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Riassunto del libro ''Attori in video'' della prof.ssa Brunetti, Appunti di Storia del Teatro e dello Spettacolo

tratta varie opere teatrali che svolgiamo durante il corso. qui sono spiegate in maniere più dettagliata e ci sono molte informazioni utili.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 31/10/2023

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Scarica Riassunto del libro ''Attori in video'' della prof.ssa Brunetti e più Appunti in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! ATTORI IN VIDEO (Riassunto) 1. PROLOGO - L’esegesi di una grande attrice All’inizio del poema ‘sogno di una notte di mezza estate’, D’annunzio inserisce un’insolita didascalia d’ambiente che si riferisce ad una Natura evocatrice. L’ambiente è infatti ispirato alla donna a cui D’annunzio dedica l’opera, ovvero Eleonora Duse. Ci fu anche un altro uomo (Rainer Maria Rilke) che le dedicò un passo importante in una sua opera. Nelle parole del poeta tedesco viene messo in evidenza il corpo minuto della Duse che però trasuda forza e la sensibilità dell’attrice che riesce a mostrare appieno con i suoi gesti. Cesare Molinari sottolinea la caratteristica dissonante di Eleonora: il suo corpo minuto era legato ad una voce velata con la quale aveva problemi di dizione, infatti le sue frasi non erano scorrevoli, ma interrotte da ripetizioni o nessi grammaticali. Inoltre l’attrice, nei primi periodi, dava molta più importanza al valore fonico delle parole piuttosto che a quello semantico (parlava sottovoce o urlava). Alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, cambia il ritmo nella sua recitazione, e con essi anche i gesti: diventano quasi meccanici e autonomi, alle volte sono descritti anche come atteggiamenti negativi, ma sono ciò che farà diventare la Duse tanto conosciuta. Basti ricordare la sua interpretazione nella ‘signora della camelie’ dove, quando è il momento di leggere la lettera, lei alzi gli occhi al cielo e la reciti a memoria. La Duse inizia a non rappresentare più sè stessa, ma si immedesima completamente nel suo personaggio, diventando una marionetta per il poeta. La pratica scenica del teatro ottocentesco induce a modificare il testo in base alla concezione del personaggio. Tuttavia, la Duse continua a seguire il copione riuscendo ad interpretare perfettamente la propria parte. Tra il diciannovesimo e il ventunesimo secolo, furono diversi gli scrittori che descrissero, nelle proprie opere, la recitazione della Duse: il più importante fu D’annunzio, che riuscirà a far rimanere ‘eterna’ la grande attrice. - Il gesto scenico come fonte di ispirazione poetica D’annunzio e la Duse si incontrano per la prima volta a Venezia nel 1894 e continueranno la loro relazione fino al 1904. Il poeta, dopo l’incontro con l’attrice, cambia il suo modo di scrivere: se prima il protagonista viveva una rinascita spirituale (Andrea Sperelli nel Il piacere), ora l’attore aveva un rapporto costante e simbolico con l’universo. D’annunzio elabora per le protagoniste donne, un rapporto con la Natura molto stretto e appassionante, tanto da diventare tutt’uno con essa. Un esempio è il personaggio di Isabella nel ‘Il sogno di un mattino di primavera’ dove, dopo che la donna ha visto morire l’amato fra le braccia, si nasconde tra le piante entrando in simbiosi con i vegetali. La sua simbiosi è talmente elevata che, ad un certo punto, dichiarerà anche di vedere verde. Tuttavia i suoi ricordi sono veri e vividi quando incontrerà il fratello del suo amore defunto, ed è li che il suo travestimento cade. Un altro personaggio importante è Anna la cieca in ‘Il fuoco’ in cui, la donna, ha poteri profetici che nel testo però non sono citati. In questo poema, D’annunzio, mette sullo stesso piano l’adulterio e la pulsione incestuosa, elementi che mettono caos nell’ordine familiare. Il personaggio di Anna era stato creato appositamente per la Duse, la quale, grazie al suo repertorio gestuale, azzerava le distanze con il pubblico. Però l’attrice che interpreterà per la prima volta questo personaggio fu Sara Bernhardt. Nel copione erano però descritti anche i gesti e il tono di voce, proprio perché sarebbe stata la Duse a dover interpretare Anna, e D’annunzio aveva scritto tutto nei particolari proprio per lei. La Duse si sentiva in ‘gabbia’ per questo motivo, poiché cosi non c’era alcuna possibilità per lei di esprimersi a suo piacimento. Fu questo che la spinse a lasciare il poeta pescarese qualche tempo dopo la pubblicazione del romanzo, e lui di risposta, cercò ulteriori elementi recitativi dell’attrice guardando l’unico film muto da lei girato: Cenere. - L’eloquenza del corpo immortalata dalla pellicola Il talento interpretativo della Duse fu catturato da immagini in scena che ritraevano l’attrice in particolari momenti, tuttavia c’era la necessità di avere Nel film invece la taverna diventa come un saloon western dove Gassman e Rosi, decidono di far interpretare le classiche risse e acrobazie assurde dei salti in banchi, di cui farà parte anche Kean (piramide umana). Nel girare il film, Gassman e Rosi, inseriscono nel film anche tutti i rappresentanti che operano dietro il sipario e le scene girate in cui si vedono i tipici dispetti che si facevano tra colleghi. - Amare e recitare tra gli specchi di una ironica finzione Nell’opera di Dumas, lo specchio è un elemento fondamentale, tant’è che verrà anche inserito nel film per sottolineare i dialoghi tra i protagonisti che avevano un elevato grado di doppiezza, sia per rendere più movimentate le inquadrature. Tuttavia gli unici personaggi che compaiono negli specchi sono tre: 1. Il principe del Galles, il quale cambia le sue caratteristiche plasmandole come quelle di Kean (amico e rivale in amore). 2. Elena è un’aristocratica adulterina che non sa fermarsi mai, disse cosi Guido Davico Bonino. 3. Kean rilascia un’intervista in cui dichiara che il suo metodo di recitazione andava a braccetto con lo sport, specialmente la pallacanestro, in cui lui identificava le varie parti della recitazione. Questo sua tecnica di recitazione, gli permette di interpretare in maniera ironica, e quasi distaccata, il suo personaggio. Nella rivisitazione del Kean di Sartre, la capacità interpretativa di Gassman, gli permette di far emergere come il personaggio non sappia trovare delle soluzioni in nessun momento. 3. La divina mannequin: Rossella Falk in ‘Nostra Dea’ (1972) - La supremazia della marionetta umana Dopo dieci anni dalla morte di Massimo Bontempelli, un gruppo dei suoi amici, induce Rossella Falk ad accettare il ruolo della protagonista nell’opera ‘Nostra Dea’ per un riadattamento televisivo. Due anni dopo si realizza il progetto con la regia di Blasi, e con le partecipazioni di Fantoni e Giuffrè accanto all’attrice. Come prima cosa però, è importante analizzare l’idea che si aveva di marionetta umana o donna manichino che offre la commedia: nel racconto ‘la scacchiera davanti allo specchio’, un bambino incontra un manichino parlante che afferma di essere il sovrano di tutte le persone e le cose che si sono riflesse nello specchio. Per l’autore, gli oggetti assumono un valore più elevato rispetto alle persone e anch’essi seguono una scala gerarchica, in cui troviamo proprio questo manichino sul vertice. Bontempelli, nella sua opera, fa intendere che se l’uomo vuole assomigliare ad un manichino, dovrebbe seguire anche le azioni di questo. Il termine ‘marionette umana’ trova più risposte nell’opera ‘Eva l’ultima’ in cui una marionetta, evocata dall’amato di quest’ultima perché non soddisfatta del suo amore, incarna con il tempo gestualità tipiche dell’uomo. Eva si innamora della marionetta senza però sapere che, a muovere i ‘fili’, era Evandro (l’amato che lei lascia). Tuttavia lei trova superiori le abilità di Bululù, la marionetta, in confronto a quelle dell’uomo. In una scena che vede Eva assistere ad uno spettacolo di marionette, ella si chiede se quelle siano marionette vere o finte. Il dubbio di Eva era riferito alla ‘sua’ marionetta, la quale sapeva fosse finta, perché assumeva sembianze che non le appartenevano. L’idea di donna-manichino trova la sua parte nell’opera ‘Nostra Dea’, in cui Bontempelli crea una donna-automa che nasce dalla fusione delle idee del manichino. Nella protagonista, i fili sono rappresentati dai suoi svariati abiti, e non da qualcun altro. - Una metafora teatrale per un pubblico televisivo La commedia debutta per la prima volta nel’ aprile 1925 al teatro Odelscalchi di Roma. La protagonista era interpretata da Marta Abba e la regia era di Luigi Pirandello. Nella versione successiva diretta dall’ attore Silverio Blasi, si forma alla realizzazione del teatro in prosa in televisione, il quale avrà la fortuna di essere trasmesso a colori, e non in bianco e nero. Nel 1972, quando Rossella Falk accetta il ruolo da protagonista, la Compagnia dei Giovani da lei fondata si stava sciogliendo per problemi economici e tra i componenti. L’attrice dopo essersi diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, è a lungo diretta da Orazio Costa, da cui apprende l’utilizzo del corpo e della parola in modo logico, e Luchino Visconti, dal quale impara a rappresentare il nucleo emotivo dei personaggi da lei interpretati. Bontempelli, con ‘Nostra Dea’, fa percepire la realtà moderna. La storia si svolge nell’arco di una giornata e tratta due triangoli amorosi, uno borghese e l’altro più eccentrico. Tuttavia ciò che più segna questa opera è la concezione della protagonista, la quale gioca con le persone come fossero le sue personali bambole. Dea è una donna-automa che cambia il suo modo di fare, e anche alcune sfaccettature del suo carattere, in base agli abiti che indossa: ad esempio quando rimane con una sottoveste è inespressiva e rigida, al contrario di quando indossa il colore rosso, che le dona vivacità e una voce calda e squillante. -artistiche, e non su quelle direttive registiche. Il passaggio da un personaggio all’altro si basa su due elementi: il come pronuncia le battute e la sua postura. All’inizio della commedia, cosi come alla fine, Dea appare come un vero e proprio manichino usato per mostrare la biancheria intima. Quando è in queste condizioni lei è inerme e parla a monosillabi, quando invece è nuda non proferisce parola. La protagonista dell’opera rappresenta l’universale femminile che cresce di volta in volta secondo modalità disconnesse fra loro, e questo secondo Bontempelli rendeva possibile la rappresentazione del suo realismo magico. L’autore vuole che la scena scorri chiara e innocente, quasi fosse una commedia, perché è l’unico modo per far emergere il grande paradosso nascosto dietro l’opera. Benchè l’autore abbia sempre avuto un rapporto distaccato con il teatro, in questa opera è visibile l’atteggiamento meta teatrale della rappresentazione della poetica. La donna-automa si riferisce ad un nuovo tipo di attore, il quale non deve più ragionare o agire individualmente, ma deve essere guidato da un regista o dall’autore. - Il potere dell’immaginazione Parlando del mondo in cui doveva essere messa in scena l’opera, Bontempelli rende chiaro che l’elemento principale sia il dramma, ma specialmente il dialogo tra Marcolfo e Dea nel secondo atto: quando Dea è vestita di rosso, l’uomo non preferisce parola, come immobilizzato dalla sua audacia, al contrario quando arriva vestita di un grigio tortora, l’uomo parla come non aveva mai fatto prima. Tuttavia, quando Marcolfo copre con uno scialle Eva, esse diventa priva di coscienza a causa dell’assenza visibile dei suoi vestiti. Il dialogo tra i due continua grazie alle parole dell’uomo, e in queta scena, la tecnica recitativa di Falk, fu proprio continuare il dialogo abbassando di volta in volta il tono di voce, senza più emissione di parole. Marcolfo a quel punto racconta una novella di D’annunzio (il tesoro dei poveri), che finisce con la battuta: ‘’il tesoro dei poveri è un’illusione’’, frase che racchiude il senso più profondo dell’opera. Bontempelli voleva abbracciare, ai fini due parenti rocciose, le quali consentono una duplice interpretazione della fine del dramma, che riferirsi alla Sacra Famiglia che si è formata, oppure alle domande esistenzialiste che si pone Baldovino. L’immagine è strettamente surrealista e, secondo Marta Ragozzino, rappresenta anche il superamento di questo, poiché oramai si tratta solo di ricostruire la propria vita rifondando dei nuovi criteri fisici e scientifici. Lo spettacolo del 1978 non trova molti riscontri positivi, e tutti si trovano d’accordo a dire che lo spettacolo visivo non si può mettere in relazione con il senso diretta della commedia di Pirandello. - Il bon ton della ragione Alberto Lionello si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano e fin da subito inizia una formazione con le compagnie più famose degli anni Cinquanta, costruendosi una buona base per un repertorio comico-brillante in prosa, senza trascurare la commedia musicale. Nel 1960 incontro Luigi Squarzina ed entra a far parte del Teatro Stabile di Genova, con il quale rimarrà per sette stagioni. Qui approfondisce la sua interpretazione dei personaggi, sviluppando strepitosi ritmi e tempi comici che gli permettono di rappresentare le battute in maniera corretta, ma anche di avere un’autonomia creativa. Per Squarzina, Alberto Lionello, era il maggior interprete italiano della contraddizione. Quando interpreta Angelo Baldovino, le parole di Luigi sono messe in luce, poiché l’attore riesce a seguire la lettura ripartita da Pugelli ma anche quello di Pirandello, creando cosi delle frasi ‘a effetto mirate per smascherare l’ipocrisia della borghesia del Novecento. Lionello ha sapientemente interpretato ciò che lo scrittore voleva far intendere all’interlocutore: Pirandello ha dovuto più volte cambiare i lavori drammatici semplificandone la scenica che, a quei tempi, era legata al sistema dei ruoli. In particolare, pone molta importanza al personaggio ‘ragionatore’, il quale da portavoce dell’opinione più diffusa, diventa colui che la distrugge. Inoltre concepisce la figura del ‘polemico’ come severa e ostile alla morale comune. Tuttavia il suo tipo di teatro prende spunto dal repertorio degli anni Cinquanta dell’Ottocento, in cui la figura del ‘polemico’ viene rappresentata nelle opere di Dumas come un uomo borghese ironico e sarcastico che seduce il pubblico. Nel corso degli anni questa figura viene rivestita da una variante ‘nobile’ che commenta in chiave ironico gli episodi a cui lui è presente. Il primo ad interpretare questo figura fu Ruggieri che aggiunge alle battute anche dei gesti eleganti, il quale lo rendono la ‘musa’ di Pirandello. Va anche ricordato il tassello offerto da ‘Oscar Wilde’ che apre la creazione a personaggi meno equilibrati e destabilizzanti. Lionello rappresenta Baldovino in tre stadi differenti: il giudice e il tiranno, in cui si vede vestito elegantemente e composto, e l’uomo incoerente che segna il capovolgimento del personaggio. Lo scopo dell’attore è quello di ricondurre il personaggio sugli studi della doppia personalità. La recitazione è caratterizzata da un’estrema scioltezza di pronuncia, un’intensa espressività e un uso tecnico di pose e pause. Un’altra caratteristica rilevate sta nell’impostazione delle battute: articolazione perfetta pronunciate alla velocità di uno scioglilingua, quasi a non voler annoiare lo spettatore con dettagli inutili, per poi fermarsi sul concetto più relativo enfatizzandolo con il tono. 5. Le narrazioni epiche di Zanni e Marcolfa: Dario Fo e Franca Rame in Hellequin Harlekin Arlekin Arlecchino (1985) - Le origini storiche della maschera di Arlecchino Per il quattrocentesimo anniversario della maschera di Arlecchino, Dario Fo e Franca Rame, danno vita allo spettacolo di Hellequin Harlkin Arlekin Arlecchino che debutta il 18 ottobre 1985 al Palazzo del Cinema di Venezia. Lui nei panni di Arlecchino circondato da zanni che eseguono esercizi in stile circense, e poi un Prologo di trenta minuti in cui l’attore presente il personaggio che interpreterà. Dopo di che si presenta Franca Rame nei panni della servetta Marcolfa che intrattiene il pubblico mentre i tecnici preparano la scena. Verso la fine del racconto della Rame-Marcolfa, il Fo-Arlecchino torna con altri zanni e disturba la servetta con la ‘scena del palo’, ponendo cosi la fine al primo sketch. Il secondo atto si divide in tre episodi, rispettivamente I becchini, La serratura e L’asino e il Leone. Nei primi due atti i due protagonisti, con un ‘prologo’ della scena, costituiscono due esempi diversi di un rinnovamento alla tecnica di un assolo dell’attore/attrice e rendono lo spazio drammaturgico accessoria una parte fondamentale. Infatti i ‘prologhi-monologhi’ coprono la durata dell’intero primo atto. Dario Fo è nato a Varese e dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, entra subito nel mondo dello spettacolo e nel corso dei decenni, affiancato da Franca Rame, rivoluzionerà il teatro comico della penisola prima con uno spirito provocatorio e dopo con l’invenzione di una drammaturgia corale, l’attore interpretava con voce e corpo tutti i personaggi. Lo spettacolo chiave è ‘Mistero buffo’ (1969). Alla fine della stagione degli anni Settanta, il contesto politico è dichiarato nella scrittura ‘Morte Accidentale di un anarchico’, tuttavia la costante ricerca a valicare il confine della storia, vede Dario Fo a rivisitare in senso tradizionale lo spettacolo di ‘Hellequin Harlekin Arlekin Arlecchino’ con la prassi dei Comici dell’Arte di fine Cinquecento. La figura di Arlecchino viene elaborata grazie ad una ricerca documentale e drammaturgica in collaborazione con gli specialisti della Commedia dell’Arte a partire già dal titolo dell’opera che richiama le varie congetture etimologiche date alla maschera. L’intento dichiarato da Fo era quello di dare vita ad un personaggio più vicino all’Arlecchino delle origini (quello di Martinelli del 1585, a Parigi). Il nome di Tristano Martinelli compare per la prima volta in un atto di polizia stilato ad Anversa, in cui l’uomo si trova costretto a giustificare la sua presenza nelle Fiandre (c’erano guerre di religione). Lui dirà di trovarsi li già da tempo con una compagnia che recitava commedie e simili passatempi per divertire i mercanti. Con questo documento, è strettamente legato un quadro in cui compare una figura che potrebbe essere collegata a Martinelli, figura che prendeva già le sembianze di Arlecchino. Lo spunto da cui prende ispirazione Fo, per il costume di scena, va a riferirsi a una serie di quattordici incisioni popolari dedicate ad Arlecchino, ma anche alle xilografi che contengono ritratti del personaggio con dei vestiti a macchie, elemento fondamentale negli abiti che utilizza Fo. Databili intorno agli anni Ottanta del Cinquecento, le immagini di Arlecchino sono state stampate presumibilmente dai fratelli Martinelli a scopo pubblicitario. Dalle foto stampare si può intravedere un Arlecchino che preferisce esibirsi privatamente, come farà appunto per la maggior parte della carriera. Il personaggio viene inteso come una ‘variante libera’ e Dario Fo utilizza questa espressione per scindere l’immagine di Arlecchino da servo (Goldoni, 1947) per privilegiare l’idea del ‘picario’ (più personaggi). - Reinvenzione novecentesca di una maschera L’invenzione scenica proposta da Fo, prende spunto dall’Arlecchino-Martinelli che era associato ad un clown. Per poter ricreare i ‘lazzi’ (piccole azioni nelle scene) si inserisce nell’opera, elemento che riceverà molte critiche poiché, secondo i recensori, era presente troppa narrazione nell’opera. Tuttavia Laura Peja sfaterà questa cosa dichiarando che nell’Intervista c’è una vocazione teatrale che tratta la comunicazione tra individui. Il racconto si può riassumere con le visite, tre in totale, che Marco fa ad un uomo illustre per ottenere una sua intervista. Le prime due volte Marco non troverà Gianni Tiraboschi, ma la moglie Ilaria lo accoglie e intrattiene. La terza volta, trovandosi nei pressi del casolare, sbircia per vedere se la donna è in casa ed è li che vede il Sig.Tiraboschi. il casolare è frequentato anche dalla sorella dell’uomo e dalla loro vicina, che fa loro le pulizie. Le vicende iniziano nell’anno dell’assassinio di Moro e terminano dieci anni dopo: il primo atto agosto del 1978, il secondo nell’inverno di un anno e mezzo dopo, e il terzo nella primavera di dieci anni dopo. Lo scorrere del tempo è un aspetto fondamentale nelle opere ginzburghiane, e la stessa autrice ammette che adora far passare tanti anni, poiché le permette di inserire all’interno del dramma delle caratteristiche dei romanzi. L’argomento principale dell’opera è la conversazione tra Marco e Ilaria fuori scena, ma soprattutto i due diversi universi emotivi che caratterizzano i personaggi, infatti non hanno nulla in comune se non la stima verso il Sig.Tiraboschi. L’intervista di Marco non diventerà mai vera, ecco da dove nasce poi il termine intervista-fantasma. L’uomo di trent’anni è un giornalista squattrinato che però credo molto nel suo e lavoro e si identifica come un uomo ‘vecchio-stile’; Ilaria è una donna rimasta orfana e cresciuta dalla donna che non ha ancora capito la sua vera passione, quindi si occupa unicamente di se stessa; Il Sig.Tiraboschi è uno di quei personaggi assenti ma fondamentali che viene descritto come generoso da Ilaria, e come un esempio da seguire da Marco; La sorella di Tiraboschi, Stella, all’inizio è una ragazzina di diciassette anni da cui cogliamo le sue caratteristiche grazie a parole altrui. Il suo scopo, come quello della signora Olimpia, la vicina, è minimo e diventa solo un argomento di conversazione fra i due protagonisti; Le altre due figure assenti sono l’ex moglie di Tiraboschi e Lucianella Calabrò, donna che sarà anche moglie di Marco per un periodo. - Gradazioni di una commedia in tre tempi Nel primo atto, tra Marco ed Ilaria, pur non essendoci un rapporto tanto da molto, le confidenze che si scambiano sono intime e le parole fra loro due sono crude ed intrise di verità (es. rapporto tra Ilaria e Tiraboschi). Un altro aspetto fondamentale in questo atto è la fascinazione di Marco nei confronti di Stella e i progetti di ambizione futura dei protagonisti: Ilaria vuole andare in Australia e Marco aprire una rivista con un suo amico. Il secondo atto spazza via questa visione di speranza sostituendola con i tradimenti, infatti tra Marco e Stella era nata una storia, lui voleva anche sposarsi, ma lei vedeva la loro relazione come qualcosa di cui non riusciva a sbarazzarsi; Ilaria invece, poco prima di partire, ha scoperto che il suo uomo si era innamorato di una giovane donna, Lucianella Calabrò. Invece che partire, sotto suppliche dell’uomo, Ilaria ha preso un appartamento a Firenze per essergli più vicino quando la sua amante si sarebbe stufata di lui. Alla fine del secondo atto i protagonisti sono cambiati poiché Ilaria si è arresa all’attese e invece Marco è diventato un uomo pacato che ascolta gli sfoghi della donna dando commenti dal saporo amaro. Nel terzo atto Marco torna per una visita di cortesia: lui si è arricchito diventando sceneggiatore e Ilaria traduce testi francesi mentre bada ad un Tiraboschi depresso dopo l’abbandono di Lucianella. A queste parole, Marco, si sente in colpa poiché la donna ora è sua moglie e Ilaria non lo vede più come il ragazzo ingenuo del passato. Il ricordo è un aspetto a cui i due protagonisti si aggrappano, infatti pur avendo progetti futuri, il passato li pervade. Loro due, a differenza di Tiraboschi che non ricorda nulla, rimembrano ogni dettaglio, seppur minimo. Ogni personaggio subisce un cambiamento, e quest’ultimo si può raffigurare con il caffè che veniva sempre offerto a Marco: la prima volta il caffè scarseggiava, la seconda volta non era di qualità e la terza volta non riesce a berlo. Nonostante il rimpianto, la commedia si concluderà con un lieto fine poiché Gianni concederà a Marco di intervistarlo. Ilaria da precise indicazioni all’ormai ex giornalista, raccomandandogli di comportarsi com’era una volta. Nell’agosto del 1988 la stesura della commedia è pronta e l’anno successivo sarà messa in scena al Teatro Grassi di Milano. Sarà prodotto dal Piccolo Teatro di Milano – Europa, con le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Luisa Spinatelli. Giulia Lazzarini, nella commedia Ilaria, sarà affiancata da Alessandro Haber che rappresenterà Marco. La trasmissione televisiva elaborata da Alberto Andreis sarà messa in onda il 27 agosto del 1990, con gli stessi attori protagonisti. Per rappresentare lo spazio scenico c’era solo una regola da rispettare, ed era l’ambientazione, la quale doveva essere raffigurata da una vecchia casa di campagna. Per l’arredamento e altri dettagli ci si doveva basare tramite le conversazioni dei protagonisti. La Ginzburg diceva di preferire le scene semplici e la scelta per l’arredamento sarà lineare con i suoi gusti. Nella trasmissione televisiva, la vecchia casa di campagna, si trasforma in una vecchia casa borghese. Nella scenografia c’è un elemento di distinzione che si nota negli atti: nel primo le finestre sono aperte con le imposte semichiuse, nel secondo i vetri sono appannati per far intendere il freddo del periodo e nel terzo atto le imposte sono aperte per far entrare la brezza primaverile. Tutto ciò era per far sostenere l’illusione del tempo che scorreva L’intervista è un’opera di trasformazione che si vede anche sui personaggi, i quali in base al passare del tempo cambiano atteggiamenti, modulazione della voce, controllo dei gesti e dei movimenti: Ilaria nel primo atto è scomposta, con una camicia da uomo e i capelli in disordine, eppure ‘riempie’ la stanza con la sua presenza. Nell’ultimo atto invece, pur essendo più matura, viene messa in un angolino, rannicchiata su sé stessa. Marco invece, inizialmente, pur essendo un ragazzo ben educato e composto, viene inghiottito dalla presenza di Ilaria, invece nell’ultimo atto è un uomo di successo, elegante e con un po' di calvizie, che si erge su Ilaria con più posizione. La Ginzburg non offre didascalie su come mettere in scena la commedia, quindi la soluzione scenica, registica e attorica va ad attribuirsi a Battistoni. Il regista, secondo la critica, ha costruito un impianto in linea con il testo della Ginzburg dando giusta attenzione alle scene più importanti: lo stesso scambio di battute che avviene tra i protagonisti quando si incontrano, viene accentuato anche dalla stessa ripresa e inquadratura, sviluppando lo sguardo registico dall’esterno all’interno. - Dal grande al piccolo e ritorno: la parola, il gesto e il silenzio Giulia Lazzarini si forma da giovane al Centro sperimentale di cinematografia a Roma e nel 1955 si lega al Piccolo Teatro di Milano, dove apprende disciplina, creatività e una tecnica che si fonda sul ritmo e sulla concentrazione. Reciterà Per la rappresentazione di Jacobs e Wenicke si fa riferimento ad una registrazione video del 1996 in cui variano alcuni cantanti ma non quelli protagonisti né la messinscena. L’allestimento proposto non si avvale di più macchinari o di troppi lavori, come era stato fatto per la rappresentazione di Cavalli-Faustini, ma si svolge in un’unica scatola scenica che rappresenta allegoricamente le costellazioni, anche quello dello zodiaco. Ma la parte più importante è la rappresentazione dell’Orsa Maggiore: in alto a destra, dove dovrebbe trovarsi la stella, si ha invece una grande apertura che, al momento in cui Calisto diventa costellazione, viene coperta dalla sagoma di un orso che ‘ascende in cielo’. Il passaggio dal Prologo alle vicende successive è scandito da una sorta di sipario sul limite del proscenio che, una volta tolto, permette più profondità alla scatola scenica. Il piano calpestato dai cantati è di un rosso accesso, probabilmente per ricordare la selva ardente. Questa impostazione scenografica cambia solo in due casi: 1. Quando il giovane si addormenta, sulle costellazioni viene proiettato un reticolato numerato 2. Quando Calisto diventa costellazione il palcoscenico è immerso in un brillar di stelle I personaggi entrano ed escono di scena grazie ad un sistema di porte sparse nel fondale, mentre per gli dei ci sono piattaforme che scendono e risalgono. Le parti più erotiche sono ‘consumate’ sotto il livello del palcoscenico in cui si accede tramite sei botole e ne sono presenti altre due per mettere in scena gli oggetti. L’unica variante scenica rilevante si ha nella scena in cui Calisto è assetata dopo la caduta del carro di Febo ed inizia a cantare fino a quando non compare una sorgente d’acqua (tela argentata). Dopo di che, la tela trascinata da fili di nylon, viene utilizzata dall’attrice per coprirsi come se nuotasse in un fiume. Ed è qui che capiamo che, ogni oggetto in scena, può assumere le valenze significative descritte nel testo dell’opera o dall’allestimento dei suoi autori. L’elemento registico più importante lo vediamo nell’innovazione degli attori cantanti, i quali recitano con guanti bianchi e maschere a mezzo volto traendo ispirazione dal carnevale veneziano. - La Commedia dell’Arte come chiave ermeneutica Nel libretto di Faustini i conflitti del dramma sono schematizzati nelle due coppie di amanti intricate e complicate, e dalle figure secondarie in cui possiamo osservare diverse psicologie. L’impianto drammaturgico elaborato viene interpretato da Jacobs – Wernicke in chiave gran parte comica e ammiccante, al fine di evidenziare i doppi sensi contenuti nell’opera. Infatti non c’è da stupirsi se i due ritornino ad utilizzare la Commedia all’improvviso, poiché quest’ultima collaborava molto con i musici. Per la messinscena ricercano quindi non solo cantanti, ma anche qui sapeva muoversi in modo acrobatico e funambolico; cosi ogni personaggio fu collegato ad un altro (es. Giove ad un capitano, Mercurio diventa uno zanni, il satiro ad Arlecchino etc…). Le figure femminili invece erano assimilate alle innamorate, fatta eccezione per Linfea, personaggio desideroso di scoprire i piaceri dell’amore, che viene letta come una maliziosa servetta. Non ci sono testimonianze su dove trovino l’ispirazione per i costumi di scena, ma le scelte interpretative derivano dalle 50 immagine inserite all’interno dei due volumi ‘Masques et bouffons’. Le nuances dello spettacolo si riferiscono alle indicazioni sui ‘colori dei costumi dei personaggi dell’antica commedia italiana’ poste dall’autore alla fine dei volumi, e Jacobs – Wernincke rendono omaggio ai tipi e alle tinte descritte. L’abito dei personaggi maschili è elaborato e segue un codice peculiare, cosa che non succede sui costumi delle donne, le quali seguono le regole di andare in scena con abiti della moda del tempo. Va posta particolare attenzione al costume di Linfea, il quale è provocatorio, con scollature profonde e con la lingerie in vista. La scelta della Commedia dell’Arte come rappresentazione dell’opera, porta gli attori a dover recitare facendo anche diverse acrobazie. Le figure di Mercurie e di Satirino (il satiro) sono quelle con soluzioni acrobatiche sorprendenti: il primo compare in scena saltando da una finestra posta a tre metri sopra il palcoscenico, il secondo canta per la maggior parte sospeso, usando la scala anche come strumento di destrezze sempre nuove. Durante lo spettacolo, tramite archi, fiori o spade, è sempre rappresentata la figura del membro eretto che si presenta nell’incontro tra la Linfea e Satirino. Durante l’assolo femminile, l’attrice rimane in mutande e mima con dei fiori il coito. In tutto ciò Satirino la guarda, e all’attacco del duetto, ruba un fiore fra le gambe della donna in gesto di offrirsi come amante. Jacobs – Wernincke faranno simulare anche un amplesso in scena in cui però Satirino si addormenta facendo scatenare la rabbia in Linfea, la quale scaccia l’uomo con una scopa. Nel secondo incontro quella stessa scopa sarà usata come un fallo e come cavallo immaginario con cui Satirino insegue la donna. - Un repertorio gestuale di tradizione al servizio del canto In tutti gli allestimenti della Calisto, il direttore musicale deve attribuire un’importante scelta delle parti poiché, ad esempio, quando Giove si traveste da Diana canta in falsetto per nascondere la voce grossa che contraddistingue l’uomo. Marcello Lippi interpreta Giove: si è diplomato al conservatorio Paganini di Genova e affina poi i suoi studi di tecnica vocale. Nel 1988 debutta come baritono lirico ma ciò che più colpisce nella sua interpretazione del signore dell’Olimpo è la perizia gestuale all’antica. Infatti comunica, con sguardi o anche con gesti, con gli spettatori creando cosi un’atmosfera intensa. Le tecniche recitative sono state ‘costruite’ da Lippi assieme a Jacobs – Wernicke e non vanno a sminuire la purezza del canto, ma solo ad accentuarla. Il repertorio gestuale di recitazione e il patrimonio comico-farsesco, dimostrano come gli interpreti della Calisto lavorino in scena a tutto tondo con il corpo del cantante. 8. Il fantasma redivivo contro il disincantato filosofo dell’eros: Virgilio Zernitz in Betìa (1994) - Un allestimento atemporale Nella primavera del 1994, Gianfranco De Bosio ritorna a lavorare sulla Betìa di Beolco. Il nuovo spettacolo è prodotto dalla Compagnia Goldoniana, dall’Estate Teatrale Veronese che collaborano con il festival di Borgio Verezzi. A luglio debutta al Teatro Romano di Verona. La messinscena è concepita in due atti, e chi scrive ha la possibilità di seguire le fasi di concezione e preparazione dell’allestimento. Per l’analisi della rappresentazione si fa però riferimento alla versione televisiva redatta da Francesco Manente nel 1995, che la propone in un ambito invernale e con qualche cambiamento nel cast. Lo spettacolo si apre con un canto di alcuni giovani, non solo da Zilio come voleva l’opera, tuttavia la canzone è simile e non viene storpiata particolarmente. La maggiormente sulla dialettica e meno sulla metafora. Le battute ironiche presenti nel testo della commedia le mantiene, andando ad eliminare però quelle più grevi, mentre conserva le allusioni e i doppi sensi sessuali di cui la parte di Bazarelo è piena, rendendoli però meno volgari. Tuttavia c’è un gesto molto esplicito che il regista fa fare al personaggio, sotto didascalia riferita a Barba Scati di Zorzi, ovvero toccare i genitali al proprietario della taverna. Una variazione testuale compiuto da De Bosio definisce la chiave di lettura del personaggio: quando Zilio chiede all’amico se abbia mai provato amore, esso nel testo di Beolco dice di ‘non poterlo provare’, mentre nella rappresentazione di De Bosio afferma di ‘non volerlo provare’. Questo passaggio fa capire perché il personaggio da più importanza alla sensualità. Grazie a queste modifiche capiamo perché il personaggio disturba maggior mente la figura di Nale: infatti dopo i ripetuti silenzi di questo, Meneghelo lo punzecchia dicendo espliciti riferimenti alla moglie. Il personaggio rivisitato da De Bosio vede nel sesso la cosa principale, completamente lontano dall’amore, e lo si può anche vedere nelle sue ultimissime battute in cui afferma che ‘potrò scopare senza amore e farmi comunque qualche scopata’. - Un giocoso viaggio agli inferi Dopo una fase condotta negli anni Cinquanta a Venezia, Virgilio Zernitz, collabora con i migliori registi italiani dell’epoca; dal comico al drammatico, dal leggere al brillante, fino all’operetta. Precedentemente aveva già lavorato con De Bosio, ma l’allestimento di Betìa del 1994, gli permette di incarnare una figura (Nale) dalla moralità discutibile con un carattere loquace e sfacciato. Nale è un ricco possedente che aiuta l’amico Zilio a conquistare Tania solo perché cosi lui avrebbe goduto della donna. Zernitz qui usa dei registri tonali medi e bassi con un ritmo serrato o lento, a seconda di cosa comunica il personaggio, con una dizione limpida. Inoltre aggiunge anche delle frasi per creare effetti ritmici incisivi e avvolgenti. Zilio sollecita l’amico a raccontare come lui abbia fatto a conquistare la sua di moglie, e Nale gli racconta del corteggiamento con i soldi e con dei doni. Il tono adattato dall’attore è morbido con l’uso di espressioni liriche. Zilio rende presente al ricco che hanno una condizione economica diversa, cosi Nale gli consiglia di conquistare Tania con una strategia erotica e qui il tono di Zernotz si fa più duro e deciso. Il momento in cui però l’attore dimostra appieno la sua recitazione è il dialogo del quinto atto che fa con Tania in cui lui si finge un fantasma. Infatti Zilio, dopo aver scoperto lo scopo dell’amico, lo colpisce facendolo svenire e la donna lo crede morto, cosi lo copre con un lenzuolo. Quindi si presenta alla donna come uno spirito tornato dagli inferi e scherza con lei su come sia la ‘vita’ laggiù. Il pezzo è intriso da elementi dell’inferno dantesco con un fondo amaro: infatti all’inferno Nale può vendicarsi con il soldato che gli aveva stuprato la moglie, quindi la visione che l’uomo da degli inferi immaginari è incentrato sulla vendetta dei contadini. Laggiù la sola figura del dannato capace di scappare dalle regole è il buffone Tagliacalze. Proprio per questo elemento, il discorso tra Nale e Tania, sarà affrontato dall’uomo con le doti di un buffone, diventando fantasioso e inventivo. Quando riprende conoscenza fa spaventare la donna con un tono più solenne e si avvolge nel lenzuolo, raccontando cosa succede quando l’anima si stacca dal corpo. Quando lo interrogano per sapere come si mangia, lui dice di essere più preoccupato dal caldo e si butta in un mare di escrementi, facendo gesti ridicoli. Il punto culmine del dialogo rimane il passo relativo all’evocazione della figura del buffone che viene recitato da Zernitz con voce soave e un volto angelico, su uno sgabello. La moglie qui dubita di quanto le viene detto, quindi l’uomo salta dallo sgabello accovacciandosi a terra per ‘sentire’ cosa gli dicono dagli inferi. La scena si chiude con una maledizione che si lanciano Tania e Nale, che però verrà ‘dimenticata’ quando, dopo che Tania scappa con Meneghelo, questo si aggiungerà attivamente alle loro attività sessuali. 9. Un angelo-gangster invidioso e struggente: Ken Ponzio in Lucifero (1999) - La fortuna italiana di un classico olandese Nel 1822 a Parigi compaiono per la priva volta opere dei poeti drammatici neerlandesi tradotti in francese. Le due tragedie più rappresentative sono quelle di Vondel, in particolare Gysbreght van Aemstel e Lucifer. Lo scrittore si è convertito agli ideali umanistici e nel 1600 si è evoluto da drammatico antimondano a drammatico moderno. Le sue opere nascono dopo apprendimenti di latini e greco, dopo la traduzione di due tragedie e un fallimento di un progetto di scrittura di un poema epico. Nella scrittura di Gysberght il debito verso il libro da cui si ispira è poco rilevante, mentre in Lucifer l’autore compie studi teologici e teatrologici per orientarsi verso un modello classicista simile all’aristotelico, sia dal punto di vista strutturale che nella rappresentazione dell'eroe protagonista. Nel Gysberght mette in scena la caduta della città di Amsterdam, mentre in Lucifer si sofferma sulla ribellione dell’arcangelo dopo la decisione della Divinità di mandarlo in esilio. Il soggetto biblico presente nell’opera, permette che essa sia capibile nei paesi che condividono le stesse radici cristiane. La sua prima opera venne utilizzata per inaugurare il teatro della Repubblica delle province unite nel 1638 segnando una straordinaria tradizione. L’opera di Lucifer invece viene rimossa dalle scene dopo solo due rappresentazioni nel 1654, tuttavia avrà un grande successo nel mondo editoriale. L’opera però rimarrà impressa nella memoria culturale fino all’età del romanticismo dove Vondel divenne un’icona nazionale nel Regno dei Paesi Bassi. La collana francese in cui le sue opere vengono pubblicate nel 1822 punto a far conoscere ai lettori i tratti culturali e teatrali delle più importanti nazioni europee (Russia, Cina ed India). Nel volume dedicato al teatro olandese, il traduttore Cohen, mette in evidenza come, la drammaturgia dei Paesi Bassi, si sia orientata molto più velocemente rispetto ai francesi, verso un modello antico. Tuttavia si sottolinea come le pieces non si adattavano del tutto con il gusto del pubblico francese del diciannovesimo secolo, infatti il teatro olandese dava più importanza alle parole che alle azioni. In Italia si inizia a tradurre e a mettere in scena opere del teatro francese, tuttavia nessuna delle traduzioni di Cohen vennero proposte nella penisola. La prima resa si un testo teatrale di Vondel, quello di Lucifer, saranno rese note alla fine del Novecento. Nel 1960, Luigi Calvo pubblica per le Edizioni Paoline di Pescara, la traduzione di Lucifer basata su quella di Cohen. Tuttavia sarà poi rivisitata da Jean Robaey prendendo in riferimento il testo di Vondel. Nel 1996 propone un’opera più colta e raffinata per l’editore Ariele di Milano, il quale proponeva le opere ad un’alta elite di lettori. creativo intrapreso in sinergia con l’allestimento teatrale, cosi da creare un nuovo paradigma. Parise definisce l’opera più un dialogo da leggere che da rappresentare: la piece nasce dalle intuizioni connesse al racconto del 1958 ‘La moglie a cavallo’ dove si presenta una riflessione morale sul rapporto Uomo-Donna. L’obiettivo era quello di dimostrare come, nella relazione amorosa, l’unico a soccombere sia l’Uomo. ‘L’assoluto Naturale’ viene concepito tra il 1962 e il 1963, ma viene pubblicato con la Feltrinelli solo nel 1967 poiché il tema affrontato avrebbe costituito un aggiuntivo turbamento ai rapporti interpersonali di Parise, il quale aveva da poco divorziato. Tuttavia c’era stato un precedente tentativo di pubblicazione, nel 1964, per Einaudi, con un intreccio tramite Italo Calvino che giudicò l’opera cogliendo i significati celati dietro essa. Le caratteristiche strutturali dell’Assoluto Naturale ricordano sia una matrice strindberghiana sia un dialogo filosofico. L’opera si divide in nove quadri diversi con un titolo significativo per ciascuno in cui, due figure anonime, chiamate solo Uomo e la Donna, discutono sui termini universali dell’amore. Sono affiancati da altri personaggi: un’altra figura maschile ‘muta’, con un carattere borghese, e quattro ideologie femminili chiamate anche, in maniere dispregiativa, come le Vecchie. 1. Nel primo quadro, L’Incontro, il tono è avvincente e l’attrazione che i protagonisti provano uno per l’altra si esplica con una seduzione verbale. Qui appare chiaro come per l’Uomo si tratti di una ‘cosa ideale’, mentre per la Donna è ‘naturale’. 2. Nel secondo quadro, L’accoppiamento, il tono del dialogo diventa didascalico- celebrale; c’è una dettagliata descrizione del piacere provato che supera l’esperienza concreta in sé. Accanto a questo tema di ‘divoramento’ si contrappongono le ideologie della cultura maschile, e quella sull’amore femminile. 3. Il terzo quadro, La gelosia, inizia con un presunto tradimento dell’Uomo e la reazione della Donna si riferisce più ad un pensiero astratto. 4. Nel quarto quadro, Il litigio, si assiste ad un match sado-masochista che condiziona un nuovo erotismo ma anche la violenta invettiva della Donna contro le idee dell’Uomo. 5. Nel quinto quadro, Gli oggetti, la discussione dei personaggi si estende al concetto di proprietà e ruolo dell’individuo nella società. Il fatto di non riuscire a possedere l’Uomo totalmente, fa capire alla Donna che lui non vuole essere il classico ‘uomo medio’, che pensa a sua moglie e ai volari coniugali. 6. Nel sesto quadro, Neanderthal, la relazione precipita. Il tradimento della Donna, spinge l’Uomo ad abbassarsi ai voleri di quest’ultima. 7. Nel settimo quadro, La lezione, si concepisce una parentesi sadico-onirica popolata dalle figure femminili, Donna e le Vecchie, trasvestite da insetti che mirano ad annullare la coscienza dell’Uomo per trasformarlo in un ‘uomo medio’. 8. Nel penultimo quadro, Il concetto di schiavitù, l’Uomo viene incatenato ai polsi e alle caviglie, e la Donna, attraverso un dialogo sui temi della libertà e sulle convenzioni sociali, gli dimostra come l’unica via di salvezza sia abbassarsi alla mediocrità. 9. Nell’ultimo quadro, L’eliminazione, l’Uomo accetta di morire per scappare a questo destino ma il risultato sarà inutile. Da questo concetto appare chiaro come Parise abbia un pensiero discordante, riguardo la società di massa, rispetto a tutti gli altri. Per lo scrittore la figura donna-insetto infatti rappresenta un ‘limite’ della libertà. Alberto Mantova recensisce l’opera dicendo che la riduzione dell’uomo all’animale rappresenti un moralismo amaro e polemico, e la misoginia presente nella piece, sia solo uno sfogo personale dell’autore. Nel ‘Padre’, ciò che porta la coppia a scontrarsi, riguarda l’educazione della figlia. La vicenda si svolge alla luce della soggettività del protagonista, il quale viene spinto dalla moglie ad un su stesso omicidio-psichico per dimostrare la forza femminile. Questo concetto si rintraccia anche nell’Assoluto Naturale quando appunto la Donna spinge al suicidio L’Uomo. Parise prendere una chiara posizione sulla crescente società di massa dimostrando che non c’era da nessun lato libertà di scelta e che quindi i soggetti sarebbero morti. - Un progetto radiofonico come studio di mise en scène Nonostante il testo sia stato definito impresentabile in scena dallo stesso autore, nel 1968 viene rappresentato in prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato. L’indicazione data dall’autore di rappresentare una scena inesistente e vuota viene rappresentata egregiamente, e la scenografia fredda diventa quasi una cornice. La presenza di divani geometrici e letti ‘freddi’ danno un sapore avveniristico. Per quanto riguarda i costumi se ne inossano diversi a seconda della scena: Valeria Moriconi (la Donna) ne inossa 9 diversi. Dopo trenta anni, nel 1998, una nuova versione debutta a Gubbio e viene anche pubblicato un opuscolo dell’opera con gli appunti della mise en scène, con il copione di Parise e quello dello spettacolo. Il volume propone al lettore una stesura dell’opera particolare poiché permette di confrontare l’ultimo testo edito di Parise e l’elaborazione teatrale. Per quanto riguarda l’impianto visivo era di un bianco accecante e i personaggi con i loro costumi colorati assumono posizioni innaturali e immobili, illuminati da luci crude. Nello stesso anno viene messo in onda su Radio Tre un adattamento radiofonico dell’opera con gli stessi attori e registi. Il progetto Teatri Alla Radio negli anni 1997 – 1998 anticipa un ritorno di massa della drammaturgia radiofonica. Il piano esecutivo si articola un cartellone pubblicitario di 35 serata ogni venerdì sera su Radio Tre e una selezione di 15 testi che affrontavano temi femminili, ogni sabato pomeriggio, su Radio Due. Le commedie proposte avevano una durata massima di un’ora e mezza e i tempi di lavorazione erano circoscritti in una settimana di montaggio e una di registrazione. Da questi concetti possiamo capire come la concezione di un radiodramma preceda il debutto dello spettacolo ma anche che il lavoro condotto per la versione radiofonica abbia aiutato ad una preparazione scenica. Le conferme di ciò che è stato appende detto arrivano da un articolo di Rodolfo Di Gianmarco, il quale informa come l’impegno della Guzzanti, di Tiezzi e di Lombardi, abbia dato la possibilità di usare la voce in modo creativo e di tradurre lo spettacolo solo con le voci vero e proprio. Un’altra conferma viene rilasciata da un’intervista di Tiezzi e da informazioni data da Lombardi. Lo spettacolo radiofonico diventa il tramite con cui creare successivamente l’allestimento teatrale in cui la parola restava sempre il focus della scena. Il processo di realizzazione fa intendere che siano state proprio le voci a dare corpo allo spettacolo. Un grande contributo delle analisi ci viene fornito da un volume curato da Lombardi per le Edizioni l’Obliquo, in cui era possibile visionare il copione di Parise dentro delle parentesi, e la nuova versione scritta invece con un carattere in grassetto. Nel nuovo copione è presente una notevole riduzione rispetto al testo originale poichè doveva acquistare più velocità. Tuttavia le versioni teatrali e radiofoniche presentano una consistente consonanza anche se talvolta alcuni passi vengono tagliati per esigenze oppure alcune frasi vengono dette da un personaggio diverso. La variazione più interessante si ha nelle battute finali
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