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Riassunto del libro "Cromorama" di Riccardo Falcinelli, Sintesi del corso di Comunicazione Grafica

Riassunto del libro "Cromorama" di Riccardo Falcinelli, con integrazione degli appunti presi a lezione e disegni del libro.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 28/04/2023

laliuninsubria
laliuninsubria 🇮🇹

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Scarica Riassunto del libro "Cromorama" di Riccardo Falcinelli e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! Pag. 1 di 58 RIASSUNTO DEL LIBRO “CROMORAMA” DI RICCARDO FALCINELLI Come il colore ha cambiato il nostro sguardo Einaudi 2020 PRIMA PARTE: SGUARDI GIALLO INDUSTRIALE LA SOCIETA DEL DESIGN Oggi la maggior parte degli oggetti con cui abbiamo a che fare viene prodotta in serie, ovvero fabbricata e messa in commercio con un grande numero di esemplari identici. Questo concetto non riguarda solo gli oggetti, ma anche i programmi televisivi, i videogiochi, i film etc. La società delle immagini è caratterizzata dalla diffusione della moltiplicazione dell’oggetto singolo tramite, mezzi di riproduzione. Ciò non significa che non esistono più pezzi unici, ma semplicemente non sono più nella norma, anche per una questione economica e questo riguarda anche gli oggetti ‘naturali’ come frutta e verdura. Ad esempio molti frutti prima di essere messi in commercio vengono controllati e selezionati, per questo sugli scaffali noi troviamo solo arance rotonde e perfettamente arancioni. Così facendo l’industria standardizza la produzione e senza rendercene conto noi impostiamo la nostra mente su quello che ci viene mostrato e tutto ciò che non segue quelle linee lo concepiamo come errore. Possiamo notare come anche gli oggetti fatti a mano, ad esempio le statuine in legno africane, vengano prodotte tutte uguali, nonostante siano lavori di persone singole e non di un’industria. Arriviamo quindi alla considerazione che il design, attraverso l’iterazione di idee e di modelli, proietta delle rappresentazioni che inizialmente arrivano al nostro sguardo e poi si insidiano nella nostra mente. Per questo il design è un insieme di discorsi, di saperi e di comportamenti sociali accomunati dalla massa. Un ruolo fondamentale l’ha svolto l’invenzione della grafica che ha portato nuovi modi per pubblicizzare il prodotto in diversi ambiti. ESEMPIO: LA MATITA GIALLA Grazie alla storia noi sappiamo che le matite come le conosciamo noi, sono state introdotte nel 1790 in Francia quando Nicholas-Jacques Contè decise di utilizzare graffite in polvere, decisamente meno costosa, mischiarla con l’argilla e impacchettarla nel legno. La prima matita dipinta esternamente fu introdotta all’Esposizione universale di Chicago dove la Koh-I-Noor decise di coprire l imperfezioni del prodotto con della vernice gialla. Secondo alcuni il colore è una scelta nazionalistica, ovvero per l’Impero Austroungarico dove l’azienda aveva sede; per altri invece è una scelta metaforica che riguarda la Cina, da cui proviene la graffite ed è il colore della famiglia imperiale. L’idea ebbe molto successo e oggi, quasi centotrent’anni dopo noi utilizziamo le stesse matite, dipinte nello stesso modo. Qualche anno fa, durante un'indagine di mercato in ufficio americano, vennero proposte delle nuove matite, alcune gialle alcune verdi. dopo una settimana, venne chiesto agli impiegati quale delle due preferivano, la maggior parte si lamentò di quelle verdi per svariate motivazioni. Nemmeno a dirlo, le due matite erano identiche, cambiava solo la vernice esterna. Nella società attuale quindi, il colore non è solo una sensazione, il colore spesso un'idea un'aspettativa che rappresentano determinati oggetti tanto che si arriva al punto che è difficile pensarli in modo differente. Da questi ragionamenti si comincia a intuire come si costruisce l'immaginario cromatico: fare un oggetto di un certo colore puoi incontrare o meno il consenso del pubblico, ma se lo incontra inizia a vivere nella nostra mente e nel giro di qualche decennio quel colore diventa una categoria attraverso cui giudicheremo tutti gli altri oggetti dello stesso tipo. Tante abitudini, come ragionare su un colore caldo oppure freddo, bisogna fare un salto indietro e provare a raccontare che cosa è stato il colore per chi è vissuto prima di noi e che cosa ha portato a utilizzare il colore nel linguaggio visivo e nel commercio. Quel che segue è la storia del nostro sguardo moderno e di come si è formato. Pag. 2 di 58 ROSSO UNITO Da un punto di vista tecnico la tinta unita è l’aspetto uniforme di una superficie in cui riconosciamo lo stesso colore in ogni suo punto. Nella quotidianità diciamo la parola tinta dando per scontato che sia unita, ma non sempre la nominiamo a proposito di qualcosa che lo è davvero poiché ormai è una categoria con cui pensiamo al colore in modo generale. La creazione di pezzi unici è per lo più contraddistinta da tinte non unite poiché il colore risulta disomogeneo su ogni pezzo prodotto. Per far capire la complessità della tinta unita andiamo a pensare ai quadri classici dove il colore penetra nella tela e il colore risulta pastoso, ma allo stesso tempo traspaiono il colore sottostante attraverso la tecnica della velatura. Nel mondo antico la tinta unita è impossibile o difficilissima produrla, mentre l’industria moderna ha la tendenza a semplificare e sistemare le cose, perciò gli oggetti tendono ad essere di un colore unitario così che sia più facile riprodurne i passaggi di produzione. Se ragioniamo su elementi come le case ci rendiamo conto che tutto ciò che ha un colore disomogeneo ci sembra vecchio e rovinato. Questo concetto deriva dall’antichità in cui si pensava che chi viveva in case pulite e ordinate fosse meglio rispetto agli altri. A fronte di queste considerazioni potremmo dire che la tinta unita incarna qualità non esclusivamente cromatiche: è un aspetto del nuovo sul piano della percezione non c'è alcun rapporto deterministico, la mania per il nuovo non ha causato la tinta unita ma ha contribuito piuttosto a renderla una presenza ovvia. il vecchio presuppone il nuovo. NERO ARTICOLATO LA POSSIBILITA DEL COLORE INDUSTRIALE La stampa industriale, specie se ad alta tiratura, produce quasi sempre delle irregolarità; solo che nessuno le nota perché le consideriamo parte della tecnica stessa con cui sono realizzate: non difetti, ma realtà di quel linguaggio. Per esempio, prendiamo l’opera Brillo Box di Andy Warhol che riproduce le scatole delle spugnette Brillo, ma in scatole in compensato e con scritte lievemente sbavate. Le inesattezze di Warhol appaiono invece intenzionali e poetiche. Cioè l'imprecisione tipografica che nelle vere scatole Brillo è l'inevitabile portato della tecnologia, in Warhol diventa pittura. Questo carattere del colore contemporaneo si può raccontare però anche da un'angolatura diversa. C'è un altro artista, Mondrian, il suo stile pittorico è affine al gusto della grafica moderna, cioè quello che storicamente è stato il lessico dell'industria. Se Mondrian avesse voluto inventare solo delle griglie pratiche avrebbe realizzato i suoi quadri in serigrafia o con degli stencil. O avrebbe potuto fare il graphic designer. Invece, partendo come artista figurativo, approda all'astrazione per semplificazioni successive decidendo di fermarsi un attimo prima che il colore pittorico si risolva in colore industriale. Con un paradosso potremmo dire che entrambi fanno grafica usando però i materiali della pittura. La grafica ha cercato vari modi per conquistarsi una ricchezza cromatica di altro tipo, dopo aver stampato un inchiostro, se ne ribatte sopra un altro, che si stende su quello che c'è sotto senza annullarlo. Il risultato del sovrastampaggio non è così solo un terzo colore, né una pura miscela. Ne abbiamo un paradigma esemplare in una litografia di Kandinskij: il verde nasce dalla sovraimpressione del giallo sull'azzurro, scoprendosi pastoso, mosso, palpitante. L'illustrazione - che per statuto è pittura concepita a monte per la riproducibilità - ha trovato a sua volta maniere originali per dare vita a un colore ricco e articolato all'interno delle necessità industriali, specie nelle mani di artisti di valore. La nostra mente è da sempre combattuta tra il bisogno di ordine e la necessità di infrangerlo, tra il desiderio per le campiture lisce e quello per un fluttuare sfuggente. Da un lato il successo delle tinte moderne è dovuto proprio alla bellezza dell'uniformità, che ci trasmette una dimensione ideale, matematica, che asseconda la nostra naturale tendenza all'astrazione; dall'altro cerchiamo però la sporcatura, l'imperfezione che renda vivo e umano quel colore. Pag. 5 di 58 conto che c'è una doppia verità: da una parte sa che se mischia il nero col bianco ottiene il grigio, dall'altra continua a fidarsi dell'autorità degli antichi che sostengono che il rosso è mediano tra il bianco e il nero. Solo l'esperimento di Isaac Newton - che nel 1672 tramite un prisma scompone la luce in una successione di sfumature - stacca per sempre il colore dai materiali concreti che lo esibiscono. Da allora in poi per l'uomo moderno «porpora» diventa il momento di una sequenza percettiva simile all'arcobaleno: un punto della stessa importanza degli altri, senza gerarchie né simbolismi, descrivibile in astratto tramite coordinate matematiche. E infatti oggi la regina Elisabetta II di Inghilterra non ha più bisogno di vestirsi di porpora per mettere in scena la sua condizione di comando e può significare il privilegio e la maestà vestendosi di qualsiasi colore le piaccia. INDACO SPETTRALE L’EPOCA DELLE RIVOLUZIONI Intorno al 1740 nei salotti illuministici e incipriati è di gran moda, tra le dame, scambiarsi in dono prismi trasparenti. Non si tratta di oggetti preziosi in sé — in fondo non sono che piramidi di cristallo - ma, per via delle iridescenze che producono, sono ricercati per stupire e per parlarne. Trinity College di Cambridge: è qui che ha luogo uno degli esperimenti più importanti nella storia della scienza. In una stanza buia Newton intercetta con un prisma un sottile raggio di luce che filtra dalla finestra, proiettandolo sul muro di fronte, dove questo, anziché restare bianco, si scompone in una sequenza variopinta simile a un arcobaleno. Metaforicamente è la luce della conoscenza che lo attraversa, rendendo studiabile l'invisibile. E anche per questo i prismi diventano un dono: perché tra le virtù che a una dama non devono mancare ce n'è una nuova, moderna e virile: la curiosità scientifica. Il colore non è più soltanto qualcosa che si vede, che si usa o che si indossa: è qualcosa su cui ci si fa un'opinione. Sotto Luigi XIV - in una corte che detta il gusto a tutta Europa - si cominciano a disciplinare le conoscenze, quelle teoriche e quelle artigianali, organizzando le procedure e codificando gli stili di ogni cosa si possa mai produrre. Le competenze vengono portate al massimo perfezionamento e allo stesso tempo inquadrate dentro regole precise, non c'è oggetto che non venga inventato o reinventato. A ogni nuova regola si dà un nome e così, in pochi anni, questa grande macchina classificatoria include ogni cosa pensabile, producibile, usabile e soprattutto vendibile, tutto ciò, insomma, che di li a poco verrà chiamato merce. In parole povere: in questi anni l'attitudine razionale genera l'idea di standard e, organizzando le regole del cosmo, si pongono i presupposti filosofici per la futura società del design. Secondo la scienza moderna la luce è un tipo di radiazione elettromagnetica composta di onde capaci di suscitare sensazioni visive nel nostro sistema nervoso. La struttura piramidale del prisma fa sì che queste onde, attraversandolo, si flettano in uscita secondo angoli progressivi, rivelando che a ciascuna corrisponde una tinta diversa. . Quello che compare è un segmento luminoso in cui i colori si presentano in sequenza ordinata, appunto come nell'arcobaleno. Viene battezzato «spettro», cioè apparizione, forse perché anche i fantasmi si mostrano come entità luminose nell'oscurità. Aristotele, si riteneva che i colori fossero il prodotto di una miscela di luce e di ombra e che i prismi si limitassero solo a «colorare» la luce. Newton dimostra al contrario che il colore è qualcosa che sta dentro la luce e non sulle cose: si presenta come una sequenza continua che attraversa varie tinte, dal rosso al violetto, senza nessuna gerarchia. L'esperimento col prisma rivela però anche un'altra idea forse ancora più audace. Se lo spettro si presenta come una sfumatura continua composta di passaggi indefiniti, allora i colori possono essere in un numero Pag. 6 di 58 altrettanto indefinito. Newton tuttavia, forse per influenza del sentire comune, non si spinge a dirlo e afferma che vi si possono rintracciare sette colori fondamentali: rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto. L'indaco di cui parla Newton è infatti inserito un po' a forza, e molte persone non saprebbero neppure identificarlo; ma è possibile che si tratti solo di un malinteso linguistico: cioè che chiamasse blu quello che noi chiamiamo «ciano» e indaco il nostro blu scuro. Per la prima volta nell'elenco dei colori vengono a mancare il bianco e il nero. Newton traccia un diagramma destinato a una sconfinata fortuna soprattutto in ambito artistico: un disco sulla cui circonferenza si dispongono i sette colori messi in fila. Trasforma cioè lo spettro in una sequenza ricorsiva, ad anello, congiungendone la parte finale con quella iniziale. Scopre infatti che si possono sovrapporre più raggi colorati provenienti da prismi differenti ottenendo tinte composte che non sono presenti nell'arcobaleno, come ad esempio il magenta, che può essere generato sommando le onde violette e quelle rosse ai due capi della banda. Il diagramma scelto non viene tuttavia fuori dal nulla: Newton si ispira a un disegno del Compendium musicae, un trattatello scritto da Cartesio nel La vera novità newtoniana è che il suo cerchio non è uno strumento pratico o divinatorio bensì la graficizzazione di un concetto scientifico, cioè un modello per ragionare. Una volta posti in circolo, i colori cominciano infatti a instaurare delle relazioni prima impensabili; per esempio, ogni tinta ha un suo opposto dall'altro lato del cerchio che si rivela essere la più distante non solo geometricamente ma anche sul piano percettivo: il giallo, a vederlo, è lontanissimo dal viola, come il rosso dal verde. Un nodo che si rivelerà centrale in tutte le teorie a venire. Un'idea che cambia le sorti dell'estetica, dell'arte e del design. Al contrario di Newton, che si concentra sull'essenza della luce, Goethe investiga l'aspetto fenomenico del colore, cioè il modo con cui lo vediamo nella vita di ogni giorno, polemizzando con la teoria newtoniana che reputa troppo astratta. Per molti versi Goethe è antiscientifico, come lo sono del resto tutti i romantici, ma in questa maniera fornisce spunti fondamentali a chi col colore deve farci delle cose, che siano quadri, vestiti o più in generale oggetti di design. Goethe non impiega la teoria in astratto per cavarne esempi, ma parte da aneddoti e osservazioni per risalire alla riflessione complessiva. Ogni colore ha un suo «complementare» - come si comincerà a dire da questo momento in poi -, cioè una tinta con cui instaura un rapporto di attrazione e di distanziamento, o meglio un'affinità elettiva, per usare il titolo di uno dei suoi romanzi più famosi. Ed è questo l'aspetto saliente del suo cerchio: l'opponenza a due a due di colori suddivisi per intervalli uguali e simmetrici. Queste scoperte saranno un lascito fecondissimo per gli artisti a venire, ma anche idee capitali per il futuro della psicologia della percezione: la prova che i sensi non si limitano a misurare il mondo ma forniscono al cervello strumenti con cui costruire quello che vediamo. Dal modo con cui procede non deve allora stupire che sia in aperta polemica con Newton: le riflessioni del fisico gli paiono svincolate dall'esperienza reale. La critica di Goethe a Newton, letteraria e filosofica allo stesso tempo, è in fondo tutta qui: caro Newton, tu dirai pure il vero, ma questo vero è inutile alla vita. Non si tratta di prendere partito, sono due punti di vista sul mondo, due modi di maneggiare la realtà: del colore, a Newton interessano le cause, a Goethe gli effetti. Pag. 7 di 58 Poi, alla fine del Novecento, quando lo studio del cervello diventa d'improvviso la nuova scienza di moda, Goethe viene riscoperto come il primo ad aver intuito gli aspetti psicologici dell'esperienza cromatica. Per questo, senza nulla togliere al genio di Newton, la posizione di Goethe si rivela oggi più che mai interessante per i linguaggi visivi, perché nella rivendicazione del colore come fenomeno concreto e soggettivo ci porge una verità nuda e sorprendente: un colore che nessuno vede è un colore che non esiste. A raccogliere le idee di Goethe e a trasformarle in qualcosa di utile alle pratiche professionali non è un fisico o un artista, ma un chimico. Si chiama Michel Eugène Chevreul. Chevreul razionalizza le nomenclature cortesi sostituendole con dei numeri, e introducendo l'uso di cerchi cromatici graduati per metterle in ordine. È il presupposto di tutte le classificazioni moderne. Oggi infatti la mazzetta Pantone chiama i colori per numero e non per nome. Chevreul si imbatte in un problema che fa dannare gli artigiani delle manifatture e cioè la beffa che il nero(f080) dei disegni ricamati sulle stoffe a tinta unita non sembri davvero nero ma cambi a seconda del contesto. Ispirato da Goethe, capisce che quest'effetto non è dovuto alla tintura, ma all'occhio dell'osservatore: è cioè la costruzione di un complementare psicologico, come nell'esperimento della matita e della candela. Si mette allora a studiare i vari tipi di contrasto, accostando tinte diverse, fino a concludere che l'unico modo per risolvere il problema è barare. Se un grigio messo sopra a un rosso risulta troppo verdastro, sarà sufficiente aggiungere al filato grigio un pizzico di rosso per farlo apparire davvero neutro. Bisogna modificare le tinte per farle sembrare quello che vogliamo quando vengono accostate le une alle altre. Da questo momento in poi, il mondo degli artisti e dei designer prende atto che non basta creare le cose: bisogna progettare anche il modo in cui vengono guardate, cioè preoccuparsi della loro rappresentazione nella mente del pubblico. È una conquista cruciale per le atti visive, un pilastro operativo in pittura, nell'illustrazione, nel cinema e nella grafica. Chevreul denomina «simultaneo» questo tipo di contrasto, perché accade simultaneamente alla vista del colore che ne è la causa. Il grande pittore Delacroix, forse il primo ad applicare la teoria dei colori simultanei in pittura, proponendo incantevoli ombre viola, cioè cariche del complementare della luce calda del sole. Scoppia la moda. Le ombre che fino al giorno prima erano state nere, grigie o marroni diventano variopinte. Gli impressionisti se ne innamorano, sedotti da quella nuova verità ottica. E questa liberazione della materia colorata - di cui sono responsabili in modi diversi un fisico, un letterato e un chimico - sarà il fondamento di tutta la futura comunicazione visiva. BLU BOVARY VESTIRSI PER AMARE E PER SIGNIFICARE Quando, in un'opera di invenzione, un personaggio si veste di un certo colore la cosa non è mai senza importanza. O perlomeno non lo è, se dietro c'è un autore attento ai dettagli. Sono tanti i personaggi la cui identità è legata a una tinta precisa: il verde di Robin Hood, il rosso di Cappuccetto. Se un narratore ci racconta che qualcuno è vestito di un determinato colore ci sta dicendo qualcosa che trascende la descrizione immediata. Proviamo allora a investigare i destini di alcuni protagonisti vestiti di blu in letteratura, in pittura e nei cartoni animati, cominciando dalla protagonista di uno dei romanzi più famosi dell'Ottocento francese, Madame Bovary di Gustave Flaubert. Emma, figlia unica di un piccolo possidente agricolo, durante gli anni del collegio ha conosciuto le arti, la musica, la letteratura e, tornata a vivere in campagna, si sente stretta; divorata dalla noia e dalla mancanza di prospettive. Volitiva ed egocentrica - finge svenimenti con le suore per attirare l'attenzione - sogna una vita diversa, vivace, mondana; così quando conosce Charles Bovary, un medico condotto, accetta di sposarlo intravedendo in lui la possibilità di uscir fuori da quei confini campagnoli che le sono angusti. Il marito però si rivela presto un uomo mediocre nei pensieri e modesto nelle ambizioni: più lui è premuroso e servile, più lei lo detesta. «Che pover'uomo», ripete tra sé e sé, e quando se ne presenta l'occasione si tuffa Pag. 10 di 58 la regina Vittoria in Inghilterra sono modelli incontrastati, I giornali fanno la cronaca di ogni ballo, di ogni vernissage, di ogni evento. Ed è proprio la regina Vittoria a sancire un passaggio epocale per la storia del colore presentandosi al matrimonio di sua figlia con un abito dalla tinta insolita: un viola acceso, brillante, quasi elettrico. Scoppia la moda. Tutti vogliono il malva (così si chiama) per vestire e per arredare. Ma non è solo una nuance inedita, è una svolta anche per la tecnica. Il vestito della regina Vittoria è tinto con la mauveina, il primo colorante sintetico della Storia, cioè creato tramite processi artificiali in laboratorio senza ricorrere a materie prime vegetali o animali. L'invenzione che muta le sorti dell'abbigliamento è merito di William Henry Perkin (1838-1907), giovanissimo studente del Royal College of Chemistry. Nel marzo del 1856, a soli diciotto anni, mentre sta cercando di sintetizzare il chinino - usato all'epoca come farmaco antimalarico — ottiene una sostanza di colore cupo, uno di quei precipitati fallimentari come ne capitano tanti in laboratorio e che di solito vengono buttati. William si accorge che quel residuo, se dissolto nell'alcol, dà un effetto violaceo e gli viene l'idea che forse è possibile farne un colorante per tessuti. Lo prova sulla seta, che ne conferma subito la stabilità: regge la luce, lo sfregamento, i lavaggi. Grazie al nuovo colorante si possono tingere in maniera inalterabile anche la lana, il cotone e diversi altri materiali, conferendo loro, a seconda del bagno e della mordenzatura, varie sfumature dal lilla al viola intenso. Un chimico si fa imprenditore, organizzando da sé tutti i processi necessari a una produzione di massa. Anche questa è una novità storica. Per secoli fare il colore aveva significato frequentare procedimenti lunghi, faticosi, puzzolenti e degradanti: con Perkin il colore diventa un fatto ordinato, pulito e virtualmente inodore. Sono anni di grandissima vivacità, e non se ne vedranno forse mai più. Nell'Ottocento, infatti, il mondo dei tessuti è caratterizzato da una continua innovazione tecnologica, simile a quanto accade oggi con l'elettronica. Il primato di Perkin è quello di aver sintetizzato non un pigmento per l'arte ma un colorante per tessuti - attraverso un processo che non esiste in natura — che apre le porte a uno dei più grandi business della modernità: la moda. Ma perché questo sia possibile, c'è bisogno di una nuova società. A Berlino tra il 1823 e 1828 l'architetto Karl Friedrich Schinkel progetta due strutture che sono la premessa concettuale di questa nuova epoca: l'Altes Museum, il primo museo pubblico dove si entra pagando un biglietto, e il Kaufhaus, un centro commerciale dove si passeggia facendo spese. Pur svolgendo ruoli in apparenza distanti, i due edifici si somigliano. Nella nascente società di massa la gente si ritrova con in mano qualcosa di nuovo: il tempo libero, che va farcito con attività ricreative. Sono anni in cui, in parallelo al maturare dei tratti del capitalismo, si definiscono anche le caratteristiche sociali della modernità: ; l'uso della scienza come legittimazione delle convenzioni sociali; e ovviamente la nascita della pubblicità, dell'intrattenimento commerciale, e la comparsa ufficiale del pubblico, inteso non come mero gruppo di spettatori ma come audience pagante di eventi, opere, discorsi. Nel pensiero comune è diffusa l'idea che il pubblico sia qualcosa di dato: sta là fuori e aspetta che gli vengano proposte delle cose da guardare: il pubblico non sempre sa ciò che vuole e, soprattutto, il vero pubblico si costruisce. Anche nella pittura si inventa qualcosa destinato a costruire un nuovo pubblico e a smuovere l'arte dalle fondamenta. Nel 1841 John Rand, un modesto pittore americano, decide di commercializzare colori a olio già impastati e confezionati dentro una lamina di piombo chiusa da un tappo. Non ci aveva ancora pensato nessuno: è nato il colore in tubetto. Così, indirettamente, il tubetto contribuisce alla costruzione del pubblico delle mostre e dei musei, come più di recente la disponibilità di macchinette fotografiche ha costruito l'interesse per la foto di reportage. Il tubetto però, come tutti i fenomeni di massa, comporta uno scadimento della qualità dei materiali rispetto alla raffinatezza della tradizione. L'importanza sociale della malva di Perkin è tutta qui: un colore realizzato in laboratorio è domato e quindi economico, e se ne possono produrre quantitativi potenzialmente infiniti. Smette di essere un bene di lusso per diventarne uno Pag. 11 di 58 di consumo. Durante il periodo della presidenza Obama ha fatto notizia, invadendo le copertine di giornali e siti web, la scelta della moglie Michelle di presenziare a un contesto ufficiale con un abito giallo senza maniche. Non solo il colore squillante è una novità: anche il mostrare le braccia nude esprime un'attitudine più amichevole di porsi in relazione al pubblico. Quel giallo, che di solito fa parte del regno cromatico del tempo libero, ha uno slittamento di significato, candidandosi a nuovo tipo di regalità grazie al gesto solo in apparenza casual della first lady. Oggi qualsiasi colore va bene se viene scelto da chi ha l'autorevolezza di dettare il gusto. In questo senso il colore è design, cioè la copia di una matrice replicata in serie dalle masse. Quando ci pettiniamo o vestiamo in un certo modo stiamo ripetendo qualcosa che abbiamo visto addosso a qualcun altro attraverso una proposta dei mass media. VERDE ILLEGALE LA FAVOLA DEI PRIMARI A quei tempi, in Europa, vigono leggi precise che governano le attività artigianali. Nel campo della tintura, per esempio, sono concesse licenze che prevedono quali materiali si possono tingere e di quali colori. Le regole sono rigide e guai a sgarrare: chi tinge di blu non può tingere di giallo e così via. Si tratta di un sistema perfetto per regolamentare il mercato e tenerlo sotto controllo. Parliamo di Hans Tollner che viene condannato e esiliato. Questi possiede una licenza per tingere la lana di blu e di nero, è insomma specializzato negli «scuri». A un certo punto però vengono scoperte nel suo laboratorio alcune vasche ricolme di giallo. Hans, con un doppio bagno - immergendo la stoffa prima nel blu di guado poi nel giallo di luteola - fa commercio illegale di lana verde, all'epoca molto di moda. La gravità del fatto è individuata dai giudici proprio in questo doppio passaggio: tingere mischiando due sostanze per ottenere un terzo colore, è illegale. All'origine del veto ci sono i passi dell'Antico Testamento in cui si proibisce a uomini e donne di razze diverse di unirsi e procreare, nonché di tessere stoffe combinando il lino con la lana unendo una materia vegetale con una animale. Usare due tinte per produrne una terza rientra nella stessa condanna: è un atto impuro. Leo Lionni gli ha potuto dedicare la poetica avventura di Piccolo blu e piccolo giallo, i due giovani amici che, per abbracciarsi troppo stretti, diventano verdi, rendendosi irriconoscibili ai genitori. Se la favola di Lionni è comprensibile anche ai più giovani è perché l'industria moderna nel corso degli anni ha stabilizzato i pigmenti facendo sì che producessero risultati abbastanza prevedibili. Fenomeno che sembra miracoloso (un giallo più un altro giallo che dà blu), quando invece il vero prodigio non è questo, ma il fatto che le tempere si comportino in modo sempre uguale. Fino al Quattrocento la maggioranza degli impasti pittorici impiega una base acquosa: l'affresco e la tempera - le tecniche per eccellenza della pittura medievale - ne sono validi esempi. A un certo punto però, prima nelle Fiandre poi in Italia e in Europa, comincia a prendere piede una tecnica conosciuta fin dall'antichità ma sempre sottovalutata: l'olio. A differenza dell'acqua, in cui il colore si discioglie, l'olio ingloba il pigmento, foderandolo col suo stato untuoso, per trasformarsi quindi in una pellicola dura e stabile. Essendo fluido facilita sfumature e miscele e diminuisce le reazioni impreviste. Un'ipotesi suggestiva e piuttosto credibile è che sia stato proprio il successo dell'olio a legittimare le mescolanze coloriche rendendole non solo durevoli ma finalmente legali. Così da lì a qualche anno - proprio per le necessità imposte dalle miscele colorate - compare un oggetto nuovo: la tavolozza. Di questa tavoletta su cui si dispongono grumi di colore ordinati - di solito dal chiaro allo scuro, ma ogni artista ha le sue regole - non c'è nessuna attestazione nell'antichità. Storicamente, però, il ruolo di quest'oggetto non è mostrare, elencare o disporre le tinte, ma consentire le miscele. All'improvviso ci si trova tra le mani un'idea senza precedenti: che possano esistere colori più importanti di altri, per ragioni teoriche e non solo economiche; ossia quelli che oggi chiamiamo «primari». Edme Mariotte, fisico e botanico, sostiene che tutti i colori possano essere fatti mescolando cinque pigmenti «principali»: rosso, giallo, blu, bianco e nero ; mentre Moses Harris, propone la prima ruota Pag. 12 di 58 basata su tre tinte da cui si genera tutto il resto del visibile, destinata a divenire un modello di successo per gli artisti a venire. Gerrit Rietveld progetta una sedia, che è un manifesto programmatico della primarietà, come molti altri artisti che utilizzavano la propaganda dei colori all’interno del Bauhaus. In verità i «primari» non esistono. Un colore primario è tale solo perché viene usato per mescolarlo e farne dei secondari. Niente di più. Ci sono quindi tanti primari quanti ne servono a ogni preciso sistema industriale per risparmiare denaro. Non esistono i primari in sé, giacché non si tratta di valori naturali, ma di una mera convenzione tecnologica e culturale. Qualunque insieme di almeno due inchiostri permette di produrre immagini a colori, la scelta di usarne tre è solo un'ottima idea per allargare le possibilità. La tricromia non è legge e se si costruissero schermi a cinque colori la gamma visibile sarebbe ancora più ampia di quella a cui siamo abituati. La ragione per cui non esistono ancora tecnologie del genere è che pochi saprebbero apprezzare la miglioria. Del resto la stampa ha superato la tricromia da un bel pezzo. Un duro colpo all'esaltazione Bauhaus arriva non a caso nel 1935 quando viene sintetizzata la ftalocianina di rame, e compare per la prima volta l'inchiostro ciano che garantisce un ventaglio amplissimo, mai visto prima in una mescolanza. Da quel momento il rosso smette di essere necessario all'industria e viene sostituito col magenta, una specie di rosa carico. In fondo Mondrian e compagni hanno giocato col fuoco, hanno scambiato per verità naturale una necessità tecnica, e il sistema produttivo non li ha perdonati. Come non aveva perdonato il povero Hans Tollner cinque secoli prima. CIANO LITOGRAFICO BREVE STORIA DELLE TECNOLOGIE CROMATICHE Siamo nel 1796, a Offenbach, in Baviera, e il protagonista di questa storia è Senefelder, rimasto orfano, per mantenere sé e i fratelli più piccoli si guadagna da vivere incidendo testi musicali su lastre di rame. Ma il lavoro è poco e non basta a sfamare tutte quelle bocche, così, disperato per la miseria, Alois decide di farla finita e va a buttarsi nelle acque dell'Isar. Sennonché, giunto in riva al fiume, qualcosa lo distoglie dal tragico intento: è un pezzo di calcare, ma di un tipo diverso rispetto a quelli che conosce. Gli viene in mente che potrebbe essere perfetto per raschiare le sue lastre musicali e se ne torna a casa. Fa una scoperta: da asciutta la pietra assorbe qualunque liquido, se però viene prima bagnata diventa repellente alle sostanze grasse, perché, come è noto, acqua e olio non si mischiano tra loro. Prende il calcare, lo liscia per bene, ci disegna sopra con una matita grassa e infine ci stende un velo d'acqua. La pietra, com'è prevedibile, si bagna completamente tranne nei tratti a matita, che restano grassi, cioè asciutti. A questo punto Alois tampona tutto con inchiostro tipografico che, siccome è oleoso, non si attacca alla pietra umida ma aderisce in modo perfetto ai segni a matita, tanto che stendendoci sopra un foglio permette di tirarne una copia. La pietra è diventata in sostanza una matrice da stampa pure se non è a rilievo. La storia che ho appena raccontato è inventata. Senefelder non tentò mai il suicidio, né la scoperta del calcare fu frutto del casuale volere del destino. Però è così che amavano narrarla a inizio Ottocento, o meglio: questa è una delle tante versioni che circolavano. In realtà Alois - che è anche drammaturgo - lavorava già da un po' a un metodo per poter stampare da sé le proprie opere senza dipendere dai costi dell'editoria ufficiale e l'idea gli venne dopo molteplici tentativi col calcare di Solnhofen (di cui la Baviera è piena) che era già impiegato da tempo per la stampa a rilievo. Questo tuttavia non gli toglie merito. È davvero lui il primo a sfruttare l'inimicizia tra acqua e inchiostro per stampare con una lastra piana. È lui a inventare la litografia (il termine significa appunto «scrittura con la pietra»). La cromolitografia è la vera anticipatrice della moderna stampa offset, ed è quanto di meglio il mondo del commercio potesse desiderare. Le copie trattengono la spontaneità del segno manuale, senza mediazioni tra l'artista e la diffusione dei multipli. Tra i risultati più alti ci sono quelli di Henri de ToulouseLautrec, i cui manifesti sono realizzati disegnando su una pietra distinta per ciascun colore. Pag. 15 di 58 lunghezze diverse e composti di tasselli di colore sistemati in progressione. Il fusto indica la luminosità e salendo dal basso verso l'alto si procede dal buio alla luce. Intorno al tronco le tinte sono disposte in circolo, mentre i rami rappresentano i differenti gradi di saturazione, e più si va verso l'esterno più si hanno tinte piene. Ma il limite di Itten e compagni è soprattutto ideologico: le loro posizioni sono totalmente svincolate dalle reali pratiche sociali del mondo in cui vivono, non tengono conto cioè dei veri linguaggi in azione, in primis quello della comunicazione di massa. Munsell afferma, non a caso, che le pubblicità e il circo possono concedersi accostamenti disarmonici in quanto sono pensati per una seduzione immediata e destinata a non durare nel tempo. A distanza di un secolo una tale concezione dell'armonia appare infatti un progetto moralizzante e, a guardar bene, ci si accorge che questi teorici stanno parlando d'altro: stanno costringendo il colore in un sistema di tipo «igienico». Le teorie del colore ce le abbiamo addosso tutti i giorni, senza rendercene conto, magari sotto forma di leggenda o di superstizione. TERZA PARTE: ARTEFATTI MARRONE NEURONALE COME IL CERVELLO UNISCE I COLORI Nel 1959, David Hubel e Torsten Wiesel stavano conducendo una ricercar sulla visione: hanno preso un gatto e gli hanno impiantato un elettrodo nel cervello per capire cosa accade quando si guarda qualcosa. Quel giorno cambierà per sempre il corso delle scienze cognitive. Molto di ciò che sappiamo sull’elaborazione psicologica del colore lo dobbiamo, infatti, alle loro ricerche. Il cervello dei felini, come quello umano, è composto di neuroni in comunicazione gli uni con gli altri tramite prolungamenti (® i “nervi”) che scaricano un segnale elettrico quando incontrano una condizione che gli si confà. La domanda che si pongono Hubel e Wiesel è, appunto, cosa nella scena visiva ecciti un determinato neurone, e per provare a rispondere sottopongono al gatto la proiezione di immagini elementari disegnate su dei vetrini misurando poi la risposta cellulare. Il neurone tace. Senza ragioni apparenti, ogni tanto scarica, cioè rilascia la sua risposta elettrica. Hubel e Wiesel allora cambiano vetrino: il neurone risponde, poi tace. Ne cambiano un altro e il fenomeno si ripete. Il neurone non è eccitato dal disegno sul vetrino, ma dal vetrino stesso: il bordo di questo, infatti, quando viene inserito nel proiettore, getta sullo schermo una leggera ombra verticale, ed è questa linea in movimento che piace alla cellula del gatto. Hubel e Wiesel hanno appena trovato un neurone sensibile alle righe verticali che si spostano verso destra. Che il cervello riconosca linee con un orientamento preciso non deve stupire: i contorni delle cose sono uno degli aspetti più importanti per capire la realtà. Hubel e Wiesel dimostrano, invece, che le cellule della corteccia sono specializzate: ci sono quelle a cui piacciono le righe poste in verticale, altre che preferiscono quelle in diagonale; alcune sono sensibili a linee sottili, altre a quelle più larghe; alcune amano il movimento, altre reagiscono solo al rosso. I due scienziati hanno, insomma, scoperto una sorta di mattoni elementari della visione. Il neurone si eccita o si inibisce di fronte a un certo stimolo che corrisponde al compito per cui si è evoluto. Una massa gelatinosa di cellule genera il pensiero, le azioni, i movimenti. Una sostanza materiale produce qualcosa di immateriale. I neuroni non si limitano a “eccitarsi” e “inibirsi”, ma nascono e muoiono e i loro legami (® sinapsi) possono farsi e disfarsi. L’insegnamento di questi studi è che il cervello sarebbe interessato non tanto alle cose quanto alle discontinuità presenti nella scena, ovvero a tutti quei punti in cui sono presenti contrasti luminosi o cromatici, e che, contenendo più informazioni delle superfici omogenee, ci aiutano a decifrare le forme e lo spazio. Secondo la scienza attuale, la percezione inizia quando l’energia luminosa arriva sul fondo dell’occhio finendo sulla retina, una membrana ricoperta di cellule predisposte a trasformare la luce in un segnale nervoso. Nel 1959 si è avuta una prima conferma che queste cellule, battezzate “coni”, sono di 3 tipi, ciascuno sensibile a una certa fetta di lunghezze d’onda. Alcuni sono più coinvolti. Alcuni sono più coinvolti con le gradazioni dei rossi, altri dei verdi e altri ancora dei blu. Un cono, però, non sa nulla del colore. Il suo compito è solo quello di contare i fotoni da cui è colpito, cioè le Pag. 16 di 58 particelle che compongono la luce: misura esclusivamente la quantità luminosa della scena e sono poi le cellule superiori a ricostruire la precisa lunghezza d’onda operando un confronto tra i dati dei 3 tipi di coni. Secondo il modello classico di Thomas Young, la visione dei colori sarebbe il frutto della mescolanza delle informazioni dei 3 recettori primari. Già dalla fine dell’Ottocento, però, questa teoria solleva alcune perplessità sul fronte psicologico. Secondo il fisiologo Ewald Hering, il giallo è una sensazione elementare e non composta. È dunque possibile che dal punto di vista psichico i primari siano 4 e non 3, se per “primario” intendiamo una sensazione elementare in cui non avvertiamo in alcun modo la presenza di altri colori. Hering arriva a questa ipotesi affascinato dal modo con cui certe tinte sono in relazione fra loro. Comincia, così, a sospettare che i colori più distanti percettivamente siano in antagonismo reciproco. Si tratta di una constatazione che ha precedenti illustri: anche Otto Runge, in una lettera indirizzata a Goethe sostiene che concepire un arancio che tende al blu è come volersi immaginare un vento del Nord che soffia da sudovest. Da scienziato, Hering presume, invece, che sia una caratteristica tipica del sistema nervoso. Immagina che la retina mandi al cervello non la misurazione cruda dei 3 coni, ma un segnale già elaborato che in qualche modo restituisca al giallo autonomia e primarietà. I recenti studi di neuroscienze parrebbero dare ragione a Hering. La retina, infatti, non dice al cervello “qui c’è il giallo”, ma, confrontando i dati dei coni, fornirebbe un’informazione doppia, del tipo: “Poiché c’è il giallo allora non può esserci il blu”. La sensazione cromatica sarebbe in breve comunicata sempre come coppia di opposti. La ragione di questa condizione controintuitiva e in apparenza ridondante sarebbe legata al modo in cui funzionano le fibre nervose. Per ridurre l’energia metabolica è più efficace per le cellule dividersi in 2 gruppi: uno che risponde al diminuire di uno stimolo, e l’altro all’aumentare. Un processo simile è anche alla base della percezione del caldo e del freddo: abbiamo 2 classi di recettori cutanei che rispondono all’incremento e alla riduzione della temperatura. In fondo, pure la meccanica del corpo funziona in maniera simile. L’”opponenza” e il contrasto sarebbero dunque il linguaggio stesso con cui il sistema nervoso ci permette di pensare il mondo. I colori sarebbero sensazioni che si dànno sempre in coppia e che si cancellano l’un l’altra. È impossibile vedere un giallo che dà sul blu anzitutto perché per il cervello sarebbe una contraddizione tecnica. Salendo nella gerarchia della visione, l’organizzazione per segnali opponenti seguirebbe l’idea di Hering, con la conseguenza che i colori primari per la psiche si rivelano 6, uniti in 3 coppie di opposti: giallo e blu, verde e rosso, bianco e nero. Quando chiamiamo il rosso “primario psicologico” non si tratta di un rosso preciso come quello che viene fuori da un tubetto di tempera; così come se parliamo di “segnale opponente” per il verde-rosso stiamo indicando gamme cui appartengono ciò che per il cervello sono l’idea di giallezza e di bluezza. Il sistema dei segnali opponenti spiega come mai le contrapposizioni cromatiche siano così significative e perché gli artisti siano sempre stati affascinati dalla complementarietà tra le tinte. Dopo due secoli in cui il dominio della fisica aveva messo Goethe nell’angolo, ecco che le neuroscienze lo riscattano: il vestito giallo e blu indossato dal giovane Werther si rivela un’immagine che sintetizza in modo narrativo come il cervello elabora il colore. Vedere è anche una costruzione. Il colore accade solo dentro la nostra testa, tanto che i cani e i gatti non hanno la più pallida idea di cosa sia il rosso. È dunque il cervello che costruisce, a partire da medesimi dati fisici, l’esperienza del colore come la conosciamo. È probabile che le creature primordiali da cui discendiamo avessero un solo tipo di recettore, che permetteva di distinguere il chiaro e lo scuro; poi, è subentrata una differenziazione che ha portato a discriminare prima il blu dal giallo e poi il verde dal rosso. Una delle ipotesi è che questa capacità sarebbe stata vantaggiosa per distinguere i frutti maturi e rossi in mezzo al fogliame verde. Il colore è un modo davvero efficiente di entrare in relazione col mondo. Questo processo è, però, una costruzione per un’altra ragione: una delle peculiarità fondamentali della mente è quella di percepire come stabili le caratteristiche delle cose, anche quando non lo sono. Se la visione dipendesse solo dalle lunghezze d’onda, il mondo sarebbe un posto difficile in cui orientarsi, e il colore smetterebbe di essere utile per conoscere la realtà. Un foglio, invece, si mostra grossomodo sempre bianco grazie a un meccanismo tra i più brillanti messi in atto dall’evoluzione: la “costanza cromatica”, capacità che consentirebbe anche alle scimmie di riconoscere un frutto maturo a prescindere dall’illuminazione. A costruire questa costanza è un’area della corteccia celebrale che, Pag. 17 di 58 elaborando i dati ricevuti dalla retina, confronta quello che accade in un punto della scena con quello che c’è accanto, facendosi un’idea generale dell’insieme e affrancandosi da variabili come il cambio di luce. La retina vede difatti il foglio al tramonto nella sua esatta composizione spettrale, cioè rossa; le cellule in V4, invece, comparando punti adiacenti “capiscono” che, siccome tutta la scena è illuminata di rosso, allora il foglio forse è bianco. Mentre i coni sono schiavi della lunghezza d’onda, i neuroni di V4 sono liberi di costruire quella stabilità del reale che ci permette di usarlo. La percezione umana è sempre una costruzione perché non ci limitiamo a misurare le radiazioni, ma elaboriamo le loro relazioni costanti. L’aspetto affascinante è, però, che questa alterazione dei dati fisici è una necessità squisitamente umana. La corteccia visiva, però, fa qualcosa in più. I meccanismi di confronto punto a punto permettono la visione di alcuni colori non contenuti nell’arcobaleno. Immaginiamo di trovarci in una stanza buia. Tramite un riflettore che monta una gelatina colorata, proiettiamo sul muro un cerchio giallo usando una lampada da 100 watt. Lo spazio si presenterà buio tranne per quel disco di un bel giallo vivo. Dopo qualche secondo, spegniamo il proiettore e ne accendiamo un altro che monta la stessa gelatina gialla, ma con una lampada da 200 watt. Anche stavolta tutto sarà buio tranne un cerchio giallo un po’ più luminoso del precedente. Se, però, accendiamo i 2 proiettori in contemporanea, compariranno 2 dischi, uno giallo e l’altro marrone. Quello meno luminoso viene cioè interpretato dal cervello come un colore diverso, più scuro, pure se i 2 hanno la medesima lunghezza d’onda. In sostanza, il marrone non è altro che un giallo visto accanto a superfici più luminose di lui. Il marrone non è un colore che dipende dalle misurazioni della retina, ma è un tipo di contrasto spaziale elaborato dalla corteccia: per l’occhio, il marrone non esiste ed è una costruzione che sta solo nel cervello. Quindi, è impossibile proiettare un disco marrone nel buio completo, la sua luce per quanto debole ci sembrerà comunque gialla. Raramente ci troviamo di fronte a colori isolati, quello che vediamo sono sempre vicinane cromatiche. L’interpretazione del mondo attraverso tali confronti comporta così che le tinte siano relative al contesto. Nel linguaggio comune, fenomeni di questo tipo sono chiamati “illusioni ottiche”, eppure è chiaro come sia una definizione imprecisa, visto che non ci troviamo di fronte a un’eccezione, ma al modo ordinario in cui funziona la mente. Il gioco di far apparire uno stesso colore come fossero 2 tinte diverse è stato un classico del metodo di insegnamento di Josef Albers. Albers propone un ragionamento e una didattica del colore tra i più originali del Novecento: infatti, rifiuta tutti i modelli geometrici, i cerchi, i diagrammi e le leggi di mescolanza, reputandole troppo astratte. È convinto che il colore debba essere usato, guardato, confrontato per poter essere davvero capito. Per questo propone di maneggiare carte colorate per vedere come si comportano fra loro nel concreto, reagisce, insomma, alle posizioni dei maestri con un empirismo rigoroso. Il lavoro di Albers è, appunto, incentrato su esercizi mirati ad allenare l’occhio. In questo modo arriva a sostenere che non esistano per la percezione tinte isolate, ma soltanto interazioni fra i colori. I concetti di tinta, tono e saturazione o le leggi di armonia gli sembrano comodi per nominare il colore, ma non per vederlo in azione. È difatti indubbio che le presunte accuratezze dei sistemi Munsell o Pantone crollano di fronte al fenomeno del contrasto simultaneo. Le tinte circondate dal contorno nero appaiono più intense e cupe di quelle circondate dal bianco, come accade pure nel cosiddetto effetto Munker-White. Effetti di questo tipo determinano da sempre precise qualità estetiche nell’arte e nel design. Il contorno nero, ad esempio, è la clausola stilistica di tutte le vetrate gotiche, una condizione strutturale. Senza quel filo nero, le vetrate risulterebbero pallide, slavate, prive del risalto deciso che fa risplendere i colori ciascuno in un suo universo assoluto e potente. Un espediente del genere, però, può essere usato in maniera anche più sofisticata e inconsueta. In un famoso poster realizzato da milton Glaster per il Newport Jazz Festival, l’intero disegno mostra un contorno rosso che, con intermittenza, altera la percezione delle tinte. Il risultato è quello di rendere l’immagine vibrante, instabile, amplificando gli aspetti ritmici e musicali del soggetto. Immagini come questa non è casuale compaiano negli anni Settanta, un’epoca in cui sono di moda le droghe psicotrope e gli studi sulla percezione riscuotono un inedito interesse popolare. Una leggenda vuole che alla bottega di Tiziano, per dimostrare di essere un bravo colorista, bisognasse riuscire a far apparire un rosso veneziano come vermiglio, applicando quello che 3 secoli dopo sarebbe stato noto come contrasto simultaneo. Tre secoli dopo, appunto, Delacroix si vanta Pag. 20 di 58 Tiepolo raggiunge infatti il suo tocco più fascinoso schiarendo al massimo le ombre fino a riempirle del riverbero colorato delle cose che hanno intorno. Un'innovazione accolta con entusiasmo dai contemporanei, che la battezzano «colore spezzato», riferendosi al fatto che un oggetto bianco accanto a uno rosso finisce per manifestarsi rossastro perché il rosso si «spezza» su quello che gli capita a fianco. Quest’intuizione viene saccheggiata dagli artisti dell’Ottocento, per diventare poi il pilastro della pittura figurativa americana del XX secolo. Ritroviamo il cromatismo di Tiepolo in molta illustrazione fantasy, nelle scenografie dei cartoni animati, nelle copertine di libri, ecc., tanto che una teorizzazione moderna di questo approccio compare in Creative Illustration di Andrew Loomis (1892-1959), uno dei manuali più venduti degli anni Cinquanta, bibbia dell'illustrazione «commerciale» dell'epoca. L'illustrazione americana è imperniata infatti - per ragioni di mercato e di ideologia politica — su una visione ottimistica delle vicende umane, e non saprebbe che farsene del chiaroscuro barocco, troppo cupo per i suoi scopi propagandistici. CELESTE SIMULTANEO I contrasti cromatici fondamentali Ma perché Cappuccetto è Rosso? Secondo un'interpretazione antropologica ci sarebbe un riferimento al sangue della prima mestruazione, come in molte favole con protagoniste femminili. In tante, da Raperonzolo alla Bella Addormentata, a un certo punto vengono chiuse in una torre o abbandonate in un bosco, ricordo di pratiche ancestrali che impongono, durante il primo ciclo, di isolare le ragazze giacché impure. Alcuni studiosi hanno invece preferito pensare che la storia avesse luogo nel periodo di Pentecoste, il cui colore liturgico è il rosso; mentre altri ancora hanno ricordato che spesso i bambini venivano vestiti di rosso per tenerli meglio sott'occhio. Guardiamo allora la versione che ne dànno due illustratori di inizio Novecento: Arthur Rackham (1867- 1939) e Jessie Willcox Smith (1863- 1935). Rackham(f189), già solo con le scelte compositive, getta una luce su tutto il racconto. Il bosco domina la scena, vasto, imponente, eppure monotono: un susseguirsi di beige e di marroni, ora chiari ora scuri; e su tutto spicca Cappuccetto, che è solo una macchiolina, ma proprio per questo visibilissima. Quel tocco di rosso è una notazione psicologica: è la vivacità della protagonista contrapposta a un mondo minaccioso e tetro. Tutt'altra idea è quella che troviamo nel lavoro di Smith: stavolta Cappuccetto occupa l'intero quadro e la mantellina rossa si allarga su gran parte della superficie pittorica. La differenza è sostanziale: Rackham sta illustrando un momento della fiaba, Smith sta facendo un ritratto. Ma non solo. Rackham è tutto dentro la storia: suggerisce attraverso i rami rinsecchiti un'aria aspra e temibile, un senso luttuoso e un po' infernale che fa somigliare Cappuccetto al Dante nella selva. La costruzione cromatica fatta da Rackham è chiamata «contrasto di quantità», uno dei sette possibili secondo la formula coniata da Johannes Itten e divenuta ormai classica nel vocabolario artistico. Si tratta di un'espressione facile e trasparente per dire che il layout è costruito mettendo in contrapposizione una grande superficie di una certa tinta con una piccola quantità di un'altra. In questo caso: molto marrone e pochissimo rosso. È una relazione sempre evocativa in quanto il poco circondato dal tanto attira subito l'attenzione. Volendo andare con ordine Pag. 21 di 58 1. primo tipo di contrasto che compare nella lista di Itten è quello di «chiaroscuro». In questo caso il tipo di tinta è irrilevante, ciò che conta è la modulazione dal buio alla luce, come quando si lavora con la china ora densa ora diluita, o con la matita calcando oppure spostandosi leggeri sul foglio. 2. Il tocco di luce sul volto è l'analogo di una «messa a fuoco», una metafora dello sguardo auto- riflessivo dell'artista che si osserva e si riconosce non più giovane. Quel chiarore fa scaturire le forme dall'indistinto, o forse è l'oscurità che tra poco inghiottirà tutto: la vita è ciò che accade tra i due poli del buio e della luce. 3. A questi segue il «contrasto di colori puri»: vale a dire quando si affiancano tinte piene, senza mezzi toni, senza sfumature evidenti. Stavolta quello che conta è il rapporto tra tinta e tinta e non la progressione tonale, cioè luminosa. Un campione perfetto ne sono le vetrate medievali: tasselli di colore assoluto, saturo, affiancati gli uni agli altri. Ma è anche il linguaggio del fumetto tradizionale e di molti cartoni animati. Il contrasto di colori puri può avere anche un impiego funzionale, come nella famosa mappa della metropolitana di Londra ideata da Harry Beck dove la contrapposizione delle tinte serve a distinguere le diverse linee di trasporto. 4. Il quarto tipo dell'elenco è il «contrasto di qualità». Il termine - un po' più opaco dei precedenti - fa riferimento al grado di saturazione di una tinta in relazione ad altre simili. «Qualità» nel senso di intensità del colore percepito, ossia quanto un punto nella composizione ci sembra colorato rispetto a un altro che risulta più spento. Nel contrasto di qualità di solito si evitano il massimo scuro e il massimo chiaro, l'immagine germoglia nel mezzo, giocando sui diversi gradi di saturazione di una manciata di tinte simili. 5. Ci sono poi il contrasto di «complementari» e di «simultaneità», due rapporti che dipendono dalla capacità del cervello di vedere i colori in modo diverso a seconda di quello che sta loro intorno. Nel primo caso l'accostamento di due tinte antagoniste le esalta a vicenda. 6. Il contrasto più sofisticato e il più amato dagli impressionisti è quello di «simultaneità». Ha luogo quando una tinta vira verso il complementare di quella che gli si pone a fianco: come un grigio che sembra verdastro se posto su un fondo rossiccio, o un bianco che risulta giallino se posto su un fondo azzurro. A questo proposito c'è una storiella nota nel mondo dell'interior design che vale la pena raccontare. Parla di un signore che vuole un tappeto grigio per il suo salotto, ma quando l'arredatore lo sistema nella stanza - siccome i muri sono dipinti di color terracotta - il tappeto, neutro, salta fuori azzurro con grande disappunto del cliente. Il contrasto simultaneo è una specie di bastian contrario: quando si trova accanto a una tinta deve dire l'opposto per partito preso. 7. «Contrasto di cromaticità», grande potere evocativo, quello tra un singolo colore e il bianco e nero(f219): cioè quando una tinta spicca all'interno di una composizione fatta di toni grigi. 8. L'ultimo contrasto è invece quello che si ottiene quando si uniscono due tinte unite, piatte e omogenee, che si contendono il campo con pari dignità. Suggerisco di chiamarlo «contrasto di coppia» Riassumendo, è chiaro che ciò che attira la nostra attenzione è prima di tutto uno scarto visivo, di un tipo o di un altro. Gli artefatti di successo - estetico, funzionale o commerciale — poggiano sempre sull'efficacia di un qualche tipo di contrasto. Se nel nostro mondo pieno di immagini ci guardiamo intorno e incappiamo in composizioni che reputiamo brutte - nella televisione, nella grafica, nella fotografia o su Internet - ci rendiamo conto che quello che chiamiamo brutto è anzitutto la mancanza di gerarchie visive: o c'è troppa roba, o ce n'è troppo poca, o è male organizzata. Il nostro occhio non sa a che prestare attenzione, si distrae, si annoia. Siamo attenti a una cosa per volta, abbiamo bisogno di focalizzarci su un aspetto ed è qui che la grafica diventa narrazione. ROSSO SIGNIFICANTE I colori delle cose Pag. 22 di 58 Nel 1938 debuttano in Inghilterra le Smarties, pastiglie di cioccolato ricoperte di zucchero e destinate a un enorme successo, che introducono una novità cromatica rispetto agli altri dolciumi: si presentano in otto colori diversi, ma il gusto è uguale per tutte. Il rosso non sa di fragola, né il verde di pistacchio, sanno soltanto di cioccolato. Una Smartie e un confetto sono dunque solo all'apparenza oggetti simili, visto che sul piano dei significati il colore dice cose diverse. Il rosso del confetto è simbolico, quello della Smartie somiglia più a un ruolo o a un compito. Ovvero, mentre un simbolo è qualcosa che sta per qualcos'altro (come il nero per il lutto o il rosso per la laurea), il ruolo è qualcosa che significa perché occupa una certa posizione all'interno di un sistema. Un carattere saliente delle Smarties è infatti suggerire attraverso l'effetto variopinto che si tratta di un prodotto rivolto ai bambini. Il colore riguarda perciò anche il posizionamento commerciale, un aspetto che nei confetti è invece assente. Per capire come significano i colori delle merci sarà allora opportuno partire proprio da qui: dai destinatari e dal contesto in cui accade la comunicazione visiva. Iniziamo da un oggetto che meglio di altri ha incarnato una svolta nelle consuetudini cromatiche, tanto da cambiare volto al mercato dell'elettronica. Si tratta dell'iMac della Apple, un computer all'avanguardia del design quando venne lanciato nel 1999. Traslucidi e vivaci, gli iMac stupiscono soprattutto per le tinte sofisticate, vetrose e cangianti come quelle di una pietra dura: mandarino brillante, verde smaltato e un blu profondo che Apple battezza Bondi blue, nome inventato per l'occasione in omaggio alla Bondi beach, una spiaggia dal mare azzurro intenso che si trova a Sydney, in Australia, famosa e popolare specie tra gli appassionati di surf. Oggetto che si propone come oggetto « sportivo», per il tempo libero e il divertimento; un computer davvero personal, come un capo di abbigliamento o, appunto, una tavola da surf. Fino a quel momento i PC erano stati grigi, bianchi o neri, con angoli squadrati e linee ortogonali, a significarne l'efficienza e la serietà. Si trattava di oggetti tecnologici o burocratici, utili per ragioni professionali come scrivere, calcolare o progettare. L'iMac è tondeggiante, morbido, quasi gommoso; e le tinte vivaci e sorprendenti inaugurano un'epoca — da cui non siamo ancora usciti — in cui avere uno stile è un fatto cruciale. Lo spot pubblicitario dell'epoca è ambientato sotto una dittatura in bianco e nero dove i comportamenti sono ripetitivi e opprimenti, simile alla distopia raccontata da George Orwell nel romanzo 1984. In un tale scenario dalle tinte smorte compare una ragazza che infrange lo schermo da cui parla il Grande Fratello e lo fa esplodere, rivelando il logo Apple: una mela vivacissima, colorata come un arcobaleno. Giocando con il titolo orwelliano, una voce fuori campo recita: «Tra poco scoprirete perché il 1984 non sarà come 1984». Qualche secolo dopo, un aspetto importante del modo di vestire bizantino è indossare abiti con i colori della propria squadra; la stessa convenzione la ritroviamo nei colori delle contrade del palio di Siena, ed è il cuore di uno dei sistemi grafici più importanti del Medicevo: l'araldica. La ragione per la quale i colori delle squadre sono sempre a coppie è dovuta al fatto che un sistema di tinte singole non è facile da memorizzare. La scelta di Bosch di unire il nero col verde fa dunque un uso araldico delle logiche di marketing: uno stendardo che contende il campo ai rivali sul bancone della ferramenta. In questo settore il nero rimanda spesso alle armi da fuoco: qui si aggiunge il verde che, specie se cupo, evoca paesaggi montani. La Bosch, dunque, rispetto ai concorrenti, aggiunge una nota silvestre a quella militare, parlando anche all'animo boscaiolo dei frequentatori di Leroy Merlin. A ribadire le differenze sono poi in atto forti peculiarità sinestetiche. Le cose scure, senza concettualizzare, sembrano richiederci sempre uno sforzo maggiore. Forse per questo nelle palestre i pesi per le donne sono colorati di tinte pastello, mentre quelli per i body builder sono neri e minacciosi: per tranquillizzare le prime e tirar fuori la forza nei secondi. Pag. 25 di 58 però, il blu nel cibo trasmette più un senso di avariato che di anticonvenzionale, anche perché viene legato alle muffe. Non a caso è stata proprio l’industria alimentare a investire nell’arco dell’ultimo secolo ingenti capitali per provare a spiegare cosa accade nella nostra testa quando ci troviamo di fronte al cibo e alle sue tinte, rivelando che lo percepiamo sempre in maniera sinestetica, ovvero in relazione agli altri sensi. Il collegamento tra colori e sapori è del resto antichissimo e già Aristotele ne fa oggetto di riflessione nel De sensu et sensibilibus. In Occidente è comune legare il nero all’amaro, il grigio al salato, il giallo al grasso, le tinte calde al dolce e il verde all’acido. Il rosso è spesso dolce, ma può indicare al contrario il piccante, evocando il peperoncino che dal dolce è distantissimo. to 32 Il primo a interessarsi alla sinestesia cromatica è stato Francis Galton, che si è accorto come ad alcune persone i numeri apparissero colorati. Per esempio, se su un foglio c’è una serie di cifre scritte in nero, il 5 spicca di un bel rosso vivo. I soggetti sinestetici vedono davvero quel rosso, forse per la vicinanza a livello cerebrale delle aree che elaborano i numeri con quelle deputate ai colori. Si tratterebbe di un’associazione mentale di tipo particolarmente forte. C’è un esperimento proposto negli anni Trenta da Wolfgang Köhler, uno dei padri della psicologia della forma. Questi mostra le due seguenti figure: Chiede chi è Maluma e chi è Takete, dimostrando che, nella maggioranza dei casi, Takete viene riconosciuto nella figura con le punte aguzze, mentre Maluma in quella più tondeggiante. Anche Ernst Gombrich racconta che di fronte ai termini “ping” e “pong” non si hanno troppe difficoltà a capire chi è il gatto e chi è l’elefante, e così quando diciamo che u è più scura di i troviamo molti consensi. Questo è possibile perché il cervello, se messo di fronte ad almeno 2 oggetti, costruisce sempre delle relazioni di tipo sinestetico secondo cui una cosa è più simile di quanto non lo sia un’altra a un termine di confronto. La conseguenza cromatica di questo discorso è che il rosso è quasi sempre dolce e rotondo, mentre il verde è spesso acido e pungente. A corroborare questi legami conta l’esperienza che facciamo del mondo. È come se la natura ci fornisse una scala graduata che ci informa in anticipo su quello che proveremo, ed è interessante rilevare che finché il frutto è acerbo si confonde col fogliame: più diventa maturo più spicca rispetto al fondo. A questo proposito, un test classico ha confermato che una medesima bevanda somministrata in colori diversi produce sapori altrettanto distinti. L’aspettativa che riponiamo nei colori del cibo è, dunque, tanto forte che finisce per incidere sull’esperienza gustativa, preparandoci in anticipo a categorizzare i sapori. Un’ulteriore conferma che la percezione non è un atto passivo, bensì il cervello proietta sulle cose immagini psicologiche che in un certo senso ne velocizzano la comprensione. Gli studiosi che hanno provato a spiegarne le ragioni sono arrivati a conclusioni di taglio evoluzionistico. La mente, se si trova di fronte a un pericolo, non ragiona sui pro e i contro: riconosce quel pericolo e ci dice di scappare. Il cervello funzionerebbe sempre così: formulando valutazioni rapide e, quindi, più adatte a sopravvivere. Attenzione: l’automatismo innato è quello di applicare un pregiudizio alla realtà, ma l’associazione tra rossezza e dolcezza rimarrebbe comunque un dato appreso. Tali pregiudizi gustativi sono stati sfruttati dall’industria non solo per adulterare il cibo, ma per confezionarlo. Il packaging conserva, protegge, mostra e racconta, soprattutto attraverso il colore, e costruisce il prodotto fino a guidarne il sapore. Una storia fra tante è quella della 7up, che a un certo punto ha aggiunto alla grafica delle confezioni una maggiore presenza di giallo: il pubblico ha affermato di sentirla più limonosa, anche se la bibita non era affatto cambiata. Un’elegante variazione di questa idea è quella della Schweppes, sulla cui bottiglia trasparente compare una piccola etichetta gialla che sembra anticipare la fettina di limone con cui la bevanda viene di solito consumata – ovvero, un elemento accessorio è stato inglobato nella grafica come presenza indispensabile al rituale. Il packaging punta a rifare sul piano cromatico quello gustativo, trasformando il meccanismo sinestetico in un topos narrativo. Eppure trovare il colore giusto per raccontare i cibi non è sempre facile. Pag. 26 di 58 Quando venne lanciata la margarina si provò a impacchettarla di giallo per ricordare il colore del burro: fu un fiasco. Dopo vari tentativi si sono imposte confezioni di vario tipo, per lo più dorate o con la presenza del verde che ne richiama l’origine vegetale, inventando la favola che si tratti di un grasso più leggero e dietetico. In questo caso, il verde evoca il concetto di naturalità. Il packaging, infatti, racconta spesso qualcosa di invisibile agli occhi. Per esempio, alcune acque in bottiglia indicano, tramite la tinta, il grado di effervescenza. In questo caso si traspone il codice internazionale dell’idraulica al mondo alimentare: nei rubinetti il blu sta per il freddo e il rosso per il caldo. L’idea di caldo e quella di frizzante non hanno nulla in comune, l’acquisiscono però quando vengono contrapposte al blu. Se la tinta fredda indica l’acqua allo stato naturale, il rosso indica il grado di modificazione perché scaldata o resa frizzante con l’anidride carbonica. In casi come questo, ciò che conta è la costruzione di una scala interna al sistema. Le tinte agiscono come indicatori. Il colore delle confezioni alimentari indica spesso anche la fascia di prezzo. Di solito, i prodotti costosi sfoggiano tinte unite e ricercate, come il tè e i biscotti del londinese Fortnum & Mason o come la pasticceria Ladurée. La tinta unica e sofisticata evoca lusso, calma e voluttà. Come nella moda, dove il maglione senza griffe o ricami esplicita l’acme del privilegio. L’unione di più colori è, al contrario, subito pop, commerciale o economica. Basti pensare al giallo e al rosso di molti fast food, che da una parte rimandano al ketchup e alla maionese e dall’altra comunicano un senso di rapidità non solo del servizio, ma anche della consumazione. Tra tutti i colori usati nel packaging alimentare ce n’è uno di particolare interesse: il viola. Si tratta di una tinta che non passa mai di moda e ha impieghi molteplici – ad esempio, nelle confezioni di prugne, o nelle caramelle di sambuco. Nella famosa Milka, dove la variante lilla pastello sottolinea gli aspetti calmanti della cioccolata al latte piuttosto che quelli energizzanti del fondente puro. Nei cibi viola c’è sempre qualcosa di lento, di pacato. Se dovessimo paragonarlo a un tratto caratteriale diremmo che a differenza del rosso, il viola è trattenuto e formale. Il nome è quello di un fiore, e per tradizione è il colore della quaresima. È il colore della maturità, anche nei suoi risvolti negativi: significando ora la saggezza ora la morte. Nei cartoni animati statunitensi, il viola è spesso collegato ai personaggi adulti, severi o cattivi, fino a diventarne il colore stesso della pelle (® Malefica, Ursula). In questi casi, il viola è un rosa cambiato di grado, invecchiato. Un’associazione che ha precedenti illustri: Kandinskij afferma, infatti, che ha qualcosa di malato e si addice alle donne anziane. Forse, però, questo senso di vecchiaia è dovuto proprio al successo che la tinta ha avuto nell’Ottocento grazie alla malva di Perkin, che ne ha fatto il colore vittoriano per eccellenza, così da renderlo lussuoso ed elitario. Questa discendenza vittoriana è ancora oggi parlante nel brand di Liberty, il prestigioso magazzino londinese di tè, stoffe e saponi, e nella cioccolata Cadbury. Riguardo a quest’ultima, è interessante notare che, mentre in tutto l’Occidente il viola è interpretato nelle sue note chic, quando l’azienda ha deciso di espandersi nel mercato cinese, questo significato si perdeva: in Cina, il viola “fa povero” perché è l’opposto percettivo del giallo imperiale. Così, Cadbury ha dovuto cambiare rotta inserendo il giallo nelle sue confezioni. BEIGE COLONIALE E altri problemi di marketing Senza troppa malizia, potremmo dire che, siccome la maggior parte del pubblico preferisce macchine bianche, proporre il bianco come tinta opzionale non è altro che un’astuta strategia di marketing: al momento del lancio viene suggerito un prezzo basso per fare pubblicità, anche se in realtà quel prezzo si riferisce a un astratto modello base che quasi nessuno vuole. Il colore corrisponde, però, non solo all’identità degli oggetti, ma anche a quella del pubblico. Se la colla Pritt è rossa per rendere è rossa per rendere riconoscibile il brand, si desidera l’automobile bianca per soddisfare il proprio gusto. È chiaro che il colore delle cose cambia statuto a seconda di quali sono queste cose e del rapporto che intratteniamo con loro. I primi beni a essere proposti in più colori sono stati gli abiti e, appunto, le automobili. Nel 1923 la General Motors introduce una Chevrolet colorata grazie alla recente scoperta del Duco, una nitrocellulosa che riesce a inglobare più pigmento sulla carrozzeria in maniera stabile. Nel 1950 è la Kenwood, famosa marca di elettrodomestici, a mettere in vendita un frullatore bianco, che per la prima volta permette di Pag. 27 di 58 scegliere il colore dei dettagli e, quindi, avere il tappo della tinta preferita dall’acquirente. Poco dopo anche i Tupperware, gli ultramoderni contenitori in polietilene per alimenti, vengono proposti in diversi colori. Un antecedente di queste pratiche va rintracciato, però, tra i motociclisti. Dopo la Guerra del Pacifico, i soldati di ritorno dal fronte si ritrovano in California, dove è possibile acquistare a buon mercato le vecchie Harley- Davidson dell’ex dipartimento di Guerra. Trattandosi di moto di seconda mano, bisogna assemblarle al meglio; così si cominciano a personalizzare i serbatoi, forse ispirandosi all’abitudine delle forze armate di dipingere i musi degli aeroplani. Sono, insomma, i motociclisti i primi a sfoggiare uno stesso oggetto di tinte diverse. La storia di queste moto è significativa in quanto dichiara una maniera appassionata e intima di entrare in relazione con le cose: una Harley-Davidson è qualcosa che uno costruisce da sé, che modifica con le proprie mani. Dal dopoguerra in poi, molte aziende capiscono che il nuovo corso è la personalizzazione e decidono di irreggimentarla. Oggi questo sistema è la norma. È il colore il primo mezzo di diversificazione. Si pensi all’iPod o agli spazzolini da denti, oggetti che non a caso entrano in rapporto di assoluta prossimità col nostro corpo. Il colore è personale. Qui siamo di fronte a delle pseudoscelte. Attraverso tali pratiche si affaccia l’idea che il colore non sia solo un attributo delle merci, ma appunto anche del consumatore. È l’applicazione sul fronte commerciale dell’idea di Itten che esistano rapporti profondi tra cromatismo e psicologia individuale. Il settore dei saponi e dei bagnoschiuma è stato quello che più di ogni altro ha imparato ad avvalersene. Se guardiamo lo scaffale del supermercato, notiamo che la logica classificatoria riprende da vicino quella alimentare. I saponi per la cura della persona hanno, infatti, “sapori” e personalità. Questo è possibile poiché il lavarsi si è mutato nel tempo da questione igienica ad attività ricreativa. Non ci si fa il bagno solo per pulirsi, ma per rilassarsi. I saponi entrano in contatto col nostro corpo e lo “nutrono”. Sono queste affinità psicologiche a permettere che la comunicazione di uno yogurt e di un docciaschiuma si possano somigliare: entrambi sono “al gusto di”. “Gusto” è, prima di tutto, un termine che leghiamo ai sapori, ma è pure la capacità di discernere e scegliere, come quando decidiamo che qualcuno “ha gusto”. Sfruttando questo meccanismo, il packaging svolge un ruolo evocativo, perché al cambiare della fragranza dello shampoo cambia pure il colore. Il sapone non ha un suo colore, e decidere di colorarlo è una scelta esclusivamente di design, che gli impone un “gusto psicologico”. Non a caso, quando non succede, il prodotto viene battezzato “neutro”. In tal senso, la tinta è una figura retorica. Le diverse nuance rimandano alle piante e ai fiori, instaurando legami tra questi e le loro possibili proprietà curative e medicamentose. Alla base c’è il tradizionale modello delle tassonomie erboristiche. Infatti, se i prodotti per la famiglia e per la donna continuano a mantenere un rapporto con l’universo naturale, quelli per l’uomo se ne distaccano, dichiarando in modo esplicito la fattura artificiale, e richiamando le tinte dei motori, delle cromature o delle attrezzature sportive. Nei saponi maschili c’è personalità. Qualsiasi associazione sembra possibile, perfino usare il beige per evocare atmosfere coloniali intorno ai bagnoschiuma, suggerendo un intero immaginario cromatico: quello dei paesaggi esotici, degli abiti di lino crudo. Da La mia Africa con Meryl Streep a Indocina con Catherine Deneuve, il beige è divenuto sinonimo di relax, di prendersi cura, di pausa dal frastuono contemporaneo. Si tratta, però, di una scelta paradossale: in realtà, si sta raccontando quel mondo solo dal punto di vista dei conquistatori. Il colonialismo ha sottomesso e sfruttato intere popolazioni ed è un fenomeno troppo recente per essere usato nella pubblicità dei prodotti da bagno senza cadere nel cattivo gusto. Non tutti i fatti storici, però, sono stati riportati allo stesso modo al pubblico che ha memoria corta e sembra non accorgersi del volgare controsenso. Il visual design ha un potere enorme, talvolta nefasto. Da qualche anno questa logica ha finito per riverberarsi sui detergenti per la casa, in genere più refrattari alla personalizzazione. Le varechine, le ammoniache e i perborati hanno cominciato a sfoggiare gusti al limone, all’arancio o al carbone. Tuttavia, abbiamo sempre delle aspettative e ci sembrerebbe strano comprare del detersivo in un barattolo marrone, anche se il marketing è riuscito a farci accettare il flacone nero per i detersivi destinati ai capi scuri. Una proposta impensabile appena 20 anni fa, quando la forza pulente del sapone era legata soltanto al bianco. L’unica strada cromaticamente percorribile è, dunque, la differenziazione. Nella società delle Pag. 30 di 58 Armani, degli ultimi computer Apple. L’inizio di questo gusto si trova nel convincimento che il candore fosse il linguaggio dell’arte greca e romana. Al contrario, la statuaria antica era vivacemente colorata. La maggior parte delle sculture levigate e lucenti che ammiriamo oggi erano coloratissime. Le statue, insomma, erano molto simili alle sculture lignee medievali dal cromatismo mimetico e oleografico, con gli occhi dipinti e sospesi simili alle bambole. Per non parlare dei bronzi, che in Grecia erano tirati a lucido e sottoposti a doratura fino a risplendere come le cromature di una automobile. Sennonché il lungo perdurare sottoterra e il lavoro del tempo hanno via via cancellato la patina pigmentata da quei marmi; così quando la generazione neoclassica riscopre l’antico si convince che il mondo di Fidia e Prassitele fosse davvero incorrotto dalla barbarie colorica. A metà Settecento, Johann Winckelmann si mette a lavare le statue per togliere gli ultimi rimasugli di tinta, inventando la classicità bianca e abbagliante che ammiriamo oggi nelle collezioni d’arte di tutto il mondo. Da questo momento, l’antichità perfetta è l’idea che ne ha Canova: il marmo nudo. C’è, però, da chiedersi come mai ai Greci e ai Romani piacessero le statue colorate. Il colore nel mondo antico è cosa rara e non partecipa all’esperienza quotidiana, quindi il suo uso è sempre eccezionale e ammirevole. In più, le sculture subiscono il mutare della luce, offrendosi più bianche di mattina e più rossicce di sera. È plausibile che dipingerle le sottraesse a questo mutamento, elevandole su un piano più concreto da una parte (® somigliano alle cose comuni del mondo) e più astratto dall’altra (® non mutano con la luce e rimangono sé stesse, come le idee). C’è poi da dire che per la mentalità antica non esiste quello che noi chiamiamo kitsch (= l’imitazione dozzinale delle grandi opere), un po’ perché l’arte non era tenuta in così alta considerazione come oggi e un po’ perché è solo la diffusione di oggetti industriali ad alimentare la graduatoria tra alto e basso. Potremmo allora insinuare che il successo del bianco alla Winckelmann sia stato favorito proprio dal suo opporsi al chiasso dell’industrializzazione. Un fatto che conferma come la Storia non sia solo qualcosa che si scopre, ma anche qualcosa che si inventa. Nel 1977, in Italia scoppia una polemica che si delinea presto come una vera e propria forma di cromofobia, un rifiuto radicale del colore. In difesa della spartana verità della televisione in bianco e nero, si alzano gli strali dei custodi della morale: bisogna impedire l’introduzione del colore che potrebbe corrompere i costumi. Il dibattito si concentra sull’equivalenza tra cromatismo e decadenza morale. Si attribuisce alla nuova tecnologia un lusso seduttivo non necessario a una società per bene. Già nella seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti si era mossa una crociata contro la cromolitografia, considerata un inutile cedimento al lusso e alla mollezza. Quello che si teme davvero non è il colore, ma il potere seduttivo che conferisce alle cose. La polemica sulla Tv a colori pare l’ennesima variante di quel moralismo vuoto che individua il nemico in questioni di superficie. Di lì a poco non sarà il colore, ma l’avvento delle emittenti private a cambiare il palato e l’etica del Paese. La condanna del colore ha precedenti illustri. Il Novecento non è nuovo a simili giudizi, dietro cui si nascondono timori più ampi, soprattutto quello che il diffondersi del consumo comporti senza dubbio un impoverimento dell’esistenza. Fatta eccezione per un filosofo spregiudicato come Walter Benjamin, la classe intellettuale si è spesso arroccata in posizioni di difesa, disprezzando i prodotti di massa, pretendendo di imporre il proprio gusto a tutte le classi, in primo luogo a quelle che le erano subordinate. Il colore diventa vittima della stessa mentalità: se l’incredibile varietà di merci porta l’uomo alla decadenza, allora proporre molti colori ne imbastardisce la sensibilità. A rinforzare queste posizioni ci si mettono i teorici e gli artisti modernisti: Adolf Loos, quando condanna l’ornamento come delitto, non risparmia il colore; Le Corbusier spara a zero contro la carta da parati battendosi a favore del bianco di calce alle pareti. Tra i due, però, ci sono alcune differenze: mentre Loos persegue l’essenzialità come riscatto dal tribale e dal primitivo, Le Corbusier apprezza alcune forme di primitivismo e vuole il bianco come scudo contro il frastuono contemporaneo (= dozzinalità del mercato). Anche Mondrian e il movimento De Stijl, impongono principî che prima che estetici riguardano l’idea di bene. Più la pubblicità e la comunicazione si fanno colorate, più la classe colta si arrocca in una cittadella dove il colore viene tollerato e centellinato. Riguardo al cinema, un importante studioso come Siegfried Kracauer rimprovera al colore un difetto di realismo, perché distrae e finisce per risultare meno vero del bianco e nero. Per Rudolf Arnheim, il colore al cinema è sdolcinato, volgare e caratterizzato da una completa mancanza di forma. Per Pag. 31 di 58 Michelangelo Antonioni, invece, il problema è un eccesso di realismo che distrugge la natura profondamente artistica del mezzo. Non bisogna, però, sottovalutare che su tutti pesa l’esperienza straordinaria del Neorealismo, che consacra il legame fortissimo tra bianco e nero e impegno morale, additando il colore alla frivolezza e all’evasione. Nel caso del colore troviamo posizioni retrograde e infondate proprio nelle classi dominanti. In questi termini, il colore è una cartina di tornasole che fa emergere alcune contraddizioni sociali. Non è senza significato che il movimento di liberazione omosessuale abbia scelto una bandiera arcobaleno come simbolo da opporre al riserbo sottotono degli amori reputati “normali”. Nella bandiera, il variopinto non sta a significare il vivace, ma il progressista: la tavolozza molteplice di chi si ribella a un unico modo di inquadrare le relazioni, perché molteplici sono le forme del desiderio. Anche per questo, le icone queer sono tanto sgargianti. Per non parlare della rilettura dei melodrammi in Technicolor che mettono al centro del discorso un cromatismo sfacciato, una giovinezza dell’animo che non si lascia intimidire dal moralismo bianco e nero della cultura tradizionale. Usando colori improbabili si persegue alla fin fine un effetto volutamente artificiale per dimostrare che il naturale in fondo non esiste. Per ragioni simili sono variopinti i Barbapapà. Nati nel 1970 dalla mano degli architetti Annette Tison e Talus Taylor, i personaggi risentono dei fermenti del Sessantotto e dei movimenti ecologisti e pacifisti. Il capofamiglia è rosa, la mamma nera, metafore di una famiglia davvero differente. Un po’ per significare che ognuno ha una sua personalità e la sua propria pelle, ma anche per raccontare come le virtù e i limiti dei singoli siano la forza per una società più ricca e cooperativa. Del resto, i Barbapapà non sono solo colorati: la loro virtù principale è cambiare forma. La paura del colore evidenzia come le scelte visive parlino sempre di questioni sociali, che ribadiscono come il primo significato di un colore è spesso l’uso che se ne fa. In un vagone della metropolitana di Roma, è eloquente come i colori più diffusi nell’abbigliamento contemporaneo siano gli scuri. Sarebbe certo il contrario se si pensasse a una spiaggia affollata d’agosto, dove i costumi colorati abbonderebbero. Perfino Goethe afferma che le persone raffinate hanno un naturale disinteresse per i colori sgargianti, e Munsell aggiunge che i colori misurati sono sempre indice di buongusto. Da tempo immemore i più fieri paladini del colore ne hanno preso le distanze quando si è trattato di associargli valori identitari, comportamentali o morali. Oggi sono in tanti, almeno in Occidente, a trattare il minimalismo cromatico come un fatto indiscutibile. La condanna del colore gridato è diffusissima. Il nero è irrinunciabile, e l’amore per il bianco è legge, ma sono, appunto, dei miti. Intorno al colore si sono prodotti saperi, come pure luoghi comuni, leggende, pregiudizi e idiosincrasie, e sono tutte queste diverse posizioni a dare forma all’immaginario. VERDE VERTIGINE “La donna che visse due volte” Il poliziotto John Ferguson, detto Scottie, assiste impotente alla tragica morte di un collega precipitato da un palazzo e, per il trauma, sviluppa una forma invalidante di vertigini. Qualche tempo dopo, Elster, un vecchio amico, gli chiede di sorvegliare sua moglie Medeleine, che è convinta di essere la reincarnazione della bisnonna Carlotta Valdés. Appena la vede, Scottie è conquistato e accetta l’incarico. Comincia a pedinarla e, un pomeriggio, durante una passeggiata sulle sponde del Golden Gate, la sventurata si getta nelle acque della baia. Scottie si tuffa e la salva, portandola nel suo appartamento. Ormai è innamorato e decide di farsi avanti, insistendo per aiutarla a guarire. Tra le ossessioni della poveretta torna con insistenza un luogo comparso in un sogno, un paesaggio in cui Scottie riconosce la missione spagnola di San Juan Bautista. Così decide di condurla lì: giunta sul posto, però, Madeleine ha un crollo e corre su per le scale del campanile. Impedito dalle vertigini, Scottie non riesce a seguirla e assiste al precipitare del corpo sul tetto sottostante. Passa un anno e Scottie incontra per caso Judy Barton, una commessa di un negozio appena somigliante a Medeleine. Judy, però, è davvero la stessa donna, ma Scottie non lo sa. Si è trattato di una messinscena: Elster ha architettato un piano per far fuori la moglie (® la vera Madeleine). Ha assoldato Judy e le ha fatto recitare la parte della moglie debole di nervi per giustificarne in anticipo il suicidio. I due complici, poi, erano pronti a gettare dal campanile il corpo della vera moglie, stordita in precedenza. Scottie è ignaro di tutto, ma una mania lo pervade, come se sapesse. Corteggia Judy, insiste per conoscerla meglio Pag. 32 di 58 e la convince a vestirsi, truccarsi e tingersi i capelli come l’altra, la donna ormai perduta. Judy accetta, perché nel frattempo si è innamorata anche lei. Una sera, Judy gli chiede aiuto per chiudere il fermaglio della collana: Scottie riconosce quel pendente, apparteneva a Carlotta Valdés, e così capisce di essere stato ingannato. Questa è la trama della Donna che visse due volte, capolavoro di Alfred Hitchcock nel 1956. Nel film, il colore ha un ruolo importante sia sul piano narrativo, sia su quello tecnico. Il rosso rubino e il verde smeraldo sono, infatti, usati per mettere in scena alcune antinomie che restituiscono sul piano formale i temi di doppiezza, gemellarità e menzogna che contrassegnano la protagonista. Per fare questo, Hitchcock attinge a 2 modelli molto amati nel dopoguerra: le teorie artistiche incentrate sulle contrapposizioni coloriche e il simbolismo psicanalitico. L’uso del colore è, quindi, molto distante dal cinema a cui siamo abituati oggi nel quale è il più delle volte una faccenda espressiva o di atmosfera. Nella Donna che visse due volte le tinte sono questioni simboliche in senso stretto, contrapposte secondo geometrie rigorose ed eleganti. Qui il colore va decifrato. Secondo gli storici della lingua, all’origine della parola “colore” ci sarebbe il verbo “celare”: le apparenze fenomeniche, seducendo lo sguardo, nasconderebbero la vera essenza delle cose. Il colore, dunque, si mette tra noi e la conoscenza. Di tutte le accezioni possibili, è questa la più aderente al significato profondo del film di Hitchcock. Il biondo di Madeleine è una tinta artificiale che cela la donna castana che c’è sotto. Parliamo di una tinta chiarissima, al limite del bianco. La caratteristica principale di questo biondo è l’aspetto apertamente finto, sintetico, moderno. Il rapporto tra le due donne del film è dunque basato su una serie di opposti: naturale e artificiale, vero e falso. Potremmo, però, aggiungere che, siccome quel biondo è prediletto nelle dive del cinema, il rapporto tra Judy e Madeleine è anche quello tra una donna comune e un’attrice. Madeleine è bionda perché sta interpretando una parte, ma è bionda anche perché tutte le protagoniste di Hitchcock devono esserlo. Questa tinta si configura così come una categoria psicologica, ma soprattutto erotica. In un’intervista, Hitchcock ha confessato a François Truffaut di aver sempre preferito le donne inglesi alle americane, giacché le americane, riguardo al sesso, hanno modi troppo espliciti pur essendo in realtà puritane, mentre le inglesi – all’apparenza gelide – non appena capita l’occasione rivelano un’indole disinvolta e appassionata. Ciò che lo rende speciale è la capacità di Hitchcock di trasformare un desiderio privato in un universale espressivo. Se il castano indica la spontaneità e la sessualità esibita, allora il platino è l’erotismo bloccato. Questo biondo, dunque, argina l’impeto passionale che ribolle sotto il visibile. Il platino è come una museruola che trattiene la sessualità dall’aggredire. I capelli di madeleine sono tirati su, fermi, controllati, si cristallizzano in una crocchia attorcigliata su sé stessa come una spirale: immagine simbolo del film, metafora della vertigine, vortice infinito che ruotando risucchia l’uomo che vi incappa. Quanto all’abbigliamento, la divisa ufficiale di Madeleine è un tailleur grigio, stretto in vita. è una forma misurata e tuttavia parlante, sensuale poiché castigata. Nell’immaginario erotico c’è una costante che accomuna psicologie spesso molto diverse: il fascino esercitato da tutto ciò che stringe, suggerendo una qualche sofferenza. In alcuni casi potremmo dire che, siccome i rapporti erotici sono anche e sempre rapporti di potere, il legaccio riafferma il disequilibro tra i partecipanti. Sul piano figurativo, però, l’indumento che fascia agisce come un evidenziatore. Si capisce allora che il biondo di Madeleine non è una semplice tinta, ma anch’esso un capo d’abbigliamento. Dissimula e contiene, finge e imprigiona, nasconde e sviluppa. Quel biondo e quel tailleur sono un tipo di bondage, ma spiritualizzato. to 38 A questo punto potremmo dire che Madeleine, in quanto personaggio che recita, è cromaticamente una diva del cinema classico, e quindi in bianco e nero; mentre Judy, per opposizione, non solo è “a colori”, ma è colorata. Tanto la prima è composta e inaccessibile, tanto l’altra è emotiva e diretta. La differenza tra Madeleine e Judy non è, però, solo nel tipo di tinta, ma pure nell’intensità: • Il tailleur e i capelli platino possiedono una minima parte di colore e appaiono slavati; • Il vestito con cui Judy entra in scena è, al contrario, di un intenso verde smeraldo e la chioma di un castano acceso, appena tendente al rosso. Judy ha colori più saturi di Madeleine ed è truccata in maniera più forte e vistosa. Ritroviamo in questa contrapposizione l’idea che il colore appartenga agli incolti, mentre il bianco e nero sia segnale di raffinatezza culturale. Madeleine indossa orecchini minuscoli, una perla fissata sul lobo, l’altra si mostra con orecchini grandi, vistosi ed economici. Pag. 35 di 58 assecondando l’esigenza psicologica di un’atmosfera riposante; • Dall’altra si cerca di minimizzare i disturbi dovuti alle cosiddette “immagini postume” (® dopo aver fissato il rosso del sangue, se si muove lo sguardo su un campo neutro si vedono macchie complementari verdastre che possono disturbare la messa a fuoco). Nell’Ottocento, gli ospedali erano rigorosamente bianchi. Finché a un certo punto non ci si è stufati: il bianco fa malattia. È solo nel 1924 che a New York il dottor Paluel Flagg propone di dipingere gli ambienti col complementare del sangue, una tinta che viene subito battezzata eyerest green (= verde riposante). Che certi colori siano più riposanti di altri è comunque un’idea che vanta testimonianze antiche. Galeno nel II secolo ci racconta che i miniaturisti tengono accanto a sé degli oggetti grigi o neri da fissare per poter rilassare gli occhi dopo aver lavorato a lungo davanti a una pergamena. In tutti questi ragionamenti c’è, però, un elemento che viene dato per scontato e che non ha a che vedere col colore in senso stretto, cioè la convinzione che il caldo sia sempre più “faticoso” del freddo. Un esperimento recente dice che lavorare in una stanza azzurra renderebbe più creativi, ma anche quest’affermazione risulta fragile. Da quanto spiegano, verrebbe fuori che stando in mezzo al blu si producano più idee. Delle idee conta la qualità, non il numero, e la qualità è giudicabile solo in ambito sociale, ossia in base alla forza di un’idea di essere accolta in modo positivo all’interno di una comunità. In certi dati, spacciati per ricerca scientifica, c’è purtroppo il pregiudizio che le azioni umane siano sempre inquadrabili in termini di efficienza – laddove la creatività è fatta di gesti sottili e le grandi idee possono essere turbinose e molteplici quanto silenziose e rarefatte. Insomma, una stanza non può rendere più creativi se il colore ce lo impone qualcuno. L’unica stanza davvero creativa è quella che ci siamo dipinti da soli. Tra gli esperimenti più stravaganti condotti sul potere de rosso e del blu ci sono quelli di John Ott, l’inventore della cinematografia timelapse. Negli anni Sessanta del Novecento, Ott alleva dei visoni dividendoli in 2 gruppi: alcuni li fa vivere sotto una luce rossa e altri sotto una luce blu, e conclude che i primi risultano più aggressivi e non si accoppiano con facilità, mentre gli altri fanno molti figli e diventano docili. La luce controlla molte funzioni biologiche, a cominciare dai ritmi del sonno e di veglia, e la luce blu è più simile per composizione a quella degli ambienti naturali. Poi Ott prova coi topi e li divide in 3 gruppi, alcuni allevati con luce bianca, altri rosa e altri ancora blu. Scopre che con la luce blu i figli dei topi sono al 70% maschi, con la rosa sono al 70% femmine e con la bianca sono metà maschi e metà femmine. La differenza tra rosa e celeste attribuita a maschietti e femminucce è, però, recentissima ed è quanto di più convenzionale si possa immaginare, tanto che fino all’Ottocento accadeva esattamente il contrario: • Il rosa spettava ai maschi perché era sentito come una versione addolcita del rosso; • Il celeste era il colore delle bambine, in omaggio al manto della madonna. La convenzione non è solo del colore, è proprio il ragionare per opposti cromatici che è caratteristico della modernità. Nel mondo antico non c’è traccia di un dualismo tanto forte nell’abbigliamento. C’è, però, un fatto biologico che ha probabilmente contribuito alla costruzione di questo mito. I difetti della visione cromatica (® il daltonismo e le sue varianti) riguardano solo gli uomini per un deficit della retina trasmesso tramite il cromosoma maschile, ed è appunto la gamma dei rossi e dei rosa quella che più spesso non viene riconosciuta. È chiaro che un dato del genere abbia partecipato a diffondere quei luoghi comuni per cui gli uomini sarebbero meno talentuosi nell’abbinare i colori. Non è un caso che i prodotti destinati al pubblico maschile abbondino di blu, perché tutti i maschi sono in grado di vederlo. Questa, però, è un’occorrenza meramente statistica. Non si può ignorare che il 92% degli uomini è in grado di vedere il rosso, il rosa, perfino il fucsia, e li trova spesso anche piacevoli. Le convenzioni cambiano tuttavia in maniera più veloce di quanto si creda. Oggi sono in tanti a rifugiarsi in vestire i neonati di rosa e celeste. Nondimeno la maggior parte dei prodotti rivolti ai 2 sessi continua a perpetrare questo stereotipo, come raccontano bene le opere di The Pink & Blue Project dell’artista coreano JeongMee Yoon, ribadendo i rapporti strettissimi che legano il consumismo alla costruzione degli stereotipi di genere. In realtà, dietro le ricerche sulla capacità del colore di influenzare la nostra psiche si annida un interrogativo più generale, ovvero se esistano significati cromatici dal valore universale, sovraculturale. Proprio riguardo al rosso e al suo portato caloroso e appassionato, i sostenitori di un possibile innatismo semantico fanno da sempre notare che questo colore caratterizza i genitali di molti mammiferi, le creste e i bargigli, la bocca, il sangue, il fuoco: tutti elementi che spiccano e dal forte Pag. 36 di 58 peso segnaletico. Per tali ragioni il rosso sarebbe “naturalmente” legato al sesso, alla passione, all’irruenza, all’allarme e al pericolo per tutti gli uomini di qualsiasi epoca e latitudine. Sesso e pericolo sono concetti differenti e persino un freudiano ortodosso faticherebbe a giustificarne un possibile significato comune tra rosso passionale e quello di un divieto stradale. Inoltre, la constatazione che le virtù irruenti del rosso siano legate al sangue va presa con cautela. In realtà, il sangue è rosso solo se lo osserviamo in piccole quantità, mentre l’esperienza del sangue violento e che scorre a fiotti è più spesso quella di un fluido marrone, talvolta quasi nero. Se i significati fossero innati, allora il marrone dovrebbe farci pensare a un super-rosso e indicare extra-violenza – ma non è così. Molte cose rosse sono legate al sesso, al pericolo e all’irruenza, ma non tutte. Tra l’esperienza percettiva e quella significane deve porsi una scelta con cui ci soffermiamo su alcuni aspetti e non su altri. Dire che i significati dei colori sono una faccenda culturale non vuol dire tuttavia negare le caratteristiche fisiologiche con cui facciamo cultura o la potenza della nostra risposta emotiva al colore. Il malinteso è, in realtà, dovuto al ragionare per antinomie tipico della società attuale, cioè all’opporre in maniera netta “natura” e “cultura”. La cultura è tutto ciò che abbiamo appreso dal momento in cui siamo nati, anzi si può dire che è il modo stesso in cui funziona il cervello che, per svilupparsi, ha bisogno di una costante interazione con l’ambiente. La cultura è la natura del cervello. Per questo la distinzione tra innato e acquisito è troppo rigida per spiegare fenomeni complessi come quelli cognitivi. I significati che legano il rosso al sangue sono sempre culturali, ma allo stesso tempo motivati da condizioni inevitabili. È, però, l’associazione a essere inevitabile, non il significato che ne consegue. Del resto, in Cina l’amore più appassionato è rappresentato da nuance delicate, chiarissime, come il rosa o il celeste, e non c’è dunque il rapporto tra irruenza dei sensi e saturazione cromatica. Ne consegue che nella maggior parte dei casi si può far dire al colore tutto e anche il suo opposto. I colori vivaci ci permettono senza sforzo collegamenti con i sentimenti più allegri, perché la risposta psicologica alla luce è un aspetto fondamentale del nostro stare al mondo. Nulla ci vieta, però, di fare il contrario e costruire significati positivi con toni spenti o cupi. to 41 Gli esperimenti che comprovano i rapporti tra eccitabilità e tinte calde si sono dunque rivelati esili nelle argomentazioni e si possono trovare altrettanti controesempi che avvalorino il contrario. Sappiamo che i rossi, gli arancioni e i verdi si vedono meglio di altri colori in quanto possediamo un numero maggiore di fotorecettori in fondo all’occhio predisposti a elaborarli. Gli scienziati avanzano ipotesi, eppure un secolo di ricerche ed esperimenti non ha portato a una risposta conclusiva. Ancora non sappiamo quanto i cosiddetti aspetti culturali influenzino gli stati emotivi e metabolici, ed è probabilmente questo l’ambito di ricerca più interessante a cui dedicarsi. Bisognerebbe formulare un’antropologia della visione in cui i vecchi parametri che oppongono la biologia alla cultura fluiscano gli uni negli altri senza rigide distinzioni. Allo stesso tempo non bisognerebbe trascurare che ciò che sembra innato, organico o biologico non è mai staccato dalla Storia, dalla società e dalle sue pratiche. Il daltonismo viene diagnosticato solo nel 1794 poiché prima della diffusione massiccia di oggetti colorati passava per lo più inavvertito. Il daltonismo è, dunque, una condizione “innata”, ma che non esisteva concettualmente prima di un preciso momento storico. Il presupposto scientifico contemporaneo è che il colore sia un continuum, dal rosso al violetto, che attraversa ogni tonalità e che può essere segmentato: se ne può prendere ogni volta un pezzettino e parlarne. In questo spazio ogni tinta occupa un punto che è sempre in qualche rapporto di vicinanza o di lontananza con gli altri punti. Che un rosso possa essere definito “caldo” è possibile solo perché lo posso confrontare con un altro rosso, in un altro posto dello spettro, che mi appare meno caldo. Senza questo confronto interno all’insieme, la distinzione tra caldo e freddo non ha più senso. Difatti, nel Medioevo sia il rosso che il blu sono reputati caldi, perché brillanti e intensi, mentre il giallo è freddo perché affine a un metallo. Non si può, insomma, far finta che il mondo moderno sia radicalmente diverso rispetto allo scenario visivo in cui ci siamo evoluti. TURCHESE REGISTRATO Il copyright sulle percezioni Nel 1845, Charles Lewis Tiffany, il famoso gioielliere newyorkese, per la copertina del suo catalogo, sceglie una varietà di turchese diventata da allora distintiva del brand. Si tratta del colore delle uova del Turdus Migratorius (® merlo americano), ma la ragione della scelta è da ricercarsi nella moda, diffusa tra le spose vittoriane, di regalare ai collaboratori domestici una spilla con una pietra turchese. Se Pag. 37 di 58 nel XIX secolo la tinta è realizzata in modo artigianale dai tipografi che stampano per Mr Tiffany, oggi il colore ha un suo codice di riferimento: il Pantone 1837. Eppure, se la cerchiamo nella mazzetta, la tinta non compare da nessuna parte. La ragione di quest’assenza è dovuta al fatto che in alcuni Stati il colore 1837 è un marchio registrato prodotto in esclusiva per la gioielleria. Una sofisticata idea di marketing: quel tassello turchese racconta il suo prestigio per assenza. Questa storia nasconde un inganno e pone una domanda: è possibile brevettare o registrare un colore? Di recente sono venuti alla ribalta delle cronache 2 processi in cui ci si è contesi un copyright cromatico: • La Bp, il colosso petrolifero, voleva proteggere dagli imitatori l’uso della sua accoppiata verde e gialla; • La maison francese Louboutin ha denunciato Yves Saint Laurent, Zara e Eden Shoes per avergli copiato le iconiche scarpe nere dalla suola rossa. Nel caso della Bp, i tribunali hanno respinto la richiesta come inaccettabile e insensata: una coppia di colori non è brevettabile. Nel processo Louboutin, lo stilista non si appella a un particolare rosso, ma al suo uso: rivendica il design cromatico della scarpa, che è divenuta in breve tempo un’icona del lusso contemporaneo. Dal punto di vista legale, però, basterebbe trovare un unico caso di scarpa con la suola rossa antecedente per smontare qualsiasi pretesa di brevettabilità da parte di Louboutin. Per i giudici, l’uso della suola colorata è affine ad altre idee che caratterizzano la moda, quindi l’unico divieto posto ai concorrenti per il momento è l’uso di suole rosse su scarpe nere. Viene, insomma, riconosciuto allo stilista francese il brand dell’accoppiata, ma non il colore in sé. È chiaro che Louboutin nella sostanza ha perso la sfida: se tutti si mettono a produrre scarpe dalle suole di colori diversi, nel giro di un decennio l’idea perderà smalto, riconoscibilità e paternità. In questi termini le pretese dei colossi commerciali dimostrano spesso una grande incompetenza su cosa sia possibile o lecito a proposito del colore. È possibile proteggere il colore? Se la risoluzione è spesso affidata a questioni legali, in realtà gli unici che possono rispondere sono gli scienziati e i filosofi. Quando diciamo che 2 cose hanno lo stesso colore, stiamo sottintendendo che questo sia vero in determinate condizioni, e non in assoluto. Questo fenomeno ha un nome scientifico: “metamerismo”, ossia quando 2 tinte appaiono uguali sotto un tipo di illuminante ma diverse sotto un altro. Dentro casa, con la luce a incandescenza, il blu ci appare davvero indistinguibile dal nero perché la radiazione delle lampadine è spostata verso i toni caldi, ma al sole, che ha una banda più ampia, si rivelano 2 tinte distinte. Di fronte a questi problemi, la multinazionale americana General Electric suggerisce che se 2 colori appaiono identici sia sotto una luce fluorescente, sia sotto quella a incandescenza, solo allora possono essere definiti uguali. Ecco come mai nelle procedure industriali le tinte vengono valutate di solito con una luce standard di 6500 kelvin. A tal proposito, spesso, nei negozi di tessuti i commessi accompagnano i clienti fuori, all’aperto, per far apprezzare loro meglio, al sole, la sfumatura esatta della stoffa che vorrebbero acquistare. Nella società attuale, però, capita di passare più tempo in casa la sera, quindi uscire dal negozio per comprendere il colore del tessuto è francamente inutile. In tutte queste procedure c’è un malinteso che va sfatato, e cioè che esista un colore “vero” delle cose e che per vederlo si debba metterle sotto la luce giusta. Considerare la luce del sole più attendibile di quella di una lampadina, però, è una convenzione. Noi viviamo in un mondo in cui la luce cambia di continuo e possiede tante colorazioni a seconda dei momenti e dei periodi dell’anno. In fondo viviamo sotto la luce di mezzogiorno meno di ¼ della nostra vita. anche l’idea che esista un colore giusto delle cose è, dunque, solo una conseguenza della rivoluzione industriale. Una vecchia storia del mondo del design racconta di un ristoratore di New York che, negli anni Settanta del Novecento, decide di dare un tocco caldo e romantico al suo locale immergendolo in una morbida luce rossa, ma non va come immagina. All’inaugurazione l’effetto è superbo, ma l’entusiasmo cade di fronte alle prime pietanze: le verdure appaiono nere, quasi marcescenti. Il designer che ha progettato il locale, anziché scegliere delle lampadine rosse, ha deciso di usare lampadine bianche filtrate da gelatine rosse, col risultato che la luce irradiata è soltanto rossa e le verdure, non avendo radiazioni verdi da riflettere, rimangono mute, ossia nere come se nulla le illuminasse. Filtri e gelatine sono, difatti, modificatori di lunghezze d’onda, amati dal cinema e dal teatro per valorizzare alcune forme e annullarne altre. Il vetro rosso blocca completamente le radiazioni verdi, cosa che nel mondo naturale non si verifica mai, perché la luce del sole contiene sempre una briciola di tutte le lunghezze d’onda. Nel mondo contemporaneo abbiamo fatto Pag. 40 di 58 magmatiche come fosse animata. Infatti, se dovessimo dire di che colore sono gli animali di Mari, dovremmo ammettere che sono di plastica “color legno”. o 44 Si può, invece, osservare che nei famosi Playmobil le figure umane sono fatte di plastica lucida, mentre gli animali hanno una superficie ruvida, un elemento caratterizzante che narra la netta distinzione tra natura e cultura dell’universo civilizzato in cui vivono questi personaggi; del resto, è esperienza comune che il lucidato è spesso frutto di lavoro, mentre il ruvido è tipico delle cose prima che l’uomo vi intervenga. Il caso più famoso di reinvenzione della pelle umana è quello della Barbie, che opta da sempre per le varianti di beige. Nelle bambole e nei manichini, il grado massimo di illusionismo si raggiunge con la modellazione in cera: questa, però, ha l’inconveniente di risultare macabra e inquietante, perché fa sembrare i lineamenti allo stesso tempo troppo realistici e immobili. Barbie si ferma un attimo prima: usa un materiale ceroso e lo colora in maniera compatta. In tale sistema non conta solo la tinta in sé, ma anche le relazioni che questa instaura con gli altri pezzi del gioco: per esempio, Ken ha la pelle di un marrone più scuro, a significare che è maschio. Quando la Mattel prende questa decisione, sta applicando un topos iconografico antichissimo. Il rosa chiaro per dipingere le carni femminili risale alla pittura greca e romana, dove restituiva con molta probabilità una virtù sociale più che biologica: nel mondo antico, le donne passano molto tempo in casa e finiscono, quindi, per essere più chiare rispetto agli uomini che, per lavoro o per guerra, hanno sempre modo di abbronzarsi un po’. Il tema viene ripreso dalla letteratura cavalleresca, che lo amplifica consolidando il vincolo tra pallore e regalità. Cennino Cennini è prescrittivo in proposito: in pittura l’uomo bello vuole essere bruno e la femmina bianca. Agli albori del mondo industriale, questi ideali cortesi rifluiscono nella favolistica, così che lo scarto tonale diventa legge. Mentre è facile nominare la tinta unita, le tinte articolate ci inchiodano all’insufficienza delle parole. In questi casi, per cavarci d’impaccio, disponiamo di alcuni termini (® biondo, castano, pallido) che esprimono delle proprietà cromatiche svincolate da grandezze fisiche: castano è sì un colore, ma non si riferisce a una tinta precisa e meno che mai omogenea. Castano è il modo in cui chiamiamo i marroni limitatamente ai capelli e agli occhi. È, però, ammesso usare il lessico dei capelli per parlare della birra, che è appunto un campione di “colore volume”. Matite e pennarelli hanno una grande responsabilità nella costruzione dell’immaginario degli occidentali: sono gli strumenti principali con cui si inizia a maneggiare il colore e propongono una matrice di relazioni che sembra libera, mentre contiene in sé delle scelte specifiche. Si sta usando l’evidenza di uno strumento pratico per suggerire ai bambini una visione astratta sulla realtà. Gli antesignani dei pastelli per l’infanzia sono stati i Crayola, lanciati negli Stati Uniti nel 1903. Ancora oggi sono un’istituzione. La prima scatola di Crayola conteneva 8 colori: all’epoca di questa selezione, il rosa non c’era. Come spesso accade, i problemi concettuali diventano presto faccende di marketing e la Crayola introduce, già negli anni Dieci, il tanto agognato pastello rosa, battezzandolo “color carne”. Il nuovo arrivato ha successo per oltre 50 anni, fino al 1962, quando l’azienda si trova costretta a cambiarne il nome: qualcuno osserva, con ragione, che la pelle è di tanti colori e nessun pastello può arrogarsi il primato di rappresentarla. Con un colpo di coda, Crayola ribattezza ”pesca” il “color carne”. La scelta dimostra come, di fronte a superfici dal colore complesso, nominare una tinta non è convincente e dobbiamo ricorrere a sistemi diversi, come evocare una superficie che abbia caratteristiche simili. Usare espressioni indirette è, del resto, da sempre la via più facile in tutte le culture. Gli m’bay, una tribù del Ciad nell’Africa centrale, usano soltanto espressioni comparative (® ad esempio, “l’essere come l’uccello della boscaglia”). Anche nella cosiddetta società evoluta si usano parecchie formule indirette (® “rosa salmone” o “grigio topo”). Nulla ci vieta di inventare un nome apposito e battezzare il rosa salmone “gebo”. L’unico vincolo è evocare una sensazione che il nostro interlocutore possa riconoscere, e perché questo sia possibile dobbiamo trovarci in un contesto in cui sia noto l’aspetto delle carni del salmone. I colori discernibili dall’occhio umano sono circa 200, ma ogni cultura e ogni momento storico hanno bisogno solo delle parole che corrispondono al proprio mondo tecnico, psicologico e sociale. Il salmone non ha in definitiva una lunghezza d’onda riconosciuta e certificata dal vocabolario. Un pittore ci spiegherebbe che dal punto di vista pratico ciò che chiamiamo salmone è un arancione in cui si sente un pizzico di bianco. “Salmone” è divenuto una categoria mentale, una tipologia cognitiva. Eccoci allora di fronte a un altro dei Pag. 41 di 58 molti problemi filosofici che ci sottopone la percezione visiva: se il mio interlocutore non ha mai avuto esperienza di un certo colore, non ho modo di spiegarglielo a parole, a meno che non condividiamo gli stessi modelli mentali. Se, però, il dialogo avviene tra persone che non condividono questa cultura comune, il colore può solo essere veduto o mostrato. In questo caso, ho bisogno di un gesto ostensivo, cioè un cenno che indichi la cosa cui sto attribuendo tale caratteristica. Solo quando quel particolare colore viene riconosciuto e appreso da entrambe le parti se ne può parlare anche in sua assenza, perché è divenuto un tipo cognitivo comune. Per questo, se vogliamo indicare una tinta esattissima, dobbiamo lasciare le parole e affidarci a un campione. L’unico modo di individuare un colore preciso è mostrarlo. La mazzetta Pantone è stata inventata proprio per semplificare le trattative e rendere più scorrevoli le comunicazioni. Oggi, difatti, tutto il colore è commercializzato tramite il sistema dei campioni, che però non possono dire tutto. Il sottinteso tra chi vende e chi compra è che il tassello mostri più o meno la tinta e in parte la finitura: lucida, opaca o satinata. Un campione mostra solo alcune prerogative, è sempre un “circa”. Parole e campioni sono, insomma, 2 modi per parlare del colore, ciascuno con limiti particolari, che emergono ancor di più quando si ha a che fare con superfici dal colore complesso e variegato. Il campionario è un modello storico preciso, è il sistema con cui nella società attuale riportiamo colori talvolta indicibili a parole. BLE OMERICO Un’ipotesi per la percezione Londra 1858. William Ewart Gladstone è un politico avviato a una radiosa carriera, ma oltre alla politica ha un’altra passione che lo mette al centro di attacchi feroci: ama in maniera appassionata Omero. In quegli anni, l’epica greca è considerata una grande narrazione patrimonio dell’umanità, ma frutto di fantasia. Solo nel 1872 saranno ritrovati da Heinrich Schliemann i resti del palazzo di Micene, che proveranno l’esistenza di Troia. Gladstone, in anticipo su questa scoperta, rivendica l’autenticità storica del mondo omerico e sull’argomento pubblica un’opera in cui mette a frutto la sua cultura classica. Scrive un capitolo destinato a far discutere: La percezione e l’uso del colore in Omero. Sostiene che i Greci dei tempi eroici non vedano alcuni colori per via di un’immaturità delle facoltà visive – affermazione che viene criticata con asprezza. C’è, difatti, chi osserva che la distanza che ci separa dagli antichi è un tempo troppo breve rispetto alla storia di homo sapiens perché la biologia dell’occhio possa essere mutata in maniera sostanziale. Riguardo al colore, Omero è parco di nomi. I contrasti di bianco e di nero, di chiaro e di scuro, sono presenti e costanti, ma di altre tinte ci sono poche tracce. In tutta l’opera il rosso compare solo 13 volte, ma soprattutto il blu non è mai nominato. Quando si trova a descrivere cose che noi chiameremmo blu, Omero usa delle perifrasi che, invece di chiarire, disorientano. Lo stesso vale per il mare, definito “color del vino”. C’è chi ha sostenuto che Omero parlasse del colore del mare all’alba, quando è cupo e denso; chi ha ipotizzato la presenza di alghe rosse che lo farebbero apparire simile a un bicchiere di Chianti; e pure chi ha provato a sostenere che il vino, quando è scuro, ha riflessi bluastri. Nel mondo industrializzato siamo così abituati a parlare di colore riferendoci alle tinte che fatichiamo a immaginare altri usi. Per noi i colori sono il rosso, il giallo, il blu, eppure per secoli il colore è stato, invece, la sembianza complessiva delle cose. Se per colore intendiamo l’insieme di queste proprietà fenomeniche, ecco che un mare color del vino non pare più tanto assurdo. Il mare e il vino sono entrambi casi di colore volume, cioè sostanze il cui effetto cromatico è dato dalla percezione della loro tridimensionalità. In sostanza, è possibile che Omero stesse confrontando non delle superfici, ma dei liquidi. Se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo prendere le distanze dai nostri usi moderni poiché il nodo è ancora tutto qui; il rapporto problematico tra ciò che vediamo e come decidiamo di nominarlo. A tal proposito, il filosofo Ludwig Wittgenstein porta una prova particolarmente significativa: di fronte a una fotografia in bianco e nero siamo sempre in grado di dire se qualcuno ha i capelli biondi, pure se quello che vediamo davvero è solo un grigio. Lo scarto tra come percepiamo le cose e come decidiamo di pensarle è una caratteristica fondamentale di tutta l’esperienza cromatica. Del resto proprio l’uso che facciamo dei termini “bianco” e “nero” nel linguaggio comune è rivelatore: chiamiamo bianco il vino anche se lo vediamo giallo, e diciamo che l’uva è nera anche se la vediamo viola. Bianco e Pag. 42 di 58 nero sono dunque, ancor prima che fenomeni, concetti con cui parliamo del massimo chiarore e della massima scurezza all’interno di circoscritti sistemi di riferimento. Qualche anno fa, la rete è stata invasa da un gioco percettivo: si tratta della foto di un vestito che ad alcuni sembra blu e nero, ad altri bianco e oro. A incuriosire è il fatto che le persone di fronte al medesimo monitor sostengano di vedere 2 cose tanto diverse. La risoluzione dell’enigma deve prendere atto che ci troviamo di fronte a una foto ambigua in cui non si capisce bene da dove venga la luce. Se misurati, ci sono un celeste e un marrone e, se ne isoliamo un dettaglio, l’ambiguità scompare. Il cervello, però, può decidere di leggere questi dati come un abito bianco all’ombra oppure come un abito blu schiarito da troppa luce. Il marrone potrà essere interpretato come un oro in ombra o come un nero molto illuminato. A complicare il rapporto tra vedere e nominare si aggiunge, però, il fatto che le 2 attività funzionano in maniera radicalmente differente: mentre per la percezione il colore è un continuum di gradazioni in cui le tinte sfumano le une nelle altre senza fratture, per il linguaggio si tratta di segmenti isolati. L’occhio non vede interruzioni tra il cremisi e il carminio e tra i 2 ci sono indefinite percezioni intermedie. Per la lingua, invece, cremisi e carminio sono 2 colori separati dalle parole in modo netto. Non bisogna, inoltre, trascurare che ogni gruppo sociale parla del colore a modo proprio. Chi cresce in una famiglia in cui le pratiche artistiche o il gusto per la moda sono presenti è possibile che sviluppi un vocabolario e delle percezioni più articolate di chi viene educato in una famiglia che non ha questi interessi. Questo perché è abituato a nominarli in maniera dettagliata. Per esempio, la lingua giapponese antica possiede la parola ao con cui ci si riferisce a una gamma che comprende il nostro blu e parte del verde. Poi, a un certo punto, compare midori, un nuovo termine per indicare esclusivamente l’ambito die verdi, lasciando così ad ao campo libero per riferirsi al blu. La faccenda si complica, però, negli anni Trenta del Novecento, quando si installano i primi semafori stradali importandoli dagli Stati Uniti. Ao, infatti, nella lingua moderna significa “via libera” e quindi sembra perfetto per l’uso segnaletico, sennonché una convenzione internazionale vieta di fare i semafori blu. Alla fine, nel 1973, anziché cambiare la lingua, il Giappone interviene sulla realtà e decide di installare semafori di un turchese ineffabile che non è verde, ma non è ancora blu, aggirando con una percezione intermedia le suddivisioni del linguaggio. Nel 1969, Brent Berlin e Paul Kay hanno redatto uno degli studi più controversi e citati dell’intera storia del colore. Dopo aver intervistato parlanti di 98 lingue, i due antropologi arrivano alla conclusione che, tra le popolazioni che hanno soltanto 2 parole per indicare i colori, queste sono sempre “bianco” e “nero”. Se le parole sono 3, allora la terza è rosso. Se sono 4 o 5, allora dopo il rosso compaiono il verde e il giallo. Berlin e Kay stanno cercando l’universale linguistico. Un dato del genere, però, è passibile di interpretazioni sfaccettate, e oltre agli entusiasmi ci sono state le inevitabili stroncature: • La prima obiezione che viene mossa all’indagine è che i soggetti intervistati provengono tutti dalla baia di San Francisco e sono, quindi, una generazione bilingue, già fortemente urbanizzata; • La seconda critica è rivolta all’uso di campioni di colore tratti dall’atlante Munsell, fatto di tassellini di tinta isolati e, quindi, appartenenti a un sistema specialistico, occidentale, espressione di un momento preciso della storia dell’industria, che contiene in sé un inevitabile punto di vista sulle cose. La presentazione di una sequenza graduata o la separazione della tinta della sua luminosità sono idee recentissime e sceglierle per parlare del colore è una semplice abitudine. Il biasimo rivolto ai 2 antropologi è quello di interrogare culture diverse partendo dall’assunto che nominare la tinta sia un dato universale, mentre è chiaro che popolazioni altre non per forza operano questa distinzione. Ci sono, tuttavia, alcuni aspetti della ricerca che non possono essere liquidati, come il fatto che la valutazione tonale (® bianco-nero) preceda il concetto di tinta e che, quindi, la luminosità sia la caratteristica che prima di ogni altra è sentita importante nel descrivere le sembianze del mondo. Il dato più suggestivo sta, tuttavia, nell’aver suggerito una successione incentrata su un primato del rosso di natura antropologica e non psichica. Molti termini per indicare il rosso vengono dal sanscrito rudhira, che significa “sangue”. Non è detto, però, che il termine abbia a che vedere con la tinta, potrebbe essere appunto una qualità visiva più generale. Se in alcuni contesti può significare rosso, in altri potrebbe significare soltanto colorato. Da un punto di vista storico, il rosso è il primo colore a essere stato “fatto” dall’uomo. Mentre per il blu o il verde bisogna aspettare la civiltà egizia e per il malva la rivoluzione della chimica, i pigmenti rossi Pag. 45 di 58 alla tavolozza. L’assortimento dipende dal tipo di tecnica, dal momento storico, dalla situazione in cui si opera e dalla disponibilità economica. Sono queste condizioni materiali a determinare come si ragiona. Oggi la maggior parte delle immagini con cui abbiamo a che fare emette luce. Questo conferisce al colore una vivacità che non si è mai data prima nella storia degli artefatti umani, se si eccettuano forse le vetrate gotiche. Grazie agli schermi, frequentiamo tinte cariche e brillantissime, che sono diventate il parametro con cui valutiamo la purezza di tutti i fenomeni cromatici. Chi ha conosciuto il colore della televisione non può più vedere il mondo con gli occhi del passato. EPILOGO. Il colore come strumento mentale Il 12 aprile 1961, Jurij Gagarin, il primo uomo ad essere andato nello spazio, rivela che, vista da lassù, la Terra è azzurra. Non per i mari che la ricoprono, ma per l’atmosfera che l’avvolge. Nelle raffigurazioni del passato, la Terra è di diversi colori (® marrone o verde). Nel 1969 anche gli americani vanno nello spazio. Queste esperienze influenzano tutte le raffigurazioni successive. Il cosiddetto immaginario collettivo si costruisce così: un’idea compare, prende forma, piace, comincia a essere maneggiata dalle persone, viene usata da artisti, designer e registi, e pian piano diventa un archetipo condiviso. Oggi, per tutti, che la Terra sia azzurra è un fatto, qualcosa che abbiamo imparato attraverso la diffusione delle immagini permessa dai mass media. È qualcosa che sappiamo, ma che non possiamo vedere a occhio nudo. Questo azzurro è un colore che non abbiamo sperimentato davvero e che esiste solo grazie a un intervento fotografico. Oggi non c’è quasi nessun colore che non partecipi di questa condizione, cioè esistere nei nostri pensieri in virtù di una mediazione tecnologica. Tutte le società hanno formulato da sempre sistemi simbolici in cui riconoscersi e in cui il colore ha avuto un ruolo centrale. Quello che è nuovo nel mondo moderno è l’inquadramento di tali pratiche all’interno di procedure tecnologiche e di scambi commerciali che, da una parte, le amplificano e, dall’altra, le standardizzano. Per queste ragioni, oggi il colore è una categoria psicologica che esiste insieme al modo di produrlo, di diffonderlo e di narrarlo. Nel XIII secolo, il poeta Bonvesin de la Riva, per descrivere la perfezione del paradiso, dice che lassù i colori sono brillanti e non sbiadiscono mai. Segno che al tempo fissare le tinte dei tessuti era pressoché impossibile. Oggi non ci verrebbe mai in mente di usare un’iperbole del genere per parlare della perfezione divina, ma pure noi abbiamo le nostre metafore cromatiche e i nostri miti. Un classico dell’immaginario pubblicitario è usare lo spettro cromatico per comunicare un’idea di eccellenza tecnica: l’arcobaleno è un’iconografia consolidata per vendere, ad esempio, televisori e macchine fotografiche, sottolineando l’accuratezza con cui catturano i colori del mondo. La progressione ordinata dalle tinte si è fatta sinonimo di completezza e vastità di scelta. Se nel Medioevo la cosa importante era che i colori fossero durevoli, oggi per noi conta che siano parecchi. Il cerchio di Newton, Goethe e Itten è diventato, insomma, una figura retorica, il mito per antonomasia dei nostri tempi: quello dell’assortimento. Questa associazione tra l’iride e la completezza colorica ci sembra un’ovvietà, però è appunto una leggenda. Che nell’arcobaleno siano contenuti tutti i colori non solo non è vero, ma non è mai appartenuto al bagaglio culturale del passato: se andiamo a vedere le raffigurazioni tardoantiche, l’arcobaleno è composto di 2 sole tinte, spesso l’arancione e il verde. Ogni epoca ha, in definitiva, il proprio regime percettivo, ossia il modo con cui guarda ciò che la circonda. Se tra 10.000 anni un archeologo ritrovasse una mazzetta di Pantone, quel reperto testimonierebbe il colore come sistema regolato, in cui le tinte si susseguono per gradazione e sono concepite e nominate per lo più come campiture omogenee. Questa, però, non è la verità del colore: è solo un frammento nello sviluppo degli accadimenti umani. A un certo punto della Storia, è stata l’industria a definire le priorità cromatiche: per esempio, decidendo che alcuni colori sono basilari rispetto ad altri. Segno che la tecnologia può influenzare i pensieri in maniera così forte da essere scambiata per una verità della fisica. Non è senza significato che solo di recente, sul fondo dell’occhio di alcune donne, un gruppo di ricercatori abbia individuato un 4° tipo di cono. Se questa scoperta dovesse essere confermata, cambierebbe in maniera sostanziale il punto di vista sul modello tricromatico. È probabile che il fatto sia passato inosservato per un po’ perché più raro statisticamente, un po’ perché il modello teorico dei 3 Pag. 46 di 58 primari è stato per tutto il Novecento parte integrante del bagaglio culturale degli scienziati. Eppure, nel sentire comune, è diffuso il mito che la scienza operi fuori dalla Storia, costruendosi un progresso che va per conto suo, e che le scoperte avvengano per caso e all’improvviso, sorprendendo i ricercatori. In realtà, la maggior parte delle volte c’è sempre un’ipotesi teorica che guida la ricerca. Si segue una linea formulata all’interno di una cultura precisa. Scambiare i fatti scientifici per verità fuori dalla Storia è, però, rischioso, perché si arriva a credere che l’unico modo possibile sia quello in cui viviamo, e quindi si finisce col bloccare il percorso della conoscenza, inclusa quella della scienza futura. L’arte e il design, da parte loro, sono oggi dominati da 2 modelli cromatici forti: • Da un lato, l’eredità della tradizione didattica modernista e gestaltica (® Itten, Albers o Arnheim); ssunto 49 • Dall’altro, stanno diventando sempre più presenti i saperi che provengono dalle neuroscienze. Nessuno di questi due approcci sembra, però, soddisfacente per capire linguaggi estetici complessi. La didattica artistica cerca il senso e il funzionamento del colore nelle opere, concentrandosi sulle dinamiche interne alle composizioni; le neuroscienze hanno, invece, spostato l’interesse dalle opere al cervello, affermando che il senso del colore stia nella mente di chi guarda. In entrambi i casi vengono ignorati 2 degli elementi più importanti per la comprensione dell’arte: la società e la Storia. Il limite è reputare la percezione visiva un fenomeno che trova un sé stesso ogni motivazione e sensatezza, quando, al contrario, il nostro guardare accade sempre in un momento e in un luogo precisi. Nel 1978 viene scoperta a Hochdorf, vicino Stoccarda, una sepoltura principesca piena di reperti in oro e bronzo di fattura locale, tranne un grande calderone di evidente origine greca. Sulla sommità compaiono 3 leoni accovacciati: 2 hanno forme in linea col gusto greco del VI secolo, il 3° mostra uno stile differente. È plausibile che il leone originale sia andato perduto o si sia rotto, e che un artigiano locale abbia deciso di ricostruirlo impiegando il linguaggio che gli era più familiare. Il leone germanico è frutto di una maniera diversa di ragionare. Mentre lo scultore greco è concentrato sulle forme plastiche e sul compenetrarsi dei volumi, il tedesco imposta la massa generale del corpo e poi incide i dettagli, perché probabilmente è abituato a lavorare il bronzo come si fa con un monile. Il risultato è che il muso sembra più disegnato che modellato. L’artigiano germanico può cioè ricreare il leone solo attraverso quelle procedure tecniche e psicologiche che ha acquisito negli anni tramite le specificità del suo lavoro. Il risultato è che i leoni greci sono opere di scultura, quello germanico è un pezzo di oreficeria. Il confronto tra i leoncini evidenzia, perciò, come la tecnica non sia un semplice mezzo per fare qualcosa, ma diventi un modo con cui pensiamo la materia, secondo le possibilità e i limiti delle condizioni storiche e geografiche in cui ci troviamo a vivere e a operare. Si racconta che le forme plastiche, sinuose ed elicoidali delle architetture di Borromini fossero dovute al fatto che studiasse i volumi modellandoli nella cera. L’esperienza della cera comporta una maniera di lavorare che finisce per diventare pensiero e invenzione. Le idee nascono affrontando problemi reali, non in astratto. Borromini ha, cioè, acquisito quello che potremmo chiamare uno “strumento mentale”. Uno strumento mentale è un modo di ragionare che ha una caratteristica precisa: ci è stato fornito da una situazione concreta. Questo non accade solo nella testa del singolo artefice, ma può essere una circostanza che attiene a un’intera società. In ogni caso, uno strumento mentale non va immaginato come un filtro che si mette tra noi e la conoscenza. Proprio perché è determinato da contingenze storiche, è anzitutto qualcosa in cui siamo “immersi”. Il filosofo Emilio Garroni suggerisce che la situazione di chi conosce il mondo attraverso i sensi sia simile a quella di un insetto fossile racchiuso nell’ambra: noi siamo immersi nel medium attraverso cui guardiamo, e non abbiamo modo di tirarcene fuori. L’ambra filtra quello che vediamo e, allo stesso tempo, è la condizione stessa del poter vedere. È un ambiente sensoriale imprescindibile. Noi guardiamo dentro un filtro dall’interno del filtro. Estendendo questa metafora al colore potremmo dire che il nostro ambiente percettivo è l’insieme delle competenze storiche, sociali e tecniche in cui viviamo. Insomma, conosciamo il colore attraverso i saperi stratificati nei secoli dalle sue pratiche concrete. Ad esempio, non possiamo guardare un’icona bizantina facendo finta di non sapere cos’è una tinta unita. Non è l’esortazione a un banale relativismo culturale, ma conquistarsi un occhio critico ci permette di abitare questi saperi in maniera complessa e fruttuosa. È una simile coscienza della Storia il nodo più importante di una teoria del colore che voglia essere davvero moderna: l’unica libertà che Pag. 47 di 58 abbiamo è guardare sapendo di stare guardando. Le idee cromatiche della società industrializzata hanno una cosa in comune: sono tentativi di razionalizzare il colore. Questo significa, però, anche standardizzare lo sguardo, renderlo prevedibile ed eventualmente dominabile. Credere, però, che la responsabilità di certi pregiudizi sia colpa delle multinazionali o del consumismo sarebbe semplicistico e banale. Molto dipende da noi. Educhiamo ogni giorno milioni di bambini a mischiare il blu col giallo, e gli diciamo che quello che ottengono è il verde, ma è inevitabilmente anche un modo di pensare. Stiamo spacciando una necessità tecnica ed economica per una legge che regola l’universo, cioè stiamo fornendo a quei bambini uno strumento mentale dicendo che è una verità del colore. Tutto ciò ha ricadute sul nostro futuro culturale molto più concrete di quanto possa sembrare. Alcune polemiche degli ultimi anni hanno coinvolto il restauro delle opere d’arte del passato, ossia il modo con cui proviamo a ricostruire un colore perduto. Riguardo alla pittura, la scuola europea si batte per un modello basato sulla conservazione e accusa parte di quella statunitense di alterare il cromatismo originario volendolo “rinnovare”. Il restauro europeo esibirebbe l’intervento prendendo atto che il passato non è recuperabile; mentre il restauro americano tenterebbe di ridarci l’opera come quando fu fatta. In realtà, la critica mossa al metodo statunitense è più sottile e va a toccare un nervo scoperto. Contrastando i toni e saturando le tinte, non si starebbe tanto ricercando una verità storica quanto rendendo il colore più appetibile una volta riprodotto in cataloghi, poster e cartoline. Il restauro d’oltreoceano non conserverebbe, dunque, le opere per i posteri, ma le rinfrescherebbe per farle funzionare meglio nel sistema del merchandising museale. Non voler vedere la realtà tecnologica ed economica del colore significa, insomma, cancellare un elemento cruciale di comprensione e di coscienza politica. La tecnica ha a che fare con la Storia, per questo il modo in cui la usiamo è sempre un problema morale. to 50 Designer e registi, artisti e restauratori hanno precise responsabilità nel contribuire alla costruzione delle idee correnti e di quelle future. Affermare che il ceruleo è “il colore dell’anno” può essere una prova meravigliosa della capacità umana di astrarre e concettualizzare, oppure un pessimo slogan detto tanto per dire dagli epigoni di un ufficio marketing. si tratta di sapere cosa si sta facendo e chi si vuole essere. Il pensiero critico può iniziare da fatti piccolissimi, anche dal colore, magari insegnando ai bambini che il verde si può fare mischiando il blu col giallo. Non è, però, l’unico modo di fare il verde, non è la verità. APPENDICE A Concetti scientifici 1.0 Luce e lunghezza d’onda→ Circa metà dell’energia emessa dal Sole che arriva sulla Terra è luce visibile. La luce trasporta velocemente e a enorme distanza informazioni accurate sulla presenza delle cose e sulle loro caratteristiche. Si tratta di un tipo particolare di radiazione elettromagnetica le cui lunghezze d’onda sono visibili ai nostri occhi perché le cellule della retina sono in grado di trasformarla in un segnale elettrochimico con cui il cervello costruisce la sensazione di vedere. La luce come la vediamo è, dunque, un fatto psicologico. Pag. 50 di 58 2.3 L’elaborazione del colore è articolata in 3 tappe: valutazione delle lunghezze d’onda in V1 dai dati forniti dalla retina; poi si passa in V4 che pesa i rapporti tra tinte vicine garantendo la costanza cromatica, rendendosi indipendente dallo spettro (® v = “visione”). Infine, c’è un controllo dell’attribuzione cromatica che coinvolge più aree. A livello cellulare, il processo è il seguente: recettori vicini alla retina (® coni e bastoncelli) comunicano a un neurone sopra di loro che in quel punto sta accadendo qualcosa; il neurone fa una stima delle risposte che riceve e comunica a un grado sopra di lui quello di cui è venuto a conoscenza. Man mano che si sale, si incontrano neuroni che sovraintendono a un’intera area, fino a trovare neuroni che si eccitano quando vedono un volto umano. Non conta, dunque, la qualità del neurone, ma solo la sua posizione nel sistema. Pag. 51 di 58 3.0 Teoria dei segnali opponenti → I due modelli classici che si sono contesi il campo fin dall’Ottocento sono la teoria tricromatica di Young e la teoria delle coppie opponenti di Hering. Young ipotizza che esistano 3 recettori nel fondo dell’occhio, uno per ciascuno dei 3 primari la cui combinazione produce la visione di tutti i colori. Hering sostiene, invece, che il giallo abbia una sua autonomia e ipotizza che la cosa importante siano le relazioni che si vengono a creare nei piani alti del cervello e che i colori psicologici di base non siano 3, Young si concentra sul funzionamento della retina, Hering del cervello. Le scienze recenti hanno dato ragione a quest’ultimo: i 3 coni che rilevano le lunghezze d’onda sono solo dei misuratori, ma non partecipano alla costruzione del colore. I segnali provenienti da 2 o più coni confluiscono sulle cellule nervose superiori, eccitandole o inibendole. A questo punto, la retina invia alla corteccia una mezza dozzina di informazioni già elaborate in cui conta il segnale opponente. Pag. 52 di 58 4.0 La costruzione del colore→ Le prime riflessioni sulla costruzione psicologica del colore si devono, nel Settecento a Gaspard Monge, che chiede ad alcuni colleghi dell’università di osservare 2 fogli, uno bianco e uno rosso, attraverso una lastra di vetro rosso. I due fogli appaiono dello stesso colore: il foglio rosso si desatura e diventa luminoso come l’altro. Una volta schiarito dal vetro rosso, il foglio rosso risulta uno degli elementi più chiari della scena, e quindi bianco per la nostra mente. 4.1 Una verifica sperimentale di questo concetto è stata data alla fine degli anni Cinquanta da Edwin Land, a cui si deve anche la scoperta dei filtri polarizzanti e l’invenzione della Polaroid. Land scatta 2 diapositive di uno stesso soggetto attraverso 2 filtri (® rosso e verde). Le immagini risultanti sono prive di colori perché la pellicola usata è in bianco e nero, però nella prima le zone rosse del soggetto hanno dei grigi più chiari, mentre nella seconda accade l’opposto. A questo punto Land proietta le 2 diapositive sovrapponendole perfettamente: l’immagine che si ottiene è in bianco e nero. Poi però mette davanti al primo proiettore lo stesso filtro rosso con cui aveva scattato l’immagine: questa appare a colori. Land dimostra che non è necessario che nella scena ci sia il colore per vederlo. Le cellule che rispondono a una lunghezza d’onda reagiscono a una superficie di qualunque colore, basta che contenga una quantità minima di quella lunghezza d’onda. 5.0 Le tinte postume e complementari → Teorizzate anzitutto da Goethe, le tinte postume si spiegano scientificamente grazie all’interazione tra la retina e i processi che hanno luogo nella parte di corteccia visiva denominata V4. I gruppi di cellule coinvolti al livello retinico (® coni) tendono a mandare alla corteccia un segnale più debole; questo inganna le cellule superiori (® V4), che finiscono per costruire la sensazione del colore complementare. 5.1 Un colore complementare può essere definito in 4 modi distinti, secondo ragionamenti neurobiologici, fisici oppure artistici: ➢ Psicologicamente, è la percezione postuma che compare dopo aver fissato per qualche secondo una certa tinta; ➢ Nelle mescolanze, sono detti complementari 2 colori che ne producono uno acromatico (® bianco o grigio); ➢ Nel diagramma delle cromaticità Cie, sono complementari 2 colori che si trovano in punti opposti del perimetro passando per il centro del bianco; ➢ Nei cerchi cromatici della teoria artistica, sono complementari le tinte opposte sulla circonferenza – anche se si tratta spesso di un dato impreciso. Un uso pratico del contrasto di complementari è quello di rivelare una tinta di cui non ci eravamo accorti. Pag. 55 di 58 7.3.3 Il termine saturazione si riferisce alla quantità di tinta percepita. Per i colori isolati, questa presenza di tinta viene chiamata pienezza, per un colore non isolato, e quindi in relazione a una scala, si parla di croma. In generale, questi termini vengono sostituiti con “saturazione”, che invece dovrebbe indicare la pienezza in relazione alla luminosità. Trattandosi di un valore vincolato alla quantità di luce, la saturazione riguarderebbe solo la luce colorata e non le superfici riflettenti. 8.0 Luminosità→ percepita dei colori I colori possono essere ordinati in sequenza cromatica come accade nello spettro o in sequenza tonale, secondo la quantità di luce che riflettono e alla quale il nostro occhio è più sensibile. Se convertiamo un’immagine a colori in scala di grigi, vediamo che ogni tinta alla sua massima saturazione possiede una precisa qualità luminosa che dipende anche dalla sensibilità del nostro apparato visivo. A monte c’è una qualità strutturale della retina. La percezione della luminosità intrinseca alle tinte e la capacità di confrontarle fra loto è una delle caratteristiche fondamentali della mente per valutare volumi, profondità e qualità cromatiche. Ciò comporta anche una maggiore capacità di discriminazione all’aumentare degli scarti cromatici e luminosi. Nonché la capacità fondamentale di discernere soglie più o meno alte all’interno dei passaggi tonali. Tinte e luminosità sono qualcosa che esperiamo come un tutt’uno, ma la luminosità è anche una qualità precisa che leghiamo ad alcune tinte. 8.1 I rapporti tra tinte e luminosità, al di fuori della pittura, svolgono un ruolo chiave nei sistemi segnaletici e informativi. Quello che conta è infatti la capacità dei colori di creare uno scarto con ciò che hanno intorno che sia sufficientemente decifrabile dal nostro occhio. Pag. 56 di 58 A differenza però di altri sistemi, come il numerico o l'alfabetico, in quello cromatico le tinte permettono di differenziare ma non di ordinare. Ovvero nella mappa della metropolitana le tinte distinguono le diverse linee ma non sono in grado di stabilire nessun tipo di sequenza o di gerarchia. L'unico modo di creare ordinamento è appoggiandosi a una sfumatura in cui siano riconoscibili una serie di step successivi - ad esempio dal chiaro allo scuro o dal saturo allo sbiadito. Questo accade spesso nella grafica delle previsioni del tempo in cui spostandoci dai blu ai rossi viene rappresentato l'innalzamento della temperatura. In tutti questi casi è però chiaro che il colore ha sempre bisogno di una legenda per poter significare. 9.0 La stampa in quadricromia è nota anche come Cmykdalle iniziali dei tre inchiostri (cyan, magenta, yellow) più la £ che sta per key, perché la lastra del nero è la «chiave» che permette di allineare fra loro le altre. Nel gergo dei vecchi tipografi si usava dire che ciano e magenta fanno l'immagine, il giallo gli dà trasparenza e il nero profondità. Il meccanismo si basa in teoria sulla scelta di tre colori, ciascuno dei quali non rifletta nessuna delle lunghezze d'onda degli altri due, così da garantire la gamma più ampia possibile una volta mescolati tra loro. Nella realtà invece gli inchiostri riflettono un po' di tutte le lunghezze d'onda, ed è per questo che i tre primari non permettono di restituire tutti i colori percepibili. Tre inchiostri ideali potrebbero fare a meno del passaggio di nero, coronando il sogno di Le Blon (cfr. nota 9 a p. 138). Già nella seconda metà dell'Ottocento, seguendo l'intuizione di Maxwell, si separava il colore fotografando tre volte la sorgente attraverso filtri del colore complementare a quello da stampare (cfr. p. 159). 10.0 Il diagramma delle cromaticità Cie Nel 1931 la Cie (Commission Internationale de l'Eclairage) propone un modello cromatico su basi matematiche che permette di definire per mezzo di tre coordinate tutti i colori visibili all'uomo. A differenza dei cerchi, delle sfere e dei triangoli tanto amati dai teorici del passato, qui abbiamo una forma irregolare, simile a una campana, che concede molto spazio ad alcuni colori e meno ad altri: dà cioè maggior peso ai gialli e ai verdi in quanto tutti i colori visibili sono descritti tarando le lunghezze d'onda rispetto alla sensibilità retinale umana. La Cie nel 1924 ha infatti standardizzato la curva di sensibilità dei coni, valutando la radiazione elettromagnetica in relazione alla sua capacità di stimolare l'occhio. Rispetto ai modelli fisici ottocenteschi che descrivono il mondo a prescindere da un uomo che lo guardi e in cui tutte le lunghezze d'onda hanno pari dignità, e rispetto alla geometrica regolarità dei diagrammi artistici, qui si tiene conto di ciò che è davvero visibile. Non un semplice spazio colore ma il colore come cosa vista. Sul perimetro della campana sono distribuite le lunghezze d'onda dello spettro in maniera non omogenea (la distanza tra 500 e 480 nm è maggiore di quella tra 560 e 580 nm, pur trattandosi di una stessa dimensione fisica) per assecondare la maggiore propensione della retina verso la gamma dei verdi. Il segmento dritto Pag. 57 di 58 che forma la base della campana, chiamato «linea dei porpora», spetta invece ai rossi non contenuti nell'arcobaleno a cui non corrisponde una radiazione monocromatica, ma il frutto della somma delle radiazioni agli estremi dello spettro. Come tutti i modelli anche il Cie è in grado di definire solo un colore isolato e non può rendere conto della reale percezione in atto, in quanto fenomeni come la costanza cromatica (cfr. p. 199) o il contrasto simultaneo (cfr. p. 95) comportano troppe variabili per poter essere matematizzati. Si tratta però di un modello esclusivamente teorico: un punto sul piano non indica infatti nulla di concreto: non un inchiostro, non una lunghezza d'onda, non un valore rintracciabile su un monitor. Non esiste una tecnologia in grado di visualizzare o produrre i colori del modello, ma allo stesso tempo non c'è oggi tecnologia che possa farne a meno. Possiamo pensarlo come l'idea platonica di tutti i colori potenzialmente visibili di cui i nostri monitor quotidiani sono solo manifestazioni contingenti (trattandosi di un modello matematico non è ovviamente neppure rappresentabile, la figura è colorata solo a fini didattici). L'idea del modello nasce da numerosi studi effettuati nel primo dopoguerra quando fu notata l'impossibilità di riuscire a riprodurre per sintesi additiva tutti i colori, quale che fosse la terna di primari da miscelare. Per costruire il diagramma vengono così individuati tre primari immaginari a cui corrispondono i vertici di un triangolo che contiene la campana, e che servono come riferimento matematico per poter esprimere il resto dei valori. Scegliendo tre primari reali, cioè tre luci monocromatiche nell'intervallo dello spettro, ci si accorge infatti che alcuni colori non potranno mai essere ottenuti da nessuna loro combinazione. Ovvero ogni colore spettrale può essere la somma di tre primari a patto che alcuni di questi possano essere espressi da un numero negativo. Una tecnologia in grado di raffigurare concretamente tutti i colori del modello, al momento, non esiste. 11.0 Sistezza Munsell Nell'albero di Munsell il fusto indica la luminosità e salendo dal basso verso l'alto si procede dal buio alla luce. Intorno a questo tronco sono disposte circolarmente le tinte, mentre i rami rappresentano i differenti gradi di saturazione, e più si va verso l'esterno più abbiamo tinte piene. La regola che regge il sistema è che gli scarti da un tassellino all'altro, in tutte e tre le dimensioni, sono percettivamente uniformi. È dunque un modello costruito sulle capacità di discernimento dell'occhio che definisce il percepibile attraverso le tre coordinate di luminosità, tinta e saturazione in maniera numerica. Quella di Munsell è la prima struttura basata su scarti percettivi omogenei, quindi sul colore come appare al nostro sguardo. Lo scarto percepito tra due colori in verticale, sull'asse della luminosità, è tassativo che appaia uguale allo scarto tra due tinte in orizzontale, cioè sull'asse della saturazione (che Munsell chiama «chroma»); questo comporta che la distanza delle tinte sature dal centro sia diversa per ciascun colore, in quanto per andare dal grigio al rosso ci vogliono più step che per andare dal grigio all'azzurro. In questo modo l'albero ha rami di lunghezze diverse e il volume risultante è irregolare e non semplicemente cilindrico. A differenza di Munsell, Pantone non è basato su nessuna teoria generale: è un semplice protocollo di comunicazione, non stabilisce relazioni tra tinta e tinta e non definisce il colore in base a parametri geometrici o percettivi, ma soltanto in base alla quantità di miscela di diciotto inchiostri di base. Un degno erede di Munsell è il sistema svedese Ncs, Natural Color System, che articola i rapporti partendo
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