, come già Cavalcante aveva parlato di altezza d'ingegno. La spiegazione di Dante è volutamente ambigua, con l'accenno allo smarrimento nella selva oscura e a Virgilio come colui che lo riporta alla retta via che per il cristiano è Dio stesso. Dante indica Virgilio come il suo vero maestro morale, ma Brunetto non sembra comprendere le sue parole e invita Dante a seguire la sua stella che lo condurrà a glorioso porto, ovvero alla gloria letteraria e politica cui è destinato come lo stesso Brunetto si era accorto quando era in vita. Il dannato è quindi prigioniero di una dimensione unicamente terrena e materiale,infatti non può parlare o pensare di quel che riguarda Dio. Durante il colloquio tra Dante e Brunetto viene presentata una tremenda invettiva contro la città di Firenze, i cui abitanti vengono definiti con l'epiteto di "ingrato popolo maligno": Brunetto diventa qui l'alter-ego di Dante ed esprime attraverso il suo maestro il risentimento verso i fiorentini che lo hanno esiliato ingiustamente. fiorentini sono definiti rozzi e malvagi, discendenti da quell'antico popolo di pastori (Fiesolani) che secondo Brunetto Latini avrebbe fondato Firenze:il popolo di Firenze è diventato nemico di Dante proprio a causa dell'imparzialità del poeta nel goverare la città, ma quel senso di giustizia ha fatto sì che Dante si alienasse le simpatie sia dei guelfi neri (già di per sè nemici) sia dei guelfi bianchi, partito a cui Dante apparteneva. Non dimentichiamo che Dante aveva esiliato, nel periodo in cui era priore di Firenze, i capi più agguerriti delle opposte fazioni, allo scopo di pacificare il comune:ciò però gli attirò l'odio di molti fiorentini, al punto che il poeta affermò che "Tutti li mali e li inconvenienti miei dagli infausti comizi del mio priorato ebbero cagione e principio". E' necessario che Dante stia lontano da Firenze per non corrompersi ("dai lor costumi fa che tu ti forbi") e piuttosto deve lasciare che i fiorentini, divisi da tanto odio, si uccidano da soli e da loro stessi ricevano il giusto castigo. Brunetto Latini preannuncia quindi a Dante l'esilio quando afferma che la fortuna del poeta sarà tale da tenerlo lontano dagli intrighi politici di Firenze (versi 70-72), si tratta quindi di una profezia post-eventum, come se ne trovano parecchie in tutto l'Inferno. E' opportuno a questo proposito supporre come il maestro di Dante conoscesse bene le divisioni interne di Firenze e il prevalere dell'egoismo politico a discapito del bene comune; infatti egli più volte intervenne come Dante per cercare di pacificare le opposte fazioni. Dante è paragonato a un dolce fico che è nato tra i lazzi sorbi (frutti dal sapore agro), cioè tra gente piena di invidia, superbia e avarizia incapace di apprezzare chi come lui si dedica con passione e lealtà all'attività politica. Ma i Fiorentini, secondo Brunetto, non riusciranno a prevalere sul poeta: con una serie di forti metafore animalesche (becco, bestie fiesolane, strame, letame) augura loro di divorarsi l'un l'altro e di non toccare i discendenti del puro sangue romano, la sementa santa che fu gettata al momento della fondazione della città. Dante ribatte che la Fortuna può indirizzare contro di lui i suoi colpi e far girare la sua ruota, proprio come il contadino agita la sua marra, la zappa con cui può trovare un tesoro immeritato (il riferimento è probabilmente una leggenda popolare secondo cui un umile contadino toscano aveva casualmente trovato sottoterra dell'argento: implicitamente i Fiorentini sono paragonati a questo rozzo bifolco, come già prima si è detto che provengono dal monte e dal macigno). L’urgenza del distacco tra brunetto e Dante porta alle labbra del maestro quello che più gli preme: egli raccomanda il Tesoro, la sua opera maggiore, nella quale credeva poter vivere ancora; è infatti la fama che dà all’uomo come una seconda vita. Con queste parole Bruentto è così concluso nella sua realtà storica e nella realtà poetica del suo rapporto con Dante. L'episodio si chiude con il commiato da Brunetto, la cui ultima immagine è quella del corridore che vince il palio di Verona. Dante qui vuole indicare la velocità della corsa, ma forse vuole anche ricordare Brunetto come un vincitore e non come un perdente, pur in quella suprema miseria. Il suo sguardo sembra seguire il suo vecchio maestro che scompare correndo ignudo e affannato per il sabbione, perdendo ogni dignità: a questa reale perdita si sovrappone forse in quest’ultimo verso la vittoria che nell’animo di Dante resta a Brunetto. La bellezza di questo canto sta proprio nel drammatico rapporto tra la dignità e la grandezza umana di Brunetto e la sua rovina eterna. -Canto XVI dell’Inferno Questo canto appare quasi come un’appendice, un prolungamento del canto precedente del quale ripete la struttura e i motivi. Si avvicinano dunque tre fiorentini, tre nobili personaggi del buon tempo antico, che riconoscono Dante dall’abito come Farinata dalla voce. La dannazione di due di loro, Tegghiaio e Iacopo Rusticucci, era già stata preannunciata da Ciacco nel Canto VI, mentre qui si aggiunge Guido Guerra: i tre sono un esempio di uomini dignitosi e onorevoli in vita, ch'a ben far puoser li 'ngegni, ma la cui condotta peccaminosa condanna alla dannazione come già Farinata e Cavalcante. Viene così subito dichiarato il contrasto tra la loro misera condizione attuale e la fama onorata che ebbero in vita: è ben chiaro ormai che quel ben fare, da loro perseguito in vita, appartiene ad un mondo di valori che non basta, ma è anche chiaro che ciò provoca dolore e non disprezzo nell’animo di Dante ‘non dispetto ma doglia\ la vostra condizion dentro mi fisse.. Ed ecco che tra gli interlocutivi nasce all’improvviso una comunicazione totale nel parlare di cià che preme egualmente all’uno e agli altri: la sorte di Firenze, la sua presente condizione. Essi chiedono ansiosi notizie della città, se là dimora ancora, come al loro tempo, cortesia e valor, i nobili e cavallereschi costumi che caratterizzano nell’ideale dantesco la prima comunità cittadina. Ma la risposta gridata da Dante dai tre già temuta toglie ogni illusione ’la gente nuova e i subiti guadagni\ orgoglio e dismisura han generata.. Ciò che disse già Brunetto è qui riconosciuto nella sua prima origine: Dante denuncia qui le cause che secondo lui stanno all’origine delle discordie fiorentine ovvero l’entrata in città della nuova classe commerciale rivale della nobiltà, venuta dal contado, la nuova e improvvisa ricchezza portata dalla mercatura e dall’usura, che ha dato arroganza all’uni e invidia agli altri, alla vecchia nobiltà cittadina e agraria. L’analisi di Dante non è tanto politica quanto etica: ciò che a lui preme non è lo sviluppo del potere ma la sorte interiore dell’uomo, quel disporsi dell’animo che rende possibile una convivenza armoniosa e pacifica; e la sua nuova analisi di come sorgessero nei cuori, per le nuove ricchezze, quegli odi e rancori profondi che portavano alla violenza e al sangue, eventi che egli aveva visto coi suoi occhi e sofferto nella sua persona, difficilmente potrà essere contraddetta. In questa scena infernale, nell’oscurità del sabbione, prendono forte risalto da una parte il dolore e l’amarezza per l’amata città, e dall’altra la stretta comunanza di sentimenti che unisce il vivo e i tre abitanti della landa di fuoco. I dannati ben riconoscono la giustizia e l’ingiustizia e si affliggono di quest’ultima: così si spiega l’atteggiamento riverente di Dante verso di loro in più casi, come in questo girone e la sua profonda pietà: ‘amor men duol, purch’i’ me ne rimembri’. Ma al di là di quella giustizia, qualcos’altro ci vuole perché l’uomo possa raggiungere Dio. L’incontro si chiude con la richiesta di fama nel mondo e con un rapido allontanarsi dei tre interlocutori ma non con la loro sparizione si chiude il canto che ha un nuovo e diverso episodio finale: L’ultima sequenza prepara infatti l’argomento del canto successivo. Qui pur rimanendo nel sabbione se ne giunge al margine dove appare il pauroso buratto che lo divide dall’altro cerchio misurato dal rimbombo delle cascate del Flegetone che giù vi precipita d’un balzo. Qui il rimbombo di Flegetone chiude come in una cornice l’incontro con i tre sodomiti e insieme apre una nuova scena distanziandola almeno di cinque terzine dalla precedente. La lunga similitudine con la cascata dell’acquacheta assolve questa funzione creando un pauroso e solenne scenario alla comparsa di una nuova figura che solo nel prossimo canto prenderà forma e nome e che simboleggia la frode. La seconda parte del Canto introduce la figura di Gerione, il mostro che custodisce le Malebolge e sulla cui groppa dovrà portare i due poeti al fondo dell'alto burrato che divide il VII dall'VIII Cerchio, cosa che avverrà nel Canto seguente. Il mostro è evocato da Virgilio con uno strano rituale, che vede Dante sciogliere una corda che gli cinge i fianchi (e che lui stesso dice che aveva pensato di usare per catturare la lonza a la pelle dipinta), porgerla al maestro che la getta, annodata e aggrovigliata, nel precipizio. Si tratta ovviamente di un gesto convenuto con cui Virgilio chiama Gerione, anche se ogni tentativo di interpretarne il senso è andato fallito: il fatto che la corda potesse servire a catturare la lonza significa forse che serviva a dominare la lussuria, o forse la frode visto che essa è rappresentata da Gerione. Si è anche ipotizzato che Dante fosse un terziario francescano e portasse la corda ai fianchi per questo, ma è un'illazione azzardata e priva di riscontri oggettivi. Quel che è certo è che il mostro risponde al richiamo di Virgilio e ben presto Dante ne intravede la figura che avanza nel buio, simile a un marinaio che nuota per tornare a galla dopo un'immersione; il Canto si chiude quando ancora il personaggio non è stato presentato, creando una tensione narrativa e un'attesa che verranno sciolte nell'episodio seguente, che come vedremo fa da cerniera tra la prima e la seconda parte della Cantica introducendoci agli ultimi due Cerchi dell'Inferno. Si tratta di Giasone, il condottiero degli Argonauti che per il suo coraggio e la sua astuzia privò gli abitanti della Colchide del montone del vello d’oro. Durante la navigazione sulla bella nave Argo il gran seduttore ingannò Isifile, la filgia del re di Lemno, e non sono solo ma anche Medea, figlia del re dei Colchi che pur aiutò Giasone nella conquista del vello d’oro fu da lui sedotta e abbandonata ma ella poi si vendicò uccidendo i due figlioletti avuti da Giasone sotto gli occhi del padre. Dunque l’eroica impresa per cui era celebrato dalla poesia antica gli resta intorno come un’aureola, ma ciò comunque aggrava irrimediabilmente la sua condizione senza alleggerirla. Come altri nell’Inferno Giasone che le alte imprese umane non servono a salvare l’anima cioè a riscattare le colpe morali. I due poeti sono giunti al punto in cui il ponte tocca i margini della seconda bolgia in cui sentono la massa dei dannati che geme e ansima e per il dolore e la paura si percuotono con le loro mani: sono gli ADULATORI tuffati nello sterco chiara manifestazione dello spregio in cui Dante riserva questa specie di colpa. Tra di essi ce ne era uno talmente sporco che non si capisce se sia un laico o un prete, ma nonostante ciò Dante lo riconosce. Egli è ALESSIO INTERMINELLI, di nobile famiglia lucchese di parte bianca, ma sazio di lusinghe, e poi emerge l’immagine di una donna sozza: è TAIDE, è una prostituta, personaggio della Commedia latina inesauribile seduttrice e adulatrice. Ormai Virgilio e Dante sazi di ciò che avevano visto abbandonano la bolgia. -Canto XIX dell’Inferno Questo canto si distanzia da tutti gli altri dedicati alle bolge per la bassezza, la viltà dei peccati, e il linguaggio comico che figurano quel misero e spregevole affollarsi di essere umani degradati da pene umilianti e meschine che è la generale caratteristica del cerchio ottavo dove viene punito il peccato della Simonia, o commercio delle cose dello spirito che corrompe la Chiesa di Dio e con essa il mondo. ‘O simon mago, o miseri seguaci’ l’apostrofe improvvisa e solenne apre il canto annunciando il peccato punito in questo cerchio: Simone, mago di Samaria è un personaggio degli Atti degli Apostoli che chiese a Pietro di vendergli per denaro la facoltà di trasmettere lo spirito santo con l’imposizione delle mani, come facevano gli apostoli. Dunque qui sono condannati tutti i simoniaci, seguaci di Simone che si appropriano ‘illegalmente ‘ dei beni di Dio che dovrebbero essere concessi solo a chi è buono. Questi peccatori sono confitti a testa in giù nei fori della pietra, con le gambe fuori e sulle piante dei piedi arde una lingua di fuoco; tale pena presenta una certa somiglianza con il paesaggio del girone degli eretici infatti anche là erano presenti tombe di pietra, anche là fuoco, e peccatori sepolti dentro e invisibili proprio perché la simonia è in qualche modo una vera e propria eresia. Il significato del contrappasso risulta chiaro: questi uomini, che ebbero l’animo rivolto sempre alle cose terrene e non al cielo sono condannati ad essere capovolti con la testa verso la terra, mentre il fuoco sulle piante dei piedi è poi evidente e amaro contrappasso al fuoco dello Spirito che si posò sulla testa degli apostoli nel cenacolo il giorno della Pentecoste come simbolo dell’ardore dell’amore divino contrapposto all’ardore dei desideri terreni. È da notare che in tutti e tre i luoghi del poema dove è punita l’avarizia o la cupidigia la pena è sempre connessa alle pietre: gli avari dell’inferno spingono pesanti massi, quelli del purgatorio sono schiacciati contro il terreno pietroso, i simoniaci vi sono addirittura immersi. La pietra è infatti il luogo di dove si trae l’oro, dal ventre stesso della terra. Appare qui il primo dei simoniaci, papa Niccolò terzo Orsini che si agita più degli altri tant’è che Dante lo nota tra tutti poiché egli è destinato ad un maggior tormento che corrisponde alla sua maggiore dignità sulla terra. Dante per poter udire le parole del papa Niccolò era chino a terra, vicino al foro dove l’altro era immerso, nella posizione del frate che ascolta la confessione dell’assassino condannato alla propagginazione. Questo supplizio che consisteva nell’infilare il condannato a testa in giù in una buca, riempita di terra fino a farlo morire soffocato era destinata in Firenze ai sicari che commettevano omicidio per denaro. Il terribile paragone capovolge i ruoli:Dante laico sta nella parte del confessore mentre il dannato che è un papa sta in quella del criminale. Dante immagina che dentro ogni foro, come già nelle tombe degli eretici siano racchiusi peccatori dello stesso genere, in questo caso dei papi. L’ultimo arrivato sta confitto con le gambe fuori finché non giunge il successivo mentre tutti gli altri stanno appiattiti sotto di lui per le fessure della pietra. A sentire la voce di Dante il dannato lo scambia per colui che deve arrivare a prendere il suo posto, cioè papa Bonifacio VIII, e che si stupisce che egli arrivi prima del previsto(cioè tre anni prima, in quanto egli morì nel 1303). Così si eleva la forza drammatica dell’invenzione che nella sorpresa anticipa la sorte eterna del papa ancor vivo e ne proietta la figura sullo sfondo della bolgia infernale. Bonifacio VIII è il papa contro il quale si scontrò la vita di Dante, il papa del suo prioritario e del suo esilio. Dante si oppose fieramente alla sua politica di ingerenza in Firenze per cui i Neri furono appoggiati e I Bianchi banditi, ma oltre al fatto personale Dante avversò in Bonifacio VIII la terribile piaga della brama del potere che egli vedeva quasi in lui impersonata; il successore di Celestino V da lui costretto all’abdicazione autore della bolla ‘unam sanctam’ che afferma il diritto del papa sul governo temporale, diritto contestato da Dante in sede teorica diventa come il simbolo dell’avidità e della corruzione della Chiesa che tutta la Commedia denuncia. Il primo dialogo è quello tra Dante e papa Niccolò, appartenente alla famiglia degli Orsini, uomo di forte personalità, dedicò il suo breve ma intenso pontificato a potenziare l’indipendenza della chiesa sia dall’impero che dagli angioini. La simonia e il nepotismo per cui Dante lo ha sempre infamato furono in realtà parte essenziale della sua politica. La presentazione che in seguito Niccolò fa di se stesso è condotta attraverso toni parodistici e comici, in quanto il dannato afferma di aver vestito in vita il gran manto (detto con forte ironia, vista la sua opera come pontefice) e si dice figliuol de l'orsa, ovvero appartenente alla famiglia degli Orsini, intento ad avanzar li orsatti (a favorire nipoti e parenti con i suoi atti di corruzione: nei bestiari medievali l'orsa era descritta come animale avido e ingordo, particolarmente attaccata alla prole). Afferma inoltre che se in vita aveva messo il denaro in borsa, nella vita ultraterrena ha messo se stesso nel sacco, ovvero si è guadagnato la dannazione (bolgia è sinonimo di «borsa» in volgare fiorentino, quindi il papa usa un ricercato gioco di parole). Niccolò conclude predicendo la dannazione anche di Clemente V, morto nel 1314, il guasco che favorirà le mire di Filippo il Bello trasferendo la sede papale ad Avignone e appoggiando tutte le sue decisioni: Niccolò lo paragona a Giasone, fratello del sommo sacerdote Onia III che comprò dal re Antioco IV la carica sacerdotale con la promessa di dargli 440 talenti d'argento. (La profezia di Niccolò dice infatti che Bonifacio lo seguirà nella buca restando lì fino alla morte di Clemente V, ovvero meno tempo di quanto Niccolò sarà rimasto sottosopra: Niccolò era morto nel 1280, quindi resterà nella buca sino al 1303, anno della morte di Bonifacio (23 anni), mentre Bonifacio vi resterà fino al 1314, anno della morte di Clemente V (11 anni). Il canto si chiude con il violente e appassionato attacco alla corruzione del papato: il tono di autorevolezza con cui il misero esule Dante lo pronuncia, apostrofando il pontefice pur rispettato nel suo ruolo, è sorprendete. ‘ quanto denaro richiese Cristo a Pietro prima di consegnargli le chiavi della chiesa, cioè l’autorità papale?’ ‘Certo non chiese se non viemmi retro’ null’altro egli chiese se non la fedeltà e la sequela, solo i beni dello spirito e non quelli del mondo sono dunque propri della chiesta di Cristo: il richiamo alla scena evangelica e alle parole stesse di Gesù è di grande potenza drammatica e di forte valore sul piano dottrinale. Dante risponde con puro sarcasmo al tono usato dal papa dicendogli di tenere ben stretto ora il suo denaro, come se esso gli fosse davvero servito. Dante denuncia l’avarizia di tutti i papi e altri prelati che hanno abbassato a terra,quasi sotto i piedi i buoni cioè i meritevoli sul piano spirituale e innalzato agli alti uffici i malvagi, cioè coloro che pagano. Particolarmente efficace è l'immagine della mostruosa bestia in cui si è trasformata la Chiesa a causa della corruzione, prendendo spunto da un passo dell'Apocalisse in cui il mostro è in realtà l'Impero romano. Dante vede infatti nella chiesa corrotta la meretrix magna che siede sulle acqua e puttaneggia con i re della terra. Le sette teste trattandosi della roma pagana erano i 7 colli e le dieci corna figuravano i 10 re intendendo qui che le 7 teste sono i 7 doni dello spirito santo dal quale nacque e le dieci corna i 10 comandamenti dai quali ebbe norma, mezzo di governo. Dunque finchè il papa amò la virtù la chiesa prese norma dai 10 comandamenti, ora essi furono adoratori delle monete che accumulavano. Dante conclude la grande accusa con una dolorosa esclamazione, in cui denuncia la prima origine di tutti i mali provocati dal potere temporale: la così detta donazione di Costantino. Si narrava infatti che l’imperatore convertito al cristianesimo perché guarito dalla lebbra da papa silvestro gli avesse donato la città di Roma , costituendo così il primo nucleo del potere temporale della Chiesa, fino allora povera e pubblicamente priva di potere. Dante ritiene illegittimo sia l’atto del donatore a cui non spettava il diritto di alienare parte dell’impero ricevuto da Dio, sia l’atto del ricevente, la Chiesa, in quanto espressamente tenuta a non possedere beni terreni dalle parole di Cristo stesso. Da ricordare infine che Clemente V sarà citato da Beatrice in Par., XXX, 142-148 come il papa che ingannerà con la sua ambigua condotta l'imperatore Arrigo VII e sarà destinato a ricacciare Bonifacio VIII in fondo alla buca di questa Bolgia. -Canto XX dell’Inferno La scena di questo canto appare avvolta nel silenzio: lenta e muta passa davanti agli occhi di Dante, quasi una mesta processione, la fila degli indovini che si sono macchiati di un grave peccato di presunzione intellettuale con la loro folle pretesa di prevedere il futuro, cosa che è consentita solo a Dio e a nessuna creatura mortale. La loro pena è particolarmente crudele e dal chiaro contrappasso, dal momento che hanno la testa rivoltata all'indietro e sono costretti a camminare a ritroso per aver voluto vedere troppo avanti. Alla vista di quelle anime Dante piange, con totale abbandono, come mai altrove nell’Inferno non tanto per la sofferenza dei peccatori ma per la distorta immagine dell’uomo, quell’immagine di suprema dignità dove abita lo spirito divino. Questa pena fisica è in qualche modo simbolica di tutta la condizione infernale, che umilia l’uomo togliendosi la sua dignità suprema: il rapporto di amore con Dio. Interviene poi la voce di Virgilio che scuote e rimprovera Dante della sua pietà presentandogli con dura condanna i peccatori di questa bolgia nella quale è giusto non aver pietà;chi infatti è più empio di colui che crede di poter forzare con le sua arti il giudizio divino? C’è tuttavia un certo fascino, come un’aura di grandezza che circonda nei versi danteschi quegli antichi indovini e discorda fortemente con la loro attuale misera condizione. Ma non si tratta di un fascino a cui Dante finisce per soggiacere: tutti i personaggi che Dante incontra mantengono ciò che ebbero in terra, ad essi resta quanto umanamente li distinse e dette loro dignità e la tragedia infernale sta proprio in questo doloroso contrasto tra quella dignità e il miserrimo stato in cui sono ridotti. Questi indovini che ci passano davanti ci appaiono tanto miseri proprio perché furono la diffidenza di Dante che tenta inutilmente di metterlo in guardia per paura dei Malebranche. Si è molto discusso sul valore allegorico di questa ingenuità di Virgilio, che gli sarà rimproverata non senza ironia da un dannato della Bolgia seguente, ma probabilmente essa rientra nel gioco delle beffe che domina largamente l'episodio e in cui entreranno anche i dannati nel Canto successivo. Quanto ai dieci diavoli cui Malacoda affida il compito di guidare i due poeti, è inutile cercare riferimenti a personaggi del tempo di Dante, se non addirittura ai Guelfi Neri di Firenze come pure alcuni hanno fatto. I loro nomi fantasiosi sono semplici storpiature di parole correnti, o alludono a certe loro caratteristiche animalesche, o echeggiano nomi propri di famiglie contemporanee: Firenze è certo sullo sfondo per via dell'accusa di baratteria che i concittadini di Dante gli avevano rivolto condannandolo all'esilio, ma nessun riferimento esplicito è fatto dal poeta contro gli abitanti della sua città visto che tra i barattieri della Bolgia vi sono lucchesi, un navarrese, due sardi e nessun fiorentino. Sembra anzi che il poeta voglia prendere le distanze dalla baratteria con l'arma dell'ironia, degradando questi peccatori al rango di piccoli imbroglioni di mezza tacca che in vita hanno arraffato denari e ora, all'Inferno, sono invischiati nella pegola spessa della pece: abbastanza chiaro è il senso del contrappasso, ma nel seguito dell'episodio si vedrà come tutti alla fine siano beffati, compresi i diavoli che addirittura daranno luogo a una zuffa e si lasceranno sfuggire i due poeti, pronti ad approfittare della loro disattenzione. È come se Dante rinunciasse a esprimere sdegno verso il peccato punito in questo luogo infernale per usare la cifra del sarcasmo e dell'ironia, per assumere il maggior distacco possibile dalle sue personali vicende autobiografiche: lo spettacolo del peccato punito si colora di tinte comiche e grottesche, come avverrà anche per i falsari della X Bolgia, senza che per questo la condanna dell'avarizia e della corruzione politica perda di vigore ed efficacia. L’inferno è vinto da se stesso, e i due poeti se ne andranno indenni non per merito di Virgilio ma per la loro stessa goffaggine e stoltezza a loro volta beffati dall’uomo. -Canto XXII dell’Inferno Il Canto è il seguito ideale della «commedia degli inganni» iniziata in quello precedente, che si arricchisce in questo secondo episodio di un nuovo protagonista, il barattiere Ciampaolo di Navarra. Egli divenne cortigiano del re di Navarra, acquistandosi la sua fiducia tanto da poter dispensare favori e cariche che egli barattava per denaro ed era considerato uno dei peggiori barattieri tanto da condannarlo all’Inferno. La scena si svolge tutta sull’argine da dove si domina il fossato di pece e se ne intravedono gli abitanti, presentati con similitudini di animali sempre variate. L’unico peccatore che emerge che viene pescato dai diavoli e la cui vicenda è il principale argomento del canto, non ha rilevante realtà anagrafica; questo Navarrese del tutto ignoto ha una funzione particolare: ciò che conta qui non è la sua storia in terra ma l’azione presente che con quella storia non ha niente a che vedere. Ciò che veramente importa è il rapporto di questo dannato con i diavoli, la sua paura, la sua malizia che batterà i rozzi avversari, il coro digrignante che lo circonda: egli appare quasi uno sdoppiamento di Dante stesso, è infatti Dante il vero barattiere che i diavoli vorrebbero. I versi iniziali sono un commento allo sconcio segnale con cui Barbariccia ha dato inizio alla marcia, che viene definito diversa cennamella (era uno strumento a canna, usato per i segnali militari) ed è ironicamente paragonato alle ben diverse segnalazioni che si usano in campo bellico. La terminologia militare è un preciso riferimento alle battaglie cui Dante aveva preso parte (già in XXI, 94-96 c'era un accenno all'assedio di Caprona) e indica che l'esercito dei Malebranche è sgangherato e grottesco, cosa che sarà dimostrata dal modo ridicolo con cui si lasceranno beffare. L'esordio è anche una parentesi stilisticamente elevata, che apre un Canto dominato invece da un linguaggio crudo, dai suoni aspri e dall'atmosfera violentemente comico-realistica. Il dato più interessante è offerto dalle metafore animalesche, che ricorrono assai di frequente nei versi successivi: i barattieri che si celano sotto la pece sono paragonati prima a delfini, poi a rane che sporgono il muso dall'acqua; Ciampòlo, afferrato da un diavolo, viene tirato in secca come una lontra; Rubicante è esortato a scuoiarlo con gli «unghioni», come una belva affamata; Ciriatto è descritto come un cinghiale (porco) cui esce di bocca una zanna per lato; Ciampòlo è paragonato a un topo venuto a trovarsi tra male gatte; Barbariccia si rivolge a Fafarello chiamandolo malvagio uccello; Alichino che non riesce ad afferrare il dannato è paragonato a un falcone che non riesce a ghermire un'anatra sul pelo dell'acqua e poi a uno sparvier grifagno (pronto per la caccia) quando si azzuffa con Calcabrina; i due, invischiati nella pece, sono detti impaniati, vocabolo venatorio. I termini animaleschi non sono rari nella rappresentazione dell'Inferno, ma qui conferiscono un tono grottesco e degradato a tutto lo spettacolo, sottolineando da un lato la misera condizione dei dannati alla mercé dello strazio dei demoni, dall'altro la tetra bestialità dei Malebranche che si credono astuti ma saranno incredibilmente beffati dal barattiere. E in effetti tutta la scena è paragonabile a una farsa, in cui prevalgono i toni burleschi e un feroce sarcasmo che colpisce i vari protagonisti (Dante stesso parla di ludo, ovvero rappresentazione teatrale): Ciriatto azzanna il dannato facendogli sentire come una sola zanna sdruscia, squarciandone le carni; Barbariccia è definito pomposamente decurio e gran proposto, facendo ironia sul fatto che il diavolo è lo scalcinato caporione di una malandata squadraccia; Ciampòlo dice che Farfarello è pronto a grattargli la tigna, espressione volgare che significa «picchiare»; i due diavoli che finiscono nella pece sono subito separati dal caldo, mentre poi si dirà che sono cotti dentro da la crosta, proprio come i dannati che Virgilio aveva definito nel Canto precedente lessi dolenti. Metafore culinarie si intrecciano con termini rari o popolari, dai suoni aspri e gutturali, come accapriccia, arruncigliò, sdruscia, in cesso, rintoppo, buffa: qualcosa di simile avverrà anche nel Canto XXX durante la descrizione dei falsari e delle loro orribili malattie, nonché della rissa tra Sinone e Mastro Adamo che Dante si attarderà a osservare venendo poi aspramente ripreso da Virgilio. Qui la zuffa tra i demoni è l'occasione propizia di cui i due poeti approfittano per allontanarsi, il che dimostra una volta di più la goffa stupidità dei Malebranche che (similmente ad altre figure diaboliche dell'Inferno dantesco) non hanno nulla di veramente spaventoso, ma sono ridotti a una dimensione burlesca e parodica tipica della letteratura medievale e lontanissima dalla rappresentazione fascinosa e sinistra che del demonio offrirà in seguito tanta letteratura moderna, sino ai giorni nostri. In questo scorcio del canto sembrano dichiararsi sia il significato politico denunciato da molti commentatori, per cui la bolgia appare figura delle città comunali divise in se stesse, la denuncia morale che fa la malizia umana anche maggiore di quella del diavolo. -Canto XXIII Dell’Inferno Il canto dedicato alla sesta bolgia, dove è punita l’ipocrisia ha come figurazione centrale un movimento lento, silenzioso e pesante, in contrasto con il drammatico movimento della coppia di canti che lo precede e di quella che lo segue, dedicata ai ladri. L’inizio stesso dà il tono a tutta la figurazione presentando Dante e Virgilio che vanno sul’argine’ taciti soli sanza compagnia..’ come sogliono andare i frati minori; la scena iniziale è come un prolungarsi della vicenda svoltasi nella quinta bolgia: lasciati i diavoli nel loro impaccio Dante e Virgilio improvvisamente si rendono conto che presto saranno inseguiti e con più accanimento di prima per cui si precipitano velocemente calandosi in fretta per il pendio fino al fondo della bolgia seguente. Già il solo immaginare il pericolo produce l’effetto fisico proprio del terrore, quell’immagine è infatti così potente da agire sui sensi come realtà e Virgilio percependo la paura, le sensazioni, i pensieri di Dante che si riflettono come un volto in uno specchio, si mostra nell’atteggiamento di saggezza di chi sa cosa deve fare. Virgilio, sopraggiunto il pericolo, agisce con immediata prontezza afferrando Dante fra le braccia come la madre porta in salvo fra le braccia il figlio per sfuggire al balenare di un incendio: il rapporto madre-figlio è quello che Dante sempre stabilisce fra sé e Virgilio nei momenti di rischio e di paura. Lasciato alle spalle il lungo rapporto con i diavoli comincia la descrizione della nuova pena e dei nuovi peccatori; tutto il loro aspetto è lento grave e stanco come di chi porta un insopportabile peso che essi in realtà portano veramente. Essi si presentano come una sorta di processione di monaci con gli occhi abbassati e rivestiti con un manto con cappucci propri dei monaci cluniacensi. Questi manti sono dorati tanto da abbagliare gli altri che dalla loro apparenza virtuosa sono ingannati e illusi, tratto tipico dell’iprocrisia. Questi manti sono pesanti perché fatti di piombo tanto che in paragone a quelle che Federico II faceva indossare sarebbero parse come paglia.( si allude qui alla pena stabilita da Federico II per gli accusati di lesa maestà che consisteva nel far indossare ai condannati una tunica di piombo e poi metterli in una caldaia di fuoco finché il piombo si struggeva su di loro uccidendoli. L’abito offre ciò che è proprio dell’ipocrisia: nascondere la malvagità del cuore sotto apparenza di bontà molto presente nella casta sacerdotale infatti è del resto quella che per questa colpa è condannata violentemente nel vangelo. Dunque chiaro è il contrappasso, dal momento che una pseudo-etimologia della parola «ipocrita» attestata nel Due-Trecento la faceva derivare da ypo e crisis, cioè «colui che sotto un'apparenza dorata cela tutt'altro». Da questa processione si elevano due voci che riconoscono la parola tosca di Dante: si tratta di due frati godenti ( i cavalieri Gaudenti erano un ordine religioso che comprendeva coniugati e conventuali e che aveva tra i suoi scopi la tutela della pace nella società civile), essi erano Catalano dei Malavolti, bolognese guelfo, e Lodoringo degli Andalò, nobile famiglia ghibellina bolognese, furono chiamati da Bologna a Firenze per mettere pace tra Guelfi e Ghibellini dopo il 1266, ma finirono per diventare strumento della politica del papa e decretarono esili e confische a danno dei Ghibellini sconfitti. Particolare è la descrizione di questi dannati, che camminano in effetti insieme come tanti monaci in un convento, parlano tra loro a bassa voce e guardano bieco, in modo obliquo da sotto il cappuccio di piombo proprio come in vita non guardarono negli occhi le vittime della loro ipocrisia. Ad un certo punto appare qualcosa che interrompe Dante: dannati crocifissi e inchiodati a terra con tre pali, attraverso la strada e su di loro passa in eterno la processione degli ammantati, tanto da far sembrare che su quei due peccatori venga a gravare tutto il peso dell’ipocrisia del mondo, nel suo faticoso procedere. Si tratta dei giudici di Cristo ovvero il sacerdote Caifa che consigliò di far morire Gesù per il bene pubblico piuttosto che rischiare sommosse e sanguinose repressioni, ciò fu un atto di suprema ipocrisia. Con Caifa Dante pone Anna, suo suocero e tutti i partecipanti al Sinedrio che condannò Gesù a morte in quella notte. E proprio perché l’ipocrisia causò la morte di Cristo che è posta nella bolgia centrale, sulla quale, tutti i ponti sono franati per il terremoto prodotto da quella morte. L’ipocrita è più grave della simonia e della baratteria per la sua essenza fraudolenta ed è per questo che l’ipocrita assomiglia più di ogni altro peccatore all’immagine di froda di Gerione che custodisce il cerchio. L'ultima parte del Canto si ricollega all'episodio dei Malebranche, con Catalano che (non senza una certa maligna ironia) prima spiega a Virgilio che tutti i ponti che sovrastano la Bolgia sono crollati, poi osserva che il diavolo è ricettacolo di ogni vizio ed è padre di menzogna, come lui ha sentito dire nella sua città, Bologna. Ironica è l'indicazione della «dotta» Bologna come sede dell'Università e di famose scuole teologiche, a voler sottolineare l'ingenuità di Virgilio che si è fatto beffare dai demoni; la reazione del anche l’inizio del nuovo canto dove manifesterà tutta la sua superbia in un gesto blasfemo con le mani alzate contro Dio e con parole quali nessun altro osa pronunciare nell’inferno. A questo gesto di sfida interviene l’amplesso mortale delle serpi che gli avvolsero collo e braccia punendo così il sacrilegio. Si rivela qui la colpa più grave di Vanni Fucci, quella che veramente lo caratterizza: egli non fu solo uomo di sangue e di crucci, non solo ladro sacrilegio, ma soprattutto spirito avvelenato di superbia, quella colpa che più di ogni altra degrada l’uomo al di sotto della sua natura. Neppure Capaneo, l’altro grande superbo da Dante incontrato e denunciato supera l’empietà di Vanni Fucci. Compare poi il personaggio di Caco che sembra inseguire Vanni per punirlo ulteriormente e dunque pare che abbia quindi una funzione di sorveglianza nella bolgia, come le altre figure mitologiche apparse nelle bolge. In realtà Caco è separato dagli altri centauri e posto in questa bolgia per la sua specifica attività di ladro: egli è il mostruoso figlio di Vulcano, spirante dalla bocca di un drago che si trova sulle sue spalle le fiamme paterne e circondato da una gran massa di bisce, personaggio del mito di Ercole. Un giorno rubò con l’astuzia all’eroe quattro tori e quattro giovenche dell’armento di Gerione che egli aveva condotto con sé dalla Spagna dopo aver vinto quel re. Ma Ercole, scopertolo, lo uccise soffocandolo con la stretta delle sue braccia. Caco simboleggia la fraudolenza propria della bolgia dei ladri come i centauri del cerchio VII simboleggiavano la violenza contro il prossimo. Come loro egli è insieme qui punito e punitore quale strumento della divina giustizia. Allontanandosi Caco, il canto cambia registro, d’ora in poi Dante e Virgilio resteranno muti e si svolgeranno sotto i loro occhi attoniti le scene allucinanti di due metamorfosi che coinvolgono alcuni ladri fiorentini. Nella prima metamorfosi un serpente si avvinghia contro il dannato Agnello dei Brunelleschi e le loro membra si fondono le une con le altre, formando così un essere ibrido, mostruoso con membra che non furono mai viste prima. Le parole del narratore pur precise e distaccate nel descrivere l’evento, sottolineano tuttavia più volte la perdita dell’aspetto umano: l’immagine è detta’perversa’ pervertita stravolta come quando si dà fuoco a una carta bianca avanza verso l’alto un color marroncino, che non è ancora nero, ma neppur bianco come prima. Dunque essi appaiono perduti in uno stesso volto, perduti perché hanno perso la propria individualità, ma insieme perché per sempre dannati. Successivamente si svolge la seconda metamorfosi diversa e ancora più straordinaria e Dante lo annuncia dichiarando che un tale prodigio non è mai stato narrato da Ovidio: un altro dannato, il Guercio e il serpente si scambiano la natura, prendendo ognuno l’aspetto dell’altro. Il fumo che vela la scena e lo sguardo ipnotico che i due si scambiano, danno carattere magico a tutto il processo, descritto parte per parte membro a membro con implacabile anatomia. Il passo è un pezzo di bravura, in cui Dante non solo si ispira ad analoghi brani di Lucano e Ovidio, ma addirittura gareggia coi modelli latini e afferma orgogliosamente di volerli superare, data la novità del tema mai trattato prima d'ora. Lucano e Ovidio erano del resto già citati nel Canto precedente, con l'accenno ai serpenti del deserto di Libia attraversato dai soldati di Catone e la descrizione della fenice per rappresentare la mutazione di Vanni Fucci, ora i due poeti sono chiamati in causa direttamente al momento della descrizione della doppia trasformazione, in quanto i due avevano descritto delle singole trasformazioni (Lucano quella dei soldati Sabello e Nasidio morsi dai serpenti del deserto di Libia, Ovidio quelle di Cadmo e Aretusa tramutati rispettivamente in serpente e in fonte) ma mai una duplice parallela metamorfosi di due esseri come Dante farà nei versi seguenti. C'è nel poeta moderno l'orgogliosa consapevolezza della propria superiorità stilistica, ma anche la coscienza dell'assoluta novità della materia trattata, dal momento che questo è il poema sacro che descrive lo stato delle anime dopo la morte e al quale hanno posto mano e cielo e terra, cioè l'ispirazione divina e Dante stesso con la sua maestria poetica. L'autore premette alla descrizione le scuse al lettore se scriverà qualcosa di incredibile e alla fine si scuserà ancora se la sua penna ha trattato in modo impreciso e poco chiaro qualcosa di assolutamente mai visto. Egli può descrivere cose più straordinarie perché gli è stato dato di vederle in quell’inferno dove si manifesta la potenza divina oltrepassando ogni umana capacità di immaginazione. Quel vanto conferisce così alla narrazione da una parte l’auctoritas dell’antico modello, dall’altra il carattere eminente di eccezionalità di novità assoluta. La prima mutazione è più indeterminata e quindi più suggestiva, la seconda è più breve ma nella sua freddezza è tanto più tragica. In entrambe domina comunque il serpente come simbolo del male e del tormento dell’uomo. I nomi dei dannati coinvolti nella trasformazione sono Cianfa Agnel Buoso appartenenti a nobili famiglie fiorentini ma la loro determinazione storica viene taciuta, i loro atti ignorati, proprio perché qui l’uomo perde completamente la propria fisionomia storica, la propria persona. Le metamorfosi dantesche non sono solo delle semplici narrazione ma racchiudono un significato più profondo: esse racchiudono l’amaro contrappasso del peccato che nella bolgia è punito. La privazione del corpo punisce la privazione inferta ad altri della proprietà personale ed è pena ben più grave, in quanto appunto tocca la persona di cui il corpo è parte essenziale. Via via che si scende verso il fondo dell’inferno sempre più l’uomo perde la sua dignità anche corporea e si assottiglia la corrispondente pietà dell’autore. Questo regno è sicuramente il luogo più infernale che vede la trasformazione dell’uomo in bestia, un uomo che ha perduto la sua persona ed è ridotto a strisciare e a sibilare come la serpe perdendo la capacità espressiva tratto tipico dell’uomo. -Canto XXVI dell’Inferno Entriamo qui nel canto dell’ottava bolgia, destinata ai consiglieri fraudolenti, dove si svolgerà uno dei più grandi episodi dell’inferno, l’incontro con Ulisse. L’apertura appartiene ancora al canto precedente, di cui chiude quella che abbiamo chiamato la cornice politica: con un’amara apostrofe a Firenze, città che può vantare tanti cittadini tra i ladri dell’inferno,l’autore interviene in modo improvviso interrompendo la narrazione e portando allo scoperto, come raramente accade, il proprio animo sdegnato e dolente per il male che trionfa nella sua città e per la punizione che presto dovrà colpirla. Questa invettiva di dante si distingue dalle altre per il suono di dolore, di stanchezza dell’animo dell’esule che pur sempre ama la propria terra. Prima di introdurre la scena della nuova bolgia Dante pone una riflessione personale ‘ Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio\ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi’ ciò che vide nella voglia ottava ancora lo addolora e lo induce a tenere a freno il proprio ingegno ‘ perché non corra che virtù nol guidi’( perché non si abbandoni a correre a suo arbitrio, senza che la virtù gli sia di guida, e anche l’intelletto è sottoposto alla virtù cioè al bene per cui è stato creato e non si può usarne incondizionatamente): questa dichiarazione, unica nell’Inferno, racchiude il senso profondo di tutta la storia che ora si narrerà. Tutto il proemio alla storia di Ulisse è impostato quindi da Dante sulla propria personale storia: questo fatto essenziale va tenuto presente nell’interpretazione dell’episodio che ora seguirà. ‘Quante ‘l villan… vede lucciole giù per la vallea’ Dante come spesso accade, ricorre ad una similitudine per spiegare ciò che si presenta ai suoi occhi: come il contadino a sera vede dalla collina le lucciole muoversi nella valle così dal ponte si vedono nell’oscuro fosso risplendere tante fiammelle in un aspetto paradossalmente tranquillo e serio senza ombra di orrore spregio o viltà di pena: già si intuisce che quella silenziose fiammelle racchiudono una tragedia dell’animo umano che non ha nulla da spartire con gli altri nove peccati puniti. Ogni fiammella racchiude un peccatore, nascondendolo allo sguardo, come il fuoco del carro che lo rapì al cielo nascose il profeta Elia agli occhi del discepolo Eliseo. Il contrappasso celato in questa scena è ben evidente: quella fiamma che arde in eterno i peccatori è figura della fiamma dell’ingegno di cui essi fecero cattivo uso; come sempre all’uomo dell’Inferno è dato nell’eternità ciò che egli scelse per sé sulla terra. Nessun’altra pena appare più nobile di questa in quanto queste fiammelle che ardono silenziosamente celano ognuna il proprio segreto e producono un forte desiderio di sapere e insieme una specie di rispetto. Dante, nel suo guardare intenso, viene colpito da una fiamma divisa da due lingue di fuoco, evidentemente fatto unico nella bolgia, e che sembra levarsi dal rogo di Eteocle e Polinice, i due fratelli figli di Edipo che sotto Tebe si uccisero l’un l’altro ed essendo stati posto sullo stesso rogo la fiamma si divise in due, a significare l’odio che li aveva divisi in vita. Quei due, come Virgilio ci dice, sono Ulisse e Diomede, due dei più famosi fra gli eroi greci della guerra di Troia. Il primo, re di Itaca, era celebre per il suo sottile e astuto ingegno; il secondo, figlio di Tideo re degli Etoli, per l’ardire: essi sono puniti insieme perché parteciparono in coppia a più d’una impresa, quasi uno complementare dell’altro,la mente era Ulisse, il braccio Diomede. La più famosa tra tutte le imprese fu il celebre inganno del cavallo di Troia, ricordato come il più importante per le sue conseguenze storiche: la caduta della città e la fondazione di Roma. Per penetrare dentro le mura di Troia, i greci fecero costruire un cavallo di legno, nel cui interno si nascosero Ulisse e altri fra i più valorosi guerrieri. Sinone convinse poi i troiani, con abile frode a portare il cavallo entro le mura e nella notte i greci aprirono le porte ai compagni che invasero e incendiarono la città addormentata. Viene ricordata anche un’altra impresa compiuta insieme dai due greci relativa all’abbandono di Achille, ucciso da Ulisse, dopo aver scoperto che egli per sfuggire alla guerra di Troia si era travestito da donna, ancora si ricorda la rapina della statua di Pallade che proteggeva Troia. Ulisse, poi, protagonista leggendario del secondo poema omerico che da lui prende il nome, era divenuto il modello dell’uomo ricercatore, bramoso e mai sazio di esperienza. In realtà in questo canto si parlerà di un’altra storia, riguardante Ulisse, ignota a tutti, ovvero il suo viaggio di ritorno oltre le colonne d’Ercole. Nel suo avventuroso ritorno da Troia, Ulisse capitò nell’isola della maga Circe che lo amò e lo trattene presso di sé circa un anno. (Dante che non conobbe l’Odissea, leggeva questo episodio da Ovidio) Ulisse volle partire, spingendosi ai confini del mediterraneo, allo stretto dove Ercole aveva posto il suo divieto all’uomo, non curante dei pericoli del mare che pur Circe gli aveva predetto, trascinando a sé il piccolo gruppo dei suoi compagni e nessuno poté trattenerlo: né il figlio Telemaco, né il padre Laerte, né la sposa Penelope. Tutto ciò che più fortemente lega l’uomo non poté vincere quell’ardore che lo consumava e che lo spinse ad intraprendere questo viaggio: Ulisse procede dalla Campania verso sud-ovest e le isole avvistate saranno la Sicilia e le Baleari fino a giungere lo stretto passaggio dove il Mediterraneo sfocia nell’Oceano che segnava il confine del mondo conosciuto dato l’estremo rischio che una navigazione nell’Atlantico comportava nelle navi di allora: di qui il valore emblematico del luogo, noto già a Fenici e Greci che il mito antico aveva segnato il limite posto agli uomini della divinità. Colonne d’Ercole erano definite infatti le due montagne che fiancheggiavano lo stretto, quella di Calpe in Europa e di Abila in Africa, dunque Ulisse era ben consapevole di infrangere con il suo gesto il divieto posto dagli dei. ‘O frati..’(vv112-120) comincia qui il grande e breve discorso con il quale l’eroe persuade i compagni, infondendo in quelle parole l’ardore che lo trascina a varcare il limite. I fratelli, ovvero i compagni di Ulisse sono in realtà una figura: Ulisse parla in realtà a se stesso ed egli è solo di fronte alla grande scelta. Tutto il suo discorso nella drammatica finzione dell’appello all’umano un ben chiaro significato: è la voce stessa del E il vecchio condottiero, stretto tra i due rischi- il commetter peccato e l’incorrere nell’ira del papa- scelse il primo che gli sembrava minore e consiglia l’inganno: promettere pace, in modo da avere in mano l’imprendibile Palestrina e non mantenerla. Egli infatti offrì un accordo ai Colonnesi che vennero a chiedere perdono; tolta loro la scomunica in cambio della resa di Palestrina, fece poi radere al suolo quella fortezza. Guido dà tutta la colpa del suo peccato al papa corrotto, ma in realtà la responsabilità principale è sua: se il suo pentimento fosse stato sincero Guido non avrebbe ceduto alle lusinghe del papa, né si sarebbe accontentato della sua assicurazione di avere l'assoluzione prima ancora di commettere il peccato (non si può assolvere chi non si pente e non ci si può pentire e voler peccare al tempo stesso, come il diavolo non mancherà di spiegare a Guido prima di condurlo all'Inferno). In questo modo Dante rovescia in modo clamoroso e inatteso l'opinione corrente sul destino ultraterreno del Montefeltro, che essendo morto in convento e in odore di santità tutti credevano salvo. Dante ristabilisce la verità mostrandoci la condizione delle anime dopo la morte e sottolineando che nella partita della salvezza non contano gli atti esteriori o la fama, ma solo il reale pentimento nel cuore dell'uomo che solamente Dio può conoscere nella sua verità. E Guido è dannato proprio perché tale pentimento nel suo cuore non c'era. Tutto il racconto trae la sua drammaticità da un preciso precedente: quando dante scriveva il Convivio ignorando l’episodio finale del dialogo con il papa, Dante aveva ammirato e lodato altamente la conversione del celebre condottiero; si può pensare quale effetto abbia avuto su di lui la notizia della caduta dell’uomo che egli aveva considerato esempio di ravvedimento. Da questo contraccolpo nacque l’idea che conduce prima la storia, il motivo dominante, la ragione stessa del canto: non basta l’abito né l’assoluzione del papa a salvare l’uomo ma SOLO LA SINCERA CONVERSIONE DELL’UOMO. Questa profonda idea cristiana per cui soltanto nel cuore dell’uomo si svolge il rapporto con Dio diventa qui il dramma di una singola persona storica e crea il carattere stesso del conte di Montefeltro, il suo calcolare, il suo sperare, il suo amaro e crucciato rammaricarsi. Tutta la tragedia sta proprio nel fatto che egli, il grande ingannatore, si è fatto ingannare, per ben due volte: Guido crede infatti di parlare con qualcuno che non tornerà più sulla terra, dove resterà intatta la sua fama di convertito ma in realtà colui che lo ascolta rivelerà agli uomini la sua condanna. La grande scena del dialogo tra il papa e il condottiero è rivelatrice dell’idea secondo la quale l’umano ingegno non basta a salvare l’uomo: infatti entrambi contano solo su se stessi, sulla propria forza e sulla propria bravura, di Dio non si curano. Infatti il papa è chiuso nella sua superba febbre di dominio e nel suo assoluto cinismo nell’usare l’anima di Guido come mezzo per i suoi intenti, l’altro invece tutto preso dal calcolo sottile sul quale sarà il minor rischio per lui, non si preoccupa miniamnete su quale sia il bene. Nel terribile dialogo vince il più perverso e il più cinico ma comunque il cruccio di Guido, nonostante un minimo di esitazione, sarà quello di non aver fatto bene i suoi calcoli. La complessità stessa del suo carattere lo pone a livello delle più rilevanti figure dell’Inferno, di cui gli sono propri i tratti distintivi: quel misto di nobiltà e di abiezione che contrassegna l’uomo infernale di Dante, inoltre si riflette in lui il profondo contrasto dei due diversi sentimenti provati dall’autore prima e dopo la notizia del suo cedimento a papa Bonifacio: l’ammirazione e il rispetto per il coraggioso abbandono del mondo e della sua gloria e la delusione nel costatare il persistere sotto il nuovo abito del vecchio costume di vita, di un cuore non mutato. Nella drammatica vicenda che occupa il canto sono riconoscibili due linee tematiche che si estendono lungo il poema: uno è il tema politico e profetico di aperta denuncia della corruzione della chiesa e in particolare della cupidigia sfrenata di potere impersonata in Bonifacio VIII, e il tema propriamente etico della salvezza alla quale è necessaria ma non sufficiente l’interna conversione del cuore. -Canto XXVII dell’Inferno Il nuovo canto ci presenta ancora una volta un vasto e movimentato quadro d’insieme caratterizzato dalla sua singolare storicità: lo svolgimento del canto apparirà quasi un veloce scorrere della storia delle umane contese. Qui sono puniti i provocatori di discordie, coloro che divisero le comunità umane, religiose, civili o familiari, infatti gli odi feroci tra città e città o tra cittadini di una stessa città, lo scempio di quella humana civilitas sono tema sempre vivo e sempre dolente nel poema dantesco. In questo canto Dante crea un’ampia prospettiva storica, nella quale le fazioni comunali del suo tempo sono situate sul più vasto sfondo delle contese e lacerazioni che percorrono tutta la vicenda dell’umanità. La similitudine stessa che apre il canto già fa parte di ciò che vuole raffigurare: se si adunassero tutti i feriti di tutte le più cruenti battaglie della storia d’Italia, dai tempi dei Troiani, a Canne a Tagliacozzo e Benevento, non si avrebbe che una pallida idea di ciò che si vedeva nella nona bolgia. Questi peccatori, secondo la legge del contrappasso, sono divisi, lacerati nella loro stessa carne, proprio come in vita divisero gli animi e le comunità: si tratta specificatamente di divisioni interne, di discordie che separano ciò che prima era unito, come è appunto un corpo, e i due corpi storici che esistono per Dante sono la Chiesa e la città; si parla più propriamente di ‘scandali’ per indicare le discordie civili e ‘scismi’ per indicare le divisioni nel corpo della chiesa. Questi uomini si denunciano da se stessi, mostrandosi nella loro spietata divisione fisica del corpo umano, nel quale l’uomo è offeso e giudicato severamente nell’Inferno. Le crude e realistiche immagini delle membra lacerate, le rime aspre e chiocce, il lessico plebeo, sono i ben noti ingredienti del linguaggio comico infernale, che sempre segue il peccato accompagnato dal disprezzo dell’autore. Il primo peccatore che Dante incontra e Maometto che usa per se stesso la terza persona ‘Or vedi com’io mi dilacco! Vedi come storpiato è Maometto!’ quasi intenda quel Maometto famoso che tanti milioni di uomini onorano sul nel mondo’ Maometto, il fondatore dell’islamismo, è posto qui per primo, come il maggior operatore di scisma in seno alla cristianità. Secondo la tradizione medievale dell’Occidente Maometto era in origine un prete cristiano, spinto allo scisma da un alto prelato deluso nelle sue aspirazioni; ecco che qui viene presentato come un malvagio predicatore che allontanò il popolo dalla vera fede: egli appare spaccato in due con pena maggiore di ogni altro, perché aveva scisso in due la Chiesa, con la più grave ed estesa divisione. È presente anche Alì, genero e primo discepolo di Maometto che fondò una nuova setta all’interno dell’islamismo, ed è lacerto dal mento fino all’attaccatura dei capelli sulla fronte: Alì compie nel suo corpo quel che manca alla spaccatura di Maometto dal mento in giù, forse ad indicare che egli fu la testa dell’opera separatrice. In questa bolgia è presente un diavolo, armato di spada, che strazia i peccatori riapprendo ad ognuno le ferite appena richiuse. Anche in questa bolgia si verifica il solito equivoco per cui le anime dannate confondo Dante per uno di loro, per cui gli chiedono chi è e perché si sofferma così tanto a guardarli; interviene Virgilio che spiegherà alle anime dannate il significato del viaggio di Dante e che egli, a differenza di quanto pensino le anime, ritornerà nel mondo terreno. Dopo le parole di Virgilio, le anime si meravigliarono così tanto da dimenticare la loro pena, ad eccezione di Maometto, quasi non partecipe della meraviglia comune, raccoglie solo la possibilità di avvertire l’altro scismatico vivente del pericolo che incombe su di lui, una volta tornato sulla terra ‘Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi’ per non raggiungerlo qui in breve tempo a sopportare la stessa pena( Fra Dolcin, altro scismatico riocordato da Dante morì nel 1307). Si fa avanti un altro dannato che appartiene alla seconda specie di questi peccatori ovvero i seminatori di discordie civili e si presenta con la gola tagliata, con il naso tronco e con un orecchio solo. Dalla canna della gola escono direttamente le parole, senza passar per la bocca in quanto la parola è ciò di cui questo peccatore si è servito per seminar discordie. Questo spirito che apostrofa Dante non è solo un suo contemporaneo, ma uno che l’ha conosciuto in vita: Pier Da Medicina che si arricchì, secondo varie testimonianze, seminando rancori tra Guido Da Polenta, signore di Ravenna e Malatesta signore di Rimini. Come Maometto anche Piero manda un avvertimento profetico ai vivi chiedendo di avvisare i due principali cittadini di Fano, Guido del Cassero guelfo, e Angiolello da Carignano ghibellino, che saranno presto uccisi a tradimento dal signore di Rimini. l'accenno a Rimini, governata da quel tiranno, gli dà poi modo di presentare Curione, colui che secondo Lucanoaveva spronato Cesare a varcare il Rubicone e a dare inizio alla guerra civile con Pompeo. Curione ha la lingua mozzata e ciò è sembrato contraddittorio col giudizio positivo che Dante dà di Cesare e della sua azione politica, inclusa la guerra con Pompeo che l'avrebbe portato alla vittoria, ma in realtà ciò non esclude la condanna dell'atto di Curione che agì per scopi personali e non certo per il bene di Roma o del futuro Impero. Si avanza ora un terzo di questa seconda serie di peccatori: la sua immagine è più focosa e tragica di quelle finora incontrate. Si tratta questa volta della città a cui fin dal principio è fisso il pensiero di Dante ovvero Firenze. Qui troviamo Mosca dei Lamberti: la sua dannazione era stata predetta da Ciacco nel Canto VI e ora lo troviamo in questa Bolgia con le mani mozzate per aver incitato all'uccisione di un nemico della propria consorteria. L'uomo si era distinto per i suoi meriti civili, ma questa colpa è imperdonabile in quanto ha aperto la strada alle lotte tra Guelfi e Ghibellini a Firenze, inoltre ha causato la scomparsa dalla scena politica della famiglia dei Lamberti. Dante glielo ricorda aggiungendo dolore a dolore (Mosca si allontana come persona trista e matta, provando forse rimorso per il male provocato). Le discordie in campo politico e familiare riguardano infine anche l'ultimo dannato mostrato in questo episodio, quel Bertran de Born che fu celebre trovatore provenzale e che Dante aveva elogiato nel DE VULGARI ELOQUENTIA come «poeta delle armi» e loda nel CONVIVIO per la sua liberalità. La descrizione di Bertran che cammina tenendo in mano il suo capo mozzato come se fosse una lanterna può apparire poco credibile ai lettori e Dante premette di essere restio a dichiarare ciò che ha visto, se nonché la sua buona fede lo conforta. Il trovatore sconta le discordie che insinuò tra Enrico II, re d'Inghilterra e duca di Aquitania di cui Bertran era feudatario, e il figlio Enrico III, incitando quest'ultimo a ribellarsi al padre e per il quale, morto prematuramente; per aver messo zizzania tra padre e figlio ora ha la testa separata dal corpo, rendendo quindi evidente il contrapasso: il capo diviso dal corpo rappresenta la divisione che il peccatore ha operato tra padre e figlio. -Canto XXIX Dell’Inferno Il nuovo canto ci porta nell’ultima bolgia, dove sono puniti i falsari la cui rappresentazione occuperà tutto il canto successivo. L’attacco del nuovo episodio, con la visione dall’alto della bolgia è un po’ ritardato, come altre volte avviene. Per una quarantina di versi si indugia ancora a dare un ultimo sguardo alle tragiche ombre della bolgia precedente dove si prolunga la vis drammatica che dominava la bolgia delle discordie. In questi primi versi regna una profonda pietà: Dante resta a guardare la bolgia, indotto al pianto, dalle tante vederli dannati nella bolgia egli si sposterebbe anche di una sola oncia in cent’anni, trascinandosi dunque per secoli sul suo duro fondo. Nel duplice aspetto della personalità di Adamo si rivela l’uomo infernale come lo ha pensato Dante in questa più bassa zona dell’imbuto: per un verso ancora dotato delle qualità che lo distinsero in terra, per l’altro degradato ormai a sentimenti che hanno del disumano. Ma la gamma dei toni usati in questo canto non è ancora esaurita, come non è esaurita la personalità di maestro Adamo che deve scendere ancora un ultimo scalino. Vicino a lui sono sdraiati due altri peccatori, febbricitanti che chiudono la serie dei falsari qui incontrati. Gli alchimisti, colpiti da lebbra; i falsatori di persona, furiosi per idrofobia, i falsatori di monete, idropici; questa ultima coppia infine malati di FEBBRE ACUTA, sono DUE FALSIFICATORI DI PAROLA. Si tratta di un personaggio biblico , la moglie di Putifarre, Faraone d’Egitto. Ella avendo invano tentato di sedurre Giuseppe, figlio del patriarca Gaicobbe, lo accusò per vendetta di fronte al marito di aver voluto usarle violenza. Il secondo personaggio è il greco Sinone, personaggio dell’Eneide che con un falso racconto, convinse i Troiani a portar dentro le mura il cavallo di legno pieno d’armati lasciato dai greci sul lido, che fu la rovina della città. Lo stile torna poi ad abbassarsi drasticamente nel finale dell'episodio, con la volgare rissa tra Mastro Adamo e Sinone che è il «pezzo forte» dell'intero Canto e in cui Dante si ispira, in maniera quasi dichiarata, a quella poesia comico-realistica di cui lui stesso in passato era stato esponente. Lo scontro tra i due dannati è infatti una vera e propria «tenzone» poetica, uno scambio di insulti e improperi in cui ciascuno risponde «per le rime» all'avversario, in modo simile a quanto Dante stesso aveva fatto nel celebre scambio di sonetti offensivi con Forese Donati. Il linguaggio è crudo e ricco di termini popolari e gergali, come epa croia (il ventre teso per il gonfiore, dal prov. croi), ti crepa, l'acqua marcia, si squarcia, rinfarcia (riempie), ma anche di giochi di parole e trovate sarcastiche, con Sinone che accusa Adamo di non essere stato agile ad andare al rogo quanto lo fu nel falsificare monete, Adamo che prima risponde ricordando le bugie di Sinone a Troia e poi ribattendo che se lui ha la lingua arsa dalla sete anche Sinone brucia di febbre, tanto che per leccar lo specchio di Narcisso non avrebbe bisogno di grandi inviti (da notare l'uso di un'espressione mitologica ed elevata entro un discorso basso e volgare). Ciascuno dei due duellanti pronuncia esattamente una terzina, rimbeccando le accuse dell'avversario come avveniva nel «contrasto», altro genere assai in voga nella poesia popolare: ed è naturalmente significativo che Virgilio rimproveri aspramente Dante che indugia compiaciuto ad osservare la rissa, affermando che voler ciò udire è bassa voglia (la reazione del discepolo sarà di enorme vergogna, al punto che il maestro lo perdonerà subito). Dante prende le distanze da quella poesia di genere comico che aveva sperimentato nella «tenzone» con Forese e che ora respinge per ragioni stilistiche e morali: come nel Canto V aveva condannato certa poesia amorosa che può portare alla dannazione, così qui egli supera una fase della sua precedente produzione nella quale non può più riconoscersi, come appare chiaro dalla raccomandazione di Virgilio -ragione che dovrà sempre averlo allato qualora si ripresentassero occasioni simili. Lo stile degli ultimi versi torna poi nuovamente ad elevarsi, con la raffinata replicazione dei vv. 136-137 (sogna... sognando... sognare) e del v. 140 (scusarmi... scusava) e il linguaggio raffinato di Virgilio. Il finale si riallaccia all'eleganza dell'esordio, per cui l'episodio di Mastro Adamo e Sinone viene racchiuso come una parentesi da trascurare, proprio come da superare come chi sogna un fatto a lui dannoso, una sua sventura e svegliandosi si augura che sia un sogno. -Canto XXXI dell’Inferno Il nuovo canto abbandona Malebolge e ci conduce verso l’ultimo e più terribile cerchio dell’Inferno dantesco. Come al passaggio dall’incontinenza alla violenza, o dalla violenza alla frode anche questa volta dante pone una cerniera narrativa e figurativa che serva da introduzione al nuovo ambiente dove si sta per entrare. Tra incontinenti e violenti stanno le MURA arroventate della città di Dite, l’opposizione dei diavoli, l’apparire delle Erinni, infine l’arrivo del messo celeste; tra violenti e fraudolenti c’è un pozzo profondo custodito da Gerione, la sozza immagine di froda, ed ora tra i due cerchi dei fraudolenti cioè tra gli ingannatori e i traditori è posto un altro alto dislivello. Ma la scenografia è nuova e imponente e un intero canto è dedicato ad interi personaggi che acquistano così un rilevo maggiore e diverso da tutti gli altri fin qui incontrati. All’entrata del cerchio glaciale, dove è confitto Lucifero Dante ha creato uno scenario solenne e pauroso, una cerchia di enormi torri che s’intravedono da lontano nell’oscurità: all’avvicinarsi, ci si rende conto, per bocca di Virgilio che non si tratta di torri ma di giganti, che si ergono mobili intorno al pozzo infernale. Lo stesso paesaggio oscuro racchiude una minaccia: siamo giunti al regno dell’odio di cui il ghiaccio è simbolo, dove ogni segno di umanità verrà meno e le mute e gigantesche figure che lo presiedono sono certamente la più geniale tra le invenzioni dei mitologici custodi infernali della Commedia. Il loro significato è chiaro ed ampiamente documentato: essi rappresentano nella loro stessa possanza fisica e nel tentativo materiale di raggiungere il cielo la superbia dell’uomo che per l’eccellenza spirituale e morale avuta in sorte crede di potersi fare eguale a Dio. Ed è anche sintomatico il fatto che là essi seguano immediatamente il primo di tali esempi, Lucifero, precipitato dal cielo nell’abisso, come qui essi circondano muti e immobili la ghiaccia dove egli è confitto. Il loro peccato è infatti lo stesso del supremo degli angeli che si ribellò al suo creatore pretendendo di farsi uguali a lui. Dante raccoglie due tradizioni creando questo canto singolare, tutto affidato all’invenzione figurativa: qui non ci sono infatti vere persone, e quindi drammi individuali, dovuti a situazioni morali. Il contrappasso che colpisce questi grandi superbi è l’essere ridotti all’impotenza fisica, all’ottenebrazione della mente. Incatenati, muti, poco più che statue essi comprendono ma non sono in grado di comunicare. All’inizio Dante li presenta come una cerchia di torri che appare da lontano nella nebbia: la torre è chiaramente simbolica del tentativo di assalto al cielo, così sia la torre di montagne a Flegra sia la torre di mattoni eretta a Babele sono figura dello sforzo compiuto dall’uomo per ergersi dalla terra in alto fino a Dio. E di questa torre Dante fa l’immagine chiave del canto dall’inizio alla fine quando paragona l’ultimo gigante incontrato alla torre bolognese della Garisenda vista contro le nuvole, in quanto Anteo nel chinarsi a prendere Dante e Virgilio dava l’impressione ottica della torre pendente, quasi in procinto di cadere La presentazione dei giganti avviene per gradi, coi due poeti che si avvicinano al pozzo dove sono confitti e Dante che nella semi-oscurità ne intravede la sagoma e li scambia per torri, è Virgilio a spiegare al discepolo la situazione dicendogli che queste torri sono in realtà giganti, i quali erano personaggi della mitologia greca, figli della Terra e di Urano, smisurati per altezza e forza e che tentarono nella loro superbia la scalata dell’olimpo sovrapponendo l’Ossa al Palio, ma furono abbattuti da Giove a Flegra come è ricordato da Capaneo. Si credeva sulla base della scrittura alla reale esistenza nei tempi antichi di tali esseri giganteschi poi non più prodotti dalla natura, ma l’immanità fisica era fin dall’antichità figura della grandezza umana che si levava superbamente contro dio. Di grande rilievo è il commento che egli aggiunge al fatto che la natura abbia cessato l’arte di tali creature perché dove alla potenza fisica e al mar volere si aggiunge l’argomento della mente cioè la ragione non c’è alcuna possibile difesa. Nel passare dall’uno all’altro lunga la proda del pozzo, si incontra prima Nembrot a cui è dato il Maggior rilievo: egli pronuncia incomprensibili parole, certo di allarme per i nuovi venuti e Virgilio lo apostrofa duramente chiamandolo anima sciocca. La confusione delle lingue con cui Dio punì gli uomini per la loro superba iniziativa, tocca Nembrot, l’ideatore della torre nel modo più assoluto: nessuno al mondo può intenderlo ed egli non intende nessuno, perduto il linguaggio infatti non è più un uomo ma un bambino che segue solo l’istinto e le passioni. Di fronte alla presunzione intellettuale della sfida terribile e misera appare questa condizione, punizione ben peggiore dei fulmini di Flegra che colpiscono l’uomo all’esterno e non all’interno. Secondo la tradizione, basata sulla Scrittura, gli uomini parlarono una sola lingua fino alla costruzione della torre di Babele, lingua che si riteneva fosse l’ebraica e che corrispondeva all’idea dell’unico impero, segno dell’umana concordia, per questo si da enorme importanza alla figura di Nembrot, primo e distaccato tra tutti gli altri giganti. Giunti sotto a Nembrot,i due poeti sono ormai sull’orlo del pozzo avendo compiuto l’attraversamento dell’argine, volgono quindi a sinistra, per giungere là dove potranno avere il modo di scendere nell’ultimo cerchio. Qui incontrano il secondo gigante ovvero Fialte, il più forte e audace di colore che sfidarono Giove a Flegra, quello che accatastava le montagne una sull’altra per raggiungere il cielo. Qui egli appare avvinto da strette catene che gli impediscono di muovere le braccia già così ardite. Egli non pronuncia parola ma ai discorsi dei due pellegrini,irato, si scuote come potrebbe fare una torre sotto il terremoto: la sua muta impotenza manifesta così una passione propria dell’uomo, l’ira, in modo tanto più pietoso quanto più disumano. L’ultimo infine è Anteo, figlio di Nettuno e della Terra si nutriva di carne di leone e dormiva sulla nuda terra, sua madre, dalla quale riceveva sempre nuove forze. Fu ucciso da Ercole, che riuscì a tenerlo sollevato dal suolo. A differenza degli altri due già incontrati Anteo è punito meno severamente perché nato troppo tardi per partecipare alla rivolta di Flegra, infatti esso può parlare e non è incatenato. la sua funzione sarà dunque analoga a quella di altre figure demoniache dell'Inferno, con la differenza che il poeta latino lo convince a collaborare con un elaborato discorso retorico, una specie di suasoria che solletica la vanità del gigante. Virgilio inizia infatti con una captatio benevolentiae, ricordando in toni elevati che Anteo riportò in vita molti trofei, avendo ucciso più di mille leoni nella valle di Zama (c'è anche il riferimento alla battaglia in cui Scipione sconfisse Annibale, che eleva lo stile); era stato talmente forte che forse, se avesse preso parte allo scontro di Flegra, avrebbero vinto i figli de la terra, ovvero i giganti; egli non deve indurre i due poeti a rivolgersi a Tizio o Tifeo, giganti meno forti di lui secondo la testimonianza di Lucano (Phars., IV, 595 ss.) e se li aiuterà, Dante lo nominerà nei suoi versi dandogli così fama immortale. Il discorso di Virgilio è da intendere in senso antifrastico, in quanto la citazione di Anteo nel poema non sarà certo lusinghiera nei suoi confronti: ironica è dunque la captatio benevolentiae, mentre il gigante è descritto in modo parodico come un essere privo di volontà, una sorta di burattino che si piega alla volontà divina e aiuta i due poeti a proseguire il viaggio come è voluto da Dio, di cui il gigante è un mansueto e fedele strumento. Il ruolo di Anteo non è dunque diverso da quello di altri personaggi del mito incontrati durante la discesa, descritti nei loro aspetti bestiali o come bizzarre deformazioni della Trinità o della giustizia divina (si pensi soprattutto a Cerbero e Minosse): la presenza di Anteo e degli altri giganti in questo episodio è necessaria anticipazione della figura di Lucifero, la cui apparizione verrà evocata e preparata per gradi nei due Canti successivi e che chiuderà in modo non meno paradossale la rappresentazione del doloroso regno. Così il gigante accetta le lusinghe, li deposita al fondo del pozzo con delicatezza, si leva dritto e torna immobile come albero di neve ( anche Lucifero sarà paragonato ad un albero di Neve). -Canto XXXII dell’Inferno ‘S’io avessi le rime aspre e chiocce’ se io possedessi un linguaggio poetico tale che convenissi al terribile luogo che sto per descrivere.. Una simile dichiarazione di difficoltà e di impotenza è nuova nell’Inferno. condannare a morte, e parla al solo scopo di dare infamia a colui che ha decretato la sua morte atroce e del cui cranio egli si ciba bestialmente, essendo posto nella stessa buca insieme a lui. ‘Io fui conte Ugolino’ Ecco che si svela il nome del peccatore, ben noto alla cronaca del suo tempo: nel 1288 Ugolino della Gherardesca, signore di Pisa, fu per opera dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini condannato per tradimento e chiuso nella torre dei Gualandi, dove fu lasciato morire di fame , insieme a quattro tra i suoi figli e nipoti dopo alcuni mesi di prigione. Dante altera parzialmente la verità storica dell'episodio, poiché Ugolino fu imprigionato coi due figli Gaddo e Uguccione e i due nipoti Anselmuccio e Nino, detto il Brigata; di questi solo Anselmuccio era quindicenne, mentre gli altri erano adulti e Nino dedito a omicidi e atti criminali. Il suo intento non è ovviamente quello di risarcire Ugolino dell'ingiustizia subita, né di muovere a compassione con un racconto patetico, quanto piuttosto stigmatizzare attraverso la vicenda del conte le lotte politiche che dilaniavano le città del suo tempo e tra cui Pisa spiccava per la sua crudeltà. Se forse era giusto condannare a morte Ugolino per il sospetto di tradimento dovuto alla cessione dei castelli a beneficio di Firenze e Lucca, ingiusto e crudele era stato uccidere con lui i figli innocenti per la giovane età e la cui terribile morte accrebbe la pena già atroce cui fu sottoposto Ugolino; sullo sfondo c'è probabilmente anche l'ingiusta condanna all'esilio che lo stesso poeta aveva subìto nel 1302 e che aveva coinvolto i suoi figli costretti a seguirlo, innocenti come i figli di Ugolino in quanto estranei alle accuse (peraltro false) mosse da Firenze al loro padre. Dante tratteggia dunque una tragedia a tinte fosche e con un tono lirico ed elevato che si distingue da quello comico- realistico del Canto precedente: la giovane età dei figli del conte è funzionale a questa rappresentazione ed è come una sorta di contrappasso per Ugolino già in vita, poiché egli aveva tradito politicamente la propria patria e ora, nella prigionia, deve assistere impotente alla morte dei figli. Il racconto di Ugolino si divide in tre momenti, che corrispondono al sogno premonitore, al momento in cui l'uscio viene inchiodato, all'agonia straziante di lui e dei figli. Il sogno prefigura la condanna a morte del conte e dei ragazzi, in quanto l'uomo sogna l'arcivescovo che guida una battuta di caccia sul monte San Giuliano, sulle tracce di un lupo e dei suoi piccoli (Ugolino e i figli), raggiunti da cagne magre, studiose e conte che alla fine li sbranano. Questo primo atto della tragedia si conclude col rimprovero di Ugolino a Dante, che dovrebbe piangere al tristo presagio di quanto si annunciava. Il mattino dopo, infatti, il sogno si avvera: i figli piangono e chiedono il pane, mentre si avvicina l'ora in cui il cibo era solitamente portato loro, e ognuno è in dubbio perché tutti sembrano aver fatto un sogno simile a quello descritto. All'ora del pasto sentono che l'uscio della torre viene inchiodato e diventa chiaro quale sarà il loro orrendo destino: Ugolino resta impietrito e non osa parlare, nonostante l'accorata domanda di Anselmuccio (Tu guardi sì, padre! che hai?). Il terzo momento inizia il giorno seguente, quando il conte vede il volto smunto dei ragazzi e si morde le mani per rabbia: i figli gli offrono di cibarsi di loro mostrandosi pronti all'estremo sacrificio e il conte si placa per non inquietarli; nei giorni seguenti li vede cadere uno a uno, senza poter far nulla per aiutarli, brancolando per due giorni sui loro cadaveri e chiamandoli per nome, fino a quando più che 'l dolor, poté 'l digiuno. Questo verso chiude in modo drammatico il racconto, scandito nelle sue varie fasi dall'appello dei figli al conte: prima Anselmuccio, poi tutti e quattro, infine Gaddo che muore invocando vanamente l'aiuto del conte (e ogni volta sempre col vocativo Padre, a sottolineare il fatto che questa non è tanto la tragedia di Ugolino uomo politico, quanto quella di un padre le cui colpe sono ricadute immeritatamente sui figli innocenti). E infatti la conclusione dell'episodio è proprio la durissima invettiva di Dante contro Pisa, rea di aver posto a tal croce i quattro ragazzi e che, si augura, possa essere spazzata via dall'Arno la cui foce venga ostruita dalle isole Capraia e Gorgona: un'immagine spaventosa, simile a un castigo biblico contro la città che viene definita novella Tebe per la sua crudeltà e per le lotte fratricide che la sconvolgono (in questi versi pesa, naturalmente, anche la rivalità politica con Firenze). Tra la prima e la seconda parte del Canto Dante inserisce poi un preannuncio della presenza di Lucifero al centro di Cocito, poiché il poeta sente sul volto quasi insensibile per il freddo il vento prodotto dalle sue ali, che fa congelare il lago e che non si spiegherebbe con un evento atmosferico impossibile all'Inferno. La risposta di Virgilio (sono le sue uniche parole in ben due Canti, XXXII e XXXIII) è reticente, invitando Dante a pazientare fino a quando vedrà coi propri occhi la causa di quel fenomeno che, evidentemente, la sua spiegazione verbale non descriverebbe in modo appropriato. Segue poi la presentazione dei traditori degli ospiti nella Tolomea, fra i quali il protagonista è quel frate Alberigo che uccise proditoriamente i suoi parenti che aveva invitato a pranzo, al segnale convenuto di portare la frutta (e infatti l'espressione frutta di frate Alberigo divenne proverbiale). L'episodio riprende il tono comico già visto nel Canto XXXII e nel quale la vicenda di Ugolino si inserisce come una parentesi del tutto diversa: Alberigo crede che Dante e Virgilio siano due dannati, poiché le lacrime gelate gli chiudono gli occhi, e prega il poeta di liberargli le palpebre per poter dare sfogo al dolore. Dante accetta a condizione di sapere il suo nome, che tutti i traditori di Cocito (a eccezione di Ugolino) sono restii a rivelare: se non manterrà la parola, Dante dovrà andare al fondo de la ghiaccia, che in realtà è un inganno verbale in quanto Dante è destinato a raggiungere in ogni caso il centro del lago (egli gioca sull'equivoco come già aveva fatto con Guido da Montefeltro, che al pari di Alberigo non poteva vederlo). Ugualmente antifrastico e ironico è il linguaggio di Alberigo, che si presenta come quel del le frutta del mal orto, alludendo al modo in cui assassinò i suoi ospiti, e che ora riceve dattero per figo (noi diremmo «pan per focaccia»: il dattero è più pregiato del fico, quindi la pena è ancor più grave della colpa). Il dannato definisce poi vantaggio il fatto che l'anima spesso cade nella Tolomea prima della morte del corpo, che poi viene governato da un demone: affermazione assai ardita sul piano dottrinale, che consente però a Dante di affermare che Branca Doria, ancora vivo al suo tempo, era in realtà già dannato all'Inferno. Il rifiuto di Dante di mantenere la parola data ad Alberigo è stato interpretato come una sorta di «tradimento» nei confronti del traditore, ma è più semplicemente il modo in cui il poeta diventa strumento della punizione divina, non diversamente da quanto fatto con Bocca degli Abati nel Canto precedente e in altre occasioni nella Cantica: l'essere stato villano verso Alberigo è stata una cortesia (due termini antitetici nel linguaggio cavalleresco) e l'inganno di Dante conclude degnamente un episodio dedicato appunto al tradimento, all'inganno supremo contro coloro che si fidano degli altri. Nel racconto di Ugolino che rivive la tragedia di un padre costretto a vedere morire di fame con sé i propri figli, senza trovare né poter dar loro alcun conforto è racchiuso il massimo del dolore pensabile sulla terra e il massimo dell’odio causa ed effetto insieme di quel dolore. È questo il peggiore inferno né altri più atroci ve ne sono di immaginabili: l’angusta cella della torre dove si consuma il terribile evento appare così strettamente contigua alla ghiaccia dove è confitto Lucifero. Ci si è sempre stupiti che nel luogo più disumano della commedia sorga il racconto che più profondamente tocca le corde dell’umano sentire; l’amore paterno e filiale, la morte e l’impotenza di fronte alla morte stanno alle radici stesse dell’umanità e ci si è chiesti che senso ha questa storia nell’inferno? Ci sono due volti in questo Ugolino: da una parte la belva feroce e disumana che rode accanitamente il cranio insanguinato del suo nemico, ed egli appare così al principio e alla fine del racconto. Dall’altra il padre straziato d’amore e di dolore per i propri figli innocenti e condannati. Nel suo racconto appaiono due figure contrapposte: da una parte i giovani figli innocenti che parlano che piangano che esprimono amore dolore e fiducia e dall’altra il padre muto, impietrato di disperazione repressa che si morde le mani e tace e non risponde. Anche la scena è infernale: la cupa cella della torre, il fioco lume, i silenzi interminabili, lo scorrere inesorabile dei giorni verso la morte. È l’inferno stesso creato dall’odio degli uomini sulla terra; ma in questa aria tetra irrompono delle voci che spezzano il silenzio e il buio: le voci giovanili chiedono aiuto, si offrono in sacrificio, e nel coro di questi immortali fanciulli c’è la pietà dell’uomo e l’eterna richiesta di chi si sente abbandonato di fronte alla morte , come Gesù sulla croce. La terribilità della storia sta di fatto nella mancanza di ogni luce di ogni speranza: in quell’uomo che non riesce a parlare che pur amando i propri figli non riesce a dare a loro nessun segno di amore tanto che i suoi gesti e sguardi riescono solo a spaventarli. Il suo cuore è serrato e buio come quella torre, figura dell’uomo chiuso nell’odio e chiuso alla speranza. A quest’uomo fatto di pietra e belva resta tuttavia come a tutti gli abitanti dell’inferno la capacità di coscienza e sofferenza tanto più rilevante quanto più notevole era la sua personalità terrena: quando egli alza la testa e racconta il suo dolore e quello dei figli si solleva in lui l’uomo che egli aveva avvilito in se stesso, quella pietà che dante non esprime mai verso di lui né come autore né come personaggio ma tuttavia nel racconto e nelle parole che Dante gli ha messo in bocca è presente il suo riscatto, la sua dignità umana che non può perdersi nonostante tutto: narrando egli soffre ed esprime il dolore e la pietà dei figli, il suo rimorso di padre che di quel dolore era stata la causa, la sua umiliazione finale. -Canto XXXIV DELL’INFERNO Protagonista assoluto del Canto che chiude la I Cantica è Lucifero, Lo 'mperador del doloroso regno la cui apparizione è preannunciata da Virgilio già all'inizio dell'episodio parafrasando l'inno di Venanzio Fortunato alla croce: nell'inno latino si diceva solo Vexilla regis prodeunt, cioè «si avvicinano i vessili del re», mentre Dante aggiunge Inferni per significare che è prossimo l'incontro col principe dei demoni. La citazione di Venanzio non è irriverente come è parso ad alcuni né parodica, anche se Lucifero viene di fatto accostato alla croce dove fu giustiziato Cristo (ed è innegabile che il mostro sia un bizzarro rovesciamento della Trinità, incluso il particolare del vento che promana dalle sue ali). All'inizio Dante non scorge nulla nell'oscurità, salvo la sagoma di quello che gli pare un enorme mulino a vento da cui soffia un'aria gelida, la stessa già da lui notata nel Canto precedente e di cui il maestro aveva dato poche spiegazioni: vari commentatori hanno osservato che il vento prodotto da Lucifero è parodia del soffio dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, il quale è ardore di carità mentre quest'aria fa raggelare Cocito (con simbologia analoga, forse, al contrappasso dei traditori). La visione del mostro è preparata con una sapiente attesa, giungendo solo dopo che Dante ha descritto i traditori dei benefattori confitti nella quarta e ultima zona di Cocito, la Giudecca. Essi sono completamente avvolti nel ghiaccio, simili a pagliuzze trasparenti nel vetro, e assumono varie posizioni che corrispondono, forse, a gradazioni diverse del loro peccato (anche se di ciò Dante non fornisce alcuna spiegazione precisa). Finalmente viene presentato Lucifero, non senza l'avvertimento di Virgilio a Dante che dovrà essere ben coraggioso: e infatti la reazione del poeta di fronte a quello che fu il più bello degli angeli è di assoluto terrore, tanto che rinuncia a descriverlo al lettore e si limita a dire di essere rimasto in uno stato sospeso tra la vita e la morte, col sangue raggelato e la voce che gli muore in gola. Lucifero è infatti rappresentato come un mostro orrendo e gigantesco, peloso, con tre facce unite a una sola testa, tre paia d'ali di pipistrello e altri attributi animaleschi (i denti con cui maciulla i tre peccatori nelle sue bocche, gli artigli con cui graffia la schiena di Giuda); è chiaramente una sorta di parodia della Trinità e di Dio, di cui cercò di prendere il posto con una superba ribellione che è il supremo tradimento, il che spiega perché sia conficcato al centro del IX Cerchio in cui proprio tale peccato è punito. Lucifero ha ovvie analogie coi giganti, qui ricordati da Dante per le sue proporzioni smisurate e a lui accostati in quanto colpevoli di superbia e ribellione contro la divinità (cfr. Canto XXXI, ma anche gli esempi di superbia punita di Purg., XII, 25 ss.); ricorda in parte anche
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