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Riassunto del Libro Anime Prigioniere, Sintesi del corso di Psicologia Giuridica

Il volume affronta diversi percorsi: rilettura storico-critica del modello pedagogico penitenziario; analisi delle attuali funzioni e competenze dell'educatore penitenziario; ampliamento del contesto oggetto di studio (l'obiettivo è quello di pensare a un operatore/team in grado di attivare risorse esterne e capacità di azione multiagency); riflessione sul ruolo del terzo settore e sulla prospettiva di un'operatività sviluppata in chiave fund raising; valorizzazione del modello autoimprendito

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Scarica Riassunto del Libro Anime Prigioniere e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Giuridica solo su Docsity! 1 Anime Prigioniere Percorsi educativi di pedagogia penitenziaria Capitolo 1: La pedagogia penitenziaria: una lunga storia 1.1. Pena e devianza: riferimenti teorici Due noti studiosi Gaetano De Leo e Patrizia Patrizi, hanno sottolineato, l’esigenza di rilanciare, la riflessione teorica, si ritiene indispensabile, riaffermare il bisogno della conoscenza teorica. Soprattutto alla luce di quattro decenni vissuti all’interno dell’Istituzione penitenziaria, dove il sapere ha favorito l’elaborazione di attività concrete e, ha aiutato gli operatori a uscire dalle continue pastoie della vita quotidiana del carcere. Una vita che, propone delle fasi altalenanti, fasi legate all’emotività dell’opinione pubblica o alle diverse tendenze politiche del periodo. Oggi il rapporto fra devianza e pena è caratterizzato da alcuni indirizzi dottrinali che rappresentano l’ultima evoluzione di lunghi percorsi teorici. La spiegazione multifattoriale, il nuovo modello della giustizia riparativa costituiscono i punti terminali di un percorso secolare. Per una rappresentazione di questi aspetti teorici, è indispensabile consentire una visione storica dei processi che hanno determinato le risposte ai fenomeni di dissocialità. Il rapporto tra devianza e pena è obbligato, perché lega la naturale costituzione di un agire sociale condiviso alla strutturazione di un comportamento che produce una sua alterazione. Conoscere la relazione che è intercorsa, tra i presupposti interpretativi della devianza e i fini e i mezzi con cui la pena è stata individuata, è fondamentale per comprendere la funzione del carcere nel sistema istituzionale degli ultimi quattro secoli. La relatività del concetto di devianza si è tradotta, nella stesura di una gamma di ipotesi interpretative diverse tra loro. Si può affermare che fino alla Rivoluzione francese l’idea dei comportamenti trasgressivi era differenziata dalle modalità con le quali sarebbe stata configurata nelle fasi successive: nel XVIII secolo i reati maggiormente perseguiti erano quelli contro la proprietà, nel secolo successivo l’interesse per i diritti umani sarebbe diventato centrale in tutte le teorie scientifiche. 2 1.1.1. Dall’idea di giustizia di Platone e Aristotele alla devianza come disturbo: il ruolo degli ospizi Il rapporto tra la giustizia e il reo non può prescindere dall’individuazione della pena come strumento di difesa sociale. Questo assunto appare riscontrabile nelle concezione di pensatori quali Platone e Aristotele. Per entrambi, quando un individuo compie un’azione che infrange l’ordine naturale delle cose, allora il meccanismo della pena diventa consequenziale. L’obiettivo della pena è quello di ripristinare la rappresentazione collettiva della realtà. La pena costituisce una possibilità offerta all’autore dell’infrazione di una espiazione consapevole, come desumibile dalla comparazione, tra il ruolo del giudice e quello del medico che dovrà intervenire sulla necessità d non rendere cronico, nell’animo del reo, il male dell’ingiustizia. La punizione si propone, come strumento di controllo dei cittadini perché attribuisce alla Stato l’opportunità di un intervento a sostegno della logica della deterrenza come metodo di prevenzione. Il rispetto delle regole si compie anche per timore delle conseguenze di un comportamento non adeguato. Platone, nella Repubblica, definisce il valore della comunità ideale conferendo alla legge il compito di indirizzare gli uomini a diventare cittadini di una polis perfetta. Il suo pensiero viene, perfezionato nel dialogo intitolato Le leggi e pubblicato dopo la sua morte. Il maestro ritiene indispensabile che in uno Stato vi siano leggi e sanzioni penali. La legge deve mantenere inalterato il suo valore educativo e la punizione non deve essere una vendetta, ma deve indirizzare il colpevole a liberarsi dall’ingiustizia e ad amare la giustizia. La differenza con Aristotele è nella sua concezione del ruolo della giustizia. Il filosofo di Stagira, afferma che la giustizia non è una virtù particolare, ma in essa si identifica la “virtù interna e perfetta”. La “giustizia commutativa” mira a pareggiare vantaggi o svantaggia tra due contendenti e la pena inflitta si delinea come proporzionata al danno da lui arrecato. Sulla giustizia è fondato il diritto. Le intuizioni dei due filosofia sul rapporto tra giustizia e gestone della vita della polis, troveranno il massimo sviluppo nelle successive categorizzazione del diritto romano. La sua evoluzione ha collegato il comportamento criminale al principio della responsabilità individuale. La tutela dei diritti individuali di cui la civitas è depositaria impone la sanzione come risposta alla violazione. È con il consolidarsi del lungo periodo imperiale che venne a determinarsi il principio di una organizzazione tesa ad amministrare la legge. 5 malvagi e di trattenere gli altri dal diventarlo.” Questo lasciando inalterata la tendenza a coniugare riabilitazione, deterrenza e sicurezza. L’affiorare del pensiero riabilitativo viene espresso da Jeremy Bentham, che sosteneva: “E’ un grande merito della punizione contribuire alla ripresa del delinquente, modificando il suo carattere e le sue abitudini”. Con Bentham, viene a determinarsi un’ipotesi teorica che attribuisce alla pena e al carcere una funzione “diseducativa” del delinquente. Tra il 1769 e il 1791, vennero riformati codici e procedure penitenziarie. Non si può fare meno di citare ancora Foucault che ricorda come medici, cappellani, educatori sostituirono il boia. Tra gli innovatori più significativi dell’epoca, l’irlandese Crofton, che determinò delle tendenze operative negli Stati Uniti durante il XIX secolo. La riconduzione a criteri di razionalità del comportamento umano e all’opportunità di uno Stato di diritto trova, nel pensiero di Beccaria, il principale substrato ideologico e dottrinale. Chiara l’influenza di Rousseau e delle sue riflessioni organizzative della società. L’individuazione della persona come essere razionale, la rinuncia alla libertà dello stato di natura con l’assunzione del contratto sociale. Vengono tradotte da Beccaria nel celeberrimo Dei delitti e delle pene. È con Francesco Carrara che i principi illuministi sosterranno l’impianto teorico della scuola classica di diritto penale. Lo Stato nasce da un contratto e l’unica autorità legittima è quella dei magistrati. Le leggi solo le condizioni alle quali fu stretto il patto originario e le pene sono il motivo per garantire l’azione delle leggi. Con questo sistema vengono dichiarate l’uguaglianza dei cittadini, la chiarezza della legge, la proporzionalità della pena rispetto ai delitti. 1.1.4. La scuola positiva Il presupposto di individuare la pena come principale strumento di difesa sociale, era presente nei pensieri di Platone. L’idea, ripresa da san Tommaso, che sanciva il rapporto tra la purificazione del colpevole e la rideterminazione della giustizia, trova in Hegel, il riferimento filosofico del XIX secolo. Padre dell’idealismo rigetta la dottrina del “contratto sociale” affermando la tesi secondo cui lo Stato ricava la sua sovranità non dal popolo, ma dalla sua stessa essenza, evidenzia la connessione che permane nel rapporto tra reo e legge. Questa impostazione, trova la sua applicazione concreta con la scuola positiva italiana e con gli esponenti dell’utilitarismo inglese. Il positivismo, come il romanticismo della scienza e come parte integrante del movimento romantico dell’Ottocento può essere individuato come la dottrina da cui sarebbe derivata l’organizzazione di molte scienze sociali. 6 In Italia trovò il suo sviluppo in seguito alla diffusione della teoria evoluzionista darwiniana. Cesare Lombroso ed Enrico Ferri, capo del positivismo giuridico, furono i massimi esponenti dottrinali. Il primo introdusse un elemento di cui per decenni si è tenuto conto nell’antropologia criminale: la convinzione per la quale i criminali delinquono, ma per tendenze che trovano la propria motivazione in una organizzazione fisica e psichica diversa dal normale. La società fonda il diritto a punire i delinquenti non sulla base della loro malvagità ma per un’attitudine “preventiva” che riconduce al concetto di “pericolosità sociale”. Concetto che venne elaborato da Enrico Ferri fu tra i primi a evidenziare il valore della ricerca statistica, intervenendo nel dibattito tra ciclo economico generale e criminalità e introducendo gli elementi costitutivi della moderna criminologia. Ferri riaffermò la connessione tra la responsabilità sociale del criminale e la pena come strumento di difesa sociale: la pena assume una funzione curativa, volta a rimuovere le cause del delitto e ad agire in termini preventivi. 1.1.5. Il ruolo di Durkheim Il padre dei teorici sociali ha affermato che la natura di un fenomeno viene compresa conoscendone le cause piuttosto che conoscendone le caratteristiche. Una affermazione che illustra l’importante svolta metodologica della sociologia che con Durkheim vede mettere in crisi la sociologia di Spencer e Comte. A questo autore e al suo pensiero sulla devianza deve essere fatta risalire la nozione per cui il mondo sociale si differenzia da quello naturale a causa del suo carattere normativo. Di fondamentale importanza l’introduzione del concetto di anomia, derivante dalla sua ricerca sul suicidio con cui dimostrò come il comportamento deviante suicidario rientra in una dinamica macrosociale complessa. Ed è di Durkheim il presupposto per il quale la devianza, si delinea come elemento di legittimazione della società attraverso le forme di controllo che produce. La sua funzione fondamentale è quella di essere il primo studioso a considerare “il crimine come fatto sociale”, ipotizzando che la condotta deviante sia una risposta alle spinte anomiche della società industrializzata. L’anomia, può essere individuata come una delle prime concezioni dottrinali con le quali si è interpretato il fenomeno della dissocialità. 7 1.1.6. La scuola di Chicago Agli inizi del ventesimo secolo, la variabile socioeconomica contribuisce alla ridefinizione del concetto anomia. L’immaginazione l’urbanizzazione e l’induzione a una facile ascesa sociale, si propongono come nuovi termini su cui centrare l’interesse sociologico per comprendere il senso dei grandi mali del secolo, come il suicido, la malattia mentale, l’alcolismo e la microminalità. Una particolare attenzione viene posta sulla disorganizzazione sociale prodotta dal complesso intrecciarsi di culture diverse, dalla carenza di spazi e servizi, dall’alta densità della popolazione che rappresenterebbero il terreno fertile per attivare percorsi antisociali. Shaw, McKay, Parkkk, i più importanti patologi sociali, individuarono, nelle città affette da disorganizzazione e da mobilità demografica, le naturali aree della delinquenza. 1.1.7. La scuola struttural-funzionalista Prima di continuare nella rappresentazione dell’evoluzione del rapporto fra devianza e pena, è indispensabile riconsiderare il clima sociale che si viene a comporre tra la fine dell’Ottocento e il periodo intercorso tra i due conflitti bellici. La rivoluzione industriale, le teorie marxiste sulla divisione in classi del sistema sociale, l’entrata in scena della psicoanlisi: sono elementi che contribuiscono a inquadrare il problema su ottiche differenziate. E se gli studi sociologici e quelli criminologici iniziano a interagire, la convinzione di dover guardare alle vicende sociali con un livello di analisi che incroci più prospettive toriche si consolida sempre di più nel pensiero dottrinale. Le prospettive sono radicalmente diverse. Capita, che negli anni trenta le ipotesi lombrosiane possano dare un contributo alla definizione delle motivazioni criminogene. In tal senso deve essere individuato il lavoro dell’antropologo americano Hooton che sostiene, la convinzione dell’inferiorità biologica del criminale. Una tendenza che viene ripresa e, da una corrente di pensiero che individuò nel cromosoma entra Y, presente in molti dei ragazzi di un istituto correzionale di Boston, l’elemento in grado di legare anomalie cromosomiche a comportamenti criminali. Percorsi analoghi vengono compiuti, nello sviluppo delle prime teorie psicologiche. De Greef, nel 1938 sostenne che era possibile identificare la personalità criminale attraverso le determinazione di tratti costitutivi come l’aggressività, l’egocentrismo che favorirebbero l’accesso a un atto deviante. In questa cornice si sviluppa una sorta di estensione teorica delle dottrine di Durkheim e nella seconda metà degli anni trenta prende vita l’indirizzo struttural-funzionalista. 10 l’intenzionalità del soggetto e interagisce con i significati sociali, intesi come valori, norme, cui l’individuo attinge e riferisce le proprie scelte. Nella teoria dell’azione deviante comunicativa, elaborata da Gaetano De Leo dalla fine degli anni ottanta e sviluppata dalla sua scuola, questi presupposti si coniugano con gli studi sulla comunicazione umana della scuola di Palo Alto e con la tradizione di ricerca dell’interazionismo simbolico nell’avvicinare il punto di vista dell’attore sociale per comprenderne ragioni e significati dell’agire. Tale teoria esamina le anticipazioni soggettive individuando due principali tipologie di effetti che l’attore ricerca attraverso il suo comportamento: pragmatico-strumentale ed espressivo- comunicativa. A quest’ultima tipologia appartengono quegli effetti, che riguardano: il suo Sé, le sue relazioni e le interazioni attivate nel corso dell’azione, le agenzie formali e informali del controllo, esigenze di cambiamento o di contrasto di cambiamenti ritenuti minacciosi. Riteniamo che l’attenzione al piano espressivo dell’azione possa fornire elementi di rilievo per una conoscenza della persona che, sappia individuare i significati del comportamento per quel soggetto ai fini dell’intervento e per un’azione operativa orientata in chiave di possibile cambiamento: perché una carriera deviante non è sostenuta solo, dagli esiti pragmatici dei reati commessi. Questi ultimi configurano posizionamenti soggettivi e relazionali, affermazione di sé o dichiarazioni di impotenza, afflizioni gruppali, tentativi estremi di mantenere un’identità e uno status pubblicamente banditi ma riconosciuti. La scuola classica di diritto penale e la scuola positiva, hanno tracciato i criteri di base del nostro diritto sostanziale: la pena per il reato, la misura di sicurezza come correttivo alla pericolosità sociale. Lo sviluppo delle teorie criminologiche ha orientato alla considerazione di variabili che, non riconducono più al reato quale ente giuridico o al criminale con le sue determinanti biofisiche, psicologiche o sociali. La visione multifattoriale è presente in Ferri, ma è a partire dall’’interazionismo simbolico che il pensiero teorico ha assunto consapevolezza della processualità del divenire deviante. Processualità che include i meccanismi di controllo, le procedure e gli interventi messi in atto nei confronti di chi delinque, per incidere ai fini del cambiamento. Alla retribuzione, e alla correzione si affiancano nuovi termini che problematizzano il più tradizionale binomio pena-cura. L’obiettivo di umanizzare la pena e di sviluppare la sua declinazione in forme rispettose dell’individualità e attente a ridurre il rischio di stigma permea il pensiero degli ultimi decenni: il 11 trattamento dell’autore di reato e la tensione verso un pensiero in grado di cogliere la complessità sistemica del reato danno forza ai ragionamenti degli anni a noi più vicini. 1.2 Le funzioni della pena Di derivazione della scuola classica è l’attribuzione alla pena di una funzione retributiva. Tale principio si correla all’idea per la quale alla rilevanza del delitto deve corrispondere un adeguato livello di pena. La “punizione è da ritenersi uno strumento che la società de impiegare con la consapevolezza del proprio diritto di farne uso”. I criteri distintivi della funzione retributiva sono: l’afflittività, la determinatezza della pena, è desumibile come tali caratteristiche attribuiscano un ruolo afflittivo alla pena, senza ipotizzare altri aspetti, come il contenuto risocializzativo. Sullo stesso piano deve essere ricordata la funzione intimidativa. In questo senso l’effetto attribuito è quello di proporsi in termini di deterrenza verso il compimento di atti devianti. In connessione con il principio special-preventivo, un’ulteriore teoria attribuisce alla pena la funzione di difesa sociale, privilegiata dalla scuola positiva. Secondo tale indirizzo le misure di difesa sociale “dovevano sostitursi alla pena ed essere adottate non per la gravità del reato commesso, quanto per la potenzialità perniciosità del reo”. L’evoluzione sociale, la strutturazione di processi teorici sul piano criminologico e psicologico, hanno sostenuto l’attribuzione alla pena di una funzione risocializzativa, presente nel pensiero penalistico degli ultimi decenni, il superamento delle funzioni retributive, intimidative e di difesa sociale ha prodotto un’impostazione che mira alla rieducazione del reo. 1.2.1. Il modello riabilitativo come superamento del modello retributivo L’art.27 della Costituzione secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ha rappresentato l’elemento di maggiore spessore a sostegno di tale funzione. Alla definizione della funzione risocializzativa deve essere legato il contenuto di un percorso giuridico su cui si basano i due cardini dei moderni orientamenti dottrinali rappresentati dalla strutturazione dell’ordinamento dell’ideologia del trattamento. Al trattamento sono sati dedicati molti approfondimenti, sia sul piano della valorizzazione dei suoi postulati metodologici sia sul piano di un suo sostanziale superamento e fallimento. Il dibattito sempre più violento e acceso si sta spostando sull’individualizzazione di percorsi alternativi che diano voce alle norme del diritto penale minimo, 12 mentre infuriano le richieste verso l’applicazione di una “giustizia certa”, con un sostanziale affossamento del regime delle misure alternative che sopravvive a stento in quel che rimane, della Legge Gozzini. Con un’ultima notazione che riguarda l’introduzione del modello della giustizia riparativa: la prospettiva più innovativa, per una giustizia prossimale, delle responsabilità, del coinvolgimento diretto di tutte le parti in causa, della solidarietà sociale. 1.2.2 Il mondo minorile: le prime sperimentazioni Alla fine degli anni cinquanta il mondo della giustizia minorile fu affidato a un pedagogista che sarebbe stato fondamentale Uberto Radaelli. Il fenomeno della dissocialità giovanile sembrava diffondersi sotto molte forme. Le borgate romane, i Quartieri spagnoli a Napoli, la Vucciria di Palermo: tre esemplificazioni di un malessere che aveva radici nella povertà delle risorse, ma che sembrava voler dividere il paese in due. Quello della ripresa economica, e quello che a tutti sembrava convenire rimanesse nelle stesse condizioni del secondo dopoguerra. La diversità delle modalità in cui si esprimeva il disagio, aveva una matrice comune la povertà e l’ignoranza. L’Italia del profondo Sud, vedeva sorgere una generazione di giovani delinquenti che aveva intuito come il crimine avrebbe condotto al benessere che, appariva un miraggio dietro l’angolo. I tempi non erano difficili solo per le ragioni sociali. Si stava uscendo dall’incubo del Governo Tambroni e da ciò che di negativo aveva prodotto. Troppe similitudini, con la storia americana. Da noi Trambroni, da loro il senatore McCarthy, entrambi ossessionati dal pericolo comunista. L’unica differenza era nella caratterizzazione borghese della rabbia antisociale bianca negli Stati Uniti, mentre quella periferica dei nostri ragazzi era di origine sottoproletaria. Gli idoli di una gioventù che aveva conosciuto l’ebbrezza dell’alcol e del rock and roll. Da noi i nostri caruso e i nostri picciotti, il cinema non l’avevano mai visto se non all’oratorio a nel carcere minorile. Nel carcere minorile avrebbero trovato un pasto caldo e un campo di calcio. 1.2.3 Il ruolo di Uberto Radaelli e dei suoi “apostoli” In questo clima nacquero gli apostoli di Radaelli, un gruppo di direttori carcerari giovani, animati da un solo credo: tutti i ragazzi sono recuperabili. Luigi Turco, Enzo De Orsi, Peppino del Curatolo, Ziccone, Campanaro e Salvatore sono alcuni di quelli che avrebbero immolato la 15 L’aspetto più specifico della nuova normativa, è la previsione di quel regime che si può definire “delle misure alternative alla detenzione”. Un regime che, ha aperto le porte alle ipotesi non solo dei teorici modelli deistituzionalizzanti, ma all’individuazione della necessità di pensare a forme sanzionatorie diverse dal carcere. Questa novità ha una sua logica di riferimento nel sistemo della probation, vigente in molti paesi anglosassoni. Gli amanti di questo modello sottolineano come la sua introduzione sia da collocare a metà dell’Ottocento, quando l’esperienza di John Augustus, che aveva convinto il Tribunale ad affidargli vari condannati da assistere sulla via del reinserimento fuori dal carcere, divenne un punto focale per l’individuazione di una organizzazione sistemica che prese il nome di Probation. Questo modello, che si basa sulla stesura di un contrasto tra l’autore di reato e gli organi giudiziari e che prevede un periodo di prova, oltre ad aver consolidato un’efficacia organizzativa con la creazione dei Probation Departments, ha trovato in Italia una concreta e armoniosa applicazione con la normativa del nuovo codice penale minorile. Per il suo rapporto con l’ordinamento penitenziario, l’ambito verso il quale possono essere individuati parallelismi operativi è quello delle misure alternative con l’affidamento in prova al servizio sociale. La moderna criminologia ricorda come il parametro di una parte della pena espiata come mezzo per accedere ai benefici dell’affidamento e della semilibertà sia da correlare al sistema della parole board. La differenza tra parole board e probation è nota: la prima può essere applicata se il condannato ha già espiato parte della pena; l’altra si sostituisce alla pena detentiva, creando le condizioni per evitare il carcere al condannato. Quel che li accomuna è la presenza di un operatore esterno che, seguirà le vicende del condannato durante il periodo di permanenza all’esterno dell’Istituzione carceraria. La riforma penitenziaria del 1975 ebbe, al di là dell’applicazione dei criteri del probation system, varie matrici motivazionali. Dalla spinta riformista di quegli anni alla dimensione culturale che aveva messo in crisi le “istituzioni totali”, dal bisogno di caratterizzare il concetto di pena al riferimento dottrinale, della probation, al consolidamento dell’idea riabilitativa nel contenuto dell’esecuzione della pena stessa: sono questi gli elementi principali che dettero via a una riforma, arricchita e fortemente rimaneggiata. Sui contenuti della legge 354/1975 deve essere registrato l’inserimento di un elemento innovativo: il riferimento all’assenza di politiche territoriali in termini di risposta ai bisogni primari cittadini, chiaro con una prima intuizione normativa che i percorsi di risocializzazione dei detenuti non potranno realizzarsi senza il coinvolgimento delle agenzie territoriali. Questo aspetto rinvia a una forma di dibattito attiva. Un dibattito che imprime alle scelte politiche un livello di oscillazione tra le istanze di sicurezza, e la pressione esercitata dall’insostenibile sovraffollamento delle carceri. 16 Ancora oggi, emerge la convinzione che le “misure alternative” rappresentino una pena di secondo livello, facendo perdere il senso del concetto di “territorializzazione della pena” e ancor più il senso della finalità rieducativa della pena affermata dal dettato costituzionale e la dimensione sociale della politica penalpenitenziaria. La legge ha annunciato un percorso che, ha imposto una seria riflessione sul ricorso al carcere come principale risposta sociale alla devianza, introducendo concetti, come la flessibilità della pena, che avrebbero aperto immagini diversi sullo scenario penitenziario. 1.2.6 Il trattamento penitenziario Qualcuno ha scritto che la legge di riforma “è stata una legge figlia del Sessantotto”, l’aria per molti era quella movimentista del 1977, se si può parlare di un vero e proprio cambiamento del “pianeta carcere”, questo non è avvenuto soltanto con la scrittura di un testo legislativo, ma soprattutto perché quel manipolo di giovani educatori compresero che la loro esistenza sarebbe cambiata e avrebbe assunto un senso solo se il sacro furore del rinnovamento fosse rimasto vivo negli anni. La vera “rivoluzione! Fu quella culturale, che si concretizzò nei primi anni ottanta con l’entrata di ruolo 600 educatori e altrettanti assistenti sociali. “Il carcere cambierà de sarete disposti a non deprimervi di fronte alle mille sconfitte cui andrete incontro, perché trattamento vuol dire anima e lacrime da versare”. Un’ espressione che ha caratterizzato le vicende di un’intera generazione di operatori che, ha compreso che quello che aveva imparato sui libri non bastava. Parlare di trattamento, di carcere, delle persone “ospiti”, dei loro diritti acquisiti, dei loro diritti negati, della nascita di una cultura alternativa alla subcultura carceraria, è difficile e affascinante al tempo stesso. Parlare di trattamento non è cosa che si risolve soltanto facendo riferimento alla normativa. Oggi nei volti di chi entra nella realtà penitenziaria si legge la stessa rabbia, la stessa voglia di negare il valore dei codici, il valore della norma. Il contenuto dell’agire degli operatori trattamentali è una considerazione essenziale. Una considerazione che per assumere una valenza deontologica è dovuta passare, attraverso le esperienze di tre generazioni di educatori, assistenti sociali e psicologi che, si sono battuti per modificare ambienti difficili e sovrastrutture interrelazionali particolarmente problematiche. La considerazione di base si sostanzia nella necessità di individuare un percorso risocializzante nel quale le mete da raggiungere siano progressiva. E la prima meta di questo itinerario, che dovrà consentire di far assumere al soggetto recluso un ruolo di protagonismo attivo, parte da quella che 17 possiamo definire “rivisitazione critica delle precedenti scelte devianti”. Esistono modi diversi per produrre questo ripensamento sul proprio passato. Quello che si ritiene più appropriato si lega a due aspetti, il primo è determinato dalla capacità dell’operatore di leggere la storia del detenuto e di saper comprendere le motivazioni che lo hanno indotto a tali opzioni, l’altro rinvia al bisogno per il detenuto di non rinnegare le azioni criminali, comprendendo la loro negatività, per individuare opportunità che, possano e debbano tradursi in un processo di consapevolezza responsabilizzante, il trattamento è questo. Se gli operatori ricorderanno che la natura del loro mandato consiste nell’essere “operatori dell’aiuto e del cambiamento”, tutto sarà semplice. L’aiuto e il cambiamento rappresenteranno i due elementi su cui impostare i singoli processi trattamentali. Con una premessa di fondo: per comprendere la devianza è indispensabile conoscerla. Conoscere motivi, logiche organizzative della criminalità. Questo appare un assunto condivisibile ma rinvia a un’esigenza descrittiva complessa e a una valutazione basilare. Il trattamento in ambito penitenziario non è esente da influenze sociali esterne. Una vera e propria definizione degli elementi che lo compongono è possibile. Cosi come è possibile individuare le competenze degli attori che possono e devono renderlo vivo. Quel che è problematico circoscrivere riguarda il rapporto tra l’organizzazione carceraria e la devianza, perché entrambe sono in un continuo divenire. L’idea stessa della nascita del carcere ribadisce non tanto il carattere afflittivo che esso ha avuto per secoli, quanto una verità più profonda. Una verità che rinvia al ruolo sociale dell’Istituzione totale che ribadisce la propria funzione come risposta naturale ai fenomeni di dissocialità. Una risposta che non tiene conto delle motivazioni che possono determinare le azioni devianti e non si rapporta con i contenuti che caratterizzano l’azione degli operatori penitenziari. Essa è sempre stata influenzata dalle pressioni di un’opinione pubblica oscillante tra perdono e punizione, durezza e redenzione. Se si concorda con tale prospettiva, allora il primo tassello della dimensione trattamentale non può prescindere, da una sorta di anamnesi degli ultimi tre decenni. Quelli in cui il carcere si è più volte modificato, con una convinzione, che rinvia a un’affermazione condivisibile di Pier Luigi Bersani, l’allora ministro dell’Industriai, che nel 1997 diceva: “La domanda di sicurezza, se non trova un interlocutore autorevole, finisce per autoalimentarsi”. Un’affermazione legata all’analisi dei contesti urbani, ma applicabile alle vicende carcerarie e che riafferma il senso di una sfida. Una sfida che parte da lontano e che si sostanzia nella domanda “nel carcere è possibile fare trattamento, è possibile rieducare?”. Non si può non ricordare che il pensiero illuminista aveva gettato le basi per pensare a una pena che avesse scopi umanitari. Jeremy Bentham, riprendendo il pensiero di John Howard, aveva 20 anche da problemi psichiatrici. Problemi che è difficile dipanare, non comprendendosi, che il deficit emotivo e psichico sia primordiale o da addebitare all’assunzione protratta di sostanze stupefacenti che agiscono sul sistema nervoso centrale. Definita l’attuale posizione interpretativa degli elementi base del trattamento. Una posizione in cui la diagnosi e gli interventi sono strumentali alle “finalità del trattamento” che si fondono sull’insieme di opzioni che vengono offerti all’individuo per aiutarlo ad assumere un nuovo atteggiamento di vita. Questo ha consentito agli operatori e ai detenuti, di stabilire alcune condizioni di accettazione reciproca. I soggetti reclusi hanno imparato a non sentirsi più soltanto oggetti di una analisi dei loro vissuti e delle loro scelte precedenti, ma soggetti che “volontariamente” partecipano alla ridefinizione di un percorso. Ciò è reso possibile dalla concretezza di tre elementi sui quali si sono identificati i detenuti: il riconoscere il proprio stato di bisogno, il desiderio di lavorare per cambiare la realtà delle cose, la fiducia nei suggerimenti degli operatori. Un’espressione significativa da percorrere riguardare “l’apertura alla comunità esterna”, se il detenuto doveva cambiare, se il carcere doveva trovare e individuare gli strumenti per riappropriarsi della condizione di “istituzione umanizzante”, non poteva che aprirsi al rapporto con l’esterno, consolidando l’idea del recluso animale sociale e, bisognoso di rapporti con i propri simili. Ben definisce la portata del movimento l’affermazione di Massimo Pavarini: “Il riformismo penitenziario ha contribuito a portare a definitiva maturazione il processo di disintegrazione del sistema sanzionatorio classico”. Deve essere valutato il lavoro che nelle Case di reclusione viene realizzato per esaltare i principi contenuti in uno degli articoli più importanti della legge di riforma: l’art.13. il concetto dell’individualizzazione del trattamento ha esplicitato, il senso degli interventi istituzionali. L’attenzione ai bisogni personali del detenuto, l’espletamento di un periodo di osservazione della personalità che avviene durante la fase di esecuzione della pena e che accompagna gli eventuali processi del soggetto sia positivi che involutivi, la definizione di un programma che promuoveva tutte le azioni utili a favorire il reinserimento sociale del recluso costituiscono l’essenza della norma. L’applicazione consente di aprire una finestra sugli attori principali della vicenda trattamentale e su due postulati per la realizzazione degli obiettivi normativi: il confronto interprofessionale e il consolidamento del rapporto con le agenzie territoriali. In questo gioco delle parti, emerge un plusvalore che è rappresentato dal rapporto tra operatore e utente, in questa fase entrano in ballo non solo i dati reali che consentono di presuppore una 21 valutazione sul detenuto, ma anche la qualità del rapporto che si è stati in grado di attivare con i detenuti. Un aspetto sul quale poco ci si è soffermati, nelle analisi e nelle descrizioni riguarda la valenza del superamento di alcune sovrastrutture di relazione che hanno problematizzato una visione non tanto scientifica, quanto sociale, della realtà detentiva. Ciò che oggi è più facilmente decodificabile nell’approccio tra operatore e utente è dovuto a un lungo ripensamento sulle prime esperienze di gestione trattamentale. All’epoca il quadro delle relazioni era questo: da una parte la polizia penitenziaria dura e diffidente, dall’altra la popolazione detenuta altrettanto diffidente ma con la volontà di capire quali vantaggi ricavare dalle nuove figure, dall’altra gli operatori con immagini ideologizzate del carcere o pregni di quella generica espressione, allora vigente, il rapporto empatico. Tutti hanno imparato a recitare “dal vivo” la parte del copione assegnato al ruolo, il carcere è diventato il teatro della verità, dove chi lo ha capito è stato bravo a mettere a nudo le proprie debolezze e i propri problemi per diventare “oggetto” di lavoro. Gli operatori hanno imparato a fidarsi delle aree di appartenenza, comprendendo l’importanza della reciproca tutela. I detenuti, hanno compreso che la positività del comportamento avrebbe reso tutto più semplice. Soprattutto se comportarsi bene non dovesse tradursi nell’acquisizione di un beneficio. E le fregature e gli investimenti sbagliati hanno insegnato a molti educatori, assistenti sociali e psicologi l’esigenza di tarare le generiche e formali positività comportamentali, iniziando a dare valore a un modello operativo fatto di confronto e non solo di sanzioni. Su questo piano è cresciuta la vera professionalità delle figure trattamentali. Il programma si è rilevato uno strumento efficace perché ha consentito ai componenti dell’équipe di individuare le caratteristiche del soggetto, le sue peculiarità relazionali, per stabilire un percorso costantemente da verificare. Il direttore dell’istituto, l’educatore, l’assistente sociale, lo psicologo, il comandante di reparto, le figure storiche, di ogni équipe che si rispetti, hanno dato un senso a quello che per ogni singola figura era scritto nel regolamento di esecuzione. Ciò che è stato pensato, nasce da una sorta di scientifica rielaborazione dell’esperienza, grazie agli avvenimenti e a un clima politico incline a pensare ai processi di inclusione sociale dei reclusi, entrata in vigore la legge Gozzini, che prende il nome dal senatore che fu un primo firmatario. La legge nacque a partire da un fecondo confronto che coinvolse parlamentari, magistrati impegnati nel settore, lo stesso Consiglio superiore della Magistratura e l’Amministrazione penitenziaria, attraverso un lunga riflessione in quanto inserita nella fase all’uscita dai cosiddetti “anni di piombo”, segnati dalla violenza terroristica. La legge Gozzini, n. 663, fu emanata il 10 ottobre 1986, si è trattata di una vicenda normativa complessa, con alle spalle riflessioni dottrinali discordanti. 22 Alcuni elementi di modifica della legge 354/1975 vanno citati, tre in particolare, il primo connaturato all’estensione dell’art.54, l’articolo in questione si riferisce alla liberazione anticipata, alla concessione di una riduzione di pena per ciascun semestre di pena espiata. Nella Riforma del 1975 il periodo era di 20 giorni a semestre e di 40 giorni l’anno, dal 1986 il periodo si estende a 45 giorni a semestre e a 90 giorni l’anno che vengono ridotti ai detenuti che abbiano dato prova di partecipare ai processi rieducativi. Di natura ancora più estensiva è la modifica della norma che concerne la semilibertà. Nella stesura dell’art.50 della Riforma del 1975 il riferimento ai reati ostativi si pone come condizione di mancato accesso alla norma. Rapina, sequestro di persona, estorsione: questi i reati che impedivano la possibilità di accesso al regime di semilibertà. È opportuno ricordare che gli autori di questa tipologia potranno aspirare a una sola norma che riduca il periodo di detenzione: la liberazione condizionale, prevista dall’art.176 c.p. Con la legge Gozzini vengono modificati i criteri di ammissione e i reati ostativi non vengono citati. L’ultima modifica riguarda l’abrogazione dell’art.90 che, consentiva in alcuni penitenziari la sospensione dell’applicazione delle regole del trattamento. La norma era stata contrastata sin dagli esordi della Riforma, perché vissuta come una sorta di “spada di Damocle” sulla testa di operatori e detenuti. La legge Gozzini ha prodotto il concetto di premialità. 1.2.8 La strage di Capaci: la criminalità organizzata distrugge un sogno Nel paese il volto strutturale e logistico cambiava, il dolore dei muri di cemento azzerava la spinta rivoluzionaria dei colori del movimento studentesco, si cercava la pace sociale, si respirava l’aria di rinnovamento. Le statistiche sembravano confortare le indicazioni operative della legge Gozzini. Dietro l’angolo c’era un’aria di stragismo che aveva avuto il suo prologo con gli 86 morti della Stazione di Bologna. In Sicilia si combatteva una lotta all’ultimo sangue, non solo la sopravvivenza della mafia, ma anche uno stile centenario di rapporti con il potere politico. In questa chiave deve essere letta la strage di Capaci. Dopo la morte di Salvo Lima, occorreva chiudere il cerchio, Cosa nostra aveva esigenza di mandare messaggi chiari al potere politico che non aveva rispettato i patti, in particolare quelli di aggiustare il maxiprocesso nato dalle rivelazioni di Buscetta. Un’escalation micidiale di delitti che aveva toccato tra il 1989 e il 1991 vertici allucinanti. Erano morti il giudice Antonio Scopelliti, colpevole di aver rappresentato un ostacolo per i tentativi di revisione processuale attivati dai 25 Non in linea con i rigidi codici del sentire mafioso i due magistrati non furono uccisi per attaccare la legge Gozzini è indubbio che l’attacco al cuore dello Stato fu per difendere posizioni di privilegio regionali e organizzative che i corleonesi non avevano intenzione di mettere in discussione. Questa situazione determinò, una risposta repressiva dello Stato, una minore emotività avrebbe tutelato il sistema carcerario che ne è uscito profondamente destrutturato. Un’attenzione differente verso i dati della recidiva sarebbe stata utile, se per attaccare la legge 663/1986 non si fossero utilizzate frasi del tipo “evadono dai permessi, camorristi che ancora devono fare i processi”. Una frase che, ogni tanto torna di moda, ma che si rilevò mortale per la legge Gozzini, con una motivazione che facilmente si sarebbe potuto confutare, quella che è un’affermazione giuridicamente falsa. Perché parlare di permessi premio durante fasi diverse dall’esecuzione della pena è dire falsità giuridiche. È superfluo ribadire che il beneficio premiale si concretizza soltanto dopo aver concluso la vicenda processuale e aver esperito una parte della pena. Chi evade da una condizione diversa evade dagli arresti domiciliari che sono un’altra cosa dalla dimensione premiale. Il carcere subisce dei cambiamenti in pieno per quel che succede fuori, nella società e non per i risultati, che si concretizzano nella prassi quotidiana. Il trattamento penitenziario e il processo di umanizzazione della pena e sono stati elementi inscindibili nelle modalità di rinnovamento della dimensione istituzionale. Questo percorso è stato fortemente messo in crisi con l’entrata in vigore di una legge che tra il 1991 e il 1992 svuotò di molti contenuti la legge Gozzini. L’assunzione a problema nazionale della criminalità organizzata sostituitasi in toto al fenomeno terrorista ha imposto la necessità di pensare a un sistema sanzionatorio che ha elevato non soltanto i criteri di punibilità per i nuovi committenti di reato, ma anche il livello dell’accesso ai benefici. L’estensione dell’art. 4 bis o.p. (divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni diritti) ha determinato, la condizione per escludere del tutto dall’accesso ai benefici i soggetti di cui alla prima fascia dello stesso articolo e per individuare nuove modalità di accesso ai benefici del lavoro esterno, dei permessi premio, dell’affidamento in prova della semilibertà. I colpevoli di diritti previsti dall’art. 416 bis c.p. non potranno accedere ai rituali benefici della materia penitenziaria. Per quanto concerne l’art.21 o dell’ammissione del lavoro all’esterno, questo può essere disposto dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena. Ai condannati di cui al 4 bis l’accesso è consentito dopo l’espiazione di metà della pena per i permessi premiali e dei due terzi della pena per la semilibertà. Come si nota è un impianto normativo complesso che ha introdotto, due nuovi aspetti nella vita detentiva: il rapporto marcato e definitivo con la collaborazione; l’accertamento dell’attualità dei 26 collegamenti con la criminalità organizzata. Sono due aspetti correlati ma non sovrapposti. Il riferimento al concetto di collaborazione è, diverso da quello relativo al mondo dei collaboratori di giustizia. Esso indica la positività della condanna del reo nel rapporto con il delitto commesso, facilitando la determinazione delle prove a suo carico. Tale concetto è collegato al rapporto tra l’autore del reato e il reato stesso. La disponibilità a orientare gli organi inquirenti avrà un suo peso quando il detenuto, per accedere ai benefici, potrà avvalersi dell’art.58 ter della legge 354/1975, secondo le modifiche apportare dalla predetta legge 82/1991. Questa norma inserisce le scelte individuali dei soggetti e apre la strada a una diversa modalità applicativa dell’idea di premialità. Gli autori di reato inseriti nella fascia del 4 bis, possono aspirare a rientrare nella possibilità di fruire dei benefici alternativi, solo se vengono accertate la collaborazione e l’assenza di collegamento con la criminalità organizzata. Il primo livello di accertamento è di competenza del Tribunale di Sorveglianza, mentre l’altra è legata alle valutazioni del Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. Resta la convinzione per cui l’organizzazione istituzionale, il valore attuale e la strutturazione del trattamento penitenziario, nonché il ruolo dell’area penale esterna rappresentano i cardini del nostro ordinamento penitenziario che, mantiene inalterato il senso di attenzione ai diritti dei detenuti e ai loro percorsi di inclusione sociale. 1.2.10 Gli anni Duemila: l’emergenza diventa normalità Il clima dei primi anni novanta non ha giovato all’armonia penitenziaria. I semi gettati nel periodo precedente hanno, consentito di accentuare la riflessione collettiva sulla vita detentiva, sulle condizioni generali della popolazione detenuta, sulle opzioni organizzative. È cresciuta la consapevolezza di dover estendere le ipotesi di rapporto tra la comunità esterna e il carcere. Si sono verificate delle novità normative di cui tener conto. Deve essere evidenziata la valenza della legge Simeone-Saraceni, la legge 28 maggio 1998 n.165, Modifiche dell’art. 656 del codice penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, nel determinare cambiamenti dell’assetto generale della norma del c.p.p. che regola l’esecuzione delle pene detentive, è andata a incidere su alcuni istituti giuridici. L’aspetto più significativo della legge Simone-Saraceni è stato quello di prevedere la sospensione automatica della pena a carico del PM competente dove la pena non sia superiore ad anni tre ovvero ad anni quattro nel caso di soggetti alcol o tossicodipendenti che potessero fruire delle misure previste dagli artt.90 e 94 della legge 9 ottobre 1990, n.309. Questa legge costituisce 27 un ulteriore strumento normativo con il quale si è tentato di dare una risposta significativa al problema principale con il quale oggi si confronta l’universo penitenziario: la tossicodipendenza. 1.2.11 Il senso del modello riabilitativo oggi La storia della funzione della pena nel nostro paese è caratterizzata da un percorso complesso, espressione dei valori della sensibilità etico/morale e dell’indirizzo culturale prevalente nei differenti momenti storici, segnato dal passaggio dagli assunti della scuola classica che ha contribuito a umanizzare e giurisdizionalizzare l’esecuzione penale, alle riflessioni del positivismo criminologico della scuola positiva che ha introdotto il metodo scientifico nello studio del comportamento criminale, orientando il pensiero penalistico verso il trattamento individualizzato. Si è passati dall’influenza delle idee dell’Illuminismo ai progressi delle scienze umane, con l’affermazione di un’idea di funzione della pena come strumento di difesa sociale ma anche come occasione di revisione del comportamento e non come punizione e sofferenza fine a sé stessa. L’iter storico-giuridico che ha portato alla nascita della legge 354/1975 è stato una conseguenza del percorso di evoluzione del modello teorico-metodologico di intervento sul tema della criminalità e della devianza che ha visto la trasformazione della concezione del soggetto deviante: da individuo colpevole, da punire e separare dal corpo sociale, a soggetto malato, e bisognoso di interventi curativi, ma anche portatrice di vissuti esistenziali complessi e conflittuali. L’ordinamento penitenziari9o vigente vede la compresenza del modello retributivo e di quello rieducativo-trattamentale e ha come principio fondante l’approccio individualizzato verso il soggetto recluso, basato sulla conoscenza e considerazione delle sue caratteristiche personali e della sua situazione esistenziale: l’attenzione al soggetto, ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni diviene il nodo centrale dell’esecuzione penale, anche in accordo al dettato costituzionale dell’art.27 che stabilisce che le pene devono essere finalizzate alla rieducazione e alla risocializzazione della persona che ha infranto la legge. Nel periodo di tempo intercorso dall’emanazione della legge del 1975, permane di attualità il dibattito e la riflessione sul concetto di “trattamento penitenziario”. L’intervento trattamentale/riabilitativo è andato incontro a una crescente complessità che ne ha esteso le funzioni e i campi di azione, soprattutto per le iniziative riguardanti le nuove forme di marginalità sociale ed economica, rendendo necessaria l’adozione di strategie di intervento da attuare. Parlare di “modello riabilitativo” oggi significa, ipotizzare una metodologia di intervento che non può essere limitata dalla cornice degli “elementi del trattamento” previsti dalla legge penitenziaria; in questo senso “fare trattamento” diviene un processo metodologicamente fondato attraverso 30 finiscono con il cadere nella marginalità, nella devianza, ponendo l’Amministrazione penitenziaria di fronte a problematiche nuove che richiedono l’adozione o l’adeguamento degli strumenti di intervento deputati a fornire risposte idonee ai fini del trattamento risocializzante. È necessario pensare a un nuovo modello di intervento, in grado di rispondere a più esigenze che vanno dalla crescita culturale al favorire forme di socializzazione e interazione secondo modelli condivisi e positivi, all’acquisizione di competenze utili a ricostruire un percorso sociale e occupazionale adeguato. Ogni intervento trattamentale deve divenire un momento di riflessione critica, di assunzione di responsabilità, di volontà di assumere comportamenti socialmente accettabili, abbandonando quell’accezione astratta e poco significativa legata a interventi di intrattenimento finalizzati a sottrarre dall’ozio il soggetto recluso per garantire una migliore vivibilità e governabilità degli istituti di pena. L’intervento riabilitativo deve qualificarsi come un luogo di promozione culturale, di stimolo alla creatività, di acquisizione di competenze di natura pratica ma anche di capacità di natura introspettiva e riflessiva, dove sia possibile favorire la conoscenza e il confronto con scelte e comportamenti alternativi che consentano di acquisire una visione multiforme e problematica della realtà. Un modello come quello in esame può essere concretamente realizzato attraverso un’ottica sistemica, che veda tutti gli interventi riabilitativi realizzabili all’interno del carcere proiettati verso l’esterno, attraverso l’incremento del livello di collaborazione tra le istituzioni e il territorio. Diviene importante affermare una prassi operativa di collaborazione con una pluralità di attori interessati avendo lo scopo di costruire un “cultura di rete” che sia finalizzata a dover creare le migliori condizioni per lo sviluppo e il consolidamento di una modalità di lavoro integrato, che valorizzi la ricchezza delle esperienze e delle competenze, consentendo il miglior utilizzo delle risorse disponibili. Occorre progettare gli interventi riabilitativi secondo delle modalità che consentono di incentivare la motivazione dei soggetti, prestando cura alle strategie di personalizzazione da realizzare mediante approcci che facilitino il riconoscimento e il recupero delle potenzialità personali inespresse, costruendo percorsi flessibili, “costruiti” sul patrimonio di abilità/capacità/competenze già possedute dal soggetto, indipendentemente dal come e dove siano state acquisite. Tutte le attività che compongono il complesso degli interventi trattamentali devono essere attuate secondo una prospettiva di apprendimento indirizzata verso un fine di promozione personale e culturale che consenta al soggetto la piena realizzazione di sé nei diversi ambiti di vita. 31 Si tratta di creare all’interno del carcere uno “spazio formativo” che sia anche luogo di socialità e relazione, caratterizzato dal piacere di conoscere e dalla libertà di espressione, al fine di promuovere lo sviluppo di un’attitudine critica e consapevole rispetto al proprio e alla progettualità di vita futura. Appaiono significative le opportunità offerte dal sistema dell’Educazione degli adulti, che prevede sia forme di integrazione tra istruzione e formazione professionale, sia il riconoscimento e la valorizzazione delle diverse competenze/abilità già possedute dai soggetti, indipendentemente dalle modalità con cui le stesse sono state acquisite. Il concetto alla base del nuovo modello riabilitativo deve essere quello che vede in ogni attività trattamentale l’occasione di fare formazione, favorendo l’apprendimento di quei contenuti utili per affrontare i cambiamenti del mercato del lavoro, ma anche un tipo di conoscenza estranea a quella funzionale agli scopi imprenditoriali, al fine di individuare ambiti formativi che riguardino anche delle capacità lontane dalla logica del mero profitto. L’acquisizione di competenze e di metacompetenze relative, coniugano l’esigenza occupazionale con quella del benessere sociale, consentendo alla parte debole della popolazione l’acquisizione di un orizzonte di riferimento più esteso, in grado di ampliare i contesti di autocollocazione personale, sociale e occupazionale. Questa visione diversificata e flessibile dell’intervento trattamentale in ambito penitenziario si configura come l’approccio più adeguato alla costruzione di un nuovo modello riabilitativo che consenta ai soggetti in esecuzione di pena di riappropriarsi di un ruolo attivo e consapevole nella società, attraverso un “tempo della detenzione” che diviene caratterizzato da fasi, obiettivi e traguardi. Per rendere efficace un sistema di intervento con queste caratteristiche, appare necessario costruire un modello di governance estesa e partecipata che sia in grado di gestire la multidimensionalità, la policentricità e la complessità che caratterizzano l’ambito degli interventi riabilitativi in favore delle persone in esecuzione di pena, abbandonando pratiche di governo tradizionali e prescrittive per arrivare alla sperimentazione di una prassi utile alla realizzazione di progetti condivisi, all’interno di un sistema complesso e articolato che vede la presenza di soggetti caratterizzati da una forte dimensione di autonomia. Un ipotetico modello di gestione e sviluppo delle pratiche trattamentali deve essere costruito partendo dal basso, dall’ascolto dei diversi attori, dal riconoscimento delle opportunità e dei bisogni. La legge 8 novembre 2000 n.38 Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, assume come principio fondante il criterio della concertazione interistituzionale, indicando negli ambiti territoriali di zona la sede privilegiata per la programmazione degli interventi e affidando ai diversi livelli istituzionali il compito di programmare azioni di supporto sociale per le persone in difficoltà, tra le quali (all’art.2 comma 3) vengono 32 individuate le persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, mentre (all’art.19) viene previsto il coinvolgimento diretto degli “organi periferici delle amministrazione statali, con particolare riferimento all’Amministrazione penitenziaria e della giustizia”, i criteri di programmazione e le modalità di gestione degli interventi di natura socioriabilitativa devono essere attuati mediante un modus operandi basato sul coordinamento tra i diversi protagonisti, sulla condivisione degli obiettivi e su una programmazione di medio/lungo termine, introducendo una cultura fondata sulla cooperazione e sulla sussidiarietà, allo scopo di evitare che l’obiettivo del reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione di pena sia esclusivamente demandato agli organi dell’Amministrazione penitenziaria. Capitolo 2: Gli utenti dell’azione educativa 2.1 La centralità del detenuto, unico vero soggetto dell’azione educativa (Leggere le tre storie che vanno da pp.71-76) Tre storie diverse dove è difficile individuare il lieto fine. Testimoniano quanto sia difficile portare la croce quando si sceglie la strada della diversità. Ma sono anche conferme della sconfitta del lavoro condotto dall’operatore di riferimento con cui hanno condiviso ricca parte delle loro esistenze. Davvero non era possibile fare di più? La domanda non nasce da irrisolti sensi di colpa, ma da un’analisi sul legame, fatto di sangue, di lacrime, di amicizia, di riconoscenza su cui si impernia una relazione del rapporto operatore-utente, la risposta è una: più di così non era umanamente possibile fare. Ma se la lente di ingrandimento si sposta emergono dubbi sulla mancata richiesta di aiuto che l’operatore non ha attivato, ad altre figure che potevano aiutare a far rilevare il grado di coinvolgimento o alle agenzie territoriali dove si poteva definire una strategia più ampia. Se la notte della vigilia di Natale 2010 l’operatore riceve delle telefonate di auguri da parte dei detenuti, mentre sono in permesso o in licenza o in fase di affidamento, la valutazione non può che rivelarsi di duplice natura. Da una parte di soddisfazione, perché la relazione si è consolidata su standard pedagogici rilevanti, dall’altra di tristezza, perché fuori dal carcere hanno ben poco. 35 grado di assicurare sostegno e presenza alle eventuali opzioni trattamentali che dovessero prospettarsi. L’art.21 o.p. è noto poiché vissuto spesso in termini propedeutici o sostitutivi alla semilibertà, l’ammissione al lavoro all’esterno che erroneamente viene vissuto come beneficio, mentre la corretta interpretazione lo delinea sul piano di una “speciale modalità di esecuzione del lavoro” è una vera e propria scommessa dell’autorità direttiva. Viene proposta e sollecitata dall’équipe di trattamento di fronte a offerte di lavoro concrete e a un percorso positivo del detenuto, che in genere viene attivata nella fase precedente all’ammissione per il soggetto alle misure alternative. In realtà non rappresentano un numero significativo i fruitori dell’art.21. Per una molteplicità di motivi: il primo legato alla carenza di posti di lavoro disponibili, il secondo determinato dal timore dei direttori di assumersi una responsabilità decisionale di tale portata. Scheda 3.1 Il prison movie è un genere che appartiene al cinema statunitense. Il carcerato ha attratto il cinema in quanto figura avvincente. Il film carcerario offre lo spunto per dibattere il tema della giustizia; esalta lo spirito di ribellione, parla di autoritarismo e di garantismo. Il soggetto è avvincente perché ispira a una storia vera, permette di snellire e drammatizzare la sceneggiatura, perché focalizza l’attenzione su un protagonista principale cui si affiancatura, perché focalizza l’attenzione su un protagonista principale cui si affiancano pochi comprimari, anche se non mancano le eccezioni, come i film di prigionia corali, dove si amplifica l’impresa dell’evasione, aggiungendovi un rischio che vale la vita di tutti. Nella realizzazione il prision movie si conferma come genere: prendere in esame i personaggi principali può forse aiutare a compiere una disamina, poiché questi si sono affermati come stereotipi, dal protagonista al direttore del carcere, ai comprimari. La localizzazione del penitenziario è importante: tanto più appare come luogo inaccessibile, di massima sicurezza, tanto più si alza la posta in gioco in questa sfida dell’evasione. Prendendo in esame i personaggi, l’elemento che accomuna ogni protagonista di prision movie è il fatto di non essere un “cattivo”, il cinema manifesta l’intenzione di connotare chi si trova in prigione come un personaggio non negativo: prigioniero prima che carcerato, galeotto in senso generico e non criminale. Il protagonista è un uomo privo di libertà, nelle molte forme in cui si può esserlo; un ergastolano, ma innanzitutto un furfante ossia un personaggio con una connotazione quasi bonaria. 36 Sembra che con questa figura il cinema voglia dimostrare allo spettatore che la natura degli uomini è in fondo positiva o che voglia la dimensione umana del carcerato, simile o uguale a quella di una persona qualunque in condizioni difficili. La tradizione cinematografica nega il male che avrebbe condotto dietro le sbarre il personaggio per farne un esempio di abilità. Altro tipo di prigioniero è quello di vittima delle circostanze, che va incontro a diversa sorte a seconda che si trovi ad agire in una commedia oppure in un film drammatico. Il carcerato sa rivelarsi di buon cuore. Il carcere è lo specchio della società, un sobborgo violento dove si riproducono le gerarchie di potere dell’esterno, della società di fuori. Si finisce con il (di)mostrare che il carcere è una scuola del male del mondo, dove il cittadino tranquillo che trascorre la vita in una zona protetta impara l’altra faccia delle cose. Il cinema americano nel carcere mette in scena la segregazione dei corpi, alla quale la capacità individuale può trovare rimedio nella fuga o nella morte come liberazione dai vincoli terreni. Emblematico in questo senso Il miglio verde, il film legge la condanna a morte in chiave spiritualista, togliendo efficacia alla rappresentazione e facendo passare in secondo piano l’impegno garantista e democratico del libro. Con Dead Man Walking Sean Paul si schiera contro la barbarie della morte inflitta dallo Stato anche a un colpevole indubbio e reo confesso. Il film denuncia l’inciviltà senza scuse o possibili giustificazioni della pena di morte registrando l’agonia e quasi l’impazzimento del condannato nell’affrontare la morte lenta data attraverso l’iniezione. Il carcere è per un numero molto elevato di detenuti negli Stati Uniti, senza fuga, senza via d’uscita. La legge dei 3 strike, secondo la quale dopo tre condanne, anche minimo, c’è la condanna all’ergastolo e le numerose esecuzioni che assicurano il ricambio nei bracci della morte segnano un netto divario dalla finzione cinematografica. Il cinema ha rivolto lo sguardo anche alla modalità femminile del carcere, è difficile imporre azione e violenza a un universo che si deve confrontare con un altro ordine di problemi, legato all’essere donne. Le regole sono simili, le carceriere sono spesso rappresentate come aguzzine e le detenute come delle psicopatiche; mettendo in scena lo stesso dramma, lasciando in disparte la forza bruta, si vedono accentuate la crudeltà, il tormento psicologico; oppure si indirizza l’attenzione su una galleria di ritardi, come ha fatto anche il cinema italiano. La quotidianità in carcere, la maternità o il legame affettivo spinto fino alla complicità con un detenuto restano in attesa in una degna resa al cinema. Le carceri più terribili ce le racconta la cronaca dei morti per sciopero della fame in Turchia. 37 Detenuti e parenti scioperano per ottenere concessioni al durissimo regime di isolamento: da molto tempo la situazione è grave, al punto che, le carceri turche sono arrivate perfino al cinema. La recensione sul prision movie ha, un senso perché essi rappresentano l’altra faccia di un carcere di cui in genere nessuno sa niente, ma di cui tutti parlano, confondendo il reato con l’intera gamma di autori di reato, confondendo le dure leggi del carcere con chi il carcere lo dirige. Non è così nel primo caso, non è così quando si parla dei direttori carcerari. La vita in constante apprensione, l’essere costretti a pagare in termini di carriere interrotte o non valorizzate, anche quando la colpa è di altre funzioni dell’apparato politico-giudiziario, costituiscono gli aspetti deleteri di una esistenza che viene vissuta nella logica con cui si formano questi professionisti: l’essere servitori dello Stato, servitori che pagano per tutti, servitori cui viene riconosciuta poca gloria, anche quando rischiano in prima persona. L’amore verso i detenuti è una delle motivazioni principali c he spinge queste persone a intraprendere la carriera. 3.2 Il personale della polizia penitenziaria: tra controllo e spinte riformiste Se si potesse un detenuto è colpito dagli strali del rapporto del personale di sicurezza, se si potesse pubblicizzare sino in fondo come la maggior parte di tali motivi non abbia quasi mai una reale consistenza! Nella vita quotidiana della comunità penitenziaria, un momento che viene messa in crisi è quello in cui l’educatore si propone come ago della bilancia in un consiglio di disciplina, l’organo che deve decidere sull’entità o meno della punizione da comminare a un detenuto che ha commesso una infrazione disciplinare. Da una parte si pone l’apparto di sicurezza in cerca di legittimazione al rapporto prodotto, dall’altra il detenuto che si aspetta una complicità, se è vera la convinzione che gli educatori stanno dalla parte del detenuto. In tre decenni sono cambiate tante cose negli istituti, sono cresciuti il livello di istruzione e il patrimonio culturale degli agenti. La riforma del corpo ha prodotto delle modifiche positive ma, resta il problema di come rapportarsi al binomio inscindibile “sicurezza e trattamento”. Nelle case circondariali, dove il turnover dei detenuti è costante, dove il sovraffollamento impedisce qualsiasi programmazione di attività a lunga durata, appare chiara la prevalenza della tendenza custodialistica. Di altro tenor5e è l’impegno degli agenti e in particolare dei comandanti in alcune case di reclusione dove il rapporto tra l’area del trattamento e l’area della sicurezza si è orientato verso un accertato reciproco livello di collaborazione. Si ha nostalgia degli antichi agenti-educatori che erano presenti negli organici minorili sino a metà degli anni settanta, il ripristino di quella formula sperimentale darebbe frutti efficaci. La maggior 40 superamento dell’intervento centrato solo sul singolo caso e lo sviluppo di una capacità progettuale di rete. L’ambito locale o municipale viene individuato come ideale per la pianificazione e la realizzazione di interventi coerenti con i reali bisogni dei cittadini, i quali devono essi stessi concorrere al proprio benessere. I CSSA si collocano nel sistema del welfare community; devono orientare la loro azione, inserendosi in pieno nella programmazione locale, dove si decideranno le politiche sociali attraverso i Piani di zona. La legge 1 agosto 2003, n.207 Sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni, il cosiddetto “indultino”, che prevede la possibilità di sospensione condizionata dalla parte finale della pena detentiva, ha un forte impatto non solo nei CSSA ma anche nel sociale per l’entrata in vigore immediata. La legge 27 luglio 2005, n. 154, Delega al Governo per la disciplina dell’ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria, apporta ulteriori modifiche alla legge 354/1975 in tema di esecuzione penale esterna, disciplina all’art.7 la Direzione generale dell’esecuzione penale e quindi modica l’art.72 o.p. sostituendo il nome dei CSSA in Uffici di esecuzione penale esterna (UEPE). Secondo l’art.3 della legge gli uffici:  su richiesta dell’autorità giudiziaria, svolgono le inchieste utili a fornire dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza;  svolgono le indagini socio familiari per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione ai condannati;  propongono all’autorità giudiziaria il programma di trattamento da applicare ai condannati che chiedono di essere ammessi all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare;  su richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari, prestano consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario. Ciò che preoccupa Pedrinazzi, direttore dell’UEPE di Milano è la circostanza che gli UEPE sostituiscano gli ex CSSA, con un quid pluris di competenze che rende più compatta l’area dell’esecuzione penale esterna. Secondo la nuova legge gli UEPE dovranno utilizzare le risorse preesistenti, dotazione che già allo stato attuale non soddisfa appieno agli aumentati compiti e l’aumentata responsabilità in termini di sicurezza sociale degli operatori degli ex CSSA, uffici le cui risorse già in passato si sono rivelate insufficienti. 41 Con la legge 31 luglio 2006, n,241, viene concesso l’indulto per tutti i reati commessi fino al 2 maggio del 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive. Lo scorso novembre è stata emanata la legge 16 dicembre 2010, n.199, Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno. L’obiettivo di decarcerizzare le pene brevi e la volontà di ampliare il ricorso a misure domiciliare appaiono estremamente critici per la ricaduta sugli UEPE. Interessante è il documento redatto dall’Ordine nazionale degli assistenti sociali, secondo il quale le modalità previste, così come i requisiti introdotti in relazione a un’ampia tipologia di reati, inducono una negativa previsione circa l’efficacia di tale normativa. Tale considerazione si estende anche all’automatismo previsto per la concessione della detenzione domiciliare in assenza di ipotesi progettuali e di valutazioni che attengono a possibilità e obiettivi di reinserimento sociale della persona in esecuzione di pena. La presenza in équipe, si traduce in un mero raccoglitore di informazioni sulla situazione esterna del detenuto e sulla dimensione comportamentale all’interno dell’istituto. La complessità della vita e delle situazioni che riguardano l’alveo familiare o ambientale del soggetto dovrebbero trovare un maggiore spazio esplicativo e di considerazione per le eventuali negative ricadute che potrebbero determinarsi con un’uscita dal carcere, non assistita, del detenuto. Dal Dizionario di servizio sociale: il concetto di rete, viene utilizzato per definire sistemi in concessione, reti di comunicazione strategica in atto dagli individui. Le reti sono costituite da tre dimensioni: struttura, funzioni e dinamica. Tali dimensione conferiscono alle reti alcune proprietà quali la flessibilità, la trasparenza, la resistenza, la reciprocità, la transazionalità, la circolarità e la reciprocità degli scambi, la mobilità, la simultaneità e la duplicità degli effetti. Il lavoro di rete viene utilizzato per rispondere a esigenze diverse dell’operatore: intervenire nell’ambiente, promuovere azioni di responsabilizzazione dei soggetti andando al di là dei contesti familiari, far partecipare l’ambiente al processo di presa in carico. Possiamo definire il lavoro di reato come l’insieme di interventi finalizzato a legare fra loro persone, gruppi o istituzioni tramite significative relazioni interpersonali e interfunzionali per migliorare la qualità della vita dei singoli e della comunità. L’operatore ha un ruolo centrale e attivo, formula le ipotesi di soluzione dei problemi e orienta le resti costruite. Uno degli errori più frequenti, da parte degli operatori, è quello di utilizzare la fase iniziale per raccogliere una serie di dati, nell’illusione di arrivare a una maggiore conoscenza “obiettiva”. La capacità di riconoscere un complesso gioco di emozioni, di saperle utilizzare da parte dell’operatore, offre la possibilità di rischiare nell’intervento. Ciò consente anche al cittadino di 42 assumersi in proprio la capacità di scegliere, la quale permette di riscrivere la propria storia, a partire dalla possibilità di cominciare a vedere in un modo diverso anche un solo frammento di vita. 3.3.2 Multidisciplinarità e integrazione nel lavoro sociale La consapevolezza della necessità di una convergenza di competenze professionali e di un approccio collettivo al sociale si sta diffondendo, almeno dal punto di vista teorico. La necessità di costruzione di contesti collaborativi, oltre che richiamare aspetti valoriali, è collegata alla necessità di integrazione imposta dalla presenza, di elementi quali la complessità dei bisogno e delle risorse. Gli operatori attivi nel sociale, hanno bisogno di lavorare in gruppi in cui siano presenti diverse figure professionali, portatrici di differenti punti di vista che possano dare origine a un dialogo fruttuoso e ad un confronto costruttivo. Tale modalità di lavoro è un obiettivo da raggiungere, e deve iniziare dalla “lettura” del problema, per poi procedere nella fase di monitoraggio e di valutazione. Lavorare insieme comporta mettere a disposizione il proprio patrimonio di conoscenze, con la consapevolezza della complementarità con l’altro. Si deve costruire una cultura multidisciplinare per assumere un punto di vista nuovo. Secondo l’interessante lavoro svolto da Folgheraiter è la ricerca dei primi interlocutori, i partner di azione; ciò consente di avere una fotografia di quel preciso “sociale” con cui ci dovrà interagire. Il fronteggiamento è un portato delle relazioni sociali, che si mostrano come rete solo quando un osservatore compie le seguenti operazioni: focalizza una finalità, seleziona le relazioni che vi si indirizzano e guarda quelle relazioni nella loro unità. Ogni volta che un operatore trova di fronte a sé una rete di persone intenta a fronteggiare il problema che egli stesso si pone, lì nasce una relazione di aiuto tipica del lavoro sociale professionale. Per essere tale, il lavoro sociale ha uno scopo mettere a fuoco o a innescare un’azione congiunta. Sempre secondo Folgheraiter, il lavoro sociale di rete è una metodologia la cui essenza relazionale si estrinseca in un reciproco effetto: l’operatore professionista migliora la rete e la rete migliora l’operatore. Egli evidenzia la necessità di formalizzare la rete: il grado di formalizzazione di una rete di fronteggiamento è una caratteristica che si desume da quanto la relazione interne siano in condizioni di disporsi in un processo riflessivo che enfatizzi le potenzialità della rete come originale struttura interattiva. 45 Da queste direttive si deduce come il corpus della legge contenga uno spirito innovativo, che possiamo riconoscere arricchito dal concetto di analisi della personalità del reo nonché da principi di valutazione non più connessi al modello medico-clinico della devianza. In breve ipotizzando che l’uomo delinquente derivasse il suo comportamento da una personalità malata che lo portava a trasgredire le regole, con la riforma si recepisce l’evoluzione nel campo degli studi dell’eziologia criminale, associando allo stesso livello delle carenze fisio-psichiche le altre cause del disadattamento sociale. Il nuovo atteggiamento concettuale nei confronti della pena, lascia aperta la possibilità per il definitivo passaggio metodologico dall’approccio medico-clinico a quello diagnostico-riabilitativo. La differenza lessicale può apparire sottile, ma le implicazioni operative che ne derivano, la rendono sostanziale. Questo passaggio non si è realizzato, giacché la cornice medico-clinica si è mantenuta come riferimento generale dell’attività svolta per l’analisi della personalità. Della riforma, è stato recepito l’obiettivo della rieducazione del reo che comporta l’individuazione delle carenze individuali ritenute all’origine del disadattamento e della devianza. Nasce il problema della psicoterapia e dell’individuazione delle tecniche d’intervento che si dimostrino più idonee ed efficaci nell’ambito detentivo. Il dibattito sulla possibilità di effettuare una terapia psicologica in carcere è vivo; diverse sono le posizioni degli esperti e legate a una molteplicità di fattori. Il contesto penitenziario è una realtà complessa, alla cui sommità c’è la direzione che gestisce l’area della sicurezza, amministrativa e del trattamento. Un insieme si sottosistemi fortemente gerarchizzati in cui la circolarità della comunicazione è soggetta a distorsioni e l’interazione è resa critica dall’esigenza di conciliare il mandato istituzionale del trattamento con quello della sicurezza nel corso dell’esperienza della condanna. L’intervento psicologico è richiesto dal legislatore privandolo del suo carattere peculiare di spontanea adesione per renderlo, paradossale ed esposto a scarsa possibilità di successo oltreché a strumentalizzazione. Nel corso degli anni, sono stati privilegiati approcci terapeutici di tipo analitico e cognitivo-comportamentale. I punti di forza di questi due indirizzi, analitico e cognitivo-comportamentale, sono costituiti dalla ricerca delle cause endogene del comportamento deviante e dalla messa in atto di strategie correzionali-rieducative che si avvalgono di tecniche suggestive e di condizionamento. L’art.1 comma 1 del regolamento di esecuzione afferma che l’obiettivo e limitato “a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali”, accogliendo gli approcci d’intervento indirizzati a rivalutare la personalità del detenuto attraverso lo sviluppo del rapporto empatico e l’autenticità della comunicazione. La personalità, andrebbe osservata ma le aree su cui intervenire dovrebbero essere 46 circoscritte e ben individuate, con un approccio volto all’ascolto attivo e alla rivelazione di potenzialità personali che, possano determinare la “modificazione degli atteggiamenti di vita” auspicati. È questo il senso della pedagogia penitenziaria, la quale contiene, un aspetto correzionale ineliminabile. Per oltre trent’anni gli operatori del settore hanno cercato di dare concretezza ai criteri enunciati dalla riforma dell’o.p., vedendo spesso i loro sforzi infrangersi nella constatazione di recidive nei soggetti trattati. Il nuovo assetto di esecuzione della pena, non ha portato i benefici attesi; gli insuccessi hanno esposto le figure dell’area trattamentale a frustrazioni e bornout, i risultati poco incoraggianti, non sono ascrivibili al fallimento dell’ottica del trattamento. Molti sono gli aspetti correlabili ad altri fattori: culturali, economici, etici, che hanno pesantemente influenzato e determinato il fenomeno. L’azione trattamentale può essere portata avanti con convinzione e determinazione. Non è filosofia del trattamento a essere fallimentare, semmai sono fallite le sue modalità e le condizioni di attuazione, basti pensare alla dimensioni del fenomeno migratorio e della globalizzazione. La pedagogia penitenziaria è sempre di difficile collocazione ideativa negli istituti per adulti, sebbene, nel corso degli anni, sia stata punto di riferimento teorico per l’astrazione di possibili azioni rieducative, fondate sugli interventi correttivi degli atteggiamenti. La nozione di rieducazione destituita di significato e ancor più inattuabile se rivolta a persone adulte che hanno già una propria fisionomia personologica. Questa non vuole essere la visione di una struttura rigida e immutabile della personalità: il determinismo psicologico è desueto, ma piuttosto si vuole porre l’accento sul preteso operato del “ri-educare”, ossia dell’educare di nuovo, come se in precedenza ci fossero stati solo cattivi maestri. Sarebbe corretto parlare di educazione, nell’accezione più ampia del suo significato etimologico e ancor meglio esclusivamente di pedagogia nel senso più recente attribuito al termine. Si parla, infatti, di “pedagogia del corso della vita” che include tutti i suoi ambiti, che considera il tempo e lo spazio strumenti per modulare la riflessione fenomenologica dell’esistenza con le reali trasformazioni del contesto socioculturale. Il concetto appare riproposto nell’introduzione al rapporto sull’educazione per il XXI secolo, scritta da Jaques Delors nel 1996 per i lavori si un’apposita Commissione internazionale su incarico dell’UNUESCO. Veniva enunciato il convincimento che un’educazione-formazione da continuare per tutta la vita il compito di fornire competenze per fronteggiare i cambiamenti del mondo del lavoro e, quello di costruire “un processo continuo di formazione dell’intero essere umano: delle sue conoscenze e attitudini, come delle sue facoltà e abilità critiche di agire”. La pedagogia del corso di vita prende in esame le conoscenze e gli apprendimenti che accadono nella vita, assumendo un’ottica sistemico-relazionale e rilevando che “anche le attività di 47 insegnamento e apprendimento sono ruoli e attività intercambiabili in funzione del momento e del luogo”. Intesa così, la pedagogia prende l’antico carattere di scienza dell’educazione organizzata in modo verticistico dove lo schema della relazione presenta una rigida complementarietà, poco funzionale per la costruzione di rapporti costruttivi tra adulti, per assumere la fisionomia di scambio reciproco. La nuova cornice interpretativa dell’azione educativa amplia gli orizzonti del trattamento penitenziario, offrendo agli operatoti, psicologi, opportunità di interventi integrati fra loro nonché con la complessa realtà socioculturale. La psicopedagogia moderna sviluppa la sua dimensione orizzontale, creando un continuum spazio-temporale dell’apprendere e dell’agire, che può aver luogo in tutti gli ambiti e in qualsiasi fase dell’esistenza. L’abbattimento del confine tra dentro e fuori, suggerisce una diversa interpretazione dell’attività trattamentale e dell’osservazione della personalità. Lo psicologo deve allargare il suo campo di analisi, uscire dal perimetro del carcere; il suo osservatorio non può più limitarsi al contesto detentivo e all’esame della personalità del soggetto ristretto, sarebbe riduttivo e scarsamente efficace. La realtà penitenziaria richiede, professionalità capaci di interventi di più ampio respiro, in grado di leggere le interconnessioni tra i vari sistemi di riferimento individuali e collettivi, dal punto di vista del sapere, del sentire e dell’agire. In qualche modo, lo psicologo, come l’educatore, deve essere operatore sociale. La sua funzione è quella di promuovere integrazione, individuare conflittualità, esplorale le possibilità di risoluzione dei problemi per la realizzazione di un rapporto più armonico tra individuo e società. In questa fase, lo psicologo che opera in carcere ha il compito di considerare che l’attività diagnostica non può tenere conto solo delle caratteristiche personali, ma i date vanno correlati con altre dimensioni della vita del soggetto da osservare. L’approccio sistemico-relazionale sembra essere idoneo per questo tipo di percorso di analisi, in quanto offre una visione d’insieme della dinamica interattiva tra i vari sistemi coinvolti nella relazione, evidenziando gli effetti di una comunicazione disfunzionale, stabilizzatasi nel tempo. Alla luce di questo assunto, certi comportamenti, non dipendono da una patologia psicologia individuale; sono, la risposta a sequenze comunicative paradossali. In esse vige agita una continua disconferma dell’altro nella relazione, avendo preclusa ogni altra possibilità, a causa di un tipo di rapporto complementare-dipendente, a vari livelli. La diagnosi dello psicologo nel penitenziario, necessita di maggiore elasticità nell’inquadramento nosografico e le classiche categorie del disagio psichico possono risultare schematiche se si assumono punti di vista meno centrati sui sintomi. Tale orientamento conduce a una riflessione sulla normativa dell’esecuzione della pena riguardo all’osservazione scientifica della personalità. 50 del devenire devianti, prendendo in considerazione il ruolo giocato dal controllo sociale e la reazione del contesto con le sue attribuzioni di stigma ed etichetta. Questa impostazione, ha avuto il pregio di andare oltre l’impostazione eziologica della devianza, consentendo il superamento dei tradizionali paradigmi del correzionalismo e del patologismo. Le implicazioni per un diverso approccio d’intervento nei confronti del reo sono interessanti per lo psicologo penitenziario. Il concetto di identità, la possibilità di rivestire vari ruoli, la stabilizzazione della devianza, sono realtà con le quali l’esperto ex art.80 si confronta quotidianamente. È straordinario, osservare nell’esperienza concreta quanto forte sia il potere dello stigma sociale nella percezione del Sé da parte del recluso quando viene invitato a parlare della sua storia. La narrazione è soltanto il resoconto della propria carriera deviante, con l’omissione di tutti gli altri aspetti dell’esistenza. Questo atteggiamento ha avuto una sua ragione di essere in quanto in sintonia con la tradizionale modalità di affrontare il tema della devianza, centrata sull’autore del reato e sulle sua motivazioni, nei colloqui con l’esperto, per realizzare la finalità psicopedagogica della pena, prevista dall’o.p. Gli psicologi che operano negli istituti detentivi trovano il gusto stimolo per una riflessione metodologica sugli interventi, che è necessario indirizzare verso una relazione di aiuto centrata sulla persona. L’incremento dell’atteggiamento empatico è fondamentale per lo sviluppo di un rapporto costruttivo basato sulla fiducia, dove i due interlocutori mettono in discussione le loro certezze e si dispongono ad accogliere visioni diverse della realtà. Il colloquio con il detenuto rappresenta un momento di scambio di informazioni reciproche dove le posizioni di osservato e osservatore sono solo un’astrazione. Nell’interazione tra psicologo penitenziario e utente, ciascuno svela il proprio mondo di significati, di interpretazione e di anticipazioni della realtà. Il sapere è qualcosa che non può essere ricevuto passivamente dal soggetto, ma si costruisce attraverso i processi di relazione con la realtà e con gli altri. In questa accezione l’osservazione della personalità acquista il senso di un’esperienza condivisa, diventa un processo di conoscenza. Attivare un percorso di cambiamento è possibile, se si accetta di uscire da configurazioni concettuali che, nel passato hanno influenzato la diagnostica penitenziaria, trasferendo all’intera personalità le descrizioni di un comportamento. In questo modo si può realizzare un trattamento riabilitativo, che tenga conto dell’identità del detenuto nella sua interezza, considerando il suo essere nel mondo come persona che riveste altri ruoli significativi per la sua esperienza. All’interno del carcere egli è solo un detenuto, ma fuori 51 ha una realtà affettiva e sociale che non può essere mantenuta separata dal trattamento penitenziario. Il quartiere, la famiglia, gli altri luoghi di aggregazione sono l’ambiente in cui agire deviante si è definito e concretizzato, ed è paradossale che questo venga escluso dall’attività di osservazione. Appare contraddittorio il compito dello psicologo penitenziario che deve cogliere le problematiche e le strategie comportamentali che il soggetto mette in atto e che normalmente usa nel presente, senza poter effettuare un esame storico dei meccanismi dei rapporti sociali. Il metodo di analisi e d’intervento deve essere rivisitato; perché risulti più efficace, l’osservazione deve varcare le mura degli istituti per approdare anche negli ambienti in cui il recluso vive. Gli scarsi risultati del trattamento sono ascrivibili all’ottica per troppo tempo imperante del frazionamento metodologico nell’approccio alla condotta criminosa. Dopo l’entrata in vigore della normativa sul trattamento penitenziario e la condivisione dei nuovi principi riguardanti la finalità della pena, non sono state tracciate linee guida che uniformassero le procedure d’intervento. Tenendo in considerazione la diversa tipologia dei vari istituti e rispettando l’autonomia professionale delle figure addette al trattamento, l’assenza di un protocollo operativo comune ha generato disparità nei criteri e nei metodi valutativi. Si è venuta a creare una condizione disorganica che gli utenti/detenuti hanno collegato alla mancanza di un’effettiva adesione all’ottica trattamentale o alle scarse capacità degli operatori di quel particolare istituto. Il passaggio dalla sanità penitenziaria a quella della salute pubblica ha portato a una sfumata definizione delle competenze dell’esperto ex art.80. Il professionista resta un collaboratore del ministero della Giustizia con compiti che sembrerebbero limitarsi all’osservazione della personalità e ad una non meglio specificata attività di sostegno. Nel panorama si aggiunge la possibilità che una figura professionale omologo intervenga sullo stesso sostegno, rimane il problema di una sovrapposizione degli intervento che non agevola i percorsi di conoscenza sia in senso quantitativo che qualitativo. Il contesto penitenziario, costituisce una realtà stratificata e complessa, la cui chiave d’accesso richiede la conoscenza degli specifici meccanismi che al suo interno regolano gli equilibri relazionali della struttura, perennemente in bilico tra mandato trattamentale e sicurezza. Gli psicologi penitenziari hanno imparato a conciliare la relazione di aiuto con la richiesta di controllo sociale, cercando di evitare sbilanciamenti, consapevoli delle dannose conseguenze in entrambi i casi. L’atteggiamento normativo è sospetto di “schizofrenia” nel considerare la personalità del ristretto scindibile in due parti: quella deviante e quella “altra della devianza”, tanto che la prima è pertinenza dello psicologo penitenziario, mentre la seconda del collega dell’ASL. I presupposti teorici di tutta la moderna dottrina psicosociale e criminologica che sostengono l’unità complessa dell’identità, di cui 52 la devianza è una delle possibili espressioni e non una realtà nosografica a sé stante, vengono messi in discussione, se non addirittura ignorati. La psicologia clinica penitenziaria si è da sempre occupata dei disturbi correlati alla condizione di privazione della libertà, sia dal punto di vita diagnostico che terapeutico. Possiamo citare alcuni esempi di patologie trattate: sintomi psicosomatici, sindrome di Ganser, sindrome da “prisonizzazione”, che hanno richiesto l’intervento psicologico per il benessere del condannato. Appare riduttivo pensare che la psicologia penitenziaria possa avere come oggetto di studio un segmento del comportamento, ossia quello antigiuridico, e credere che si occupi di un frammento dell’identità. La sua analisi riguarda la persona/detenuto e prende in esame gli aspetti emotivi, cognitivi, e relazionali del suo essere nel mondo, fattori di riferimento per il significato delle sue azioni. L’agire un agire sociale, pertanto non può esistere un’osservazione della personalità avulsa dal territorio. Come afferma Patrizi: azione, comunicazione sono costrutti ordinativi del recente pensiero teorico, dove la valorizzazione della soggettività e dell’intersoggettività consente di affrontare la spiegazione della devianza secondo criteri di coerenza con la complessità che essa esprime. Il passaggio definitivo dall’ottica medico-clinica a quella dignostico-riabilitativa significa indagare sulle disfunzioni tra individuo e contesto nella costruzione dei significati dell’esperienza, nell’acquisizione dei valori e degli obiettivi come pure del personale modo di raggiungerli. Tenuto conto che l’identità è come un diamante che presenta un’infinità di sfaccettature, per conoscerla bisogna osservarne tutti i lati e ricomporla nella sua interezza. Tale considerazione permette di superare la nozione di setting, inteso come luogo riservato, e di estenderne il concetto al sistema di interazioni familiari e sociali, con margini maggiori di analisi e d’intervento, rifiutando l’idea dell’osservazione di un soggetto recluso e quindi “astratto” dalla realtà in cui si sono sviluppati i suo9i rapporti interpersonali. L’operatore penitenziario, può formulare nuove ipotesi di lavoro e proporre modelli funzionali alternativi che tangano conto della pluridimensionalità delle informazioni che derivano dall’esistenza di vari territori da esaminare. Il primo da considerarsi è il territorio individuale, inteso come il patrimonio di identificazione, di affetti familiari e ciò può caratterizzare il soggetto. L’altro territorio istituzionale inteso non solo come carcere, ma come servizi psicosociali di zona, con le loro offerte di sostegno e di reinserimento. Del territorio sociale si può esaminare la modalità di distribuzione economica e di condizione abitativa. Ancora più interessante in questo ambito è avere informazioni sulla gestione politico-amministrativa della zona, per verificare l’esistenza di fondi e progetti che offrano una seria opportunità lavorativa. 55 Il detenuto in misura alternativa continua a essere deprivato di un professionista che curi i suoi contatti con l’ambiente esterno che lo riguarda. Il reinserimento dovrebbe prevedere un ruolo pregnante dello psicologo penitenziario, per il proficuo rapporto con le realtà di riferimento del condannato, compreso quello della vittima. Bisognerebbe prevedere una collaborazione dello psicologo con gli uffici territoriali che gestiscono alcuni aspetti dell’affidamento o semilibero. La presenza dell’esperto ex art.80 dovrebbe essere di riferimento nei rapporti con il territorio e non essere bloccata all’interno del carcere con una discutibile “rieducazione del reo”. Quello che vogliamo sollecitare è una sistemica funzione di mediazione con altri professionisti con cui va concordato, il percorso di crescita individuale e da rivalutazione dell’identità sociale del condannato. Il rapporto tra colpevole e vittima del reato non può essere sottovalutato come una possibile eventualità, ma va sollecitato e strutturato in sedi opportune, nelle quali l’intervento psicologico aiuti a ricomporre il conflitto tra le parti. L’operato dello psicologo ha la funzione di decodificare il contenuto di relazioni dei messaggi, di coglierne il valore simbolico riferito a costrutti personali e culturali, tenendo presenti le differenti esigenze dei soggetti in interazione, dando luogo a una concreta ristrutturazione operativa. Attraverso la rilettura dell’esperienza del condannato, lo psicologo penitenziario può offrire la possibilità di esaminare gli eventi di questo rapporto nella dignità del dialogo sui diritti fondamentali della persona. La “riconciliazione si esprime nel superamento della contrapposizione tra ciò che è interesse individuale e ciò che è interesse sociale, facendo emergere il senso sociale delle proprie responsabilità, in un sistema circolare di scambio”. 3.5 Gli educatori: le loro finzioni, la loro storia Le mansioni degli educatori penitenziario sono molteplici e sostanzialmente definite dalla prassi e dal dettato normativo. Quel che si vuole evidenziare riguarda una sottolineatura riportata da Giampiero Sartarelli che, nel 2002, aveva avuto l’incarico da parte del Provveditorato regionale di predisporre un corso di formazione per gli educatori presenti nelle strutture penitenziarie della regione. Tra le esigenze formative è emersa, con chiarezza, quella di inserire il profilo professionale dell’educatore penitenziario. Una linea che oggi appare condivisa da chi ha da tempo compreso come la sperequazione numerica tra le presenze istituzionali nel rapporto con l’utenza non possa che indurre a un processo di progressiva burocratizzazione del ruolo, un pericolo che si è concretizzato. Inutile ricorrere, ad atteggiamenti rivendicativi, se non si comprende che una soluzione al problema riguarda, la riqualificazione di altre figure professionali, per altro verso, la riduzione dei 56 tempi per la produzione di atti dell’osservazione, che non possono bloccare il percorso di avvio alla fruizione dei benefici da parte di detenuti che, concludono il proprio iter detentivo non ottenendo alcuna misura alternativa a causa dei ritardi delle équipe carcerarie. Il riferimento è evidente e riguarda le difficoltà dei singoli UEPE a rispondere in tempi non biblici alla richiesta degli operatori penitenziari di avere notizie esaustive sulla dimensione socioambientale del detenuto. Da tale premessa, le contraddizioni nell’affrontare la vita istituzionale sono presenti nel corpo degli educatori. Un corpo che, ha dovuto subire un impatto traumatico con la realtà secolare del carcere, modificando progressivamente strategie, obiettivi, modalità operative. L’art.82 comma 1 stabilisce che “gli educatori partecipano all’attività di osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento rieducativo individuale e di gruppo, coordinando l’azione con quella di tutto il personale addetto alla rieducazione”. Sui temi della “presunta” scientificità dell’osservazione della personalità e della “rieducazione” esiste una letteratura specifica con posizioni spesso contrastanti. Una delle prime considerazioni da esprimere riguarda la tendenza degli operatori penitenziari a produrre sforzi, per conquistare situazioni che li pongano in una dimensione alternativa rispetto ad altre figure istituzionali, senza rendersi conto che il tempo investito non ha consentito di accorgersi che molte dimensioni valoriali del sistema sociale sono cambiate. Una valutazione che si può decodificare se si pensa al clima sociale che caratterizzava la fine degli anni settanta. Non si è avuto il tempo materiale per comprendere che i grandi temi del rapporto con i detenuti della criminalità organizzata, nella loro versione di “irriducibili” o di appartenenti all’ “area omogenea”, e con i detenuti che stavano in carcere dal decennio precedente perché si stava affiancando una nuova generazione di soggetti devianti. La realtà carceraria si è progressivamente modificata perché la realtà esterna ha proposto nuove problematiche derivanti dai nuovi valori o disvalori che si sono imposti. La “generazione dopata” ha avuto una doppia identità: quella determinata dal rapporto subalterno con le sostanze stupefacenti e quella determinata dal rapporto subalterno con le sostanze stupefacenti e quella che in tali sostanze ha individuato la strategia migliore per accorciare i propri tempi di “successo”. Il riflusso e l’edonismo sono stati antidoti di massa per addormentare coscienze e per far lievitare in maniera parossistica le presenze carcerarie. Sul piano esistenziale l’idea del successo ha riempito le anime dell’immaginario collettivo. Gestire e consumare cocaina per raggiungere traguardi sempre più alti è diventata una modalità standard. 57 Roma continua a essere definita “porto franco” perché tutti possono fare affari con tutti, il commercio non solo di droghe, ma anche di sostanze dopanti è diventata la principale forma di devianza. Il 75% dei detenuti che stanziano nelle carceri italiane ha avuto problemi con la droga. Gli educatori ancora oggi si lamentano per non avere ricevuto una formazione specifica per affrontare questo fenomeno che ha cambiato abitudini e stili di vita istituzionali faticosamente raggiunti. Questa continua a non far parte del patrimonio di certezze operative degli educatori il mettersi in immediata relazione con i fenomeni sociali che prima o poi avranno un riflesso all’interno del contesto penitenziario. Come cittadini si ha la percezione che qualcosa si stia modificando negli usi e consumi nazionali, come professionisti della devianza la capacità di farsi trovare attrezzati nelle risposte è sempre limitata. Ciò ha un profondo rilievo anche nella definizione dell’attività di osservazione e dei processi rieducativi. Il primo dei rilievi è rivolto alla genericità del contenuto normativo. Il concetto di individualizzazione del trattamento dovrebbe essere impostato sull’idea che il trattamento è differenziato per ogni individuo. Le mansioni che gli educatori devono espletare riguardano molti degli ambiti della vita comunitaria. L’educatore è il segretario tecnico del gruppo di osservazione; partecipa ai lavori della commissione per le attività culturali, ricreative e sportive; deve presiedere la commissione per il controllo della quantità e della qualità del vitto dei detenuti; è membro del consiglio di disciplina e della commissiona che avvia i detenuti al lavoro; coordina gli interventi psico-socio-riabilitativi, con particolare riferimento al rapporto con gli operatori del SerT; è una delle principali figure che mantiene i rapporti con le segreterie e con la magistratura di sorveglianza. Uno dei principali problemi che ha caratterizzato il diverso modo di interpretare il ruolo sta, nelle fondamenta del percorso ideologico con cui gli stessi educatori si sono affacciati a questa professione. La funzione istituzionale determinata dalla progressiva decodifica normativa delle competenze ha imprigionato una delle caratteristiche principali in dote a moltissimi del gruppo originario degli educatori: la creatività relazionale. La “ragionerizzazione” della professione ne è stata la conseguenza. Tutto nasce, da un peccato originale. Lo stesso identico peccato che toccato il ruolo degli psicologi: la mancata provenienza da un indirizzo univoco in tema di interpretazione delle ragioni introduttive dei processi devianti. Il rapporto con i detenuti non ha regole fisse nel suo determinarsi, la visione dei singoli soggetti alla luce di una lettura corretta delle condizioni socioambientali che hanno provocato il suo percorso deviante aiuta a porsi in maniera meno standardizzata e meno “clinica” verso gli utenti. La disposizione all’ascolto nel processo empatico non è frutto di una pura conoscenza della metodologia 60 detenuto protagonista è soggetta a una duplice conflittualità: quella che verrà dai leader dei gruppi di riferimento di ogni singolo detenuto e quella ossessivamente uguale e ripetitiva. Prilleltensky, ha affermato che è tempo di cambiare paradigma nella promozione della salute e del benessere e nella realizzazione di servizi per la salute, delineando le basi per un nuovo approccio definito dall’acronimo SPEC. Invece di persistere sugli approcci tradizionali che sono basati sulla rivoluzione dei deficit dell’individuo con strategie riparative, il teorico afferma l’esigenza di individuare un approccio basato sui punti di forza della persona, sui metodi di prevenzione primaria, sulla promozione dell’empowerment, ciò che va sottolineato è che non è sufficiente concentrarsi su un aspetto singolo, ma occorre che tutti e quattro gli elementi siano presi in considerazione. A livello operativo, Prilleltensky sostiene che il nuovo paradigma si basa su uno spostamento dal polo tradizionale caratterizzato dal miglioramento della situazione a quello innovativo basato sulla trasformazione e sul cambiamento. Questo spostamento avviene su quattro domini: il dominio temporale che si riferisce al timing degli interventi, passando dalle strategie reattive a quelle proattive; il dominio ecologico si riferisce ai luoghi degli interventi, da quelli centrati sull’individuo a quelli centrati sulla comunità; il dominio della partecipazione riguarda la possibilità dei cittadini di esercitare delle scelte nell’accesso alle risorse e ai servizi, quindi di essere dotati di empowerment; il dominio delle capacità si riferisce al focus sui punti di forza piuttosto che sulle criticità. Il cammino proposto da Prilleltensky, può essere ricondotto in alveo carcerario. Tutti gli aspetti rinviano ad alcuni criteri, ritenuti fondamentali. Criteri che riguardano la convinzione per la quale i processi debbano essere improntati sul cambiamento e sulla trasformazione delle situazioni; che evidenziano l’esigenza di centrare sulla comunità piuttosto che sull’individuo il focus attenzionale dell’intervento; che si fondano sulla partecipazione diretta della collettività nella gestione dei servizi, potenziandone l’empowerment. Il cambiamento della condizione carceraria passa, attraverso il coinvolgimento diretto del detenuto e dei detenuti nella conoscenza dei meccanismi che regolano la vita del penitenziario. L’educatore, ha un ruolo centrale se non limita la propria azione al colloquio clinico o a quanto gli viene attribuito dalla normativa. L’educatore recupera una funzione fiduciaria dell’intera comunità se rende partecipi i detenuti di quelli che sono i criteri che regolano, l’ammissione al lavoro, una delle tante situazioni che facilita il vittimismo dei reclusi, convinti di sopportare soprusi. L’educatore diventa centrale nell’organizzazione delle attività se riesce a favorire una partecipazione paritaria, senza leaderismi che decidono chi debba giocare e chi no, chi debba suonare e chi no. Il carcere può diventare il luogo dove si azzerano le differenze se gli operatori 61 del trattamento sapranno proporsi come veicolatori della cultura della legalità, intesa come opportunità offerta a tutti di essere protagonisti della normalità. I detenuti diventano presenze attive nei percorsi che definiscono il senso dell’appartenenza. Non è il massimo sentire di “appartenere” a un carcere, ma è molto se, quel sentire fa parte di un progetto che regola una comunità. Lo stesso “appartenere” alla società civile nel momento della dimensione. Zani riporta un pensiero di Albert Bandura, essenziale per proseguire nell’analisi dei significati che si legano al concetto di comunità e di salute. La qualità della salute di una nazione è un problema sociale, richiede di cambiare le pratiche dei sistemi sociali che influenzano la salute. Il focus principale di un approccio sociale è sulle potenzialità collettive di cambiare le condizioni sociali politiche e ambientali che incidono sulla qualità della salute di un paese. Queste indicazioni sono proiettabili su una visione operativa che deve tendere alla modifica complessiva di un contesto, come quello detentivo. La scelta di lavorare in questa ottica richiama la necessità di prevedere un livello di coinvolgimento di tutte le parti che compongono le strutture istituzionali. La realtà carceraria vissuta come comunità si determina quando convergono vari elementi. Il primo riguarda la presenza di un direttore che ami il confronto e la non lontananza. Inserisce la presenza di un comandante che abbia chiaro che le conflittualità interne diminuiscono se gli agenti e, il personale di sicurezza si sentono parte di una progettualità. Una progettualità in cui il detenuto non è solo oggetto di meccanismi di controllo, ma viene vissuto come elemento su cui far convergere le attenzioni necessarie con più facilità il ruolo di trait d’union tra la Direzione, il personale della sicurezza e la popolazione detenuta. Chi sceglie di vivere in mezzo ai detenuti, sa che dovrà farlo costantemente, senza intermezzi. Capitolo 4: Il carcere in un sistema di welfare 4.1 Carcere e territorio: l’evoluzione di un rapporto La realtà era diversa. Il verbo della deistituonalizzazione, era del tutto sconosciuto. Eppure agli inizi degli anni ottanta, questo universo si sarebbe aperto. “Le idee camminano sulle gambe degli uomini”, ci volevano personaggi diversi per produrre cambiamento. Radaelli aveva sconvolto il mondo minorile, un altro direttore che si era posto al centro dell’attenzione con uno dei primi processi alle BR, delineava la propria figura: Nicolò Amato, 62 l’ideatore del carcere della speranza. L’inserimento degli educatori, degli assistenti sociali, degli psicologi, molti dei quali, avevano vissuto l’aria movimentista che produsse una scossa culturale. Il carcere vive un problema centrale, quello della comunicazione. Diffondere la logica dell’interprofessionalità non significa solo promuovere azioni in cui sicurezza e trattamento si coniughino in armonia. La polizia penitenziaria si è rinnovata. La stessa area trattamentale ha compreso l’importanza di una convivenza, fatta di accordi quotidiani, che, di fronte a eventi negativi, possono essere messi in discussione. Il tutto in un clima di sopportazione. Gli operatori del trattamento vivono una fase dove gli ardori giovanili sono sopiti e le modalità relazionali sono all’impronta della sfiducia, verso uomini e cose. Continua a essere difficile vincere la rassegnazione e la rabbia con cui i detenuti interpretano questa fase. I detenuti cambiano modo di pensare e di agire perché “devono farlo” e non perché “vogliono farlo”. “Il carcere è un mondo sconosciuto”, quel che è difficile comprendere riguarda lo sforzo che occorre fare per combattere quella che, viene definita “subcultura deviante”. Si afferma che la qualità dei detenuti è cambiata. Che, dopo l’uscita di scena dei terroristi, dopo la frantumazione di certe gerarchie mafiose, le sostituzioni criminali sono diverse. Per certi versi è vero, ci sono aspetti che danno una immagine molto violenta di questa realtà. Il modo di pensare, della popolazione detenuta riflette stili che rimangono immutati. Non soltanto l’omertà è un valore difficile da mettere in discussione. Quel che appare complicato modificare riguarda la diffidenza, il continuo chiacchiericcio, in questo il carcere non sembra modificarsi. Dentro il carcere certe storie rimangono le stesse, di fatti che sono avvenuti almeno fino a quando non parli con gli operatori. In quei momenti scatta la molla. Sai che ti devi comportare in un certo modo. Spesso le parole dell’operatore ti colpiscono. Toccano parti di te molto intime che hai difficoltà a raccontare ed è in quella fase che ti sembra di poter cambiare. E il cambiamento avviene, è un cambiamento depresso, condizionato dalle chiacchiere degli operatori ti invitano a riflettere. Il cambiamento si concretizza, solo quando la porta del carcere si apre ed entrano in scena i volontari. Autori inconsapevoli, di un film che può andare a lieto fine. Il ruolo del volontariato ha assunto il giusto rilievo che non solo l’ordinamento penitenziario, ha voluto e imposto. Le intuizioni di cui abbiamo fatto cenno, parlavano della necessità di aprire l’Istituzione Totale Carcere. 65 Questo processo ha, un suo riflesso nel carcere, in molte realtà italiane, gli enti locali hanno iniziato a collaborare con le strutture penitenziarie per individuare percorsi comuni, tesi a favorire il reinserimento dei detenuti. Un rapido sguardo alle iniziative dal 2006 a oggi. A Siracusa va in scena il teatro del laboratorio del centro antiviolenza, a Forlì parte progetto comunale che affida ai detenuti la gestione di un canile interno, a Enna si tiene un corso di prevenzione contro l’abuso di alcol. A Cagliari, viene aperto uno sportello info per i beneficiari dell’indulto, sono solo una parte delle attività che vengono realizzate nelle carceri, in collaborazione con la comunità esterna. Un’indagine del gruppo di lavoro sul teatro del Dipartimento, nel 2005, ha rilevato che in ben 108 istituti esiste una qualche forma di laboratorio teatrale, si ha ben chiaro che, qualcosa si produce. Tre le riflessioni a riguardo, la prima: la qualità dei risultati, in alcuni casi, siamo di fronte a espressioni di assoluto valore, la Compagnia Stabile Assai della Casa di reclusione di Rebibbia o la Compagnia della Fortezza di Volterra hanno, ottenuto un consistente risalto mediatico. In molti casi il lavoro artigianale e si basa sulla disponibilità di alcuni volontari che, con la loro uscita di scena, possono determinare la fine dell’esperienza. La seconda riflessione si lega alla caratterizzazione di alcuni personaggi che, recuperano esclusivamente un proprio livello di visibilità. Non sono rari i casi, in cui uomini della politica locale o della gestione amministrativa hanno formalizzato promesse, poi non mantenute, e cercato ulteriori momenti di frustrazione nella popolazione detenuta. La terza considerazione si pone come naturale appendice delle prime due, per cambiare i rapporti tra il carcere e la comunità esterna, nella sua accezione più vasta c’è bisogno di due elementi: progettualità e continuità. Due fattori hanno concorso al determinarsi di questi eventi, da una parte l’esigenza di tenere impegnati i detenuti, dall’altra la necessità di collocare insegnanti e figure similari. L’esperienza della Cooperativa 29 giugno e del Consorzio Artemisia ha favorito l’assunzione di centinaia di detenuti o ex reclusi, soprattutto con il sostegno dell’Amministrazione comunale. Il Consorzio di cooperative sociali Rebus ha saputo sfruttare le agevolazioni della legge Smuraglia e ha compiuto quello che il presidente Nicola Boscoletto definisce “un piccolo miracolo italiano”. Abbiamo portato all’interno del carcere attività imprenditoriali e sociali perché noi non facciamo assistenzialismo ma realizziamo prodotti che vanno sul mercato. Il lavoro in carcere ha consentito un abbattimento della recidiva: i recidivi arrivano appena al 15%. 66 4.2 La comunità esterna 4.2.1 L’isolamento del carcere: come si argina Il senso di isolamento del carcere, la tentazione di individuare nelle mura penitenziarie il luogo dove celare ciò che non deve essere visto, la tendenza a rimuovere le responsabilità dell’organizzazione sociale nelle motivazioni delle azioni devianti: sono alcune delle immagini. La necessità di accorciare la distanza con il territorio è diventata parte integrante del patrimonio di certezze degli operatori penitenziari di recente. I ritardi sono di natura politica e culturale. 4.2.2 Il valore dell’economia solidale Devono essere evidenziate le differenze nell’agire sociale di questi anni. La crescita del movimento del volontariato, l’adesione a principi etici che si basano sulla solidarietà di migliaia di cittadini, e in particolare di moltissimi giovani, si contrappongono alle istanze egoistiche e di autoaffermazione che una tipologia culturale ha prodotto negli ultimi due decenni. A questa considerazione deve essere correlata un’altra valutazione. Tanto nei modelli organizzativi del welfare state, si è andato a consolidare nel sistema dei servizi un attore importante e capace di positive risposte produttive: il privato sociale. Il ruolo dell’associazionismo e del volontariato non può essere compreso in pieno se non si definiscono certi passaggi. Un’ analisi che non può prescindere dai mutamenti che la nostro società ha vissuto dall’entrata in vigore della legge 354/1975 a oggi. Epoche che hanno segnato il senso del vivere civile proponendo innovazioni non solo tecnologiche, ma anche legate a nuovi ruoli collettivi. “Il disagio e l’emarginazione producono occupazione”: questa affermazione è insita nel modo dii pensare al recupero dei detenuti e alla riabilitazione dei malati mentali o dei portatori di handicap che si è andata affermando nel periodo citato. Questo pensiero si correla alla crescita della consapevolezza della funzione del privato sociale in tale ottica. Alla fine degli anni ottanta e agli inizi degli anni novanta hanno visto il determinarsi di eventi per motivi versi impensabili. Non solo la mafia ha portato un attacco centrale al cuore dello Stato, ma lo scandalo di Tangentopoli ha creato le permesse per la conclusione di una fase storica del nostro paese, chiamata Prima repubblica. Questo evento ha avuto la sua importanza per una molteplicità di motivi: quelli che interessano la nostra disamina riguardano il superamento della partitocrazia e l’assunzione di una rilevanza pubblica di sfere compresse da una valutazione 67 riduttiva della complessità economica nazionale. Si è compreso il valore dell’economia non profit, dell’economia solidale e del terzo settore, composto da organizzazioni e movimenti sociali piuttosto che da rappresentanze politiche. Le ricerche dell’ISTAT e della FIVOL hanno confermato un trend di crescita numerico inarrestabile dagli inizi degli anni ottanta. 4.2.3 Il volontariato, l’associazionismo e il carcere La precisazione, riguarda lo strumento normativo con cui, si rende possibile il rapporto tra le due entità. La norma è quella dell’art.17 o.p. che recita: la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari, con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza. Le mura del carcere, divengono permeabili tanto da consentire una osmosi tra la dimensione penitenziaria e il territorio. L’art. 17 è integrato dalla disposizione dell’art.78 che afferma: l’amministrazione penitenziaria può autorizzare persone idonee all’assistenza e all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari, allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati e al futuro reinserimento nella vita sociale. Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell’istituto sotto la guida del direttore. L’attività non può essere retribuita. Gli assistenti volontari possono collaborare con i Centri di Servizio sociale per l’affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l’assistenza ai dimessi e alle loro famiglie. Le indicazioni legislative sono in linea con i principi generali dell’ordinamento penitenziario che, annuncia l’importanza dell’apertura del carcere verso l’esterno. In quali termini può concretizzarsi questa apertura? La questione deve essere affrontata considerando alcuni elementi: le abitudini resistenze del mondo penitenziario ad accettare nuove presenze; l’oggettiva difficoltà del volontariato a non porsi come componente conflittuale, bensì integrata con le esigenze istituzionali, le oscillazioni emotive dell’opinione pubblica colpita tanto dall’efferatezza di certi crimini, quanto dall’ascesa della microcriminalità, un fenomeno teso a minare le piccole certezze del quotidiano e, ancor più pericoloso nell’immaginario collettivo. L’insieme di questi fattori, ha ritardato e continua a ritardare la definizione di una costante relazione sinergica tra operatori istituzionali e volontari. Il cammino ha fatto registrare dei notevoli passi in avanti. Il volontariato, ha sentito da qualche tempo il bisogno di una forma di riconoscimento. Occasione, questa, data dalla Costituzione del 70 2008. Interessante è la distinzione operata dei volontari ex art.17 o.p., suddivisi in tre categorie: volontari per “attività continuative”; operatori enti non profit “remunerati”; operatori di enti pubblici. Il rilevamento distingue tra gli operatori che agiscono a titolo gratuito e quelli che hanno un qualsiasi “ritorno economico” per la loro attività. Secondo tale rilevamento in Italia sono registrati nel 2008, nei 198 istituti penitenziari monitorati, 9.286 operatori non istituzionali, dei quali 6.487 volontari ex art.17 e 78. Tra i volontari il rilevamento riporta a livello nazionale: 141 volontari ex art.78; 5.068 volontari ex art.17; 1.297 volontari remunerati da enti non profit; 1.504 volontari dipendenti pubblici. I volontari ex art.17 o.p. costituiscono, il 79,2% del totale dei volontari. Questo numero elevato di volontari “si deve alla presenza di associazioni di promozione sociale di diffusione nazionale che promuovono e realizzano nelle strutture detentive attività strutturate, veri e proprio progetti concordati con la direzione del carcere e sostenuti da finanziamenti pubblici”. Le attività più frequentemente effettuate dai volontari a favore dei delinquenti sono, rifornimento indumenti e generi di prima necessità, colloqui di sostegno, attività religiose, attività scolastiche, accoglienza o accompagnamento per licenza o uscite premio, alfabetizzazione e recupero scolastico. Secondo FEO-FIVOL, sono considerate organizzazioni di volontariato quelle che rispondono alle caratteristiche di gratuità, solidarietà e democraticità indicate nella legge 11 agosto 1991, n. 266, si è censito il volontariato che fa prevalere il lavoro volontario rispetto a quello retribuito. Questo esame delle organizzazioni di volontariato distingue le organizzazioni che, annoverano prevalentemente soggetti retribuiti da quelle che annoverano prevalentemente “volontari veri e proprio”. Nel IV Rapporto FEO-FIVOL sono esposti i dati di un apposito rilevamento sul fenomeno del volontariato operante nei diversi settori, incluso quello penitenziario, con dati aggiornati a fine 2006. Tale rilevamenti ha preso atto della diminuzione progressiva del volontariato all’interno delle organizzazioni; queste ultime “producono lavoro” e retribuiscono l’impegno tramite l’iscrizione nei vari registri regionali, ai fondi pubblici. La rilevazione evidenzia un aspetto del volontariato moderno: molte organizzazioni hanno convenzioni con gli enti pubblici e annoverano in gran parte soggetti retribuiti. Secondo le indicazioni dell’Amministrazione penitenziaria, rientrano nella competenza dell’educatore raccogliere e utilizzare i dati di conoscenza e di esperienza che gli assistenti volontari hanno avuto modo di rilevare. L’attività degli assistenti volontari “non può rimanere isolata, ma va raccordata con quella di tutto il personale addetto al trattamento, compreso quello incaricato della custodia”. Si raccomanda che “i volontari siano chiamati a partecipare per fornire il loro contributo alla conoscenza e 71 soluzione dei problemi, in relazione ai casi seguiti”. L’opera dei volontari da inserire tra le attività trattamentali e gli assistenti volontari si inseriscono a pieno titolo nei piani trattamentali previsti dagli istituti penitenziari; è ribadito che l’operato dei volontari deve avere le caratteristiche “di funzionalità e organicità”. Secondo le direttive del DAP il volontariato ex art.17 costituisce “una partecipazione all’attività rieducativa nei confronti dei ristretti mediante singole iniziative o attività concentrate in brevi periodi di tempo”; al contrario il volontariato ex art.78 può protrarsi anche per anni. Il DAP ha disposto che ogni istituto per la pianificazione, realizzazione e valutazione di ogni attività trattamentale sotto la responsabilità diretta del responsabile dell’area educativa. Tale responsabile ha il compito di coordinare anche i volontari ex artt.17 e 78 o.p. e gli operatori della comunità esterna, in integrazione con tutti i soggetti istituzionali. Il volontario è indicato tra le figure che collaborano al trattamento del detenuto e che partecipa al GOT. Tra le risorse umane da considerare per la predisposizione, realizzazione e valutazione del progetto annuale pedagogico dell’istituto c’è il volontario: “In particolare si sottolinea l’importanza della contestuale rivelazione quantitativa e qualitativa del volontariato e dei soggetti della comunità esterna”. Gli interventi di tutti i volontari devono svolgersi all’interno del progetto pedagogico dell’istituto e sono coordinati dai responsabili delle aree educative. A tale proposito il DAP dispone che ogni proposta dei volontari si ex art.17 che art. 78 o.p. si valuta ex ante dai responsabili delle aree educative per conto delle direzioni; gli stessi dovranno operare una valutazione complessiva annuale dei progetti attuati, una raccolta di dati anagrafici di copia dei progetti proposti e autorizzati, oltre che dello Statuto delle associazioni/enti “che verranno conservati presso l’Area educativa”. Tali dati e atti andranno verificati e aggiornati ogni anno. Collaborano al trattamento sia gli operatori ex art.17 che quelli ex art.78 o.p.; il DAP ribadisce che “affinché il contributo dei volontari o più in generale degli operatori esterni, risultati efficace al fine del trattamento, è indispensabile che la loro attività svolga all’interno del progetto pedagogico annualmente programmato dalla direzione dell’istituto e sia coordinata dai responsabili dell’area educativa”. Ogni componente dell’area educativa, deve essere messo al corrente delle norme di riferimento, delle circolari sull’area educativa, dei contenuti del progetto pedagogico. Gli operatori ex arrt.17 e 78 o.p. sono ammessi a operare con tutti i detenuti, qualunque sia il “circuito” nel quale l’Amministrazione penitenziaria li abbia inseriti. La circolare 5 dicembre 1983, n. 3001/5451, invita a una particolare prudenza nella verifica dei requisiti “che rendono l’aspirante concretamente idoneo al compito alto e delicato che gli deve essere affidato; egli viene autorizzato a rapporti diretti con i detenuti e, ad accedere negli istituti penitenziari”. 72 La circolare 21 aprile 1993, n. 3359/5809, non autorizza l’impego dei volontari per i detenuti del primo livello, ossia alta Sicurezza, come i detenuti del circuito 41 bis, “salvo casi particolari l’Amministrazione penitenziaria non pone divieti generali per l’attività dei volontari a favore dei detenuti degli altri circuiti né per internati, riservandosi volta per volta la valutazione della possibilità di utilizzo dei volontari per i detenuti 41 bis. Da tempo si discute se i servi pubblici possano legittimamente, essere affidati a soggetti del terzo settore. Se da una parte gli enti pubblici non possono affidare alle organizzazioni di volontariato servizi complessi ed essenziali eludendo le procedure di evidenza pubblica, dall’altra sempre più frequentemente, tramite convenzioni, attività e interventi con la motivazione che il volontariato è espressione della solidarietà sociale, dell’auto-aiuto e della reciprocità. Per dare attuazione al principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale, i soggetti pubblici possono favorire il proseguimento delle finalità di solidarietà sociale attraverso la forma della convenzione, in tal senso le convenzioni sono da intendersi “strumento di partnership-privato” e possono prevedere un ruolo del privato: a) come esecutore di attività; b) come soggetto che rivela i bisogni e attiva una rete di aiuto o di auto-aiuto; c) come collaboratore privilegiato dell’ente pubblico. Gli obiettivi di pubblica utilità sono perseguiti sia dai soggetti pubblici che da soggetti privati. Il volontariato è, presente nei servizi alla persona e quindi nei servizi socioassistenziali anche nelle strutture penitenziarie, e potrebbe essere convenzionato con l’Amministrazione penitenziaria, con vantaggio per la continuità e la qualità dei servizi offerti all’utenza. Lo strumento della convenzione è espressamente previsto all’art.120, comma 1 del regolamento di esecuzione all’o.p. per i volontari ex art.78 o.p., mentre nessuna specifica regolamentazione è prevista all’art.17 dell’o.p., risultando opportuno quando l’operatore fruisce di interventi economici da parte dell’Amministrazione penitenziaria ovvero di altre amministrazioni pubbliche come i Comuni, le Provincie, le Regioni o altri enti. È dibattuto se le organizzazioni del volontariato possano concorrere all’accesso ai fondi pubblici non solo in quanto organizzazione del terzo settore, ma al pari delle imprese che svolgono “servizi e assistenza sociale” secondo la classificazione ATECO delle attività economiche. È sempre più diffusa l’opinione che ai sensi del trattato europeo sulla concorrenza le associazioni di volontariato possano essere considerate imprese e quindi le associazioni di volontariato di cui alla legge 266/1991 possano partecipare alle procedure di gara per l’appalto di servizi. L’ente pubblico non potrebbe affidare alle associazioni di volontariato attività senza un regolare bando di gara, ai sensi del D.Lgs. 12 aprile 2006 n.163, le associazioni di volontariato svolgono attività imprenditoriale anche se perseguono finalità di solidarietà sociale e non hanno finalità di lucro, anche se si avvalgono di collaboratori che operano a titolo volontario e anche se in gran parte 75 Si ritiene significativa l’indicazione del DAP di affidare al responsabile dell’area educativa dell’istituto ampia parte della gestione del volontariato, sia ex artt.17 che 78 o.p. Allo stesso responsabile potrebbero essere attribuite competenze in materia di: rilevamento dei bisogni dell’utenza; istruzione delle richieste degli utenti e predisposizione dei provvedimenti relativi; attivazione della customer satisfaction. È evidente la necessità che le amministrazioni pubbliche agiscano per un maggiore “raccordo operativo”, si ritiene importante pervenire a un’applicazione “nuova” dell’ordinamento penitenziario alla luce del decentramento di cui alla riforma costituzionale del 2001. Tale coordinata interpretazione e applicazione delle norme deve ispirarsi sia al principio di successione delle leggi, sia al principio di gerarchia delle fonti normative a un’applicazione “nuova” dell’ordinamento penitenziario alla luce del decentramento di cui alla riforma costituzionale del 2001. Quanto riportato ci consente di avere una visione chiara del ruolo attribuito, alla luce dell’attuale normativa, al mondo del volontariato. Una funzione che era stata definita attraverso l’ultimo documento ufficiale che riguarda la tematica e di cui si ritiene significativo riportare il testo integrale. (Leggere la scheda 4.2) 4.3 Terzo settore e politiche di welfare Edgar Morin, soprannominato il Diderot del Novecento, autore dei volumi della Methode, in cui raccoglie il senso del suo “pensiero complesso”, afferma che la paura è la nuova ideologia. Un sentimento che paralizza le coscienze e che si è sviluppato in questi anni di crisi economica che hanno minato il sistema di certezze del mondo occidentale. L’alternativa, si racchiude in due termini: solidarietà e responsabilità. In senso etico, ma anche politico. È essenziale per gli operatori penitenziari, avere chiaro il ruolo del terzo settore nella promozione di politiche che favoriscano il reiserimento dei detenuti e di quanto indicano le politiche di welfare nella potenziale crescita dell’agire criminale. Patrizi evidenzia il valore del rapporto tra i termini “cooperazione”, “fiducia” e “capitale sociale” e l’etica come ecologia della responsabilità. Patrizi e De Leo connette etica e responsabilità in una prospettiva psicosociale che considera l’etica nei termini di una “ecologia della responsabilità”, sottolineando come tale dimensione sia riconosciuta come produttrice di fattori capaci di svolgere funzioni preventive rispetto alla devianza e alla criminalità. 76 Sullo stesso piano converge il pensiero di Karl Otto Apel, il teorico nota come la scienza se, da un lato, mette in campo questioni morali circa la valutazione delle conseguenze di azioni collettive, dall’altro, esclude un fondamento razionale dell’etica. Nella situazione attuale, secondo Apel, di fronte alle sfide della crisi economica ed ecologica, una macroetica che sappia fondare le responsabilità delle azioni si rende ancora più auspicabile. Il filosofo tedesco non ignora l’uso distorto e strumentale dei mezzi di informazione che esercitano un’influenza negativa sui paesi del Terzo mondo esaltando la violenza, ricorda che l’impegno del Primo mondo deve continuare a essere quello di addossarsi la responsabilità dell’altra parte del pianeta, evitando ogni forma di paternalismo e valorizzando le culture all’interno di norme di convivenza accettate da tutti. Se questa cornice appare chiara la conseguenza dottrinale, espressa ancora da Patrizi, per cui “prevenire in chiave promozionale la devianza e la criminalità è un processo sociale di promozione della qualità della vita di ognuno e di tutti”. L’analisi ci porta a considerare la realtà attuale del nostro paese e la complessità dei sistemi che incidono sulla qualità della vita individuale e collettiva. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione in cui l’indebolirsi dei legami sociali porta i cittadini a provare una crescente difficoltà nel “fare comunità”, a riconoscersi in un sistema di valori e regole condivise e vincoli solidali. Si deve pensare a due altri livelli di problematicità: il primo riguarda il riproporsi della questione sociale, il secondo la crisi dei tradizionali strumenti della rappresentanza. Il peggioramento delle condizioni di vita interpretativa sulle azioni programmatiche, perché più alto è il livello di povertà, più cresce la potenzialità di esclusione sociale e di reclutamento, nelle sfere della criminalità organizzata. La crisi si riverbera anche sui tradizionali strumenti di rappresentanza, considerata la fine dei partiti di massa e la progressiva diminuzione di identificazione con i movimenti sindacali. Alcuni dati di rilevanza sono desumibili dalle indicazioni contenute nel Libro verde del terzo settore. Dei recenti rapporti hanno comunicato che l’Italia è al sesto posto tra i paesi OCSE per il più elevato gap tra ricchi e poveri e tale disuguaglianza è cresciuta negli ultimi quindici anni in maniera superiore ogni altro paese. Nella situazione di crescita economica, le classi più agiate hanno ottenuto benefici in misura superiori rispetto ai poveri e alla classe media. Basti pensare che attualmente il 10% più ricco detiene circa il 42% del valore netto totale della ricchezza del paese. La condizione di povertà ha raggiunto circa 8 milioni di cittadini, interessando in particolare i nuclei familiari con figli o persone anziani a carico e quelli del Mezzogiorno. Sono dati che non possono essere taciuti anche sul piano della registrazione delle motivazioni induttive dei processi devianti. 77 Il crescere della ricchezza stanno creando non solo una forma di disaffezione politica della gente, ma le premesse per un clima di illegalità diffusa, se la dimensione valoriale più riconosciuta è quella del raggiungimento del successo. La situazione diviene drammatica quando si pensa ai detenuti e alla loro speranza di recupero sociale se rapportata all’assenza di peso sociale che essi esprimono anche in chiave di inserimento lavorativo. Non sono pochi i casi di dibattito, in cui emerge con forza il pensiero di molti genitori che testimoniano il proprio disappunto nel pensare che un detenuto che ha commesso un reato possa rubare il posto a uno dei loro figli. “Adesso conviene essere un detenuto per trovare lavoro”, resta il problema del reinserimento occupazionale della popolazione reclusa. Il terzo settore, assume un’identità forte di riconoscimento per il ruolo sociale e istituzionale che svolge. Il terzo sistema definisce una realtà emergente tra i due pilastri costituiti dallo Stato e dal mercato. L’espressione terzo settore viene utilizzato per individuare tutto ciò che si differenzia sia dalla sfera pubblica sia da quella privata. Ciò che rimane dopo l’individuazione dei primi due settori è un universo molto vasto, composti da soggetti disomogenei che hanno in comune la capacità di sviluppare nuove offerte per rispondere alla domanda di servizi che né lo Stato né il privato sono in grado di soddisfare: è questa la nuova economia sociale con forme giuridiche molto differenti. La maggior parte di queste organizzazioni ha la vocazione di fornire beni e servizi e svolge, attività di natura economica: esse tendono a differenziarsi dalle imprese classiche per l’assenza di scopi di lucro, mentre il loro carattere privato le differenze del settore statale. L’immagine del terzo rimanda ad aspetti, legati a un complesso di risorse materiali e immateriali, messe in campo in termini di solidarietà attiva, di relazionalità e di autorganizzazione, di imprenditorialità cooperativa e sociale. L’universo del terzo settore si propone per il raggiungimento di alcuni obiettivi comuni, come assicurare la tutela della dignità umana, attivare una dimensione comunitaria e partecipativa nella prospettiva di una convivenza civile che promuova pace e legalità. 4.3.1 La funzione del terzo settore Lo sviluppo di questa forma di protagonismo, è stato letto secondo due principali interpretazioni, la prima assegna all’associazionismo un ruolo sostitutivo dei sindacati e dei partita, la seconda rileva la funzione assunta nella gestione dei servizi da parte del terzo settore in seno alla crisi dello Stato sociale. È questo un aspetto ha i suoi effetti nella realtà penitenziaria. Non solo per quanto realizzato dal volontariato, ma anche per la conduzione, affidata agli enti locali ad associazioni di settore, delle 80 sarà orientato e organizzato in modo complementare e non sostitutivo rispetto al lavoro di mercato sarà circoscritto a quegli ambiti di attività che non possono essere ricoperti dal lavoro salariato”. Ci troviamo di fronte a una vera e propria economia associativa, che si realizza nelle forme autogestite della cooperazione. Possiamo richiamare il pensiero di Giorgio Lunghini, il quale muove dalla constatazione della “forbice” o del “paradosso” che si determina nell’attuale società dei servizi. Egli osserva che, da un lato, a seguito dell’intensità del ritmo dell’innovazione tecnologica si crea disoccupazione che non riesce a essere facilmente riassorbita, dall’altro “si assiste alla crescita di bisogni insoddisfatti nel campo della cultura, dell’educazione, della cura dei singoli e del tessuto sociale, della manutenzione dell’ambiente e della natura”. A differenza di altri autore Lunghini non intravede una via di uscita in direzione del mercato. Secondo questo autore la soluzione va cercata nel settore “delle attività che non sono mosse dalla ricerca del profitto organizzando lavori concreti destinati alla produzione d’uso, lavori socialmente utili, capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di mercato non soddisfa”. Lunghini pensa a un settore non di mercato. Sempre lungo questa linea di riflessione, occorre ricordare i contributi di Alessandro Montebugnoli, il quale ha il merito di accompagnare l’analisi teorica con il riferimento a elementi empirici e operativi, ricavabili dell’osservazione della realtà sociale. Questo gli permette di delineare i contorni della nuova economia amministrata, cui egli introduce, come economia condivisa tra istituzioni locali e gruppi di cittadini, nell’ambito di progetti volti a realizzare una serie di servizi. È evidente che questa linea di riflessione è congruente con l’analisi relativamente al lavoro volontario come attività fuori mercato socialmente riconosciuta, che ricopre uno spazio intermedio tra il mercato e la popolazione non attiva. Si tratti dei “lavori socialmente utili” di Lunghini o dell’“occupazione informale” di Archibugi. Conoscere i meccanismi che interessano l’economia associativa equivale a interrogarsi e a cercare risposte sul potenziale ruolo sociale che la “comunità detentiva” potrà esprimere. Mettere in sinergia il mondo del carcere con la cooperazione e con l’impresa sociale consisterà di far lievitare il potere di acquisto di una identità sociale dei detenuti, dei semiliberi, degli ex detenuti. Lavorare per una cooperativa sociale significa saper leggere la bandistica degli enti locali, significa saper progettare, saper confrontarsi con le funzioni istituzionali e saper interpretare un ruolo di cittadinanza attiva, diventando interpreti di una economia fuori mercato, sostitutiva del sistema dei servizi statali. E di questo devono essere profondamente consci soprattutto gli operatori penitenziari e le figure del trattamento, in particolare, indirizzando e facilitando un livello di “rapporto consapevole” dei detenuti nei confronti dell’economia solidale, si proporranno essi stessi 81 come “operatori sociali”. Occorre saper leggere quello che accade attorno a noi, per poter anticipare, il senso di certi fenomeni. In una zona di Torino nei primi anni ottanta, non si ebbe la capacità di decodificare certi avvenimenti che avrebbero portato quella periferia ad assumere un connotato di forte disagio sociale. Gli operatori sociali che lavorano dentro il penitenziario e che, sono aggettivati con il termine “carcerari” devono avere la capacità di cogliere le atmosfere problematiche subite da quelli che, possono diventare ospiti, delle patrie galere. Negli ultimi vent’anni le politiche neoliberali sono state presentate con il progresso. Ci avevano promesso “più mercato, meno poveri” ed è accaduto l’opposto. La visione neoliberale che l’Europa ha adottato ha fallito. Per difendere la democrazia, è necessario far crescere i livelli di consapevolezza e di conoscenza, e in primis nei luoghi dell’apprendimento, come le scuole e le università, e nei luoghi della sofferenza, come gli ospedali, gli ospedali psichiatrici giudiziari, le carceri. Questa funzione spetta agli operatori, una volta Gaetano Salvemini affermò che il compito degli intellettuali si racchiude in cento parole. Quelle parole che i contadini non conoscono e che rendono più potenti i loro padroni. Capitolo 5: Dalla pedagogia penitenziaria alla pedagogia sociale 5.1 Il detenuto come soggetto di comunità. Il senso dell’appartenenza Come afferma Bauman, il termine “comunità” suona bene. La compagnia e la società possono essere cattive, la comunità no. Su questo piano e su varie categorie concettuali di Bauman che sarà utile riprendere deve caratterizzarsi una modalità specifica che riconsegni al detenuto la sua capacità di programmare il proprio futuro. Si è introdotto il tema dell’appartenenza dei detenuti alla comunità che li ospita. Come già sottolineato, si tratta di un percorso che tende a responsabilizzare gli ospiti del carcere verso un rapporto “consapevole” di determinazione delle regole che normano l’esistenza della collettività. Riportando il pensiero di don Lorenzo Milani che, invocava una scuola vista dalla partenza dei ragazzi e del loro diritto a maturare e a trovare il proprio posto nella vita, si ritiene significativo ipotizzare un iter analogo nella dimensione carceraria. Con la stessa impostazione, ma con un progetto esigente, che li porta a scuola anche la domenica e li impegna ad assumere da protagonisti la responsabilità della loro crescita. 82 Le tappe sembrano identiche, e un ulteriore riferimento può essere rivolto a don Pino Puglisi, che in quartiere difficile di Palermo ha intrecciato la sua missione di pastore con il servizio educativo, rendendo la sua comunità anche una scuola di educazione alla legalità. Il carcere spesso viene vissuto come discarica sociale, esso accoglie quanti vengono allontanati dalla comunità civile. Soprattutto sembra avere, quella di convincere i detenuti a viversi come tali. Rifiuti solidi, rifiuti urbani: il titolo di un convegno promosso dell’AICS che per varie ragioni non è stato possibile effettuare lo scorso anno a Napoli. Il tema del dibattito riguardava il rapporto tra l’immondizia, problema secolare della città, e gli ospiti di Poggioreale e Secondigliano, le due carceri sempre più compressi in spazi senza aria e senza vita, con riferimento alle logiche architettoniche e politiche che vogliono convincere della facilità con cui possono essere resi invisibili entrambi i soggetti: l’immondizia e i detenuti. Su queste logiche che tendono a codificare l’invisibilità di chi non ha voce e che pensano di poter dimenticare che dietro le mura esistono decine e migliaia di corpi e di anime che hanno diritto a vivere di speranza, occorre impostare la “voglia di appartenenza” dei detenuti. Contrastare la criminalità organizzata, ti fa sentire parte di qualcosa. Beck ha osservato che siamo indotti a cercare soluzioni personali a contraddizioni sistemiche. La nostra tendenza è quella di cercare la salvezza individuale dai problemi comuni. Questo meccanismo si riproduce in maniera sistemica, molto spesso facilitato dagli operatori che lo determinano sulla base di due motivazioni: o puntano su un solo detenuto, perché “lavorare tutti è impossibile”, oppure non si accorgano del pericolo di privilegiare una soluzione individuale che è spesso frutto della capacità di seduzione del detenuto. Il carcere facilita è spesso contenitore di azioni solidaristiche ma è anche vero che potenzia gli egoismi e la messa in atto di qualsiasi forma di blandizia pur di ottenere un beneficio. Questi sono i rischi da evitare, rischi che si contraggono se prevale l’ottica di promuovere la cultura della comunità. L’individualismo si propone come contrario della comunità, esso riflette quanto di peggio esprime la società dei consumi, dove il raggiungimento dei traguardi viene ricercato con qualsiasi mezzo. Gli operatori che sono in rado di produrre un sistema organizzativo che assegni alla maggior parte dei detenuti una mansione utile per la collettività favoriranno un sostanziale riconoscersi in un sistema uguale per tutti. Essere in grado di produrre cultura di comunità significa lavorare affinché i processi di integrazione dei diversi non siano contrastati. 85 A tale proposito assumono valenza due progetti rivolti a detenuti stranieri. Il primo, il “Laboratorio di mediazione interculturale” della Casa circondariale di Teramo, nasce da un precedente laboratorio attivato in collaborazione con la Provincia. Il secondo, “Riprendere i contatti: dire, fare…partire” della Casa di reclusione di Padova, trasforma la prospettiva di espulsione a fine pena in un progetto di “rimpatrio assistito” con una qualifica e qualche strumento in più di affermazione sociale. Ne “I simboli del sé sorgono dalla profondità del corpo”, il progetto degli istituti penali di Trani, rivolto a detenuti con problematiche di alcol e di droga, si parla di gruppi di aiuto, con l’obiettivo di migliorare la propria relazione con l’esterno e attivando l’intervento su un metodo basato sull’attenzione sul corpo e sulla distensione verbalizzata. Sul disagio dei detenuti si registrano due progetti, il primo “Sistema di intercettazione e intervento sul disagio psicologico dei detenuti” della Casa circondariale di Lorusso e Cutugno, tende a individuare le situazioni di disagio e di rischio della popolazione detenuta, con riferimento ai soggetti tossicodipendenti, il secondo “Servizio di accoglienza per i detenuti”, della Casa circondariale di Rebibbia, si occupa del momento dell’accoglienza con lo scopo di ridurre l’impatto traumatico dell’arrivo in carcere. Tra le tante iniziative di formazione e qualificazione professionale il progetto “Percorso OSA”, della Casa circondariale femminile di Pozzuoli, è finalizzato a far divenire donne detenute, italiane e straniere, operatrici socioassistenziali, capaci a loro volta di assistere persone in condizioni di disagio. Un’esperienza analoga, il progetto “Gaya” della Casa circondariale di Castrovillari, è una proposta di formazione rivolta alle donne con debole livello culturale e grosse difficoltà personali. Su tale versante gli esperti ribadiscono che i corsi di formazione professionale e la riprogettazione di sé. Un esempio è quello del progetto “Le ali della libertà”, finalizzato alla formazione professionale di ex tossicodipendenti, con difficoltà di inserimento lavorativo. Il gruppo di lavoro “avrebbe voluto saperne di più”, per altri sottolinea la positiva costruzione sotto l’aspetto sistemico. In questa cornice assume rilevanza il progetto “Costruire il futuro”, dell’UEPE di Bari, finalizzato all’inserimento nel settore dell’edilizia di soggetti in esecuzione penale esterna con problematiche personali e privi di qualifica professionale, dove sono stati previsti incontri con le istituzioni pubbliche, con l’imprenditoria e il privato sociale, con attività che prevedono l’accompagnamento al lavoro, il sostegno alle famiglie e la sensibilizzazione delle imprese. Un progetto analogo “Servizi per l’autonomia, il lavoro e l’inclusione sociale”, del PRAP offre un quadro che comprende la partecipazione al Piano di zona, il rapporto con le associazioni imprenditoriali e la sensibilizzazione delle realtà produttive locali, la cooperazione con i servizi territoriali e la creazione di un Centro integrato di servizi. Si tratta di scelte e formule azzeccate, innovative nel panorama penitenziario, considerata la capacità espressa degli operatori, negli ultimi due progetti, di staccarsi dal penitenziario per poter puntare direttamente al consolidamento di una rete integrata di servizi. 86 Da ricordare anche il progetto “Gulliver, quando nasce un’impresa in carcere”, finalizzato al reinserimento sociolavorativo dei detenuti, il progetto ha tra i partner ideativi anche diversi enti del privato sociale, è esemplare rispetto all’offerta ai detenuti di risorse di cambiamento e allo sviluppo delle capacità revisionali e di controllo degli eventi quotidiani indispensabili per affrontare il ritorno in libertà. Trasformare le azioni progettuali in buone prassi che possano essere riprodotte in altre parti della penisola, sono molte le sperimentazioni in giro per l’Italia, alcune hanno la caratteristica dell’episodicità, altre cominciano ad avere una stabilizzazione operativa. 5.3 Le figure del trattamento e gli operatori dell’associazionismo verso una professionalità sociale Tutti i pomeriggi intorno alle cinque, il carcere minorile apre i battenti e le signore e i giovani del luogo possono entrare per raggiungere la palestra o il teatro che stanno all’interno della struttura. Non vanno per far visita agli ospiti dell’istituto, in tante occasioni, recitano o giocano insieme a loro. Entrano per utilizzare gli spazi che diventano utili alla collettività. È uno dei pochi casi, in cui il carcere diventa una struttura operativa del territorio: nella palestra si può fare ginnastica o aerobica e il teatro. È gestito dagli operatori dell’AICS, l’ente che, ha investito in una logica di intervento tesa a valorizzare le opportunità territoriali. Gli operatori di Airola sono un esempio così come quelli dell’Istituto penale per minorenni, dove l’azione associativa si pone come contraltare naturale degli operatori del trattamento istituzionale che hanno come obiettivo primario il reinserimento sociale del detenuto, per affermare la positività di alcune sperimentazioni. In tale logica assume valenza la tendenza con cui gli operatori dell’AICS, hanno imparato a lavorare. È l’unico ente di promozione sociale che ha compreso da tempo come l’intervento all’interno dell’istituzione penitenziaria non contribuisca a risolvere i problemi dei detenuti. Altre esperienze sono state maturate, dalla UISP e dell’ARCI, le quali privilegiano l’attività interna a favore dei detenuti. L’impostazione metodologica è in sintonia con il coinvolgimento che è stato offerto all’AICS, a metà degli anni novanta, dal Dipartimento per la Giustizia minorile. Nel processo penale minorile, D.P.R. 22 settembre 1988, n.448, sono state delineate alcune delle impostazioni all’avanguardia in Europa. L’art.28 continua a essere un modello di riferimento per intere generazioni di operatori. Nelle previsioni della normativa che riguarda la messa alla 87 prova del minore vi è spazio per le prescrizioni che determinino la frequentazione di luoghi e agenzie educative. In molti contesti periferici dell’associazione si sono resi disponibili a collaborare con i CGM e con i Tribunali minorili territoriali per favorire l’inclusione dei ragazzi nelle palestre o nei circoli culturali. Tre esempi su tutti valgono a chiarire la qualità dell’azione sociale, in primo luogo, una palestra gestita da Pino Maddaloni, che è stato campione olimpico di judo ed è una delle tre figure emblematiche del paese. Tutti gli anni in collaborazione con l’assessorato alle Politiche giovanili, individua dieci adolescenti segnalati dai servizi minorili per il livello di problematicità espressa e consente loro la frequentazione gratuita del proprio centro sportivo. Maddaloni segue i ragazzi e, grazie anche al suo continuo, il tasso di recidiva è diminuito è diminuito negli anni. A Salerno il comitato provinciale dell’AICS realizza una situazione analoga a favore degli adolescenti problematici e consente loro l’accesso gratuito alle strutture sportive culturali, anche in questo caso, viene previsto un accompagnamento pedagogico, che ha avuto l’effetto di contrarre il tasso di recidiva nell’ultimo quinquennio. Il terzo esempio è il Centro Laila a Castel Volturno, nel bel mezzo dell’area di dominio dei casalesi, questo centro si occupa di ragazzini e immigrati e, la maggior parte dei quali è stata abbandonata dalle madri, che li hanno lasciati davanti al centro. Si tratta di casi drammatici sui quali viene attivato un intervento di assistenza su tutti i bisogni primari e che si conclude, con l’inserimento lavorativo di questi adolescenti, strappati a un destino criminale. Questa modalità operativa, va proiettata anche nella dimensione del carcere per adulti, l’esempio è quello promosso dal circolo culturale Rino Gaetano di Velletri che gestisce l’attività artistica ed economica della Compagnia Stabile Assai della Casa di reclusione di Rebibbia. Indipendentemente dalle caratteristiche culturali di questa attività, assume pregnanza l’intervento destinato ad alcuni dei detenuti/attori che, hanno trovato lavoro in questo settore. Ben sei detenuti operano come tecnici, in alcune sale teatrali della capitale, cosi come non possono essere citati due detenuti che, tutte le domeniche svolgono il ruolo di arbitro nei campionati della promozione sportiva a Potenza e a Catanzaro. Fatti che si legano a un’interpretazione della funzione associativa verso una professionalità sociale che è in stretta interdipendenza con il rapporto con le figure trattamentali degli istituti dove è presente. Nelle linee programmatiche del Settore delle Politiche sociali dell’AICS per il 2011, si legge che il lavoro sarà promosso e organizzato con la logica che da anni distingue la sua modalità operativa: il work in progress. Questa dovrebbe essere un’impostazione di metodo ad assumere all’interno delle realtà penitenziarie, dove troppo spesso la staticità prevale. I bisogni dell’utenza si modificano, appare 90 Il coinvolgimento di operatori della giustizia minorile, oltre a rappresentanti dei genitori, delle parrocchie e di tutte le agenzie territoriali, costituisce una suggestiva ipotesi di intervento interprofessionale. Come ricorda Patrizi, negli anni settanta Harré e Secors hanno introdotto il “modello antropomorfico di uomo”, questo paradigma studia la persona nella sua globalità, nelle sue interazioni nei sistemi sociali di cui è parte costitutiva, ne considera la capacità di agire intenzionale, evidenzia le potenzialità che derivano da un approccio che voglia “far parlare” e “ascoltare”. In tale prospettiva sono stati sviluppati ragionamenti metodologici che hanno privilegiato resoconti e narrazioni quali strumenti di comprensione dell’agire umano e dei criteri che determinano l’interazione. Sotto il profilo teorico, il superamento dell’ottica deterministica si è tradotto nel passaggio da una visione reattiva della mente umana a una concezione pro-attiva; la persona non reagisce a pulsioni interne o a stimoli esterni; l’essere umano agisce “verso”, in funzione delle sue anticipazioni, mediate dal suo sistema di significati, dal modo in cui percepisce la realtà. Su questo piano possono essere collocati gli studi sul rapporto fra condizioni di rischio e fattori protettivi. Questi presupposti hanno delineato uno spostamento d interesse dalle condizioni di rischio alle mediazioni che ne regolano l’impatto nell’evoluzione dei percorsi socializzativi a livello individuale, gruppale. L’analisi non solo si collega al senso del progetto indicato, ma corrisponde a un identikit metodologico cui è indispensabile fare riferimento nelle soluzioni professionali proposte sul piano trattamentale. Il rapporto tra piano reale dei contenuti e piano simbolico si concretizza tenendo fortemente presente quanto incidano sui comportamenti devianti il sistema di significati cui fa riferimento l’autore di reato e quanto indispensabile proporre un adeguato livello di incidenza sulla modifica di tale percezione anticipatoria della realtà. 5.4 Il modello dell’operatore unico: il superamento delle competenze specifiche “Perché non mi hai salvato?” è una domanda che alcuni operatori si sono sentiti da un utente tornato nuovamente dietro le sbarre. Giocare con i sentimenti di colpa degli educatori è un rito abituale per i detenuti. Utilizzano questa formula perché sperano di ottenere qualcosa. Talvolta ci credono, che a sbagliare sia stato l’operatore, “Non ero pronto per uscire; Perché mi hai lasciato solo, quando sono uscito?”. Queste alcune delle affermazioni che accompagnano il nuovo 91 incontro. Quando il detenuto non vuole ammettere il proprio fallimento, si gioca la carta della proiezione. Mai un’ammissione di colpa, peccato che gli errori si paghino sempre con un’ulteriore detenzione, come se non bastasse tutta quella che si sono fatta. L’aspetto che tocca l’operatore è quello della ricerca di condivisione del fallimento. La simbiosi è specifica testimonianza che il processo empatico si è realizzato. Da un punto di vista personale l’operatore può sire a sé stesso che il rapporto ha dato i suoi frutti, anche se c’è qualcosa che non è andato bene. Restano il sentimento di riconoscenza dell’utente e questo tentativo di riallacciare la relazione sulla base di un’attivazione del senso di colpa. Non c’è nulla di più fallimentare che una situazione del genere. E non solo perché il detenuto non è stato capace di gestire la sua realtà all’esterno; non solo perché propone un rapporto strumentale che, già in precedenza alcuni aspetti dovevano essere meglio studiati, ma soprattutto perché ancora una volta il caso diventa un fatto “personale” tra l’educatore e il suo assistito. La filosofia operativa vincente consiste in conoscenze interprofessionali, che vanno verso una lettura strategica di contesto, ma soprattutto che il tutto si gioca su una metodologia assunta in termini capillari da tutte le specificità professionali che hanno come obiettivo quello dell’operatività unitaria. Non si sta parlando di un operatore unico, ma di una metodologia unitaria di intervento, con la condivisione di tutte le componenti in grado di elaborare percorsi basati sulla reciprocità interdisciplinare. Devono essere chiariti, alcuni passaggi, la prima tappa riguarda la funzionalità del lavoro di équipe in carcere. Spesso l’organizzazione di un programma di trattamento si snoda attraverso la rendicontazione individuale delle valutazioni che i singoli operatori esprimono nel caso. Quasi sempre manca la visione di prospettiva e soprattutto il tempo per rileggere il tutto in chiave di work in progress, con step progressivi che consentano di riflettere ulteriormente. Restituire centralità e valore alla persona significa affrontare le problematiche della devianza non solo sotto il profilo del controllo o di parametri meramente comportamentali basati sul criterio premio-punizione, ma anche da punto di vista di una oggettiva “osservazione scientifica della personalità”. Si stratta di riflettere sulla correttezza del presupposto che la persona sia solo “ciò che appare” e tenere conto che c’è una persona in grado di crescere se vengono forniti stimoli e strumenti idonei. E spesso la distruttività, sia etero che autodiretta, costituisce il sintomo di un disagio che necessita, di essere decodificato ed elaborato attraverso una presa in cura da parte di tutti gli operatori del sistema carcerario. Questa attenzione alla persona e alle sue potenzialità positive riduce la tendenza distruttiva tutelando diritti primari e al tempo stesso la sicurezza. Perché ciò avvenga occorre attivare la prima 92 delle tappe di un processo più complesso. Gli operatori della sicurezza e del trattamento dovranno avere una visione di insieme del caso e delle prospettive. La funzione trasversale alle specificità disciplinari e professionali deriva dall’assunzione della storia in un medesimo sguardo. Uno sguardo in grado di declinare le esigenze di controllo e di aiuto Lo sguardo informa la specificità professionale: ciò equivale a ribadire che la specificità professionale ha un senso se è capace di riutilizzare le conoscenze degli altri professionisti. I professionisti del trattamento invitano i professionisti della sicurezza ad approfondire il loro livello di conoscenza delle dottrine pedagogiche o psicologiche. Alcuni psicologici si rifiutano di approfondire la conoscenza giuridica dell’ordinamento penitenziario o di qualche norma di procedura penale, perché il loro taglio professionale presuppone un diverso livello di offerta di servizio. La seconda tappa riguarda il passaggio dal penitenziario al sociale, se i processi interpretativi della devianza saranno capaci di proporre una lettura unitaria, ma anche dinamica, una delle risultanze naturali sarà quella di non legare le aspettative per la costruzione di prospettiva del caso alla sola realtà istituzionale. Il coinvolgimento, degli operatori dovrebbe essere automatico, il riferimento alle agenzie del privato sociale, della cooperazione e dell’imprenditorialità sarà naturale quando si penserà al potenziale inserimento occupazionale del detenuto. Sullo stesso livello dovrà essere previsto il rapporto con i servizi di consulenza del territorio, che possono offrire un contributo per l’affiancamento terapeutico alla risoluzione delle problematicità esistenziali o familiari. Si tratta di un percorso di condivisione e di corresponsabilizzazione degli operatori territoriali cui dovranno essere forniti tutti gli elementi di valutazione per poter creare un percorso unitario8 di intervento. Il riuscire a lavorare in rete se, per un verso, costituisce un obiettivi fondamentale, per altro non esaurisce il percorso che deve portare il carcere a stare dentro al sistema. L’ aggettivazione “penitenziario” costringe gli operatori in una dimensione circoscritta di pensiero. Anche quando le risorse convergenti, la logica è quella per cui il “territorio fa qualcosa per il carcerario” Il carcere è società è compito degli operatori, quello di portare il carcere, con la sua cultura, con le sue paure, fuori da esso. Per riuscirci occorre sentirsi parte di una progettualità unitaria in cui tutti, si sia proiettati a ragionare con la stessa volontà di condividere un percorso. 95 È un principio importante quello della possibilità per l’individuo di essere protagonista della propria realtà. La psicologia sociale e giuridica, la psicologia di comunità e gli orientamenti non diagnostici della psicologia clinica hanno evidenziato la rilevanza per le persone di agire per costruire empowerment, potere su di sé in relazione all’ambiente, e senso di auto efficacia, inteso come convinzione della propria capacità di comporre percorsi d’azione, decisioni finalizzate al raggiungimento di un obiettivo. Chi lavora nel sociale conosce bene questi obiettivi e la pedagogia amigoniana muove proprio tali criteri ordinativi dell’azione operativa. Si tratta i interventi per sviluppare e implementare, la capacità di fronteggiamento degli eventi di vita attraverso soluzioni autogenerate: le uniche in grado di restituire, a quegli stessi individui e sistemi, potere d’azione e di ideazione; soluzioni autogenerate ma accompagnate. Per arrivare a questo obiettivo è essenziale che le persone in condizioni di disagio o di evidente marginalità possano incontrare sulla loro strada interlocutori disponibili, figure esperte che sappiano accogliere, sollecitare esperienze di umanità, restituire campi di possibilità all’interno dei quali ogni persona possa individuare la propria via. Lo psicologo, l’educatore, l’assistente sociale, e ogni altra figura specialistica che interviene nel percorso di un adolescente/adulto osservano e agiscono sulla base della propria formazione disciplinare ma guidati da quella funzione che filtra la specializzazione e la orienta rispetto alla finalità dell’intervento. Le comunità, o meglio, la comunità amigoniana si caratterizza per la sua struttura relazionale dei tipo familiare. È premessa importante, perché la famiglia è stata individuate dalla letteratura scientifica come importante sistema di mediazione autoregolativa, di azioni in grado di moderare l’influenza delle condizioni di rischio regolandone l’impatto nell’evoluzione dei percorsi socializzativi in adolescenza, ma non solo. Studi di psicologia sociale della famiglia e di psicologia giuridica minorile hanno evidenziato l’influenza della famiglia. È stata studiata la qualità della distribuzione di un insieme di variabili il cui equilibrio sembra agire in chiave protettiva o disfunzionale rispetto alla manifestazione di diverse forme di disagio, inclusi i comportamenti di devianza.  monitoraggio: il costrutto del monitoring, inteso come la capacità degli adulti monitorare le condotte dei figli, figura frequente nei modelli teorici dello sviluppo del comportamento deviante mediante la rappresentazione di un legame di tipo causale, secondo cui adolescenti poco monitorati tenderebbero ad adottare comportamenti a rischio. Numerosi contribuiti hanno dimostrato una correlazione tra basso livello di monitoraggio e comportamenti devianti. Il monitoraggio non riguarda solo l’interesse degli adulti, poiché si tratta di un processo interattivo basato sulla reciprocità, secondo 96 alcuni autori, un efficace monitoraggio dipende da un processo reciproco che vede interagire la capacità dei genitori di essere informati e la volontà dei figli di fornire tali informazioni;  supporto sociale: gran parte delle ricerche attesta come la percezione di disponibilità e di supporto da parte di figure che la persona ritiene significative sia uno dei fattori più affidabili per la predisposizione di un buon adattamento alle situazioni di difficoltà. La percezione di supporto sociale informa con un certo numero di altri significativi. Pensiamo alle possibili declinazioni nella relazione detenuto-educatore e alle sue influenze in ambiti di socialità esterna;  comunicazione: la disponibilità al dialogo e il confronto con gli adulti facilita l’interiorizzazione delle norme e dei valori da essi proposti e lo sviluppo di un proprio senso di responsabilità e autonomia. Nel caso di conflitti, l’adolescente che vive in un clima di dialogo sarà stimolato a confrontare il proprio punto di vista favorendo la comprensione dei diversi modi di ragionare e interpretare la realtà;  impatto della norma: in generale dell’incontro con il sistema della giustizia e con i contesti a esso correlati, le modalità degli interventi hanno influenza nel direzionare gli esiti possibili dell’incontro con le persone cui si rivolgono, nel senso di (ri)orientamento comportamentale o di stabilizzazione della devianza. Un altro ambito rilevante e quello della responsabilità, il costrutto della responsabilità può essere inteso come attribuibilità di un’azione a un soggetto e come responsabilità, da parte del soggetto stesso, in termini di conseguenze. Esso permette di considerare i rapporti tra soggetto, azione e norma, le capacità soggettive di anticipare e sostenere le conseguenze sociali e giudiziarie del reato, vale a dire la capacità di rispondere dell’azione imputata. In questa accezione, la responsabilità non fa riferimento a una pura questione formale di requisiti giuridici e psicologici, ma diventa una questione di obiettivi. In tale prospettiva, il modello ecologico di Gaetano De Leo definisce la responsabilità come uno “schema funzionale che regola e organizza le interazioni tra individuo, norma e società”: l’azione responsabile costituisce l’elemento nodale all’interno di un sistema di aspettative e anticipazioni sulle conseguenze delle proprie azioni e referenti regolativi/normativi del contesto in cui l’azione stessa si inserisce. Tale concezione orienta a considerare il passato nei termini delle capacità dei soggetti/sistemi coinvolti di riconoscersi artefici di azioni, ma l’obiettivo degli interventi include e privilegia la promozione della responsabilità a partire dalle situazioni rilevate. Il modello individua nel potenziamento delle variabili psicologiche della responsabilità una risorsa privilegiata per restituire alla persona apprendimenti di responsabilità in grado di agire sul piano del rapporto fra persona e comportamento. 97 L’idea a tale impostazione rinvia alla necessità di pensare alla responsabilità non solo nei termini affermati dal nostro diritto penale di responsabilità rispetto al fatto, ma secondo un criterio di processualità complessa che, intenda promuovere responsabilità come presupposto di riattivazione di rapporti sociali conflittualizzati dalla trasgressione; una responsabilità a partire dal fatto, come predisposizione di una serie di condizioni affinché l’autore del reato possa agire la propria responsabilità attraverso azioni riparative dei diritti lesi e come strumento di apprendimento di responsabilità. La responsabilità, nel modello ecologico, costituisce la principale risorsa di potere e di libertà: il suo disconoscimento non rappresenta una forma di tutela, bensì l’attribuzione di ruoli, status, soggettività socialmente marginali, deprivate del potere di azioni su di sé e all’interno del sistema. La familiarità, il privilegio assegnato allo sviluppo delle variabili più direttamente collegate alla resilienza, la tensione verso la responsabilità e l’autonomia, come requisiti di un agire competente, costituiscono degli elementi chiave del modello amigoniano e fondano il senso della relazione educativa. Alla base sta una concezione della persona che appare formidabilmente in line con i più recenti orientamenti in psicologia. Quella di un soggetto competente rispetto a un mondo che percepisce in base alla propria teoria, mosso da obiettivi piuttosto che da cause, conoscibile attraverso le scelte situate che effettua e le interazioni anche simboliche entro le quali costruisce le ragioni del suo comportamento, in un continuo scambio della propria esperienza. È la visione di una mente pro-attiva, di un soggetto che non reagisce, a pulsioni interne o a stimoli esterni; l’essere umano agisce “verso”, in funzione delle sue anticipazioni, mediate dal sistema di significati, dal modo in cui percepisce la realtà, interazione con gli altri e con le situazioni cui assegna valore. L’ “essere umano si comporta in accordo con le sue percezioni. Per questo è necessario avvicinarlo a partire dal suo punto di vista, porsi nella sua posizione prima che da un punto di vista esterno o estraneo al soggetto”. L’interazione e il resoconto costituiscono gli elementi decisivi in termini di possibilità che lo scenario mentale possa tradursi in realtà fattuale. Un essere umano che sa ciò che fa e che tende al proprio sviluppo anche quando, le scelte possono apparire incoerenti, involutive. Ed è a partire da questa posizione che si costruisce la pensabilità/possibilità del cambiamento. Come afferma Vives Aguilella “l’esperienza ci insegna che usare come risorsa i propri vissuti positivi è ciò che, offre le maggiori garanzie di riuscita, posto che strutturalmente l’essere umano cerca di sentirsi felice”. La “felicità amigoniana” risulta attuale come contrasto delle condizioni di disagio attraverso la ricerca/promozione del benessere individuale e comunitario. La libertà non nasce spontaneamente nelle strade ma dovrà essere il frutto di un esercizio permanente e instancabile della volontà che si tempra nel vivere quotidiano, nell’affrontare il caso di
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