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Riassunto dei testi di Teoria e tecniche del linguaggio cinematografico, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto di "La camera chiara" di Barthes; "Che cos'è il cinema?" di Bazìn; "La mosca di Dreyer" di Carboni; "La passante di Godard" e "estetica del cinema" di Venzi; "Ecografie della televisione" di Derrida e Stiegler + appunti presi a lezione

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 21/04/2021

Anna192020
Anna192020 🇮🇹

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Scarica Riassunto dei testi di Teoria e tecniche del linguaggio cinematografico e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! ROLAND BARTHES - LA CAMERA CHIARA Nota sulla fotografia La foto inclassificabile Sin dal primo passo della classificazione, la Fotografia si sottrae. Le ripartizioni a cui la si sottopone sono in effetti empiriche (Professionisti/Dilettanti), o retoriche (Paesaggi/ Oggetti/Ritratti/Nudi), oppure estetiche (Realismo/Pitturalismo), ma in ogni caso estranee all’oggetto. Si direbbe che la Fotografia non sia classificabile. Da cosa può dipendere quel disordine? In primo luogo, ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. In essa, l’accadimento non trascende mai verso un’altra cosa: essa riconduce sempre il corpus di cui ho bisogno al corpo che io sto vedendo; essa è il Particolare assoluto, la Contingenza suprema, il Tale (la tale foto, e non la Foto), la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale, nella sua espressione infaticabile. La tale foto, in effetti, non si distingue mai dal suo referente (da ciò che essa rappresenta), o perlomeno non se ne distingue subito o per tutti: cogliere il significante fotografico non è impossibile, solo che ciò richiede un atto secondo di sapere o di riflessione. Per sua natura, la Fotografia ha qualcosa di tautologico: nella foto, la pipa è sempre una pipa, inesorabilmente. Si direbbe che la Fotografia porti sempre il suo referente con sé. Questo trascina la Fotografia nell’immenso disordine di tutti gli oggetti del mondo: perché scegliere il tale oggetto, il tale istante, e non il talaltro? La Fotografia è inclassificabile perché non c’è nessuna ragione di contrassegnare tale o talaltra delle sue occorrenze. Operator, spectrum e spectator Osservai che una foto può essere l’oggetto di 3 pratiche (o emozioni, o intenzioni): fare, subire, guardare, L’Operator è il Fotografo. Lo Spectator, siamo noi. E colui o ciò che è fotografato, è il referente, lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo “spettacolo” aggiungendovi quella cosa che c’è in ogni foto: il ritorno del morto. Tecnicamente parlando, la Fotografia sta nel punto d’incontro di 2 procedimenti assolutamente distinti; • il primo è di ordine chimico: è l’azione della luce su determinate sostanze; • Il secondo è di ordine fisico: è la formazione dell’immagine attraverso un dispositivo ottico. Colui che è fotografato Non appena io mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di “posa”, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine. Questa trasformazione è attiva: io sento che la Fotografia crea o mortifica a sua piacimento il mio corpo. Vedere se stessi (altrimenti che in uno specchio): questo atto è recente, dal momento che il ritratto, dipinto, disegnato o miniato che fosse, è stato sino alla diffusione della Fotografia un bene limitato a pochi, destinato del resto a ostentare una data condizione economica e sociale - e in ogni caso un ritratto dipinto, per quanto somigliante, non è una foto. La Fotografia è l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza d’identità. Fatto ancor più curioso: è prima della Fotografia che gli uomini hanno più parlato della visione del doppio. Ma oggi è come se disconoscessimo la follia profonda della Fotografia: essa ricorda la sua eredità mitica solo attraverso quel lieve disagio che mi coglie quando mi guardo in un rettangolo di carta. Questo rivolgimento è in fondo un rivolgimento di proprietà. Il diritto lo ha detto a suo modo: a chi appartiene la foto? Al soggetto fotografato? Al fotografo? Lo stesso paesaggio non è forse una specie di prestito avuto dal proprietario del terreno? Innumerevoli processi, a quanto pare, hanno espresso quest’incertezza di una società per cui l’essere era fondato sull’avere. La Fotografia trasformava il soggetto in oggetto (verso il 1840, affinché le lastre dei ritratti s’impressionassero, bisognava che il soggetto si sottoponesse a lunghe pose). La Foto-ritratto è un campo chiuso di forze: 4 immaginari vi si incontrano, affrontano, deformano. Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: • quello che io credo di essere • quello che vorrei si creda io sia • quello che il fotografo crede io sia • e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. In altre parole: io non smetto d’imitarmi, ed è per questo che ogni volta mi faccio fotografare, sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura. La Fotografia rappresenta quel particolare momento in cui no sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte: divento spettro. Il Fotografo lo sa bene, ed egli stesso teme di questa morte in cui il suo gesto sta per imbalsamarmi. Si direbbe che il Fotografo debba lavorare molto per far sì che la Fotografia non sia la Morte. Ma quando io mi scopro sul prodotto di questa operazione, ciò che vedo è che sono diventato Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona; gli altri - l’Altro - mi espropriano di me stesso, fanno di me un oggetto, mi hanno in loro mano, disposizione, pronto per tutte le manipolazioni. In fondo, ciò che io ravviso nella foto che mi viene fatta, è la Morte: la Morte è l’eidos di quella Foto. Così quando sono fotografato l’unica cosa che sopporto e mi è familiare è il rumore della macchina fotografica. Per me, l’organo del Fotografo non è l’occhio, ma il dito: ciò che è legato allo scatto dell’obbiettivo. Lo Spectator: il disordine dei gusti Fotografie: ne vedo ovunque, come ognuno di noi oggigiorno. Tuttavia constatavo che alcune provocavano in me gioie sottili, come se rovinassero a un centro sottaciuto, a un bene erotico o straziante, nascosto dentro di me; e che altre, al contrario, mi lasciavano talmente indifferente che a forza di vederle provavo nei loro confronti irritazione: ci sono momenti in cui detesto la Fotografia. Constatavo anche che non amavo mai tutte le foto di uno stesso fotografo. Io non potevo quindi accedere alla nozione che si chiama “stile di un’artista”. Sentivo che la Fotografia è un’arte poco sicura. La Fotografia come avventura Decisi allora di assumere come guida della mia nuova analisi l’attrattiva che provavo per certe fotografie. La parola più giusta per designare l’attrattiva che certe foto esercitano su di me è la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no. Essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l’attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata, però mi anima: e questo è appunto ciò che fa un’avventura. Studium e Punctum Ci sono migliaia di foto, e per queste posso provare un’interesse generale, ma la cui emozione passa attraverso il relais raziocinante di una cultura morale e politica. Ciò che io provo per queste foto procede da un affetto medio, quasi da un addestramento. Una parola che può esprimere questa specie d’interesse umano è studium, che non significa Non è possibile fissare una regola di connessione fra lo studium e il punctum. Tutto ciò che si può dire è che si tratta di una co-presenza. Per cogliere il punctum, nessuna analisi mi sarebbe utile: basta che l’immagine sia sufficientemente grande, che io non debba scrutarla, che, messa in prima pagina, io la riceva in pieno. Il Punctum: aspetto parziale Molto spesso, il punctum è un “particolare”, cioè un oggetto parziale. Fornire degli esempi di punctum, significa quindi concedermi. Il punctum non si cura della morale o del buon gusto. Per quanto folgorante sia, il punctum ha, più o meno virtualmente, una forza di espansione. Tale forza è spesso metonimica . 1 Aspetto involontario Certi particolari potrebbero “pungermi”. Se non mi pungono, è perché il fotografo li ha messi là intenzionalmente. Il particolare che m’interessa non è, o almeno non rigorosamente, intenzionale, e probabilmente bisogna che non lo sia; esso si trova nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile, non voluto; esso non attesta obbligatoriamente l’arte del fotografo; dice solo che il fotografo era là, oppure che non poteva non fotografare al contempo l’oggetto parziale e l’oggetto totale. Satori 2 Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa ha fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione, un satori, il passaggio d’un vuoto. Io mi spoglio di ogni sapere, di ogni cultura, mi astengo dal raccogliere il retaggi d’un altro sguardo. Successivamente e silenzio Lo studium è in definitiva sempre codificato, mentre invece il punctum non lo è mai. Ciò che io posso definire non può realmente pungermi. L’impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento. Per vedere bene una foto è meglio alzare la testa o chiudere gli occhi. La fotografia dev’essere silenziosa. La soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi, è far parlare l’immagine nel silenzio). Non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva. Campo cieco Ultima osservazione sul punctum: che sia o no delimitato, è un supplemento: è quello che io aggiungo alla foto e che tuttavia è già nella foto. Al cinema io non aggiungo qualcosa Che rappresenta o costituisce metonimia. Figura retorica che consiste nell'usare il nome della 1 causa per quello dell'effetto (vivere del proprio lavoro), del contenente per il contenuto (bere una bottiglia), della materia per l'oggetto (sguainare il ferro), del simbolo per la cosa designata (non tradire la bandiera), del luogo di produzione o di origine per la cosa prodotta (un fiasco di Chianti), dell'astratto per il concreto (eludere la sorveglianza ). Il satori è il momento dell'illuminazione nella pratica del Buddismo, momento in cui l'intera 2 esperienza personale e cosmica è proiettata in un unico istante, che porta ad un annullarsi cosciente del soggetto, non derivante da una rinuncia al mondo esterno ma dalla partecipazione ad esso tramite l'atto puro. all’immagine; non ne ho il tempo: davanti allo schermo non posso chiudere gli occhi, perché riaprendoli non troverei la stessa immagine; sono costretto a una voracità continua; un gran numero di altre qualità, ma nessuna pensosità; ecco il mio interesse per il fotogramma. Il cinema ha tuttavia un potere che a prima vista la Fotografia non ha: lo schermo non è una cornice, ma una maschera; il personaggio che ne scaturisce continua a vivere: un “campo cieco” rafforza incessantemente la visione parziale. Ora, di fronte a migliaia di foto, comprese quelle che possiedono un buon studium, io non avverto nessun campo cieco: tutto ciò che accade nella cornica muore appena al di là di questa. Quando si definisce la Foto come un’immagine immobile, non si vuol dire solo che i personaggi che essa ritrae non si muovono; s’intende dire che non escono fuori. Tuttavia, non appena c’è punctum, subito si crea un campo cieco. La presenza (la dinamica) di questo campo cieco è, credo, ciò che distingue la foto erotica dalla pornografica. La pornografica rappresenta di solito il sesso, ne fa un oggetto immobile (un feticcio); per me, nell’immagine pornografica non c’è punctum. La foto erotica, al contrario, non fa del sesso un oggetto centrale; essa può benissimo non farlo vedere; essa trascina lo spettatore fuori della sua cornice, ed è appunto per questo che io animo la foto e che essa a sua volta mi anima. Il punctum è quindi una specie di sottile fuori-campo, come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere. La Storia come separazione Ciò che mi separava da molte foto era la Storia. La Storia non è forse semplicemente quel tempo in cui non eravamo ancora nati? La vita di qualcuno la cui esistenza ha preceduto di poco la nostra tiene racchiusa nella sua particolarità la tensione stessa della Storia, la sua partecipazione. La Storia è isterica: essa prende forma se la si guarda - e per guardarla bisogna esserne esclusi. Come essere vivente, io sono esattamente il contrario della Storia. “È stato” Ciò che avevo notato all’inizio, e cioè che ogni foto è in un certo senso co-naturale al suo referente, io lo scoprivo di nuovo. Perciò dovevo accettare di mescolare due voci: quella della banalità (dire ciò che il mondo vede e sa) e quella della singolarità (recuperare questa banalità con tutto lo slancio di un’emozione che appartenesse solo a me). Dovevo prima capire e poi esprimere in che cosa il Referente della Fotografia è diverso da quello degli altri sistemi di rappresentazione. Chiamo “referente fotografico”, non già la cosa facoltativamente reale a cui rimanda un’immagine o un segno, ma la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi l’obbiettivo, senza cui non ci sarebbe la fotografia. La pittura può simulare la realtà senza averla vista. Il discorso combina segni che hanno certamente dei referenti, solo che tali referenti possono essere e sono, il più delle volte delle “chimere” Nella Fotografia io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. E siccome tale costrizione non esiste che per essa, va considerata per riduzione, come l’essenza stessa della Fotografia. Ciò che io internazionalizzo in una foto (non parliamo ancora del cinema), non è l’Arte e neanche la Comunicazione, ma la Referenza, che è l’ordine fondatore della Fotografia. Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: “È stato”, o anche: l’Intrattabile. In latino 3 tutto ciò si direbbe: “interfuit”. Ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo che si estende unità minima di significato3 tra l’infinito e il soggetto (operator e spectator); è stato là, e tuttavia è stato immediatamente separato. Il verbo Intersum vuol dire tutto questo. La posa Ciò che costituisce la natura della Fotografia, è la posa. Poca importanza ha la durata fisica di tale posa; anche se solo per un milionesimo di secondo, vi è comunque stata la posa, poiché non è qui un atteggiamento della cosa fotografato e neppure una tecnica dell’Operator, ma il termine di una “intenzione” di lettura: guardando una foto, io includo fatalmente nel mio sguardo il pensiero di quell’istante, per quanto breve esso sia stato, in cui una cosa reale si è trovata immobile davanti all’occhio. Io trasferisco l’immobilità della foto presente sulla registrazione passata, ed è appunto questa sospensione che costituisce la posa. Tutto questo spiega che il noema della Fotografia si altera quando quella quella Fotografia si anima e diventa cinema: nella Foto, qualcosa si è posto dinanzi al piccolo foro e vi è rimasto per sempre; nel cinema, invece, qualcosa è passato davanti a quello stesso piccolo foro: la posa viene travolta e negata dal continuo susseguirsi delle immagini: è un’altra fenomenologia e di conseguenza è un’altra Arte che ha inizio, benché derivata dalla prima. Nella Fotografia, la presenza della cosa (in un dato momento passato) non è mai metaforica e, per ciò che concerne gli esseri animati, non lo è neppure la sua vita, a patto di non fotografare dei cadaveri; e inoltre; se la fotografia diventa in tal caso orribile, è perché certifica che il cadavere è vivo in quanto cadavere: è l’immagine viva di una cosa morta. Infatti, l’immobilità della foto è come il risultato di una maliziosa confusione tra due concetti: il Reale e il Vivente: attestando che l’oggetto è stato reale, essa induce impercettibilmente a credere che è vivo, a causa di quell’illusione che ci fa attribuire al Reale un valore assolutamente superiore, come eterno; ma spostando questo reale verso il passato (“è stato”), essa suggerisce che è già morto. Perciò è meglio dire che il tratto inimitabile della Fotografia (il suo noema) è che qualcuno ha visto il referente (anche se si tratti di oggetti) in carne e ossa, o anche in persona. D’altronde, storicamente parlando, la Fotografia è nata come un’arte della Persona. Quindi fenomenologicamente parlando, il cinema comincia a differenziarsi dalla Fotografia; il cinema (di fantasia) mescola due pose: lo “è stato” dell’attore e quello del ruolo, cosicché (cosa che non proverei dinanzi a un quadro) io non posso mai vedere o rivedere in un film degli attori che sono morti senza provare una certa qual malinconia: la malinconia della Fotografia. (Lo stesso effetto mi fa l’ascoltare la voce dei cantanti scomparsi). I raggi luminosi, il colore Si dice spesso che a inventare la Fotografia (trasmettendole l’inquadratura, la prospettiva e l’ottica della camera obscura) siano stati i pittori. Io invece dico: sono stati i chimici. Infatti il noema “è stato” non è stato possibile che dal giorno in cui una circostanza scientifica (la scoperta della sensibilità alla luce degli alogenuri d’argento) ha permesso di captare e fissare direttamente i raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato. La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui. In latino “fotografia” potrebbe dirsi: “imago lucis opera expressa”; ossia: immagine rivelata, “tirata fuori”, “allestita”, “spremuta” dall’azione della luce. Forse è perché mi entusiasmo (o incupisco) nel sapere che la cosa d’un tempo, per mezzo delle sue irradiazioni immediate (le sue brillanze), ha realmente toccato la superficie che a sua volta il mio sguardo viene a toccare, che io non amo il Colore. Ho sempre l’impressione (poco importa cosa accade realmente) che, allo stesso modo, in ogni foto, il colore si un’intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco-e-Nero. Infatti, ciò che mi sta a cuore non è la “vita” della foto (nozione puramente come tale, pubblicamente (le continue aggressioni della Stampa nei confronti del privato dei divi e le sempre più frequenti perplessità della legislazione attestano tale tendenza). Ma siccome il privato non è soltanto un bene ma anche il luogo assolutamente prezioso e inalienabile in cui la mia immagine è libera (di annullarsi), ed è la condizione di un’interiorità che credo confondersi con la mia verità, o, se si preferisce, con l’Intrattabile di cui sono fatto, io finisco col ricostituire, attraverso una necessaria resistenza, la separazione del pubblico e del privato: io voglio enunciare l’interiorità senza concedere l’intimità. Io vivo la Fotografia e il mondo di cui essa fa parte distinguendola in due regioni: da una parte le Immagini, dall’altra le mie foto; da una parte, la noncuranza, il sorvolare, il chiasso, l’inessenziale; dall’altra, ciò che brucia, ferisce. (Di solito, il dilettante è definito come un’immaturazione all’artista, ma nel campo della pratica fotografica, è invece il dilettante a essere l’esaltazione del professionista: è lui infatti che sta più vicino al noema della Fotografia). Scrutare Se una foto mi piace, se mi turba, io v’indugio sopra. La guardo, la scruto, come se volessi saperne di più sulla cosa o sulla persona che ritrae. La Fotografia giustifica tale desiderio, anche se poi non lo soddisfa: io posso avere la folle speranza di scoprire la verità, solo perché il noema della Foto è appunto che quello è stato, perché vivo nell’illusione che per accedere a ciò che sta dietro basta pulire la superficie dell’immagine. Ma purtroppo, per quanto scruti, io non scopro niente. La somiglianza Se i miei sforzi sono dolorosi è perché sono vicino al nocciolo: nella tale foto, io credo di scorgere i lineamenti della verità. È appunto ciò che accade quando giudico “somigliante” la tale foto. Tuttavia, sono obbligato a chiedermi: chi assomiglia a chi? La somiglianza è una conformità, ma a che cosa? A un’identità. Tale identità è imprecisa, addirittura immaginaria, tanto che io posso continuare a parlare di “somiglianza”, senza aver mai visto il modello. Controprova: Io assomiglio solo ad altre foto di me stesso, e questo all’infinito: non si è mai altro che la copia di una copia, reale o mentale che sia (tutt’al più posso dire che su certe foto io mi sopporto, o no, secondo che mi trovi conforme all’immagine che vorrei dare di me). Infatti, la somiglianza rimanda all’identità del soggetto, cosa irrilevante, puramente anagrafica, addirittura penale; essa lo ritrae “in quanto se stesso”, mentre invece io voglio un soggetto “come in se stesso”. La somiglianza mi lascia insoddisfatto e come scettico. Cosa più insidiosa e penetrante della somiglianza è la discendenza: a volte la Fotografia fa apparire ciò che non si coglie mai di un volte reale: un tratto genetico, il pezzo di se stessi o d’un parente che viene da un ascendente. La camera chiara Io non posso approfondire, penetrare la Fotografia. Posso solo esplorarla con lo sguardo, come una superficie immobile. La Fotografia è piatta. Se la Fotografia non può essere approfondita, è a causa della sua forza d’evidenza. Nell’immagine, l’oggetto si presenta in blocco e la percezione ne è certa - contrariamente a quanto avviene per il testo o altre percezioni che mi presentano l’oggetto in forma vaga, discutibile, e che in tal modo mi esortano a diffidare di ciò che credo di vedere. Questa certezza è assoluto perché ho la possibilità di osservare la foto con intensità; d’altra parte, per quanto prolunghi l’osservazione, essa non mi apprende nulla. Ed è proprio in questa sospensione dell’interpretazione che risiede la certezza della Foto: io mi consumo nel constatare che ciò è stato. L’ ”aria” Tuttavia, se si tratta di una persona - e non di una cosa - l’evidenza della Fotografia assume un tutt’altro rilievo. Dal momento che la Fotografia (è il suo noema) autentifica l’esistenza della tale persona, io voglio ritrovarla globalmente, ossia in essenza, “come in se stessa”, al di là di una semplice somiglianza, anagrafica o ereditaria che sia. La piattezza della Foto diventa qui più dolorosa; essa infatti può corrispondere al mio desiderio folle solo attraverso qualcosa d’indicibile: evidente (è la legge della Fotografia) e nondimeno improbabile. Questo qualcosa, è l’aria. L’aria di un volto non è scomponibile. L’aria non è un dato schematico, intellettuale come lo è invece una silhouette. L’aria è quella cosa esorbitante che si trasmette dal corpo all’anima. L’aria esprime il soggetto. Forse l’aria in definitiva è qualcosa di morale, che apporta misteriosamente al volto il riflesso di un valore di vita. L’aria è dunque l’ombra luminosa che accompagna il corpo; e se la foto non riesce a palesare quest’aria, allora il corpo va avanti senz’ombra, e una volta che quest’ombra è separata dal corpo, non resta che un corpo sterile. Follia, Pietà Il noema della Fotografia è semplice, banale; nessuna profondità: “è stato”. La Fotografia è un’evidenza spinta che sembra caricaturizzare non già la figura di ciò che ritrae, ma la sua stessa esistenza. L’immagine è un nulla di oggetto. Ora, ciò che io ipotizzo nella Fotografia non è solo l’assenza dell’oggetto, ma anche, sullo stesso piano e all’unisono, che quell’oggetto è effettivamente esistito e che è stato lì dove io lo vedo. Ecco, la follia è proprio qui; infatti, sino ad oggi, nessuna raffigurazione poteva assicurarmi carica il passato della cosa, se non per mezzo di riferimenti ad altre cose; invece, con la Fotografia, la mia certezza è immediata: nessuno mi può disingannare. La Fotografia diventa allora per me un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo: un’allucinazione in un certo senso temperata, modesta, divisa: immagine folle, velata di reale. Nell’amore fatto nascere dalla Fotografia (da certe foto), un’altra musica dal nome stranamente démodé si faceva udire: la Pietà. Raccoglievo le immagini che mi avevano punto e attraverso ognuno di loro andavo oltre l’irrealtà della cosa raffigurata, entravo follemente nello spettacolo, nell’immagine, cingendo con le mie braccia ciò che è morto. ANDRÉ BAZIN - CHE COSA È IL CINEMA? Ontologia dell’immagine fotografica L’evoluzione parallela dell’arte e della civiltà ha sublimato a uso di un pensiero logico il bisogno incoercibile di esorcizzare il tempo. Non si crede più all’identità ontologica del modello e del ritratto, ma si ammette che questo ci aiuta a ricordarci di quello, e dunque a salvarlo da una seconda morte spirituale. Non si tratta più della sopravvivenza dell’uomo ma più in generale della creazione di un universo ideale a immagine del reale e dotato di un destino temporale autonomo. Se la storia delle arti plastiche non è solo quella della loro estetica ma innanzi tutto della loro psicologia, allora essa è essenzialmente quella della rassomiglianza e del realismo. La fotografia e il cinema situati in queste prospettive sociologiche spiegherebbero in modo del tutto naturale la grande crisi spirituale e tecnica della pittura moderna che ha inizio verso la metà del secolo scorso. L’avvenimento decisivo fu senza dubbio l’invenzione del primo sistema scientifico e, in qualche modo, già meccanico: la prospettiva. Esso permetteva all’artista di dare l’illusione di uno spazio a tre dimensioni dove gli oggetti potessero situarsi come nella nostra percezione diretta. Ormai la pittura era divisa fra due aspirazioni: una propriamente estetica - l’espressione delle realtà spirituali dove il modello viene ad essere trasceso dal simbolismo delle forme -, l’atra che non è che un desiderio tutto psicologico di rimpiazzare il mondo esterno col suo doppio. Questo bisogno d’illusione, accrescendosi rapidamente con la propria soddisfazione, divorò a poco a poco le arti plastiche e non cessò dal XVI secolo in poi di elaborare all’interno la pittura. Bisogno tutto mentale di cui si potrebbe trovare l’origine solo nella mentalità magica, ma bisogno efficace la cui attrazione ha disorganizzato l’equilibrio delle arti plastiche. La disputa del realismo nell’arte deriva da questo malinteso, dalla confusione fra l’estetica e la psicologia, fra l’autentico realismo che ha bisogno di esprimere il significato a un tempo concreto e essenziale del mondo e il pseudo-realismo dell’inganno ottico (o spirituale) che si soddisfa dell’illusione delle forme. È per questo che l’arte medioevale, per esempio, non sembra soffrire di questo conflitto; a un tempo violentemente realista e altamente spirituale, essa ignorava questo dramma che le possibilità tecniche sono venute a rivelare. La prospettiva è stata il peccato originale della pittura occidentale. Niepce e Lumièr ne furono i redentori. La fotografia ha liberato le arti plastiche dalla loro ossessione della rassomiglianza. La pittura infatti si sforzava in fondo invano di illuderci e questa illusione era sufficiente all’arte, mentre la fotografia e il cinema sono scoperte che soddisfano definitivamente e nella sua stessa essenza l’ossessione del realismo. Per quanto abile sia il pittore, la sua opera sarà sempre ipotecata da una soggettività inevitabile. L’originalità della fotografia in rapporto alla pittura risiede dunque nella sua oggettività essenziale. Per la prima volta, un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo dell’uomo. La personalità del fotografo non entra in gioco che per la scelta, l’orientamento, la pedagogia del fenomeno; per quanto possa essere visibile nell’opera finita, essa non vi figura allo stesso titolo di quella del pittore. Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza. Questa genesi automatica ha sconvolto radicalmente la psicologia dell’immagine. L’oggettività della fotografia le conferisce un potere di credibilità assente da qualsiasi opera pittorica. Quali che siano le obiezioni del nostro spirito critico siamo obbligati credere all’esistenza dell’oggetto rappresentato, effettivamente ri-presentato, cioè reso presente nel tempo e nello spazio. La fotografia beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione. La fotografia non crea eternità, come l’arte, ma imbalsama il tempo, lo sottrae solamente alla sua corruzione. In questa prospettiva, il cinema appare come il compimento nel tempo dell’oggettività fotografica. Per la prima volta, l’immagine delle cose è anche quella della loro durata. Montaggio proibito Il proposito è di analizzare, sulla base dell’esempio sorprendentemente significativo che qualche opera ci offre, alcune leggi del montaggio nel loro rapporto con l’espressione cinematografica e, più essenzialmente ancora, con la sua ontologia estetica. Cominciamo col film di Jean Tourane. È noto che l’ambizione di Tourane è molto ingenuamente di rifare Walt Disney con animali veri. Ora, è evidente che i sentimenti umani prestati alle bestie sono una proiezione della nostra coscienza. Leggiamo sulla loro anatomia o sul loro comportamento solo gli stati d’animo che abbiamo loro più o meno inconsciamente attributo sulla base di certe somiglianze esteriori con l’anatomia o il comportamento dell’uomo. Va notato che la scienza riscopre, con sapienti metodi d’investigazione, una certa verità dell’antropomorfismo. È molto importante notare che gli animali di Tourane non sono addestrati e che non realizzano praticamente mai ciò che li si vede fare (quando sembra così è perché c’è un Ma la neutralità di questo dècoupage “invisibile” non rende conto di tutte le possibilità del montaggio, le quali al contrario si colgono perfettamente nei 3 procedimenti noti generalmente con i nomi di “montaggio parallelo”, “montaggio accelerato” e “montaggio delle attrazioni”. Creando il montaggio parallelo Griffith pervenne a esprimere la simultaneità di due azioni lontane nello spazio attraverso il succedersi di inquadrature dell’una e dell’altra. In La rose Abel Gance ci dà l’illusione dell’accelerazione di una locomotiva senza ricorrere a vere immagini di velocità (dato che in fondo le ruote potrebbero girare a vuoto) ma solo mediante la moltiplicazione di inquadrature sempre più brevi. Infine, il montaggio delle attrazioni creato da Ejzenstejn, la cui descrizione è meno facile, potrebbe grosso modo definirsi come il rafforzamento del senso di un’immagine mediante l’accostamento di un’altra immagine che non appartiene necessariamente allo stesso avvenimento. Sotto questa forma estrema il montaggio delle attrazioni è stato raramente usato, anche dal suo creatore, ma si può considerare assai vicina al suo principio la pratica molto più diffusa dell’ellissi, del paragone o della metafora. Naturalmente esistono diverse combinazioni di questi tre procedimenti. Quali che esse siano, si può loro riconoscere questo tratto comune, che è poi la definizione stessa del montaggio: la creazione di un senso che le immagini oggettivamente non contengono e che deriva solo dal loro rapporto. Così, fra la sceneggiatura propriamente detta, ultimo oggetto del racconto, e l’immagine grezza si intercala un relai supplementare, un “trasformatore” estetico. Il senso non sta nell’immagine; ne è l’ombra proiettata, per mezzo del montaggio, sul piano di coscienza dello spettatore. Riassumendo: sia attraverso il contenuto plastico dell’immagine che le risorse del montaggio, il cinema dispone di tutto un arsenale di procedimenti per imporre allo spettatore la propria interpretazione dell’avvenimento rappresentato. Si può ritenere che, alla fine del cinema muto, quest’arsenale fosse al completo. Il cinema sovietico aveva portato alle sue estreme conseguenze la teoria e la pratica del montaggio, mentre la scuola tedesca aveva fatto subire alla plasticità dell’immagine (scenografia e illuminazione) tutte le violenze possibili. Se si cessa di considerare il montaggio e la composizione plastica dell’immagine come l’essenza stessa del linguaggio cinematografico, l’apparizione del suono non rappresenta più la linea di frattura estetica che divide due aspetti radicalmente differenti del cinema. Rimessa così in causa l’unità estetica del cinema muto e ripartita fra due tendenze intimamente contrastanti, riesaminiamo la storia degli ultimi vent’anni. Dal 1930 al 1940 sembra essersi affermata nel mondo, soprattutto in America, una certa comunità d’espressione nel linguaggio cinematografico. È il trionfo a Hollywood di 5 o 6 grandi generi che le assicurano allora una schiacciante superiorità: la commedia americana, il “burlesque”, il film di danza e varietà, i film polizieschi e di gangster, il dramma psicologico e di costume, il film fantastico e horror e il western. Il secondo cinema nel mondo è senza dubbio, in quel periodo, quello francese; la sua superiorità si afferma, a poco a poco, in una tendenza che si può chiamare del realismo nero o poetico. Grandi generi dalle regole ben elaborate capaci di piacere al più vasto pubblico internazionale e d’interessare anche una élite colta purché a priori non ostile al cinema. Inoltre per quanto riguarda la forma: degli stili di fotografia e di dècoupage perfettamente chiari e conformi al loro soggetto; una totale riconciliazione dell’immagine e del suono. In breve, tutti i caratteri della pienezza di un’arte “classica”. L’originalità del cinema del dopoguerra in rapporto a quello del 1939 sta nel promovimento di certe produzioni nazionali e in particolare nel sorgere sfolgorante del cinema italiano e nell’apparizione di un cinema britannico originale e svincolato dalle influenze di Hollywood, e che si possa concludere da ciò che il fenomeno veramente importante degli anni 1940-50 è l’introduzione nel cinema di una materia ancora inesplorata; in breve, che la vera rivoluzione è avvenuta molto più al livello dei soggetti che a quello dello stile, di ciò che il cinema ha da dire al mondo piuttosto che del modo di dirlo. Non è forse il “neorealismo” un umanesimo prima di essere uno stile di regia? E questo stesso stile non è definito essenzialmente dal suo cancellarsi di fronte alla realtà? Nel ’38/’39, dunque, il cinema parlato raggiungeva, soprattutto in Francia e in America, una sorta di perfezione classica fondata da un lato sula maturità dei generi drammatici elaborati da un decennio o ereditati dal cinema. muto, dall’altro sulla stabilizzazione dei progressi tecnici. Gli anni ’30 sono stati nello stesso tempo quelli del suono e quelli della pellicola pancromatica. Senza dubbio l’attrezzatura dei teatri di posa non ha cessato di perfezionarsi ma questi miglioramenti non erano che di dettaglio, nessuno di essi apriva delle possibilità radicalmente nuove alla regia. Questa situazione non è peraltro cambiata dopo il 1940, se non forse per quanto riguarda la fotografia grazie all’aumento della sensibilità della pellicola. La pancromatica ha rivoluzionato l’equilibrio dei valori dell’immagine e le emulsioni ultrasensibili hanno permesso di modificarne il disegno. Libero di fare delle riprese in teatro di posa con dei diaframmi molto più chiusi, l’operatore ha potuto, all’occasione, eliminare lo sfondo sfocato che era generalmente di rigore. Ma si possono trovare diversi esempi di uso anteriore della profondità di campo; essa è stata sempre possibile in esterni, e anche in teatro di posa a prezzo di qualche prodezza. Sicché si tratta, in fondo, meno di un problema tecnico, la cui soluzione è stata comunque molto facilitata, che di una ricerca di stile. Insomma, dopo la diffusione dell’uso della pancromatica, la conoscenza delle risorse del microfono e la generalizzazione della gru nelle attrezzature dei teatri di prosa, si possano ritenere acquisite le condizioni tecniche necessarie e sufficienti per l’arte cinematografica dopo il 1930. Dal momento che i determinismi tecnici erano stati praticamente eliminati, bisogna dunque cercare i segni e i principi dell’evoluzione del linguaggio altrove: nella rimessa in causa dei soggetti e quindi degli stili necessari ad esprimerli. Evoluzione del “découpage” cinematografico dopo il parlato Nel 1938 si trova quasi ovunque lo stesso tipo di découpage. Se chiamiamo “espressionista” o “simbolista” la categoria di film muti basati sulla plasticità e sugli artifici del montaggio, potremo qualificare la nuova forma di narrazione come “analitica” e “drammatica”. Riprendendo uno degli elementi dell’esperimento di Kulešov, immaginiamo una tavola imbandita e un pover’uomo affamato. Nel 1936 si può immaginare il seguente tipo di découpage: I. Campo totale dell’attore e della tavola; II. Carrello avanti fino a primo piano del volto che esprime un misto di meraviglia e di desiderio; III. Serie di dettagli dele vivande; IV. Ritorno al personaggio, inquadrato in figura intera, che avanza lentamente verso la macchina da presa; V. Leggero carrello indietro sino a piano americano dell’attore che afferra un’ala di pollo. Quali che siano le varianti immaginabili di questo découpage, esse avrebbero i seguenti punti in comune: • La vero somiglianza dello spazio, in cui è sempre determinata la posizione del personaggio, anche quando un primo piano escluda l’ambiente; • Le intenzioni e gli effetti del découpage sono esclusivamente drammatici e psicologici. In altri termini, recitata in teatro e vista dalla platea questa scena avrebbe esattamente lo stesso senso, l’avvenimento continuerebbe ad esistere oggettivamente. I cambiamenti dei punti di vista della macchina da presa non vi aggiungono nulla. Essi si limitano a presentare la realtà in un modo più efficace: innanzi tutto permettendo di vederla meglio, e inoltre mettendo l’accento su ciò che lo merita. Certamente il regista di cinema, come quello di teatro, dispone di un margine d’interpretazioni in cui influenzare il senso dell’azione. Ma si tratta solo di un margine, insufficiente a modificare la logica formale dell’avvenimento. Così, verso il 1938, i film erano quasi tutti montati secondo gli stessi principi. La storia veniva descritta attraverso una successione d’inquadrature il cui numero variava relativamente poco (circa 600). La tecnica caratteristica di questo découpage era il campo-controcampo; era, nel dialogo, per es., la ripresa, alternata secondo la logica del testo, dell’uno o dell’altro interlocutore. Questo tipo di découpage, perfettamente conveniente ai migliori film degli anni dal ’30 al ’39, è stato rimesso in causa dal découpage in profondità di campo di Orson Welles e di William Wyler. La fama di Citizen Kane non sarà mai troppa. Grazie alla profondità di campo, scene intere sono girate senza interruzione, a volte anche con la macchina da presa immobile. Gli effetti drammatici, prima affidati al montaggio, nascono ora tutti dallo spostamento degli attori nell’inquadratura scelta una volta per tutte. Certamente, come Griffith per il primo piano, così Orson Welles non ha “inventato” la profondità di campo; tutti i primitivi del cinema l’hanno usata. La sfocatura nell’immagine non è apparsa che col montaggio. Essa non era solo una servitù tecnica conseguente all’uso delle inquadrature ravvicinate ma la conseguenza logica del montaggio, il suo equivalente plastico. Se a un certo punto dell’azione il regista fa, per es., come nel découpage descritto prima, il dettaglio di un piatto, è normale che egli lo isoli anche nello spazio mediante una messa a fuoco dell’obiettivo. Lo sfondo sfocato conferma dunque l’effetto di montaggio; esso appartiene essenzialmente allo stile del racconto e solo accessoriamente a quello della fotografia. Basta raffrontare due fotogrammi con profondità di campo, l’uno del 1910, l’altro di un film di Welles o di Wyler, per comprendere, alla sola vista dell’immagine anche separata dal film, che la funzione di quest’ultima è completamente diversa. L’inquadratura del 1910 si identifica praticamente con la quarta parete assente dalla scena teatrale o, almeno in esterni, con il miglior punto di vista sull’azione, mentre la scenografia, l’illuminazione e l’angolazione danno alla seconda composizione una diversa leggibilità. Sulla superficie dello schermo il regista e l’operatore hanno saputo organizzare una scacchiera drammatica da cui nessun dettaglio viene escluso. Se ne possono trovare gli esempi più chiari in The Little foxes dove la regia raggiunge un disegno rigoroso. La disposizione di un oggetto in rapporto ai personaggi è tale che lo spettatore non può evitarne il significato. Significato che il montaggio avrebbe spezzettato in uno svolgersi di successive inquadrature. In altri termini, il piano-sequenza in profondità di campo del regista moderno non rinuncia al montaggio ma lo integra alla propria plasticità. È per questo che la profondità di campo non rappresenta una caratteristica dell’operatore, come l’uso dei filtri o un certo stile di illuminazione, ma un’acquisizione capitale della regia: un progresso dialettico nella storia del linguaggio cinematografico. E non si tratta solo di un progresso formale! La profondità di campo influenza, insieme alle strutture del linguaggio cinematografico, anche i rapporti intellettuali dello spettatore con l’immagine, e quindi modifica il senso dello spettacolo. • La profondità di campo pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà. È quindi giusto dire che, indipendentemente dal contenuto stesso dell’immagine, la sua struttura è più realistica; • Essa implica di conseguenza un atteggiamento mentale più attivo e anche un contributo positivo dello spettatore alla messa in scena. Mentre nel caso del montaggio analitico egli non ha che da seguire la guida, trasferire la propria attenzione in quella del regista che sceglie per lui ciò che è necessario vedere, nell’altro caso è richiesto un minimo di scelta personale. Dall’attenzione e dalla volontà dello spettatore dipende in parte il fatto che l’immagine abbia un senso; acquista tutta la sua evidenza solo grazie alla doppia uscita di campo di Marshall in primo piano a destra e poi in terzo piano a sinistra. Invece di seguirlo nel suo spostamento laterale, che sarebbe stato il movimento naturale di un occhio meno intelligente, la macchina da presa resta imperturbabilmente immobile. Quando finalmente Marshall rientra per la seconda volta in campo e sale le scale, Wyler ha avuto gran cura di chiedere al suo operatore Gregg Toland di non mettere a fuoco su tutta la profondità del campo, sicché la caduta di Marshall sulle scale e la sua morte non possono essere chiaramente distinte dallo spettatore. Questa sfocatura tecnica accresce il nostro senso d’inquietudine, dobbiamo cercare di distinguere da lontano, come da sopra le spalle di Bette Davis che gli volta la schiena, l’esito di un dramma il cui protagonista ci sfugge a metà. Niente poteva meglio moltiplicare la potenza drammatica di questa scena dell’immobilità assoluta della macchina da presa. Il minimo movimento, che a un regista meno avveduto sarebbe parso appunto l’elemento cinematografico da introdurre, avrebbe fatto cadere la tensione drammatica. Qui la macchina da presa non è affatto al posto di uno spettatore qualsiasi. È essa, grazie alla cornice dello schermo e alle coordinate ideali della sua geometria drammatica, ad organizzare l’azione. La tendenza “realista” esiste nel cinema dai tempi di Lumière. Essa ha conosciuto alterne fortune, ma le forme che ha potuto prendere sono sopravvissute solo in proporzione dell’invenzione (o della scoperta) estetica (cosciente o no, calcolata o ingenua) che essa implicava. Non c’è uno, ma dei realismi. Ogni epoca cerca il suo, cioè la tecnica e l’estetica che meglio possano captarlo, trattenere e restituire ciò che si vuole captare della realtà. Sullo schermo, la tecnica assume naturalmente un ruolo molto più importante che nel romanzo, per esempio, perché il linguaggio scritto è più o meno stabile, mentre l’immagine cinematografica si è profondamente modificata dalle origini ad oggi. La pellicola pancromatica, il suono, il colore hanno costituito delle vere e proprie trasformazioni dell’immagine. Far vero, mostrare la realtà, è forse un’intenzione onorabile. Tale e quale essa non supera il piano della morale. Al cinema, non può trattarsi che di una rappresentazione della realtà. Il problema estetico comincia con i mezzi di questa rappresentazione. Un bambino morto in primo piano non è un bambino morto in campo totale o a colori. In effetti, il nostro occhio e di conseguenza la nostra coscienza hanno un modo di vedere un bambino morto nella realtà che non è quella della macchina da presa, che ritaglia l’immagine nel rettangolo dello schermo. Il “realismo” non consiste dunque solo nel mostrarci un cadavere ma, anche, in condizioni tali che rispettino certi dati fisiologici o mentali della percezione naturale o, più esattamente, nel ritrovare degli equivalenti. Il découpage classico che analizza la scena in un certo numero di elementi (la mano sul telefono o il pomo della porta che gira) corrisponde implicitamente a un certo processo mentale naturale che ci fa ammettere la successione delle inquadrature senza che abbiamo coscienza della loro arbitrarietà tecnica. Nella realtà, infatti, il nostro occhio si assesta spazialmente, come l’obiettivo, sul punto importante dell’avvenimento che c’interessa; esso procede per investigazioni successive, introduce una sorta di temporalizzazione di secondo grado con l’analisi dello spazio di una realtà che evolve essa stessa nel tempo. I primi obiettivi cinematografici non erano variabili, la loro ottica dava naturalmente una grande profondità di campo che conveniva al découpage o piuttosto alla quasi assenza di découpage dei film di allora. Non si pensava allora a dividere una scena in 25 inquadrature e di regolare il fuoco sugli spostamenti dell’attore. I perfezionamenti dell’ottica sono in stretto rapporto con la storia del découpage, a un tempo causa e conseguenza. Per rimettere in questione la tecnica di ripresa, bisognava aver scoperto ciò che il découpage analitico nascondeva d’illusorio nel suo apparente realismo psicologico. Se è vero che il nostro occhio cambia perpetuamente di campo secondo l’impulso dell’interesse o dell’attenzione, questo assestamento mentale e fisiologico si effettua a posteriori. L'avvenimento esiste costantemente nella sua integralità, ci sollecita perpetuamente nella sua interezza; siamo noi a decidere di sceglierne questo o quell’aspetto, ma un altro sceglierebbe forse diversamente. In ogni caso, siamo liberi di fare la nostra messa in scena: è sempre possibile un altro découpage che può modificare radicalmente l’aspetto soggettivo della realtà. Il regista che fa il découpage per noi, fa al posto nostro la discriminazione che ci spetta nella vita reale. Accettiamo inconsciamente la sua analisi perché essa è conforme alle leggi dell’attenzione; ma essa ci priva di un privilegio non meno fondato in psicologia, che abbandoniamo senza rendercene conto, e che è la libertà, perlomeno virtuale, di modificare ad ogni istante il nostro sistema di découpage. Le conseguenze psicologiche e quindi estetiche sono di una certa importanza. Questa tecnica tende a escludere in particolare l’ambiguità immanente alla realtà. Essa “soggettivizza” l’avvenimento all’estremo poiché ogni particella è dovuta al partito preso del regista. Essa non implica solo una scelta drammatica, affettiva o morale, ma anche e più profondamente una presa di posizione sulla realtà in quanto tale. Grazie alla profondità di campo, che può venire a completare la recitazione simultanea degli attori, lo spettatore ha la possibilità di fare a meno da sé dell’operazione finale del découpage. Cito Wyler: “Ho avuto delle lunghe conversazioni col mio operatore Gregg Toland. Abbiamo deciso di cercare un realismo il più semplice possibile. Il dono che ha Toland di passare senza difficoltà da un piano dell’ambiente all’altro mi ha permesso di sviluppare la mia propria tecnica di regia. Così posso seguire un’azione evitando i tagli. La continuità che ne risulta rende le inquadrature più vive: più interessanti per lo spettatore che studia ogni personaggio a suo gradimento e fa da sé i propri tagli.” Si tratta d’integrare al découpage e all’immagine il massimo di realtà, di rendere totalmente e simultaneamente presenti l’ambiente e gli attori di modo che l’azione non sia mai una sottrazione. Ma questa somma costante dell’avvenimento nell’immagine mira in questo caso alla più perfetta neutralità. Non si tratta di provocare lo spettatore. Wyler vuole solo permettergli: 1. Di vedere tutto; 2. Di scegliere “a suo gradimento”. È un atto di lealtà verso lo spettatore, una volontà di onestà drammatica. La profondità di campo di William Wyler vuol essere liberale e democratica come la coscienza dello spettatore americano e i protagonisti del film! Lo stile senza stile Considerata dal punto di vista della narrazione, la profondità di campo di Wyler è pressapoco l’equivalente cinematografico dell’ideale della scrittura del romanzo: la perfetta neutralità e trasparenza dello stile che non deve interporre alcuna colorazione, alcun indizio di rifrangenza fra lo spirito del lettore e la storia. Gli sforzi di Wyler concorrono sistematicamente a ottenere un universo cinematografico non solo rigorosamente conforme alla realtà, ma anche modificato il meno possibile dall’ottica della macchina da presa. A prezzo di imprese tecniche paradossali come le riprese in ambienti di dimensioni reali e il diaframma dell’obiettivo, Wyler ottiene dunque solo sullo schermo la sezione di un parallelepipedo che rispetta per quanto possibile, fin nel residuo inevitabile delle convenzioni imposte dal cinema, lo spettacolo che un occhio potrebbe vedere attraverso un mascherino omotetico alla cornice della fotografia. Queste ricerche non potevano mancare di modificare anche il découpage. Innanzitutto, per ragioni tecniche più che evidenti, il numero medio delle inquadrature diminuisce generalmente al cinema in funzione del loro realismo. È noto che i film parlati hanno meno inquadrature dei film muti. Il colore a sua volta ne ha diminuito ancora il numero. Si capisce infatti che più l’immagine tende a identificarsi con la realtà, più il problema psicotecnico dei raccordi diviene complesso. Già il suono ha complicato il montaggio, la profondità di campo fa di ogni cambiamento d’inquadratura un tour de force tecnico. È in questo senso che bisogna intendere l’omaggio di Wyler al suo operatore. Il suo talento non sta infatti in una conoscenza particolarmente approfondita delle risorse della pellicola ma, più di ogni altra cosa, nel movimento senza raccordi sbagliati: non più solo di quello spessore minimo di nettezza fotografica delle riprese tradizionali ma di tutta la massa di scena, luci e attori abbracciata da un campo illimitato. Ma il determinismo di questa tecnica serviva perfettamente le intenzioni di Wyler. Il découpage di una scena in inquadrature è un’operazione necessariamente artificiale. Lo stesso calcolo estetico che gli faceva scegliere la profondità del campo di ripresa, doveva portarlo a ridurre il numero delle inquadrature al minimo utile alla chiarezza del racconto. Se Wyler ha sistematicamente cercato, e a volte a prezzo di difficoltà tecniche mai prima risolte, un universo drammatico perfettamente neutro, sarebbe ingenuo confondere questa neutralità con un’assenza d’arte. Come il rispetto delle forme teatrali nell’adattamento di The Little foxes nascondeva sottili tramutazioni estetiche, così la conquista laboriosa e sapiente della neutralità implica in questo caso più neutralizzazioni preliminari delle convenzioni cinematografiche abituali. Che si tratti di convenzioni tecniche quasi inevitabili o di procedimenti di découpage imposti dalla moda, era necessario tanto più coraggio e immaginazioni in quanto ci si voleva privare del loro aiuto. È piuttosto abituale lodare uno scrittore per il suo stile spoglio e si ammira Stendhal perché scrive come il Codice Civile senza per questo sospettarlo di pigrizia intellettuale. Quasi tutte le inquadrature di Wyler sono costruite come un’equazione, o forse sarebbe meglio dire secondo una meccanica drammatica il suo parallelogramma delle forze può quasi disegnarsi in linee geometriche. Non si tratta certo di una scoperta originale e ogni regista degno di nome organizzata la disposizione dei suoi attori nelle coordinate dello schermo secondo leggi ancora oscure, ma la cui percezione spontanea fa parte del suo talento. Tutti sanno per esempio che il personaggio dominante dev’essere più alto nell’inquadratura dell’attore dominato. Ma, oltre al fatto che Wyler sa dare alle sue costruzioni implicite una chiarezza e una forza eccezionali, la sua originalità sta nella scoperta di alcune leggi che gli sono proprie e soprattutto, in questo caso, nell’uso della profondità di campo come coordinata supplementare. L’analisi prima abbozzata a proposito della morte di Marshall in The Little foxes rivela chiaramente come Wyler sappia far ruotar un’intera scena sull’attore: Bette Davis inchiodata al centro da un proiettore come una civetta e, attorno a lei, il passo sinuoso di Marshall, secondo polo, mobile, il cui spostamento fuori dal primo piano trascina con sé tutto lo spettro drammatico, con le straordinarie tensioni dovute alla sua duplice sparizione laterale e alla messa a fuoco imperfetta della scala. È evidente in questo esempio come Wyler usa la profondità di campo. Ha dunque preferito che Gregg Toland gli desse una certa sfocatura sul personaggio di Marshall morente, affinché lo spettatore ne provasse un’inquietudine supplementare e quasi la voglia di spostare Bette Davis, immobile, per vedere meglio. L’evoluzione drammatica di questa inquadratura segue dunque quella stessa del dialogo e dell’azione propriamente detta, ma la sua espressione cinematografica le sovrappone un’evoluzione drammatica propria; una sorta di azione seconda che sarebbe la storia stessa dell’inquadratura a partire dal momento in cui Marshall si alza fino alla sua caduta sulle scale. Wyler ama costruire la sua regia sulla tensione creata in un’inquadratura dalla coesistenza di due azioni d’importanza diseguale. Quando parla della sua messa in scena, è sempre in funzione dello spettatore, con la preoccupazione unica di fargli esattamente capire, e nel modo più forte, l’azione. Il talento di Wyler sta in questa scienza della chiarezza attraverso la depurazione della forma, la comune umiltà di fronte al soggetto e allo spettatore. C’è in lui una sorta di genio del Giovanna sull’importanza di una risposta che potrebbe essere fatale; ma per 2 volte viene messo a tacere da Cauchon. L’atmosfera è tesa; altissimo il climax drammatico. È a questo punto che una mosca si posa sulla fronte di Giovanna e la percorre dall’attaccatura dei capelli fin sopra la palpebra sinistra per poi volarsene via scacciata dolcemente con la mano. Ebbene, proprio qui, alla scena 74, troviamo la seguente annotazione volta a descrivere la drammacità del momento: “Durante alcuni secondi il silenzio è tale che si sentirebbe volare una mosca”. Si era accorto Dreyer dell’incredibile coincidenza? O forse - improbabilmente - ha aggiunto in sceneggiatura quella frase dopo l’irruzione della mosca sul set? Gli interrogativi posti presuppongono che il regista abbia visto la mosca. E ovviamente non potrebbe essere il contrario. Anzi, vi fa un breve accenno. In un’intervista del ’64, parla di un “piccolo incidente” avvenuto durante la lavorazione del film. “Vi ricordate della mosca sul viso di Giovanna? Cercavo di fissare sulla pellicola tutto il rigore logico dell’azione e la situazione psicologica dei personaggi. E poi, ecco quella mosca che si posa sul suo volto. Era un dono del cielo. Temevo che l’operatore fermasse i motori, invece no, egli aveva capito, ch’era un elemento nuovo, una terza dimensione che veniva a introdursi nella scena. Ovvio che questa testimonianza sia per noi straordinariamente importante e significativa. Prima di tutto, perché accredita la decisione di fondo che consiste nel non considerare futile tale dettaglio, ed anzi analizzarne gli effetti proprio nella direzione interpretativa del contingente, che non può non mostrarsi, del non intenzionale che si dona, dell’evento inaspettato che viene accolto. In secondo luogo, quasi a sigillare il “cerchio magico” di queste coincidenze, bisogna osservare che il regista parla di un “dono del cielo” arrivato sul set proprio nel momento in cui l’argomento in campo è la grazia. Una mosca, insetto tra l’altro legato alla sporcizia e alla decomposizione, foriera di un caposaldo teologico del cristianesimo? Vedremo. Intanto vale la pena rammentare la risposta di Giovanna d’Arco. Lemaître le intima: “Sei in stato di grazia?”. E lei: “Se non lo sono, che Dio abbia la bontà di mettermici! Se lo sono, che Dio voglia tenermici!”. Risposta saggia, mirabile, teologicamente perfetta, che lascia stupiti e interdetti i suoi inquisitori, sicuri di avere nel sacco la fanciulla. Giovanna non afferma - cadrebbe nell’eresia - di essere certa della sua salvezza. Afferma di essere certa della bontà divina. La sua risposta appare per certi aspetti analoga ad un passo di Aristotele dove si afferma che è contingente il fatto che domani si combatta una battaglia navale, così come è contingente il fatto che non la si combatta; ma nn è contingente bensì necessario “che domani una battaglia navale avverrà o non avverrà”. Si potrebbe dire che Giovanna sceglie l’esser-necessaria della contingenza (poiché, è ovvio, necessariamente sarà o non sarà salva). Qui sta la saggezza ma anche l’acutezza della risposta di una ragazzina che lascia interdetti i suoi sapienti giudici: che è comunque vera, ed all’interno di tale verità logico-preposizionale è come se ella, nel medesimo tempo in cui vi si abbandona totalmente, assumesse la grazia: che deve rimanere contingente e inaspettata, esattamente come quel “dono del cielo”, quella mosca di cui Dreyer accetta e assume l’improvvisa, fugace, accidentale presenza. Caso (?) vuole che anche Luis Buñuel noti un particolare identico nel capolavoro di Dreyer. In una sua recensione al film di Dreyer appena uscito, lo spirito d’osservazione del regista spagnolo lo porta a richiamare l’attenzione sul fatto che la Pulzella, di fronte ai suoi giudici e aguzzini, si distrae come una bimba, con le dita, con un bottone e con la mosca che si posa sul naso di un frate. Va sottolineato che Buñuel si riferisce ovviamente alla versione cui lui ha assistito, e cioè con ogni probabilità quella presentata - dopo la prima mondiale di Copenhagen il 21 aprile del 1928 - a Parigi (che per un intervento della censura imposto dall’arcivescovo della città subì alcune mutilazioni, tra cui la più grave quella relativa alla sequenza della tortura di Giovanna, in seguito purtroppo definitivamente perduta). Nella versione a cui noi ci riferiamo (ricostruita nel 1984 a partire da una copia d’epoca ritrovata in buono stato di conservazione e verosimilmente molto vicina all’originale) il dettaglio indicato da Buñuel non compare (anche se ciò non significa che quello notato da noi non compaia nella versione vista dal regista spagnolo). A questo proposito, per specificare con più precisione la natura singolare della doppia apparizione (quella sul volto di Giovanna), si può compilare un breve “elenco” a contrasto di analoghe irruzioni, in altri film, dell’insetto in questione. Analoghe ma portatrici di un senso non diverso. L’apparizione di una mosca che Kurtz-Brando, in Apocalypse now (1979), scaccia dalla fronte durante il suo drammatico discorso prima di venire ucciso, è motivata dall’ambiente tremendamente umido e malsano in cui la sequenza è girata. Analogamente, quella che si aggira tra i solchi profondi dei segni della scrittura in aramaico sulla tavoletta d’argilla negli Atti degli apostoli (1969) di Rossellini, è resa del tutto plausibile dal fatto che l’insetto compare in una scena che si svolge in esterni. Simile ragione va invocata per la mosca che si aggira sull’insegna della casa-bottega del sarto Petersen in Ordet (1954), ancora di Dreyer. La presenza (in questo caso, però, non accidentale) di una mosca può assumere anche una funzione microdiegetica, allorquando essa si trova al centro di una situazione dotata di un breve sviluppo narrativo, pur se totalmente laterale e parassitario rispetto al racconto. L’unica altra occorrenza sotto ogni profilo analoga, anzi identica, l’abbiamo trovata in Ejzenštein (incredibile: un altro sommo maestro del controllo registico!) in Ivan il Terribile. Imprevista e folle, illogica e insensata, una mosca va a posarsi e per qualche secondo zampetta sulla corona della zarina Anastasia Romanovna, impegnata in un’importante conversazione segreta con il principe Kurbskij (minutaggi: 1.03.08). Solo in questo caso si può dire della zarina - come Dreyer dice di Giovanna - che in quell’istante, attorno a lei, c’era “qualcosa che non era di questo mondo”. Siamo dunque alle prese con un incidente casuale e insignificante, con un nonnulla. Come possiamo analizzare, interpretare qualcosa che a malapena è una cosa; che non solo, presentandosi, dichiara tutta la sua vacuità, ma che per di più non appena compare dilegua? Lo faremo prospettando l’irruzione della mosca come una pura contingenza che arriva da un fuori e che si configura come un evento. La contingenza Fin dalle sue origini, il cinema ha a che fare, in diversi modi e a diverse intensità, con la contingenza e l’accidentale. Con il puro accadere. In un giorno tra l’agosto e il settembre 1984, Louis Jean Lumièr sistema l’apparecchio da lui stesso progettato ad una decina di metri di distanza davanti al cancello di ferro della fabbrica di famiglia a Lione. Donne, uomini, ragazzi (qualcuno in bici) vengono avanti verso la macchina da presa e poi piegano verso sinistra. Sono gli operai e gli impiegati che escono per la pausa, le prime persone della storia ad essere “riprese” nel senso cinematografico del termine. Nonostante l’inquadratura fosse frontale e fissa, certamente vi fu una rudimentale regia. Lumière coordinò i movimenti del flusso di persone e con tutta probabilità la scena fu ripetuta e girata più volte. Ma l’operatore non poteva prevedere e programmare nel dettaglio i gesti e la mimica, il passo e le posture, quella miriade di micro eventi di cui è intessuto il reale. Fin dai suoi esordi, il cinema è sia controllo, mediazione, sia immediatezza, contingenza. Certo, che esso nasca all’incrocio tra realismo e finzione, verosimiglianza e artificio (alle origini: tra Lumière e Méliès) è cosa nota. Perciò, diciamo meglio: il cinema (sia tecnicamente che esteticamente) è l’eminente exemplum dell’impossibilità di una separazione netta, assoluta e definitiva tra documento e manipolazione, “verità” e codificazione, proprio perché ha sempre lavorato sulla soglia a partire dalla quale quelle 2 polarità diventano indiscernibili l’una dall’altra. La tecnica cinematografica, anche se non è la carne ma solo l’immagine a “risorgere”, non poteva che essere inventata nella cultura occidentale, ossessionata dalla (propria) fine, dalla morte percepita come sfida, come il nulla da sconfiggere e su cui prevalere. La vita rivive qualcosa che ritorna come un fantasma, un’apparizione, trasferendosi sullo schermo bianco che aspetta di essere riempito dall’illusione del reale. Di qui, il senso di estraneazione, alterità e disconoscimento che può prendere chi vede la propria immagine proiettata sullo schermo. Fin dall’inizio il cinema ci restituisce dunque la contingenza, l’accidentalità, investendoci e trascinandoci con l’irresistibile flagranza delle sue immagini in movimento. La vita, si sa, non è fatta per essere filmata o per meglio dire, di essere filmata non le importa. Forse è proprio per questo che la contingenza inattesa e imprevedibile, l’accadere incalcolabile, insomma la vita che il regista vuole riprendere si rivela sempre più o meno refrattaria alla sua stessa impaginazione, penetra e s’infiltra continuamente nella rappresentazione: come nei primi film di Griffith, girati per necessità d’illuminazione in capannoni senza tetto, in cui talvolta il filo di fumo di una lampada si vede inclinarsi al vento che penetra all’interno. Ciò è dovuto anche al fatto che nelle sequenze sperimentali degli esordi, la realtà viene rappresentata attraverso uno sviluppo temporale che coincide con l’evolversi naturale dei fatti e delle situazioni riprese dalla camera. Siamo in una fase costituente. Una fase alla quale il nuovo cinema d’autore e d’avanguardia dagli anni ’60 in poi, che aspirava - dopo e in alternativa al periodo classico-spettacolare dell’industria hollywoodiana - ad una rigenerazione del linguaggio filmico, ha guardato con estremo interesse. Attraverso quali elementi stilistici caratterizzanti? L’occhio della macchina da presa aperta sul reale; le inquadrature senza stacchi e tagli di montaggio, dunque la tecnica del piano-sequenza eletta a segno di riconoscibilità stilistico-espressiva. Si tratta di un cinema nient’affatto intento e proteso, come invece quello commerciale e convenzionalmente narrativo, a proteggersi dall’irruzione del caso o ad eliminarlo tramite un rigido controllo del set e del profilmico (cioè di tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa pronto per essere filmato), controllo che nella tecnica digitale arriva a livelli assoluti. Al contrario è un cinema aperto al contingente e al fortuito, in cui l’indeterminato e l’accidentale - ciò che abbiamo sempre davanti agli occhi senza accorgercene - giocano talvolta un ruolo decisivo. Il cinema del periodo classico e della narrazione convenzionale, in uno sforzo di trasparenza assoluta, mira a far “scomparire” la macchina da presa, la sua presenza, i suoi movimenti, insomma il suo “linguaggio”, a favore dell’illusione estetico-percettiva e della logica narrativa: dunque per quanto possibile tiene a distanza l’inatteso e controlla il caso. L’”altro” cinema invece - durante le riprese e in fase di montaggio - dichiara e interroga i propri strumenti (e talvolta le condizioni di produzione) nel prodotto stesso, si esibisce insomma in quanto artificio. Accetta programmaticamente l’accidentalità, ad esempio attraverso la frammentazione del raconto e lo squilibrio tra le sue fasi, attraverso i cosiddetti “tempi morti” in cui, come nella vita, “non accade niente”, risultando stranamente inverosimili proprio perché troppo “veri”. Ed accetta l’accidentalità precisamente nella misura in cui il cinema degli esordi, al contrario, subiva i fattori aleatori: sia a causa dell’ancora rudimentale e insufficiente consapevolezza del mezzo, sia a causa delle carenze tecnologiche a cui si sopperiva grazie ad escamotages talora inventati lì per lì sul momento. “Quello che voglio è il definitivo per caso”, dichiara Godard. Coincidenza fortuita, per l’appunto contingente? C’è da chiederselo. Perché lo dichiara a proposito di Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), in cui troviamo la sequenza della protagonista Anna Karina che va al cinema per vedere il film di Dreyer e piange, turbata dall’intensità dell’interpretazione della Falconetti. Piange perché, come scrive Stendhal ne Il rosso e il nero, “non si guardano le persone come se fossero quadri”. E Giovanna (“modellata” dal “realismo mistico” di Dreyer) sembra presentarsi come una persona nonostante e attraverso la finzione. Attraverso cui il viso si apre alla relazione etica e diventa volto vulnerabile, offerto, esposto allo sguardo dell’altro. Allo sguardo della macchina da presa, che coincide con quello dello spettatore. La mosca si posa sul quel solco di nulla che divide il visibile intenzionale dal visibile involontario. Su questa base possiamo affermare che non siamo tanto di fronte al volto puro e incontaminato della Falconetti su cui, solo in un secondo tempo, si posa l’insetto immondo che lo macchia. Siamo invece di fronte a una concatenazione volto-mosca, alla condensazione di un’unica coesa immagine segno. Noi vediamo sullo schermo e nello spazio dell’inquadratura il volto di Jeanne, ma questo è sua volta lo schermo e il supporto su cui si proietta la mosca. La mosca funziona da puncutm: del tutto indipendente da qualsiasi logica o intenzione, non c’entra affatto l’”arte” del fotografo o dell’operatore-regista, che testimonia il “semplice” fatto che era là al momento, e non poteva non fotografare o riprendere quel dettaglio accidentale ma insormontabile . La rapida decisione di non ingiungere all’operatore di fermare i motori, 4 anzi, di aver sperato non lo facesse - indica come Dreyer si disponga a fare in qualche modo esperienza del non disponibile, di ciò di cui non si può fare deliberatamente esperienza (il volo di una mosca): “crea” nella misura in cui gli si fa incontro qualcosa che non può creare. Lasciare nell’inquadratura quel dettaglio “sporco” indica quanto egli abbia organizzato il suo percorso d’azione sul set non solo in termini rigorosamente programmati, ma anche secondo possibilità intuitive di comprensione immediata non formulata. Il set - che, come il teatro, potrebbe considerarsi una sorta di scrittura originaria - stabilisce una situazione dinamico-operazionale in cui improvvisamente può prender campo la casualità, l’indeterminazione, e bisogna decidere senza sapere a priori ciò che “si deve” fare. “Il set è come la vita: non ci sono regole”, diceva Godard, “si lavora con quel che si trova sul luogo”. Dreyer o Ejzenštein, attraverso la mosca che lasciano visibile, riconosco l’autorità dell’immanenza, del c’è precedente ad ogni tesi su di esso. Da grandi artisti rovesciano il senso comune e osano non agire. Questo abbandonarsi all’evento non è il frutto di una riflessione intellettuale o una decisione strategico-razionale. Risiede esso stesso nell’immanenza, nell’esporsi alla situazione contingente. Il concatenamento che si crea tra l’agente e la situazione in cui agisce e da cui è agito, porta a riconoscere l’autorità di qualcosa che lo precede e lo sopravanza, e che in tal modo ne intreccia l’intenzionalità progettuale ad una costitutiva passività che non è tuttavia una controindicazione rispetto allo scopo prefisso. Vale piuttosto come continua metamorfosi e riconfigurazione dell’agire in una situazione determinata che comporta risorse e costrizioni, interazioni (esse stesse involontarie) tra componenti quasi deterministiche e componenti aleatorie. Da questo punto di vista, l’irruzione di una mosca sul set di Dreyer o di Ejzenštein sigla e riproduce il gesto forse essenziale del cinema che si avvale del supporto analogico. Essenziale benché segreto, inavvertito e sottinteso, percepibile solo “a contrasto”: l’assunzione del non intenzionale, della contingenza. Per questo, la mosca non tanto “rappresenta” ma è, o meglio accade come un eccesso di intensità, spura e insostenibile: punctum. E così la vita si fa immagine di una qualità, di un’intensità quasi intollerabili. Forse solo il cinema può far questo e restituirlo allo sguardo. Come se non vi fosse il volto di Giovanna se la mosca non vi si posasse sopra. Come se il film fosse stato girato per catturare il passaggio di una mosca. La situazione è significativamente mutata con l’avvento delle tecnologie digitali. Da una parte 4 perché - data l’enorme estensione delle possibilità che offrono d’intervenire ritoccando l’immagine - perdiamo definitivamente la certezza che ciò che vediamo è stato lì davanti all’obbiettivo; dall’altra perché la digitalizzazione dei procedimenti operativi dà modo di progettare e controllare l’immagine fin nel suo minimo dettaglio, azzerando così qualsiasi fenomenologia dell’involontario. Il fuori La mosca irrompe e si inscrive nell’inquadratura provenendo da un fuori. Essa sigla il punto esatto in cui l’opera è esposta al reale. Punto in cui l’opera coincide con la vita ma, proprio per questo, punto che infinitamente la disfa e la decentra, la rende inoperante. È come se la vita non fosse più il “contenuto”, il referenti dell’opera, ma fosse qualcosa se ne indistingue. Si forma allora uno spazio tempo di indeterminazione in virtù del quale l’opera - per quei pochi istanti in cui la mosca vi è accolta - diventa contenuta e linguaggio di se stessa. Ma che cos’è precisamente questo da-dove da cui proviene la mosca, questo fuori, questo altrove? Per rispondere occorre disegnare un percorso articolato su 3 motivi che rappresentano sia procedimenti tecnico-operativi o scelte stilistiche, sia nozioni cruciali della prassi e della teoria del cinema. Si tratta del primo piano, del dècadrage e del fuori-campo. Uno dei motivi per cui La passione di Giovanna d’Arco è rimasto celebre nella storia è la tecnica del primo e primissimo piano in montaggio alternato (Dreyer, prima di girare, aveva ripetutamente visto e studiato il Potëmkin di Ejzenštein) del volto della protagonista e dei prelati suoi giudici e aguzzini. La macchina da presa ci rivela la vita confinata in breve spazio; e così, nella Passione, ci restituisce la crudele e crudelmente dettagliata autopsia di microfisionomie sconvolte dalla rabbia o dall’estasi mistica, segnate impercettibilmente da muscoli involontari pulsanti sotto pelle. Mai in nessun’altra opera filmica la fisicità del volto è esposta nuda allo sguardo altrui. La Falconetti offre il proprio volto assolutamente vulnerabile. Ora, ciò che qui per noi risulta straordinariamente significativo è il fatto che, in un breve scritto, lo stesso Dreyer parla dell’uso dei primi piani nella Passione in modi e con metafore che possono perfettamente caratterizzare l’irruzione accidentale della mosca: “era una legge non scritta che la singola ripresa in primo piano dovesse essere parte di un insieme armonioso composto dalla fotografia a distanza e da un particolare emergente nel quadro generale. I miei invadenti primi piani balzarono solo schermo senza essere annunciati, chiedendo il diritto di un’esistenza indipendente. Con un primo piano dopo l’altro chiesero una loro posizione - tutti questi primi piani si comportavano come una banda di rumorosi disturbatori”. I primi piani dovevano quindi funzionare da “fattori d’urto”, erano esplicitamente pensati ed effettuati con lo scopo di creare una serie quasi ininterrotta di onde d’urto che sorprendessero. Tutto qui ci parla di una dimensione esterna ed estranea che irrompe all’interno di un organismo preteso asettico e in sé conchiuso. Confrontati alla struttura formale sono disturbi. Esattamente i modi in cui arriva la mosca. Prima abbiamo visto come la sua improvvisa comparsa ed il primo piano del volto potessero connettersi e richiamarsi l’un l’altro perché entrambi segnati dalla contingenza involontaria. Ora questa nuova connessione si manifesta ad un livello diverso ma, per così dire, adiacente. Come la mosca irrompe appunto dall’esterno, da unfuori, ad una logica organizzata e conchiusa su di sé, così i primi piani provengono da una sorta di esteriorità che fa saltare il continuum della narrazione. Sono un dispositivo che, come la mosca, ingenera alterità, discontinuità, un effetto di cesura e spaesamento. Lo abbiamo già accennato. È quasi certo che Dreyer avrebbe fatto spegnere le macchine durante le riprese o avrebbe eliminato in montaggio i fotogrammi “macchiati” se la mosca fosse entrata e rimasta percepibile in un totale o in una panoramica. Ma questo che significa? Probabilmente che stiamo rintracciando alcuni indizi (casualità? coincidenze?) che ci portano ancora alla convinzione che la scelta di mantenere la mosca sul volto in primo piano fa misteriosamente parte integrante e non marginale di una strategia regista sospesa tra la formalità più rigorosa e l’abbandono alla contingenza del puro accadere, tra l’intenzionalità aurorale che progetta selezionando e la disponibilità irriflessiva ad accogliere la vita nel suo movimento originario. Dreyer si muove così tra legge e desiderio. Attitudine che si mostra esplicitamente anche nell’inconsueta decisione - controcorrente rispetto alle abitudini dei teatri di posa e caso rimasto pressoché unico in tutta la storia del cinema - di girare le scene nell’ordine naturale del loro susseguirsi logico-narrativo (quella finale del rogo fu girata il 30 ottobre, al termine delle riprese) senza poi cambiarne la sequenze in fase di montaggio. Insomma, quelle che vediamo per prime sullo schermo sono effettivamente le prime immagini girate. Una sorta di adesione tra rappresentazione e realtà indicata anche dal clima teso che si creava sul set durante la lavorazione delle scene più drammatiche. Dreyer ha sempre dichiarato di nutrire una grande passione per il taglio e la composizione delle immagini. E come sono le immagini della Passione? Appunto: molto “tagliate”, molto “composte”. Il décadrage è un elaborato procedimento competitivo che relega il personaggio o l’azione ai bordi dell’inquadratura, poiché deliberatamente elude l’instaurarsi di una corrispondenza percettiva “normale” e codificata tra centro geometrico-plastico dell’immagine e centro drammatico-narrativo. Nel film di Dreyer, tuttavia, non troviamo solo geometrie sghembe, profilature diagonali, posture oblique. L’impiego della pellicola pancromatica Kodak e l’uso degli obbiettivi grandangolari permettono angolazioni di ripresa dal basso e inclinazioni ottiche sorprendenti quando non aberranti. Che per certi aspetti Orson Welles riprenderà 15 anni dopo in Citizen Kane. Mentre i bordi laterali dell’inquadratura, della “cornice” che definisce e identifica l’immagine filmica, siglano usualmente l’entrata e l’uscita dei personaggi, spesso queste avvengono nella Passione dal bordo inferiore, producendo un effetto ottico e psicologico squilibrante. Anche perché il centro dell’immagine rimane vuoto, di un bianco abbagliante (le mura spoglie della scenografia). Con tutta evidenza il décadrage - squilibrandone gli assi geometrico-compositivi - mette l’immagine in tensione dialettica con un’assenza costitutiva, con il suo esterno, con il suo fuori. Lavorando sulla “disinquadratura”, interrogando i bordi dell’immagine, attivandone i margini solitamente inerti (come rimangono ad esempio nel cinema classico hollywoodiano), Dreyer mostra che questa tensione verso ciò che Debora a va verso un altrove, verso una dimensione altra ed esterna, è strutturale al suo linguaggio e non accidentale o fortuita. Insomma, a prima vista, la mosca irrompe nell’immagine provenendo dal fuori-campo. Nozione basilare della teoria e della prassi cinematografica, il fuori-campo è ciò che è escluso sì dall’immagine via via attuale, ma che rimane ad ogni istante suscettibile di entrarvi, dunque di partecipare non solo alla continua riconfigurazione dello spazio visivo e scenografico, ma anche di contribuire allo sviluppo narrativo del film. La “cornice” dell’immagine filmica è centrifuga (a differenza di quella fotografica, centripeta) e dunque chiama necessariamente e costantemente in causa il suo esterno, lo spazio off. L’inquadratura, solo ponendo se stessa, stabilisce un rapporto di “esclusione inclusiva” con il fuori-campo. La narrazione prosegue per ellissi, per abbreviazioni narrative e simboliche, dunque gran parte del senso del film si gioca tra ciò che effettivamente scorre davanti ai nostri occhi e ciò che, pur non vedendolo, intuiamo. Accennavamo alla cornice dell’inquadratura, ai bordi dell’immagine. Dove si realizza la saldatura e insieme la scissione tra campo e fuori-campo, linea immaginaria che unisce dividendo. Linea dunque estremamente sensibili e significativa, di grande delicatezza formale, dove qualcosa di decisivo può involontariamente accadere. La mosca irrompe nell’inquadratura di Dreyer o di Ejzenštein provenendo da quell’altrove intotalizzabile e incalcolabile che è lì giusto per sfuggire alla nostra presa. Giunge improvvisa e inaspettata da quello sciame di eventi, da quella cascata di contingenze. La mosca arriva allora da un fuori-campo più radicale, un fuori-campo che rimarrà sempre tale perché non stabilisce con esso alcun rapporto di scambio dialettico. La teoria cinematografica conosce bene questo ulteriore tipo di fuori-campo, poiché è fondamentalmente quello dov’è collocata la macchina da presa. Un nome di questo segmento o spazio “proibito” non accoglibile nell’inquadratura potrebbe essere quello di antecampo. A patto però di fare una precisazione: il termine “antecampo” può produrre la spesso interconnesse (produttive, tecnico-formali, estetiche, ideologiche, ecc.) hanno innestato apertamente le proprie strategie formative in ambienti naturali abitati, viventi, ed usati nel loro fluire preesistente alla macchina da presa e ad essa più o meno indifferente. Il cinema, per il fatto stesso di essere costitutivamente in grado di ripresentare in immagine qualcosa del mondo colto nella sua durata - per il fatto stesso di essere “mummia del cambiamento” - è virtualmente chiamato a confrontarsi con ciò che, al di là dei suoi propositi, dei suoi desideri (al di là di ciò che un’immagine progetta, dispone, prevede), gli è dato mondo come alcunché di accidentale, imprevedibile: il transito delle nuvole o di un uccello, una luce, un’ombra, il volo di un insetto, ecc. Insomma il cinema, che sul reale proietta ed attraverso il reale dispiega le proprie istanze poetiche e configurative, è virtualmente già sempre in grado di accogliere in sé, in fondo alle proprie immagini, ciò che di supplementare e di eccedente rispetto a quelle istanze il reale non fa che offrirgli. Il cinema non si compie che all’incontro di 2 istanze distinte, o meglio non fa che con- tenere, che negoziare 2 diverse polarità: da un lato un desiderio (ciò che nasce dalla volontà di fissare qualcosa, una forma al lavoro), dall’altro ciò che pur essendo disponibile ad esser preso da quella volontà non cessa di mostrarvisi alieno (lo scorrere indistinto del reale, una forza) e che nel momento di tornare in immagine vi si può dare a vedere proprio in quanto alterità irriducibile, incompatibile altro da sé di ciò che uno sguardo costruisce. La costitutiva alterità del reale rispetto ai nostri progetti, l’essere altro del mondo dal formare dell’immaginario che lo attraversa e lo piega a sé, ci chiama dunque già sempre attraverso tutte quelle presenze scomposte che giungono ad abitare un’immagine senza che l’immagine le abbia desiderate, o insomma attraverso qualcosa che, al momento di filmare, il cinema ha visto senza aver previsto. A quel richiamo, noi possiamo sempre corrispondere, venendone presi e sorpresi, oppure non farlo. Esso può cioè restare inavvertito nelle pieghe delle immagini, oppure farsi improvvisa incrinatura, ferita delle visione, insomma punctum, capace di raccogliere la nostra attenzione e convogliarla, anche solo per poco, attorno al proprio farsi avanti, al proprio darsi a vedere. È quanto accade con la passante di Godard che appare dentro l’immagine e l’abbandona così come era venuta. Se l’immagine filmica ci restituisce il mondo più un’attenzione e un’immaginazione, la donna dal cappotto scuro è dunque ciò che dal mondo ritorna in immagine situandosi al di là di quella attenzione (il testo non ha organizzato i suoi luoghi di attenzione attorno alla sua presenza) e al di là di quella immaginazione. In sostanza, questo impensato di un’immagine è ciò che ora chi si trova a guardare sembra esser chiamato a pensare o a ri-pensare. La donna col cappotto è un fantasma che ad ogni proiezione del film continua ad uscire dal nulla e a correre verso il nulla. Ciò che l’ha spinta al nostro sguardo non ha figura né parola, esattamente come ciò che l’ha attesa nel fuori campo in cui non smette di precipitare. Quel fuori campo senza misura che sospinge e che attende la sua fulminea apparizione, è che ora trattiene la nostra attività spettatoriale: chi era questa donna che correva in un certo giorno, ad una certa ora, in una certa strada di Parigi, nel 1962? Dove stava correndo e perché? Chi o che cosa l’attendeva? Qualcosa, cadendo dentro un’immagine, ci ha presi - è un’attenzione involontaria del visibile - ed ora non solo ci spinge ad allontani, benché solo per qualche istante, da ciò che il film sta costruendo per noi, ma ci trascina propriamente fuori dall’immagine stessa di là dai margini della visione: quanto ha colpito il nostro sguardo è ad evidenza un’istanza centrifuga che, dentro e fuori l’immagine, in un’interrogazione senza risoluzione, ci fa fare esperienza non del reale ma del suo ottuso consistere. JACQUES DERRIDA & BERNARD STIEGLER - ECOGRAFIE DELLA TELEVISIONE L’immagine discreta L’immagine in generale non esiste. Quello che si chiama immagine mentale e quello che qui chiameremo immagine-oggetto sono due facce di un solo fenomeno che non possono essere separate, come il significato e il significante che definivano le due facce del segno linguistico. Se tra immagine mentale e immagine-oggetto c’è evidentemente una differenza che non è però un’opposizione, significa che esse hanno sempre a che fare l’una con l’altra, e che nessuna delle due può ridurre la differenza dell’altra. La differenza che s’impone nel modo più immediato è che quella oggettiva dura, mentre quella mentale è effimera. Ugualmente, un ricordo-oggetto dura (un souvenir, quello che si segna su un agenda - e può durare molto a lungo), mentre un ricordo “mentale” si cancella inevitabilmente - e a breve scadenza: la memoria viva è essenzialmente ciò che cede, finisce sempre per lasciarci. La morte non è altro che una totale cancellazione di memoria. Se, senza immagine mentale, non c’è, non c’è mai stata e mai ci sarà immagine-oggetto (l’immagine non è un’immagine se non in quanto è vista), reciprocamente, senza immagine oggettiva, qualsiasi cosa si possa pensare al riguardo, non c’è, non c’è mai stata e mai ci sarà immagine mentale: l’immagine mentale è sempre il ritorno di qualche immagine-oggetto, la sua rimanenza. O ancora: non c’è né immagine né immaginazione senza memoria, né memoria che non sia originariamente oggettiva. Nella storia dell’immagine-oggetto, il grande evento specifico del XIX secolo è la comparsa dell’immagine analogica: la fotografia. L’immagine analogica animata (il cinema) ne è un prolungamento. Un altro grande evento in materia d’immagini del XX secolo, è la comparsa dell’immagine digitale, che si chiama comunemente immagine di sintesi, o immagine calcolata: una modernizzazione del reale che può imitare quasi perfettamente la realtà. Un grande evento specifico di questa fine del XX secolo, che s’imporrà all’inizio del prossimo, è la comparsa dell’immagine analogico-digitale. Questa avrà conseguenze estreme sulla nostra comprensione del movimento. In effetti, l’immagine analogico-digitale è l’avvio di una discretizzazione sistematica del movimento - cioè, un vasto processo di grammaticalizzazione del visibile. Le condizioni in cui si costituiscono le nostre credenze sono entrate in una fase d’intensa evoluzione. La tecnologia analogico-digitale ne è un momento decisivo. Sospensione o interruzione si dicono in greco epochè: Barthes stabilisce che la fotografia costituisce un’epochè rispetto al tempo, alla memoria e alla morte. La foto digitale sospende una certa credenza spontanea che la foto analogica portava in sé. In effetti quando guardo una foto digitale, non posso mai essere assolutamente certo che quello che vedo esista veramente - né, dato che si tratta di una foto, che non esista per niente. L’immagine analogico-digitale mette in dubbio ciò che Bazin chiamava obiettività dell’obiettivo della fotografia analogica, che Barthes chiamava anche “è stato”, noema della foto. Il noema della foto è quello che si chiamerebbe la sua intenzionalità: ovvero: che ciò che è stato voluto sulla carta è realmente stato. È un attributo essenziale della foto analogica. Che in seguito sia possibile una sua manipolazione, che altera ciò che è stato non è necessariamente co-implicato dalla foto. Questo può succedere, ma non è la regola. La regola è che ogni foto analogica suppone che quanto è stato preso (in foto) sia stato (reale). La manipolazione è al contrario l’essenza, cioè la regola, della fotografia digitale. Ora, questa possibilità di non essere stata, essenziale all’immagine fotografica digitale, fa paura - poiché quest’immagine, nonostante sia infinitamente manipolabile, resta una foto, conserva in sé qualcosa dello è stato, e la possibilità di distinguere il vero dal falso si assottiglia via via che aumentano le possibilità di trattamento digitale delle foto. Eppure, ben prima dell’esistenza della foto digitale, lo sfruttamento della possibilità “accidentale” di manipolare la foto analogica esisteva già, e si è esteso nei mass media durante gli ultimi anni. Se è essenziale alla foto analogica che quello che mostra sia stato, resta il fatto che essa è una sintesi tecnica, artefattuale ed è esposta irriducibilmente alla possibilità “accidentale” di falsificare quello che fa vedere. Anche senza voler alterare immagini, il loro montaggio, ad esempio, genera per natura un’illusione che non elimina assolutamente il fatto comunque indubitabile che quanto vedo sia stato - anche se è stato diversamente da come lo vedo. L’immagine-oggetto analogico-digitale, che chiamerei immagine discreta, può contribuire a far emergere nuove forme di “analisi oggettiva” e di “sintesi soggettiva” del visibile - e un altro tipo di credenza e d’incredulità rispetto a quello che è mostrato di ciò che accade. La continuità dell’immagine analogica è un effetto di reale che non deve nasconderci il fatto che l’immagine analogica è sempre già discreta perché sottomessa a operazioni di inquadratura e a scelte di profondità di campo, perché ha il suo effetto di reale in funzione del contesto fotografico e letterale in cui si inserisce ecc. Senza parlare delle falsificazioni possibili, essa porta sempre in sé un principio di riduzione del suo è stato. Questo è ovviamente più manifesto nell’immagine animata, dove si concatena una pluralità d’immagini discontinue, poiché l’arte del regista e del montatore consiste nel cancellare questa discontinuità giocando con essa. È usando la discontinuità dell’immagine che si fa funzionare la continuità del lato di quella sintesi spectatoriale in cui consiste, ad esempio, la credenza che ciò è stato Dal lato della produzione e della realizzazione, non siamo nella sintesi: siamo nell’analisi. E ci vuole un buon artista per lasciar fuori la sintesi allo spettatore. Il suo lavoro consiste nel raccogliere degli elementi analitici tali che la sintesi sia fatta meglio. Raccolta che è un logos. La sintesi spectatoriale sarà fatta attraverso il gioco della persistenza retinica come pure attraverso quello delle attese di concatenazioni, le quali cancellano tanto già la discontinuità di un montaggio quanto più questa è sapientemente orchestrata. L’effetto di reale fotografico di cui parlava Barthes, poiché è integrato a tutte le tecniche di simulazione permesse dal trattamento digitale, può sia attenuarsi sia intensificarsi: può raggiungere il suo stadio propriamente critico. Discretizzando la continuità analogica, la digitalizzazione apre la possibilità di nuovi saperi dell’immagine - artisti così come teorici e scientifici. Le tecniche di digitalizzazione delle immagini animate stanno diffondendosi ampiamente nella società mondiale attraverso i multimedia e la tv digitale. Il rapporto con l’immagine analogica sta per essere enormemente discretizzato, messo in crisi, sta per aprire un accesso critico all’immagine. È un’occasione da cogliere per sviluppare una cultura della ricezione. Cosa che potrebbe portare a un altro modo di formulare la questione dell’eccezione culturale. Il vero problema sta nel pensare diversamente quello che l’America hollywoodiana ha fatto finora nel campo dell’industria culturale, a cui appartengono il cinema e la tv; secondo uno schema che reifica e oppone produzione e consumazione, cioè: analisi da un lato (produzione), sintesi dall’altro (consumazione). La combinazione d’immagini provenienti da fonti diverse (filmati realizzati in pellicola, in video o direttamente acquisiti in formato digitale, immagini interamente create al pc, ecc.) nel corpo di una singola immagine “integrata” o di sequenze “integrate”, in cui gli elementi usati (le singole immagini) e ciascuna parte di essi (ciascuna parte delle singole immagini), per l’intera durata del processo di costruzione mantengono le loro identità separate e quindi si possono facilmente modificare, sostituire, cancellare. Così come viene definita dal software, l’immagine digitale consiste in una serie di livelli separati, ognuno dei quali contiene determinati elementi visivi. Durante il processo di produzione, gli artisti e i programmatori manipolano separatamente ognuno di questi strati; ne eliminano alcuni e ne aggiungono altri. Lasciando ogni elemento in un livello separato si può modificare in qualsiasi momenti il contenuto e la composizione di un’immagine: cancellare uno sfondo, sostituire un soggetto, avvicinare due persone, sfumare un oggetto e così via . 6 Quindi ciò che troviamo nel corpo di un’immagine filmica digitale può configurarsi come alcunché di interamente desiderato. Scorie, residui, supplementi della visione, possono in ogni momento e con la più grande facilità essere rimossi, addomesticati, nell’immagine e dall’immagine. Occorre spingerci ad accostare un’altra immagine, celebre forse anche più della prima, per osservare attraverso di essa (la quale non è che un modello, qui convocato in ragione di una sua marcata esemplarità) la necessità di riconfigurare dalle fondamenta il nostro modo di leggere e di pensare le immagini. Ecco l’azzurro del cielo su una città americana, sul finire del XX secolo. Nel centro una piuma, volteggiante. Pare galleggiare nell’aria vuota e invece discende. Dietro di essa, compaiono edifici. Sospinta dal vento, la piuma risale, torna a scendere, scivola verso la strada. Qui auto, persone e un parco con panchine. Dopo ripetuti volteggi, è quasi sull’asfalto, sfila sotto un’auto in corsa, giunge nei pressi di un giovane seduto su una panchina e finalmente si posa ai suoi piedi. L’inquadratura (una sola, dal cielo alla terra) dura meno di 2 min e consiste nella suggestiva apertura di Forrest Gump di Robert Zemeckis (1994). Il cinema qui non ha compiuto ancora 100 anni, ma con questa e con immagini simili, continua a sbigottire i suoi spettatori. E tuttavia, tra l’immagine dei Lumière e questa che apre il film di Zemeckis - o tra la meraviglia di Méliès e dei suoi contemporanei e la nostra -, non solo scorre intera la storia del cinema e con essa la storia dei discorsi sul cinema, ma a guardar bene, tra quelle foglie e questa piuma, un’intera epoca dell’immagine in movimento si dà come confusa e un’altra si presenta in tuta la sua evidenza. Nell’apertura di Forrest Gump non c’è posto per il comporsi in immagine di alcunché di indesiderato, dal momento che il farsi del sensibile, che pure resta il materiale di base delle nuove immagini filmiche, vi appare del tutto sottoposto al potere dell’immaginario. Interamente progettata, controllata, costruita nei suoi movimenti più infinitesimi, animata e composta da un’istanza poetica di fatto incondizionata, la piuma che danza nell’inquadratura di Zemeckis obbedisce al soffio illimitato dell’immaginario, il quale, governa ogni lato dell’immagine e ne modella ogni parte. In un’immagine digitale, in cui tutto è per essenza gestibile e in senso stretto programmabile - sotto controllo - è allora possibile che senza alcun sforzo il vento soffi dove vogliamo noi, cioè he il reale risulti perfettamente amministrato dalla spinta di un’azione formativa che può quello che desidera. Qui davvero l’immagine è sola con se stessa, è fatta di se stessa, è nient’altro che immagine o immagine senz’altro. Le osservazioni appena avanzate richiedono alcune precisazioni: Assemblati secondo le esigenze più diverse in un’immagine integrata, gli elementi possono 6 essere immessi e animati in spazi virtuali in 3D in cui i movimenti virtuali della macchina da presa, creati al computer, hanno facoltà di dispiegarsi in ogni direzione. 1. LA PRIMA: è assolutamente evidente che un’immagine filmica analogica prevede anch’essa la possibilità della manipolazione. È una manipolazione estetica (tecnico- formale, espressiva, configurativa, stilistica, ecc.) di un materiale determinato (la traccia di qualcosa di reale e passato). Per non parlare del montaggio, cioè del più immediato e più significativo procedimento manipolatorio di cui il cinema dispone e che ne fa quello che è. 2. LA SECONDA: sappiamo bene che l’immagine cine-fotografica analogica è stata presto capace, attraverso la pratica del fotomontaggio, di manipolare, anche radicalmente, i “modi di apparizione” di ciò che era stato di fronte alla macchina. E tuttavia quella pratica si doveva pur sempre alla sovrapposizione, alla mescolanza, alla composizione, di immagini tutte certamente riferibili a un dato esterno, tanto che Rodowick non distingue il fotomontaggio dal montaggio sequenziale, e dunque da ogni altra operazione di manipolazione estetica. L’avvento del digitale sposti la questione della manipolazione in un ordine di problemi del tutto differente. Ben al di là dell’ordine dell’estetica (in cui si iscrive la poiesis dell’analogico), la manipolazione digitale riguarda per così dire l’ontologia di un’immagine prodotta tecnicamente: un’immagine digitale è già intimamente il prodotto di una manipolazione numerica (lo spectrum di Barthes è già campionato, quantizzato, “ricomposto”). Discutendo del primo e del secondo punto, abbiamo accennato alla questione del montaggio, che è come dire alla questione del cinema tout court. A parere di molti, il digitale mostrerebbe nelle sue manifestazioni più esemplari i tratti di una poiesis che tende a porre in subordine la centralità operativa del monetaggio filmico conosciuta nel XX secolo, in particolare assegnando un ruolo costruttivo cruciale non tanto all’articolazione sequenziale delle unità distinte ma alle pratiche di assemblaggio di materiali diversi all’interno delle stesse unità. Al di là del depotenziamento propriamente operativo dell’articolazione sequenziale è nell’atto stesso della costruzione di un’immagine che molte delle forme dominanti dell’audiovisivo contemporaneo ridefiniscono in profondità la questione del montaggio. Al di là delle sue grandi espressioni storiche, delle sue numerose e peculiari modellizzazioni stilistiche e etnico- formali, dei suoi paradigmi estetici più forti, il montaggio non è solo un procedimento di elaborazione sequenziale. Più in profondità, con Ejzenstejn, il montaggio è innanzitutto la radice dell’elaborazione costruttiva, la scomposizione e la ricomposizione di un dato esterno in una forma. La costruzione di una singola immagine è insomma un atto di montaggio. Immagini malgrado tutto Dunque, provando a riassumere: 1. Il digitale pone radicalmente in crisi e in via definitiva la dimensione attestati dell’immagine cine-fotografica analogica; 2. Per contro, in ragione del suo costitutivo e larghissimo potenziale manipolatorio, esso incrementa in modo esponenziale le capacità più intrinsecamente formative di un’immagine, al punto da renderla simile a un’immagine manuale. Ciò espone alle logiche spettacolari del mercato, che a livelli diversi tende, proprio sfruttando l’illimitata mutabilità delle immagini, a una diffusa attrazionalizzazione del visibile. Relativamente al secondo punto, va osservato che la possibilità di esercitare il più ampio controllo possibile sui dati dell’immagine si configura presto come una delle linee più definite che percorrono dall’interno la storia del cinema. Da questo punto di vista, le nuove tecnologie sembrano condurre a pieno compimento quello che per molti versi si dà come un desiderio profondo, ma tutt’altro che segreto, della cinematografia. Insomma, qui l’avvento del digitale si presenta come l’atteso conseguimento di un’antica aspirazione. Appare evidente che se da un lato l’innalzamento del potenziale immaginativo e applicativo garantito dalle nuove tecnologie può agevolmente esser assorbito, con diversi gradi di consapevolezza, nell’orizzonte inglobante del mercato, dall’altro non può non presentarsi all’immagine come il principio di un suo più autentico e profondo incremento espressivo, compositivo. Se pensiamo al cinema contemporaneo si noterà come. Molti dei realizzatori più sensibili tendano a pensare il digitale non solo come a uno strumento con cui sia più semplice, più rapido ed economico dar corso a progetti configurativi già destinati all’analogico, ma come a un mezzo pienamente espressivo attorno alle cui specifiche potenzialità orientare dinamiche compositive nuove e complesse, e nuovi progetti poietici, talora del tutto coincidenti con le regioni immaginative profonde di un’intera costruzione testuale. Pensare in questi termini le tecnologie digitali significa consegnare loro la possibilità che il cinema si faccia capace di comporre come prima non gli era possibile fare e proprio in forza di un potenziale espressivo aggiunto, che apre alle più varie e alle più diverse possibilità formative. Relativamente al primo punto, la cui portata appare evidentemente epocale: occorre prendere consapevolmente in carico la radicale trasformazione che interessa l’identità stessa dell’immagine filmica. Ma anche osservare subito che ove si collochino evidentemente al di fuori di orizzonti espressivi e comunicativi largamente inclinati sul versante delle attrazioni (blockbuster, spot tv, videoclip, ecc.) le immagini digitali continuano a esser percepite come del tutto capaci di restituire a chi ne fruisce la pienezza di un’esperienza “veritativa”. Sarà sufficiente fare un solo esempio: di fronte alle spaventose immagini (foto, video) giunteci dall’orrore di Abu Ghraib, nessuno, com’è stato notato, ha pensato che ciò che ci trovavamo a guardare fosse frutto di una qualche azione di mistificazione, che ciò che avevamo davanti non fosse realmente accaduto così come lo vedevamo. Potere postumo di ciò che un tempo era costitutivamente un’immagine-documento e oggi è percepito come tale, o potere nuovo dell’immagine digitale, che è ontologicamente incapace di dare testimonianza certa e tuttavia può farsi capace di mostrare, più facilmente che in passato, ciò che pretende di essere testimoniato? Paradosso della visione per cui non ho le prove che quello che vedo “è stato” (non esistono ad esempio negativi cui poter fare appello) e insieme ho “evidentemente” le prove (nient’altro che queste povere immagini giunteci così come sono) che sia stato proprio così come lo vedo. Una significativa fioritura di un cinema compositivamente improntato all’orizzonte della testimonianza (nel film documentario, in opere che raggiungono la vasta distribuzione e in molte altre che popolano i festival internazionali) ha potuto in anni recenti svilupparsi e diffondersi proprio in virtù della leggerezza, della duttilità, della maneggevolezza delle strumentazioni digitali. Ma più in generale, nell’ampio arco che va dai filmati “diretti” che testimoniano quasi in tempo reale di accadimenti presenti quasi del tutto privi di accorgimenti formali, spesso unicamente dovuti alla sola attivazione del dispositivo, fino alle altezze e al rigore compositori di un Kiarostami (ABC Africa, 2001), il digitale si offre paradossalmente come una delle più importanti opportunità documentali che l’audiovisivo abbia oggi modo di percorrere. Si fa capace, cioè, più che in passato (la nostra immediata capacità di produrre e diffondere immagini non può non rimandare all’utopia, che fu di uno Zavattini, di un cinema-documento cui chiunque potesse dar corso), di accompagnare gli uomini, di formare gli sguardi e, di darci del mondo tutte quelle immagini che il potere trascura o cancella. Sparse nella rete o capaci di giungere fino alle nostre sale, in queste immagini appena evocate si dà forse allora un qualche decisivo tratto di giustezza che nelle sue espressioni sono più elementari come in quelle più ardue e meditate, si configura come un fare etico aperto nel cuore visuale del presente e che in esso insiste come qualcosa d’altro che torna a dirci che un’immagine, malgrado tutto, è ancora capace di mostrare. Le due cose che fanno l’immagine tecnicamente assistita sono quindi l’istanza desiderante e il continuare del sensibile, cioè l’esserci del mondo (realtà). Il mondo diventa un’immagine ma non bada a chi vuole farne un’immagine, semplicemente c’è e non ce lo impedisce. Il mondo ci circonda, lo vediamo e siamo visti e questa cosa che noi chiamiamo sensibile si offre alla nostra percezione, infatti noi ne facciamo schematizzazioni per tentare di capirlo, ma è comunque altro rispetto a noi. Noi desideriamo di farne qualcosa, come le immagini. Ma questo desiderio come si rapporta con questo sensibile che ci sta intorno e che continua? Il desiderio è una risposta ad una chiamata, qualcosa che ci chiama, ci tocca, qualcosa del mondo (è il nostro modo di stare nel mondo). Notare qualcosa che ci interessa, qualcos’altro da me, è una chiamata e rispondendo faccio agire la mia volontà (l’immagine è ciò che sta tra il desiderio e il sensibile, tra noi e la chiamata dal mondo, la quale è fatta dell’uno e dell’altro, di due cose ). 8 > | < La cosa molto importante da tenere in considerazione è che quello che diventa immagine (il prodotto di un desiderio) è fatto di una cosa che è altro da sé. Qualcosa del mondo è stato davanti l’obbiettivo chiamando l’attenzione dell’operator che ha deciso di farne l’immagine ma 9 quello che vediamo è il prodotto di tutto questo e che riemerge da ciò che è stato disponibile a diventare immagine. L’immagine che deriva è sempre l’espressione completa del desiderio dell’operator? No, perché involontariamente si può riprendere anche ciò che non volevamo abitasse l’immagine. L’altro (da noi) ci chiama e noi possiamo rimanere indifferenti o reagire, in quel caso creiamo l’immagine e il mondo si offre a diventarlo. Abbiamo detto che il sensibile nella sua alterità è disponibile a diventare immagine, ma questa disponibilità non è una forma di passività perché esso continua, procede e cioè ha una propria intensità che dura (il mondo che dura). Infatti è l’intensità a segnare l’immagine in modo da farsi notare. Sul piano della realtà che ci chiama o sul piano del desiderio di farne una forma dobbiamo necessariamente sottolineare due intensità: l’immagine (Tecnicamente assistita) sta in mezzo a due spinte (la realtà e l’istanza desiderante, ma anche qualcosa che spinge e si contrappone al desiderio cioè la forza del sensibile a cui corrisponde una forma) L’immagine è quindi ciò che si trova tra una forza (del sensibile, non finalizzata, ottusa) e una forma (espressione di un desiderio, finalizzata). Dunque questo tipo di rapporto è evidentemente un rapporto che ha anche un che di conflittuale (o negoziale). Caratteristica fondamentale del set è la sua delimitazione. Dalla fine degli anni ’10 vengono allestiti set sempre più attrezzati in modo tale da arrivare a produrre film in piena e massima efficienza dentro gli studi cinematografici. Con l’avvento del neorealismo il set si sposta anche in ambienti esterni. MERCOLEDI 9 MAGGIO 2018 La storia del cinema può essere letta anche come qualcosa che nella sua prima parte storica (stagione classica del cinema, anni 10/anni 50) cerca attraverso gli studi cinematografici di apportare il più grande controllo possibile sui suoi materiali, delimitando il set, perché sia possibile gestire questo materiale che era sì disponibile e pronto all’uso, ma comunque vivo. Con l’avvento del neorealismo dopo la II guerra mondiale, i cineasti italiani decidono di girare come possono per le strade, anche perché negli studi non potevano più farlo (gli studi di Cinecittà erano stati completamente deprivati delle loro strutture con la fuga dei nazisti, o erano occupati da sfollati). I mezzi per girare erano pochi, le macchine da presa e la pellicola erano strumenti molto costosi e (come Roma città aperta) venivano quindi usate pellicole di scarto. Non ci sono però solo pochi mezzi economici e/o strumentali, ma anche poco materiale umano (scomparsi, defunti, fuggiti) e allora ci si arrangia ricorrendo agli attori presi dalla strada. È una vera rivoluzione nel linguaggio della storia del cinema: per la prima volta i film non vengono fatti in studio, ma in dai raggi della realtà incisi dal supporto e dal desiderio di farlo diventare una forma, un’immagine8 Questo lo ritroviamo anche nella pittura, la differenza è ancora nel dispositivo ovviamente.9 mezzo alla strada, ambienti naturali. Il neorealismo si colloca nella parte conclusiva della stagione classica ed è l’inizio del cosiddetto cinema moderno. Il cinema si dispone a lavorare quindi con meno controllo rispetto al passato (per necessità) e si realizza questa produzione “in mezzo alla vita”, anche se in quel momento significava girare in mezzo alle rovine, alla fame, alla miseria, al disastro. Processo di reazione: l’immagine filmica analogica è sempre un’apertura che l’operator lo voglia o no, perché dentro uno studio o meno, il materiale può comunque comportarsi in modo diverso da ciò che si desidera (rumore, in senso semiotico) perché l’immagine filmica prende sempre qualcosa di più. Il cinema registra (fissa su pellicola) il cambiamento, il continuare, mentre la fotografia eterna in un’immagine un istante solo. Quello che c’è nel rapporto tra forma e istanza creativa fa in modo che entrambe diano appunto forma all’immagine e che l’immagine prodotta (frutto di riproduzione o rappresentazione) non sia solo l’atto integrale di costruzione d’immagine (posizione intermedia di duplice pressione, ricettiva). Serge DANEY è stato un grande critico e teorico cinematografico che dice: “l’operatore deve sempre fare i conti con ciò che ci sarà in più nell’immagine acquisita, scorie o brutte sorprese, resti, punte di realtà che impediscono all’immaginario di chiudersi”. Cosa sono le punte di realtà? Qualcosa che arriva dalla realtà e ci tocca per farsi sentire. L’immaginario è il modo con cui Daney chiama l’azione della forma (la forma è ciò che si vuole realizzare, protetto da altre forze). Daney si chiede come chiamare tutto questo e da una definizione precisa: “il richiamo dell’Altro”, cioè la presenza dell’alterità delle cose che si fa sentire. Da questo l’operatore deve decidere se tenere l’immagine o ripetere la ripresa, poiché ’immagine captando di più, mostra meno di quello che si vorrebbe. Foto chiesa in Sardegna di August Sander. La fotografia sta alla base della tecnologia filmica e ha a che fare profondamente con il tempo poiché ci restituisce il ritorno di qualcosa che è stato ma non è più dove lo vediamo (non è che la chiesa non c’è più, ma non è più davanti l’obiettivo con questa luce, posizione, con quelle nuvole dietro, la chiesa è parte reale dello stato passato). Ci chiediamo se effettivamente lui avesse voluto quelle nuvole dietro la chiesa, quel fondale, che determina la scrittura e diventa componente dell’immagine, probabilmente no. Leggere l’immagine vuol dire proiettare su di essa ciò che si sa (io so cos’è una chiesa), tendo a tirar fuori da questa identità muta (la foto) qualcosa che mi possa aiutare a capire un fatto e che cosa vuole da me (le immagini non sono mai inerti, vogliono sempre qualcosa da noi). Foto paesaggio paese sardo Spazio ampio nel centro per dare dimensione agli edifici presenti quindi disposizione geometrica di essi, disposizione simmetrica delle figure e poi un bambino che sembra essere estraneo al contesto. Anche qui proiettiamo il nostro sapere sull’immagine (Barthes, 1980), questa azione (dello spectator) viene chiamata “studium”, l’immagine che torna dal passato, il nostro sapere che noi proiettiamo sull’immagine. Questa azione ha comunque qualche elemento di intrattabilità, si tratta di qualcosa che ci punge (come dice successivamente Daney nel 1988, “ci tocca”) di cui è impossibile farne una teoria oggettiva, perché quello che si sa su questo fatto (“puntcum”) è che si tratta di qualcosa che l’operator non ha voluto. Il “punctum” è un piccolissimo evento visuale che non smette di imprimere la sua intensità in mezzo alle forme, spesso però è un’idea non condivisa da tutti (dall’immagine). Il bambino di questa foto guarda l’operator, la sua postura non è stata progettata da Sander (elemento che fuori esce dal desiderio dell’operator). “Che romanzo” - disse Roland Barthes Il fotografo deve fare i conti con la realtà, ma essendo la sua una ricerca della realtà lo sa e lo desidera, però poi la forma è un luogo di assoluta e completa imprevedibilità (il richiamo dell’Altro, fulcro percettivo dell’immagine). Consideriamo il versante della ricettività, della passività della macchina e il versante del prendere di più (coscientemente o meno): se una parte registra, l’altra è prova di ciò che vediamo (documenta il reale come stato passato) che si deve prima di tutto al dispositivo e non all’oggetto estetico. La foto documenta una parte di realtà, una realtà che è stata davanti l’obiettivo. Il lato documentario di ogni immagine analogico documenta appunto la presenza reale e passata di ciò che vediamo davanti l’obiettivo. Questo è il principio fondamentale della fotografia secondo Barthes (“è stato”, è l’unica cosa di cui l’immagine restituisce testimonianza certa). Il digitale va a modificare questo principio. Giovedì 17 maggio 2018 Una teoria quando è reale non si compone mai in astratto. Il cinema è di fatto la sola tra le arti maggiori ad avere la possibilità di essere indicata con la sua data di nascita che coincide con la prima proiezione pubblica di un film (una serie di piccoli film creati dai fratelli Lumière nel dicembre 1895). Gli spettatori rimangono impressionati, viene considerato come una cosa prodigiosa, magica e non subito come un’arte (poderosa impressione di realtà). I primi film dei Lumière (il loro catalogo è sconfinato) sono piccoli film fatti con una sola inquadratura che durano poche decine di secondi, muti e in b/n. I Lumière sono quindi gli inventori della macchina del cinematografo, della scrittura del movimento (Edison del kinetoscopio). Visione del film “la colazione del bebe”. I protagonisti del film sono August Lumière e sua moglie che danno da mangiare alla loro bambina nel giardino di casa. Circa 30 secondi descrivono questa piccola scena di vita. Mezzo primo piano, intenti nella loro azione, la bambina si trova al centro, nella porzione che immediatamente richiama l’attenzione dello spettatore. Già all’origine di questa dimensione del filmico abbiamo già un processo di costruzione dell’attenzione. I fotogrammi compongono l’inquadratura (24 fotogrammi al secondo). Vogliono documentare un fatto, non una storia, ma è già scrittura documentaria, pratica attestativa (la presenza reale e passata dei personaggi ripresi). Il campo è stretto, l’illuminazione naturale, l’effetto cromatico (b/n) è dato dall’obbligatorietà della pellicola, la voluta centralità dei personaggi. Questi elementi tecnico/formali o stilistici compongono il lato finzionalizzante (manipolizzante) che ogni immagine filmica possiede in sé. Con George Meliès, figura capitale nella storia del cinema alle sue origini, nasce la finzione, l’invenzione, il racconto (In opposizione ai Lumiére documentaristi). Meliès travalica il centro dell’attenzione che il film dei Lumière (la colazione del bebe) aveva progettato per lui (per lo spettatore). Méliès guarda le foglie che si muovono dietro i personaggi. Punta di realtà (dall’immagine a noi) che impedisce all’immaginario di chiudersi. Cos’è l’immaginario (da Sartre in poi)? L’immaginazione, l’istanza formativa, l’alterità del sensibile, il progetto di fare qualcosa. L’immaginario è la forma che si dispiega. Qualcosa che è disponibile a diventare immagine ma non coincide fino in fondo col desiderio che l’ha prodotta. L’immagine filmica tradIzionale ha funzionato così. Nel suo funzionamento di base, il cinema però non è più questo. Questa alterità che si da a vedere che si fa pensare come tale, questa cosa che si fa sentire nell’immagine, noi l’abbiamo definita come una forza. È necessario negoziare con queste forme, le mie istanze desideranti devono farlo. Questa negoziazione è il principio che consente la nascita di ogni immagine cinematografica. Giovedì 24 maggio 2018 Ontologia dell’immagine. Ci occupiamo di uno dei tratti più alti della storia del cinema: gli anni 20. Uno dei momenti più importanti, sono anni molto diversificati e ricchissimi (sperimentazioni, proposte e risultati). È l’età che rappresenta in modo emblematico “gli anni del muto” (fino la fine degli anni 20). Già dal finire degli anni 0 il cinema si configura come linguaggio, soprattutto negli USA, dove le ricerche di Griffith portano a una forma di scrittura cinematografica. Il lavoro svolto in precedenza raggiunge la sua piena maturazione e, in questa stagione con la quale si chiude l’età del muto, diventa decisivo. Prima in Europa, successivamente negli USA e presto anche in Russia post rivoluzione d’ottobre. Il cinema tedesco lavora particolarmente sulla luce (potentissimi chiari scuri, scontri drammatici tra i bianchi e neri, romanticismo tedesco). I sovietici invece lavoreranno tantissimo sul montaggio (livelli straordinari mai raggiunti prima di sperimentazioni). Anche in Francia, Svezia e Danimarca è una stagione molto importante (Vague europea).
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