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Riassunto del libro "Da Bentham a Kelsen", Sintesi del corso di Filosofia del Diritto

Riassunto preciso del libro richiesto dal Professore e utilizzato per superare l'esame di Filosofia del Diritto, svolto al primo anno di Giurisprudenza (anno accademico 2022-2023).

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 03/10/2023

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7 documenti

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Scarica Riassunto del libro "Da Bentham a Kelsen" e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! 1 FILOSOFIA DEL DIRITTO -libro “da Bentham a Kelsen”- Prof. Pierluigi Chiassoni -Capitolo I- Gli albori dell’utopia analitica: Jeremy Bentham “La giurisprudenza espositiva, l’arte di trovare delle idee chiare da riconnettere alle parole di colui le cui idee non erano chiare”. (J. Bentham) La “filosofia del diritto positivo” è il lavoro di studiosi e accademici occidentali, i quali però usano i sinonimi teoria del diritto, jurisprudence, théorie du droit, teorÍa del derecho, ecc.… Due modelli di filosofia del diritto positivo Le origini della filosofia del diritto positivo e delle c.d. scienze giuridiche risalgono a due modelli disciplinari ottocenteschi. Il primo modello è costituito dalla "general jurisprudence" ("giurisprudenza generale"), soventemente denominata "analytical jurisprudence" ("giurisprudenza analitica), e ha origine nella cultura giuridica inglese. Il secondo modello è costituito dalla "allgemeine Rechtslehre" ("teoria generale del diritto", "dottrina generale del diritto"), e ha origine nella cultura giuridica tedesca. Tra il modello inglese e il modello germanico di filosofia del diritto, se considerati in prospettiva diacronica, si registrano singolari intrecci. In primo luogo, il modello inglese, nella configurazione offertane dal suo fondatore, John Austin, combina l'ideologia riformista favorevole alla codificazione del diritto, l'epistemologia empiristica, e il metodo analitico di Jeremy Bentham con oggetti e finalità (definitorie, classificatorie e sistematiche) usuali della "parte generale" della pandettistica tedesca - la dogmatica romanistica che Austin aveva studiato “on the spot” (l'espressione è di sua moglie, Sarah Taylor Austin), soggiornando a Heidelberg e a Bonn negli anni 1827-1828, e per la quale aveva maturato una profonda ammirazione. In secondo luogo, nella seconda metà del secolo XIX, la stessa "parte generale" della pandettistica costituì il punto di partenza per l'elaborazione del modello germanico di filosofia del diritto positivo, all'interno della disciplina accademica, e del genere letterario, della c.d. enciclopedia giuridica. 2 In terzo luogo, nella configurazione difesa da Hans Kelsen (e da numerosi altri sulle sue orme) nel corso del Novecento, il modello germanico - di una filosofia del diritto come astratta e "generale" riflessione sul diritto positivo - viene ad assumere i connotati epistemologici e metodologici del modello inglese: al punto che lo stesso Kelsen, in un saggio del 1941, presenta la sua teoria del diritto - "la dottrina pura del diritto" - come erede e continuatrice della tradizione austiniana. Nel secondo dopoguerra, la tradizione austiniana trasse nuovo vigore, in Inghilterra e sul Continente, dal connubio con la filosofia analitica, negli indirizzi del neopositivismo logico e della filosofia del linguaggio ordinario oxo-cantabrigense (la c.d. "Oxford- Cambridge Philosophy”). Dimodoché, a una superficiale ricognizione storiografica, il modello di filosofia del diritto positivo che prevale nella cultura giuridica del secondo novecento risulta essere il modello inglese (austiniano), nelle rivisitazioni kelseniana e filosofico-analitiche. Un dato accomuna il modello originario austiniano e quelli novecenteschi di Kelsen e dei filosofi (neo)analitici del diritto. Si tratta dell'adesione ai valori della razionalità, dell'empirismo, del rigore metodologico, della precisione terminologica, della chiarezza concettuale, dell'avalutatività e, non ultimo, dell'onestà intellettuale. Dimodoché tali modelli si possono considerare il riflesso di uno stesso anelito: il frutto di una stessa utopia della ragione nel diritto. Non si tratta però, si badi, della ragione divinizzata, abitatrice di un empireo da cui dispensa coccarde e feluche ai suoi idolatri; né della ragione ("sostanziale") capace di scoprire mondi al di là dell'esperienza. Si tratta, invece, di una ragione prudente e terrena, amante delle distinzioni e del dettaglio, che antepone la scomposizione meticolosa dei problemi e l'articolazione delle soluzioni alle sintesi, specie se grandiose, ed è, per tutti questi aspetti, una ragione analitica. In forza di ciò, per considerazioni di affinità intellettuale, se non di stretta storiografia culturale, la filosofia del diritto positivo - nel modello inglese ottocentesco e nel modello kelseniano-analitico novecentesco -appare un portato dell'illuminismo. I maggiori esponenti internazionali della filosofia del diritto positivo sono Austin, Kelsen, Ross, Hart e, per quanto concerne la cultura giuridica italiana, Bobbio, Scarpelli e Tarello ma tutti derivano dal “capostipite” Jeremy Bentham. Nel ripercorrere la storia della filosofia del diritto positivo d'indirizzo analitico, e quindi di Bentham, occorre pertanto partire dal pensiero giuridico di Thomas Hobbes. Hobbes e lo studio delle "leggi civili in generale" 1 FILOSOFIA DEL DIRITTO -libro “da Bentham a Kelsen”- Prof. Pierluigi Chiassoni -Capitolo I- Gli albori dell’utopia analitica: Jeremy Bentham “La giurisprudenza espositiva, l’arte di trovare delle idee chiare da riconnettere alle parole di colui le cui idee non erano chiare”. (J. Bentham) La “filosofia del diritto positivo” è il lavoro di studiosi e accademici occidentali, i quali però usano i sinonimi teoria del diritto, jurisprudence, théorie du droit, teorÍa del derecho, ecc.… Due modelli di filosofia del diritto positivo Le origini della filosofia del diritto positivo e delle c.d. scienze giuridiche risalgono a due modelli disciplinari ottocenteschi. Il primo modello è costituito dalla "general jurisprudence" ("giurisprudenza generale"), soventemente denominata "analytical jurisprudence" ("giurisprudenza analitica), e ha origine nella cultura giuridica inglese. Il secondo modello è costituito dalla "allgemeine Rechtslehre" ("teoria generale del diritto", "dottrina generale del diritto"), e ha origine nella cultura giuridica tedesca. Tra il modello inglese e il modello germanico di filosofia del diritto, se considerati in prospettiva diacronica, si registrano singolari intrecci. In primo luogo, il modello inglese, nella configurazione offertane dal suo fondatore, John Austin, combina l'ideologia riformista favorevole alla codificazione del diritto, l'epistemologia empiristica, e il metodo analitico di Jeremy Bentham con oggetti e finalità (definitorie, classificatorie e sistematiche) usuali della "parte generale" della pandettistica tedesca - la dogmatica romanistica che Austin aveva studiato “on the spot” (l'espressione è di sua moglie, Sarah Taylor Austin), soggiornando a Heidelberg e a Bonn negli anni 1827-1828, e per la quale aveva maturato una profonda ammirazione. In secondo luogo, nella seconda metà del secolo XIX, la stessa "parte generale" della pandettistica costituì il punto di partenza per l'elaborazione del modello germanico di filosofia del diritto positivo, all'interno della disciplina accademica, e del genere letterario, della c.d. enciclopedia giuridica. 2 In terzo luogo, nella configurazione difesa da Hans Kelsen (e da numerosi altri sulle sue orme) nel corso del Novecento, il modello germanico - di una filosofia del diritto come astratta e "generale" riflessione sul diritto positivo - viene ad assumere i connotati epistemologici e metodologici del modello inglese: al punto che lo stesso Kelsen, in un saggio del 1941, presenta la sua teoria del diritto - "la dottrina pura del diritto" - come erede e continuatrice della tradizione austiniana. Nel secondo dopoguerra, la tradizione austiniana trasse nuovo vigore, in Inghilterra e sul Continente, dal connubio con la filosofia analitica, negli indirizzi del neopositivismo logico e della filosofia del linguaggio ordinario oxo-cantabrigense (la c.d. "Oxford- Cambridge Philosophy”). Dimodoché, a una superficiale ricognizione storiografica, il modello di filosofia del diritto positivo che prevale nella cultura giuridica del secondo novecento risulta essere il modello inglese (austiniano), nelle rivisitazioni kelseniana e filosofico-analitiche. Un dato accomuna il modello originario austiniano e quelli novecenteschi di Kelsen e dei filosofi (neo)analitici del diritto. Si tratta dell'adesione ai valori della razionalità, dell'empirismo, del rigore metodologico, della precisione terminologica, della chiarezza concettuale, dell'avalutatività e, non ultimo, dell'onestà intellettuale. Dimodoché tali modelli si possono considerare il riflesso di uno stesso anelito: il frutto di una stessa utopia della ragione nel diritto. Non si tratta però, si badi, della ragione divinizzata, abitatrice di un empireo da cui dispensa coccarde e feluche ai suoi idolatri; né della ragione ("sostanziale") capace di scoprire mondi al di là dell'esperienza. Si tratta, invece, di una ragione prudente e terrena, amante delle distinzioni e del dettaglio, che antepone la scomposizione meticolosa dei problemi e l'articolazione delle soluzioni alle sintesi, specie se grandiose, ed è, per tutti questi aspetti, una ragione analitica. In forza di ciò, per considerazioni di affinità intellettuale, se non di stretta storiografia culturale, la filosofia del diritto positivo - nel modello inglese ottocentesco e nel modello kelseniano-analitico novecentesco -appare un portato dell'illuminismo. I maggiori esponenti internazionali della filosofia del diritto positivo sono Austin, Kelsen, Ross, Hart e, per quanto concerne la cultura giuridica italiana, Bobbio, Scarpelli e Tarello ma tutti derivano dal “capostipite” Jeremy Bentham. Nel ripercorrere la storia della filosofia del diritto positivo d'indirizzo analitico, e quindi di Bentham, occorre pertanto partire dal pensiero giuridico di Thomas Hobbes. Hobbes e lo studio delle "leggi civili in generale" 5 →In terzo luogo, l'idea che lo studio dottrinale del diritto inglese, il cui esempio più sofisticato e illustre era rappresentato dai volumi di Blackstone, fosse del tutto inadeguato a metterne in luce la vera realtà, e contribuisse invece a dissimularla. →In quarto luogo, l'idea che lo studio dottrinale del diritto positivo secondo il metodo di Blackstone fosse, dunque, di ostacolo a quell'esatta comprensione dei fatti che, nell'opinione di Bentham, doveva precedere ogni consapevole e razionale riforma del diritto per asservirlo, finalmente, all'interesse generale. →In quinto luogo, l'idea che occorresse demistificare il diritto inglese, e che a tale fine fosse necessario adottare strumenti idonei ad assicurarne una veridica rappresentazione e una utile esposizione, eliminando la terminologia e una sistematica “tecniche”, ovverosia oscure e arbitrarie come facevano spesso i giuristi, bensì secondo un metodo “naturale”, che tenesse conto di due dati, per Bentham, indiscutibili: che le norme giuridiche hanno ad oggetto “azioni umane” o “forme di condotta”, commissive od omissive; che le azioni umane tendono all'utilità generale o al suo contrario, essendo in tale caso dannose. →In sesto, e ultimo, luogo, l'idea che la mappa del sapere giuridico dovesse essere ripensata, introducendo discipline statutariamente dedite alla disincantata esposizione e all'ottimale riforma del diritto positivo: del diritto inglese e di ogni altro diritto parimenti difettoso. La mappa benthamiana del sapere giuridico Nel capitolo XVII di “An Introduction to the Principles of Morals and Legislation” (opera ultimata nel 1780, ma pubblicata soltanto nel 1789), Bentham disegna una mappa assai innovativa del sapere giuridico; ciò avviene in esito a una disamina delle diverse cose che possono farsi, facendo "giurisprudenza" (jurisprudence). Tre delle molteplici distinzioni benthamiane si rivelano particolarmente rilevanti, al fine di rintracciare le origini della filosofia (analitica) del diritto positivo: 1. la distinzione tra "giurisprudenza espositiva" e "giurisprudenza censoria"; 2. la distinzione, nell'ambito della giurisprudenza espositiva, tra "giurisprudenza autoritativa" e "giurisprudenza non-autoritativa"; 3. la distinzione, infine, nell'àmbito della giurisprudenza espositiva non autoritativa, tra "giurisprudenza locale" e "giurisprudenza universale". 1. Giurisprudenza espositiva, giurisprudenza censoria La prima distinzione - la distinzione tra “expository jurisprudence” ("giurisprudenza espositiva") e "censorial jurisprudence" (giurisprudenza censoria" "giurisprudenza 6 critica"), o "the art of legislation" (arte della legislazione) - viene tracciata da Bentham nei seguenti termini: “La giurisprudenza (jurisprudence) è un'entità fittizia: e pertanto non è possibile trovare un qualunque significato per la parola giurisprudenza, se non accostandola a qualche altra parola, la quale designi un'entità reale. Per apprendere quale sia il significato di giurisprudenza, dobbiamo conoscere, ad esempio, quale sia il significato dell'espressione 'un libro di giurisprudenza'. Un libro di giurisprudenza può soltanto avere l'uno o l'altro dei seguenti due obiettivi: 1. accertare quale sia il diritto; 2. accertare quale esso debba essere. Nel primo caso, lo si può denominare un libro di giurisprudenza espositiva, nel secondo caso, lo si può denominare un libro di giurisprudenza censoria.” Sotto il profilo del contenuto, il passo benthamiano enuncia la distinzione tra l'essere e il dover essere del diritto. A essa corrisponde la distinzione tra la funzione dell’Espositore, il quale si occupa del diritto che è o che è stato; e la funzione del Censore, il quale si occupa invece del diritto quale deve, o dovrebbe essere, per essere conforme “al criterio del giusto e dell'ingiusto”, o del moralmente lecito e illecito. Il passo appena citato è tuttavia significativo anche sotto il profilo del metodo analitico che caratterizza la teoria del diritto di Bentham. Si apre infatti con un'affermazione "La giurisprudenza (jurisprudence) è un'entità fittizia" - che rinvia alla c.d. teoria benthamiana delle finzioni - come vedremo, un particolare coacervo di tesi ontologiche, semantiche ed epistemologiche; contiene inoltre un'esemplificazione perspicua del "metodo della parafrasi". Nella giurisprudenza espositiva il giurista si limitava a descrivere ciò che era il diritto, i principi della common law (siamo in Inghilterra), affermare le sentenze, cosa dice un testo normativo Nella giurisprudenza censoria non si limita a descrivere l’operato dei giudici, ma deve valutare, criticare quest’ultimo. Ma anche consigliare, proporre miglioramenti, rivolto ai legislatori. 2. Giurisprudenza espositiva autoritativa, giurisprudenza espositiva non autoritativa La seconda distinzione rilevante, al fine di ricostruire la mappa benthamiana del sapere giuridico, è la distinzione tra la giurisprudenza espositiva "autoritativa" e la giurisprudenza espositiva "non-autoritativa". Si tratta, in particolare, della differenza tra la redazione di un codice, o di un altro documento normativo, da parte di un'autorità investita del potere di produrre diritto, 7 da un lato; e, ad esempio, la redazione di un manuale giuridico, volto ad illustrare il diritto vigente in uno o più paesi, dall'altro. All’interno della giurisprudenza espositiva quindi, Bentham ha distinto altre due sottospecie: • espositiva autoritativa: fa riferimento al fenomeno di “codificazione” (per noi civil law). Quando il giurista si pone l’obiettivo di raccogliere in un unico testo concetti giuridici, norme dispositive e istituti presenti in varie fonti. Nel sistema di civil law è un compito previsto per i legislatori, non per i giuristi. • espositiva non autoritativa: i giuristi raccolgono in un unico testo dei concetti giuridici, che però non possono essere considerati fonte del diritto. 3. Giurisprudenza locale, giurisprudenza universale La terza distinzione rilevante nel ricostruire la mappa benthamiana del sapere giuridico è infine la distinzione, all'interno della giurisprudenza espositiva non- autoritativa, tra “giurisprudenza locale” e “giurisprudenza universale”. • espositiva non autoritativa locale: giuristi che si occupano di studiare concetti giuridici di un determinato periodo e luogo. • espositiva non autoritativa generale: giuristi che si occupano di studiare non solo il diritto di un determinato luogo, bensì di un territorio molto più vasto. Studiare concetti comuni a tutti (es. diritto occidentale). I compiti dell'Espositore non-autoritativo locale, secondo Bentham, consistono nel ripercorrere la storia del e inoltre nel fornire un resoconto del diritto attualmente esistente. La descrizione di un determinato diritto positivo vigente costituisce, in particolare, il risultato di tre operazioni distinte, che Bentham identifica a imitazione dell'operare degli scienziati naturali, secondo il modello sistematico-classificatorio che ha rivoluzionato “il mondo della botanica”. La prima operazione, che Bentham denomina "narrazione", consiste nell' esporre il diritto che si suppone sia esplicito, chiaro, e stabilito. La seconda operazione, che Bentham denomina "congettura" o "interpretazione", consiste nel dare conto del diritto positivo indagato, laddove esso risulti oscuro, silente, o instabile formulando ipotesi interpretative. La terza operazione, che Bentham denomina "sistemazione" o "ordinamento", consiste infine nel distribuire i materiali giuridici investigati in diverse “masse” 10 Questo modo di pensare permetteva di conseguire tre risultati pratici non trascurabili, tra loro strettamente vincolati. →Un primo risultato consisteva nell'accreditare l'idea della (diremmo noi) "autonomia" del common law dalla politica, dall'arbitrio, dagli interessi partigiani: il diritto aveva infatti un proprio dominio e un proprio principio vitale ultimo (la Giustizia), al di sopra della mischia. →Un secondo risultato consisteva nell'accreditare l'idea della virtuale immodificabilità del common law: nel suggerire, in particolare, che la riforma legislativa del common law, in considerazione delle sue origini e del suo contenuto, non fosse cosa praticabile, o lo fosse soltanto per aspetti marginali; e fosse, in ogni caso, un'operazione da condursi con la massima cautela. →Un terzo risultato consisteva, infine, nell'accreditare l'assenza di qualsiasi responsabilità politica e morale in capo al ceto giudiziario, presentato come mero "dichiaratore" e puntuale applicatore di un diritto precostituito e in sé compiuto. Orbene, Bentham sottopone a critica radicale la concezione consuetudinaria del common law, e la connessa teoria dichiarativa della sua applicazione giudiziale. Alla prima idea - idea della vetustà immemorabile - Bentham oppone la constatazione che moltissimi principi del common law - tra cui, ad esempio, quelli in materia di eredità e di trasferimento della proprietà inter vivos – non risalgono a tempi antichi ma erano invece il prodotto, assai più recente, di ben determinati atti legislativi e di ben determinate “decisioni giudiziali”; Alla seconda idea - l'idea del carattere dichiarativo, o puramente probatorio, della giurisprudenza nelle materie disciplinate dal common law - Bentham oppone le tesi dell'artificialità e dell'arbitrarietà del diritto positivo: di tutto il diritto positivo, e dunque anche di quella sua parte costituita, in Inghilterra, dal common law. La tesi dell'artificialità del diritto sostiene che non esiste alcuna norma di un qualsiasi diritto positivo che non sia il prodotto di atti umani. Questa tesi, peraltro, non contrasta necessariamente con l'idea della natura consuetudinaria del common law. Soccorre però, sul punto, la seconda tesi. La tesi dell'arbitrarietà del diritto sostiene che tutto il diritto positivo è sempre il prodotto di atti di volontà discreti, direttamente o indirettamente imputabili al “sovrano di uno stato”: ovvero “alla persona o all'insieme di persone alla cui volontà si suppone che un'intera comunità politica sia nella disposizione di prestare obbedienza: e ciò a preferenza della volontà di ogni altra persona”. Alla luce di ciò, nonostante le contrarie apparenze, avrebbe carattere arbitrario anche il common law, per il quale Bentham coniò la denominazione, divenuta d'uso corrente, 11 di "diritto giudiziale" o "diritto-fatto-dai-giudici" ("judge-made law"). Le norme del common low, infatti, non sarebbero altro che altrettanti atti o ordini autocratici [dei giudici, n.d.r.], i quali ordini, in virtù della più estesa interpretazione che i consociati sono disposti ad attribuire loro, hanno effetti assimilabili a quelli delle leggi generali”. Secondo esercizio: la natura degli obblighi giuridici “Potere, diritto soggettivo, divieto, dovere, obbligo, onere, immunità, esenzione. privilegio, proprietà, garanzia, libertà - tutte queste cose - sostiene Bentham - con molte altre che potrebbero essere qui nominate sono altrettante entità fittizie che, secondo il comune modo di parlare, si ritiene il diritto [...] crei o elimini. Non c'è operazione compiuta dal diritto, che non si consideri come volta a creare o [...] a eliminare questi suoi immaginari prodotti”. Secondo il comune modo di parlare - e di pensare - gli obblighi giuridici sarebbero, dunque, delle peculiari e alquanto misteriose entità, di volta in volta "create" o "distrutte" dal diritto: così come un costruttore erige o demolisce edifici. Bentham ritiene, tuttavia, che il comune modo di parlare rifletta un errore ontologico fondamentale: gli obblighi giuridici, infatti, non sono affatto “entità reali”. Sono piuttosto “entità fittizie”: “entità” che “devono la loro esistenza”, la loro “impossibile e tuttavia indispensabile esistenza” al linguaggio, “al linguaggio soltanto”. Sulla base di queste premesse, Bentham ritiene inoltre che, se si vuole chiarire il significato di "obbligo giuridico", non si possa seguire la via tradizionale rappresentata dal ricorso a una qualche definizione per genere e differenza specifica (ad esempio: "obbligo giuridico" è un vincolo spirituale, imposto da una legge civile). Quest'ultima via, infatti, può essere utilmente percorsa soltanto quando si tratti di definire il significato di nomi che designano (classi di) entità reali. Per le espressioni che denominano entità fittizie, invece, occorre adottare un diverso “metodo espositivo”. Bentham chiama questo metodo “esposizione mediante parafrasi”, o “metodo della parafrasi”. Interessa ora mettere in luce il modo in cui Bentham procede a chiarire una nozione - quella di "obbligo giuridico" - che suscita ancora oggi perplessità tra i cultori del diritto. Orbene, Bentham ritiene che per comprendere la nozione di "obbligo giuridico" sia anzitutto opportuno chiarire la nozione di "obbligo" in generale, e poi mettere in luce ciò che distingue gli obblighi giuridici dagli obblighi d'altra natura: "fisici", "morali" e "religiosi”. Ciò posto, Bentham sostiene che, per chiarire la nozione generica di "obbligo" occorra chiedersi quale sia il significato di un enunciato come, ad esempio: 12 (E) "Un obbligo di fare f incombe su di un uomo" o, in termini a noi più familiari: (E’) "Un uomo ha l'obbligo di fare f”. Orbene, sostiene Bentham, affermare E (o E'), equivale a formulare la proposizione, empiricamente vera o falsa, secondo cui: "Qualora un tale uomo non faccia f, è probabile che costui subirà una sanzione, ovverosia un dolore o una perdita di piacere" Bentham distingue quattro tipi di sanzioni: le sanzioni "fisiche", le sanzioni "politiche" o "giuridiche”; le sanzioni "morali" o "popolari", e, infine, le sanzioni "religiose". A ciascun tipo di sanzione corrisponde un diverso tipo di obbligo. In particolare, un individuo ha l'obbligo giuridico di fare f se, qualora non faccia f, subirà probabilmente una sanzione giuridica: cioè una sanzione disposta da una norma giuridica e irrogata da un giudice. Nella prospettiva di Bentham, in particolare, il proferire la (diremmo noi) proposizione normativa secondo cui, in un certo ordinamento statale. "Tizio ha l'obbligo giuridico di non commettere furti" equivale ad affermare, simultaneamente, le seguenti cose: 1. che il sovrano (di quel certo stato) ha prodotto, e non ha successivamente abrogato, una norma principale "imperativa semplice”, secondo cui: "Nessun uomo deve commettere furto"; 2. che il sovrano ha prodotto, e non ha successivamente abrogato, una norma sussidiaria "punitiva", secondo cui, ad esempio: "Il giudice deve condannare allo svolgimento di lavori socialmente utili chiunque sia stato giudicato colpevole di furto"; 3. che, qualora un individuo come Tizio violi la norma imperativa semplice, sussiste la probabilità - o secondo Hart: la “rilevante probabilità”; 4. che costui sarà effettivamente condannato a svolgere lavori socialmente utili, per ordine di un giudice, in applicazione della norma sussidiaria punitiva. Nella prospettiva di Bentham, si badi, le proposizioni 1-3 forniscono nel loro insieme una traduzione perspicua dell'oscura proposizione normativa iniziale ("Tizio ha l'obbligo giuridico di non commettere furti"). Ciò in quanto tale traduzione mette chiaramente in luce le condizioni di verità della proposizione normativa in questione: condizioni che sono costituite da un insieme di fatti sociali, e, così facendo, realizza l'obiettivo demistificatorio perseguito. Il metodo analitico benthamiano: istruzioni per aspiranti demistificatori Il rinnovamento della mappa del sapere giuridico, incentrato sui ruoli, distinti ma cospiranti, dell'Espositore e del Censore, è legato all'uso di uno strumentario - in 15 Infine, un terzo modo di vedere fondamentale per le investigazioni benthamiane sul diritto è costituito dalla tesi metateorica, e segnatamente epistemologica, della neutralità morale dei concetti teorico-giuridici (o, in termini oggi più usuali, dalla tesi della separazione concettuale tra diritto e morale). Secondo questa tesi, una filosofia del diritto positivo, se vuole essere realmente espositiva (descrittiva, esplicativa), se vuole davvero occuparsi esclusivamente del diritto così come esso è, deve dare conto dei fenomeni giuridici mediante un apparato concettuale - a partire dal concetto di "diritto (oggettivo)" - che sia moralmente neutro, valutativo, non compromesso con una qualche dottrina morale, fosse anche la "vera" dottrina morale. Per inciso, la tesi empirica della concordanza contingente tra diritto e morale e la tesi epistemologica della neutralità morale dei concetti teorico-giuridici possono essere intese come altrettanti modi di leggere l'enigmatica "tesi della separazione" ("Non c'è alcuna connessione necessaria tra diritto e morale"): nella filosofia giusanalitica del Novecento, una del le tesi centrali del positivismo giuridico secondo Herbert Hart e i suoi seguaci. Strumenti per l'analisi dei discorsi giuridici I principali strumenti benthamiani per l'analisi del linguaggio giuridico - strumenti tuttora utilizzati, e utilizzabili, da chi voglia condurre delle avvertite ricerche meta- giurisprudenziali - sono quattro: 1. la distinzione tra la forma grammaticale e la forma logica degli e-nunciati; 2. la distinzione tra termini ed espressioni valutativi e termini ed espressioni neutri; 3. la distinzione tra termini reali e termini fittizi; 4. la distinzione tra discorsi in funzione descrittiva e discorsi in funzione prescrittiva. Un primo strumento di analisi dei discorsi giuridici è costituito da una distinzione che, nella filosofia analitica contemporanea, è nota come distinzione tra la forma grammaticale e la forma logica degli enunciati. La forma grammaticale di un enunciato alla sua forma visibile e accidentale: la forma che un emittente in carne e ossa ha dato a un enunciato, nel formularlo con la parola o con lo scritto. La forma logica di un enunciato è, invece, la forma che per ipotesi corrisponde esattamente al (presunto) significato dell'enunciato - la quale, pertanto, può anche non coincidere con la forma grammaticale che a quest'ultimo sia stata data all'interno di un discorso. 16 Ad esempio, si è rilevato come gli enunciati che contengono descrizioni definite abbiano solitamente una forma grammaticale, la quale non corrisponde alla loro forma logica, ingenerando perplessità. "L'attuale re di Francia è calvo" Per riprendere il celebre esempio di Bertrand Russell, è un enunciato la cui forma grammaticale accidentale (del tipo "M è P") non corrisponde affatto alla sua (per ipotesi, corretta) forma logica. Quest'ultima, infatti, sarebbe invece, grosso modo, del seguente tenore: "Vive attualmente un individuo che è re di Francia, e tale individuo è calvo" o, in termini generali: “Esiste un M, e tale M è P” Come si è accennato trattando degli strumenti per mistificare il diritto, Bentham rileva - e attira l'attenzione dell'aspirante Espositore del diritto su - la possibile divaricazione tra (diremmo noi) la forma grammaticale e la forma logica degli enunciati legislativi - o in genere, diremmo noi, degli enunciati esprimenti norme giuridiche. Questi enunciati, infatti, si presentano sovente con una forma grammaticale indicativa, o "dichiarativa" ("È vietato esportare grano", "Chi esporta grano è punito con la reclusione": "M è P”) - appropriata a veicolare significati di tipo assertivo o descrittivo - laddove si tratta invece di enunciati dotati di un significato normativo o direttivo, la cui forma logica, o forma grammaticale appropriata, sarebbe invece una forma imperativa ("Nessuno esporti grano P"), o altra forma direttamente prescrittiva ("E mia volontà che M faccia P", “Nessun M dovrà” "M deve P". "Nessun M deve P", ecc.). Un secondo strumento di analisi dei discorsi giuridici è costituito dalla distinzione tra, diremmo noi, termini ed espressioni valutativi - che veicolano, per lo più nascostamente, apprezzamenti positivi o negativi delle cose su cui vertono - e termini ed espressioni neutri, che permettono di parlare delle cose in modi spassionati e imparziali. L'Espositore deve sapere riconoscere le espressioni valutative, nelle loro occorrenze nei discorsi giuridici (si pensi a termini come "diritto", "Ordinamento giuridico", "potere legittimo" "potere costituito", "democrazia", "stato di diritto", "autocrazia", e innumerevoli altri), disinnescandone la carica emotiva; nella sua opera di teorico, deve inoltre servirsi esclusivamente di espressioni neutre o comunque ridefinite in modi che non incorporino, espressamente o occultamente, valutazioni pratiche. In ossequio alla tesi epistemologica della separazione concettuale tra diritto e morale. Un terzo strumento di analisi dei discorsi giuridici è costituito dalla distinzione tra termini reali, che denominano e designano entità reali, e termini fittizi, che sono i nomi di strumenti concettuali indispensabili per conoscere (si pensi ai c.d. “universali”) o per agire. Occorre, in particolare, che l'Espositore sappia individuare quei termini, frequentissimi nei discorsi giuridici, che, denominando entità fittizie, non 17 designano alcunché (come "obbligo", "diritto soggettivo", "esenzione", "privilegio", ecc.), e metta in luce gli eventuali abusi degli stessi, consistenti nel trattarli inconsapevolmente - o nello spingere terzi a trattarli inconsapevolmente - come se essi designassero davvero delle entità reali. Un quarto strumento di analisi dei discorsi giuridici, più volte evocato nel corso di questo inventario, è costituito, infine, dalla distinzione tra (diremmo noi) discorsi in funzione descrittiva, che si addicono all'opera dell'Espositore, e discorsi in funzione prescrittiva, che si addicono invece all'opera del Censore. Questa distinzione trae la sua rilevanza teorica dall'idea, nota nella filosofia contemporanea come "Legge di Hume" secondo cui i discorsi descrittivi e quelli prescrittivi sono radicalmente eterogenei e non inter-traducibili, dimodoché non è possibile inferire (derivare logicamente) conclusioni prescrittive da premesse che siano tutte descrittive, e viceversa. PEZZO di testo Strumenti per un apparato concettuale perspicuo e moralmente neutro I modi di vedere fondamentali e gli strumenti di analisi del linguaggio giuridico intervengono non soltanto nella fase descrittiva e critica (pars destruens) dell'attività dell'Espositore benthamiano, ma anche in quella costruttiva (pars construens). In quest'ultima fase, costui è chiamato a elaborare - o a contribuire all'elaborazione di - un apparato di concetti giuridici universali (o quasi universali): utili a conoscere e a rappresentare il diritto, quale esso è, nelle più diverse esperienze. Agli strumenti prima considerati, dunque, occorre ora aggiungerne altri due: il "metodo dicotomico" e il "metodo della parafrasi. Il metodo dicotomico - anche denominato "metodo analitico", "metodo analitico esaustivo" o "metodo delle biforcazioni consiste nel dare conto del fenomeno indagato mediante un apparato di concetti articolato in classi e sottoclassi reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive, secondo lo schema dei diagrammi ad albero (c.d. "alberi di Porfirio"). Il metodo della parafrasi - o della "esposizione mediante parafrasi" serve a determinare il significato dei termini fittizi. È particolarmente utile all'Espositore poiché, nella prospettiva di Bentham, i principali termini del linguaggio giuridico sono, come si è visto, prevalentemente dei termini fittizi. Di seguito, oltre a dare brevemente conto del metodo in sé (punto 3), mi soffermerò brevemente su due suoi presupposti (punti 1 e 2); accennerò infine alla critica benthamiana dell'universalità del metodo definitorio per genus et differentiam (punto 4). 20 essenzialmente fatto di norme, regole o leggi che comandano o vietano comportamenti. Un rapido esame della letteratura teorico-giuridica suggerisce che sarebbe incauto ritenere vi sia una concezione imperativistica, unanimemente accettata e condivisa dai filosofi del diritto positivo. Nella cultura giuridica ottocentesca, ad esempio, si rilevano perlomeno due diverse concezioni imperativistiche del diritto: ascrivibili, rispettivamente, a John Austin e ad August Thon. Scrive, ad esempio, Norberto Bobbio (esponente italiano) “Nella dottrina dell'imperativismo giuridico si è avuta un'evoluzione in cui si possono distinguere due fasi, qualificabili rispettivamente come imperativismo ingenuo e imperativismo critico”. (1) L'imperativismo ingenuo (che va da Hobbes a Austin, e a cui appartiene lo stesso Thon) considera il diritto come un complesso di comandi rivolti dal sovrano ai cittadini. senza ulteriormente analizzare la struttura dell'imperativo giuridico. (2) L'imperativismo critico (che ha uno dei maggiori esponenti in Kelsen) precisa i caratteri dell'imperativismo sotto due aspetti: • la norma giuridica è un imperativo ipotetico; • la norma giuridica è un imperativo che si rivolge non ai cittadini, ma ai giudici. Ciò detto, a modo d'introduzione alla teoria del diritto di Bentham, sembra opportuno fissare alcuni punti. 1. L'imperativismo - come risulta dal passo di Bobbio appena citato - non è un'invenzione di Bentham, né dei giuristi ottocenteschi. Si tratta al contrario di un'idea antichissima, profondamente radicata nella cultura giuridica occidentale, presente sia nel Digesto di Giustiniano che nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino. 2. Nell'età moderna, l'idea che il diritto sia costituito essenzialmente di norme imperative (norme che comandano o vietano comportamenti) fu recepita da pensatori giusnaturalistici come Thomas Hobbes (menzionato da Bobbio) e da Samuel Pufendorf [1632-1694]. Assieme al volontarismo (l'idea che il diritto sia l'espressione della volontà di un "legislatore", divino o umano) e allo psicologismo (l'idea che conoscere il diritto sia conoscere la volontà, l'intenzione, la mente del "legislatore"), essa costituì uno degli ingredienti di una delle ideologie che favorirono la codificazione del diritto continentale: l'ideologia della "arbitrarietà del diritto". 21 3. Con la consueta incisività stilistica, Hobbes afferma il diritto essere nient'altro che il comando rivolto a destinatari che si siano previamente obbligati a conformarvisi. In questa prospettiva, il diritto - che è sempre il diritto di uno stato ("commonwealth”) - consiste, come si è visto prima, “per ogni soggetto, in quelle regole che lo stato, con la parola, lo scritto, o altro segno adeguato del volere, gli ha comandato di usare per distinguere il lecito (right) e l'illecito (wrong): ovvero, ciò che è contrario, e ciò che non è contrario, alla regola” (corsivi redazionali, n.d.r.). 4. Le concezioni imperativistiche che costituiscono l'oggetto di un riesame critico da parte dei teorici del diritto del Novecento, tra cui Kelsen e Hart, sono di solito quelle elaborate da teorici ottocenteschi o contemporanei, non già quelle dei loro illustri predecessori dei secoli XVII e XVIII. Codificazione del diritto, scienza della legislazione, teoria delle norme giuridiche Si è visto che Bentham aveva assegnato alla universal expository jurisprudence non- autoritativa - il prototipo dell'odierna filosofia analitica del diritto - due compiti distinti, ancorché complementari: • in primo luogo, un compito di carattere demolitorio o decostruttivo, che consiste nel demistificare il diritto positivo, a cominciare dal diritto positivo inglese, sottoponendo a un radicale esame critico i concetti e le credenze dei giuristi; • in secondo luogo, un compito di carattere ricostruttivo, consistente nell'elaborare un apparato di concetti e di tesi esplicative che offra una visione realistica del diritto, sgombra dalle nebbie della finzione e del mi stero, facilitando l'opera della scienza della legislazione e di quei legislatori illuminati che intendano beneficiare dei servigi di quest'ultima. Tra i concetti meritevoli di un'attenta analisi teorica, Bentham riteneva dovesse prioritariamente includersi il concetto di "legge" - o (diremmo noi) "norma giuridica". Ciò per una serie di ragioni: 1. La riforma del diritto in vista della massimizzazione della felicità, e della giustizia, sociale esige la codificazione. Codificare il diritto è un'attività complessa, che consiste nel redigere documenti nei quali (con le precisazioni cui accennerò tra poco) sono formulati insiemi relativamente ampi e ordinati di norme giuridiche. Codificare il diritto comporta, in particolare, che si rediga un Codice civile, un Codice penale e un codice costituzionale. 2. Nessun codificatore, nessun avvertito consulente dei codificatori, tuttavia, può svolgere il proprio lavoro in modo consapevole e accurato, se non gli sono chiari i limiti 22 tra il settore civile e il settore penale del diritto: se non gli sono chiare, in particolare, le differenze - e le connessioni - che sussistono tra una legge civile e una legge penale; nonché tra le leggi di questi ultimi due tipi e le leggi costituzionali, essendo il diritto costituzionale la terza principale branca del - di qualunque - diritto positivo. 3. Le soluzioni reperibili nella letteratura giuridica per i problemi sopra menzionati non sono soddisfacenti. Poiché, a ben vedere, si tratta di problemi che, afferma Bentham, occupano un “angolo insospettato del labirinto metafisico” e non possono essere risolti: né iterando le concise, e sovente tautologiche, definizioni tralatizie (il diritto civile è il diritto che attiene ai rapporti tra privati", “il diritto penale è il diritto che attiene all' irrogazione di sanzioni penali, ecc.); né, come lo stesso Bentham si era illuso in un primo tempo, dedicandovi lo spazio di una pagina o due”; 4. Per fornire a questi problemi una soluzione che sia “tollerabilmente soddisfacente” occorre invece elaborare - diremmo noi - una compiuta teoria delle norme giuridiche. Bentham ritiene infatti che sia necessario accertare in cosa consista l'identità e la completezza di una norma giuridica dando conto, più precisamente: (a) della natura delle norme giuridiche (che tipo di cosa è una norma giuridica?); (b) della struttura delle norme giuridiche (di quali parti si compone una norma giuridica?); (c) delle proprietà definitorie del concetto di norma giuridica (quali proprietà si devono rinvenire in un oggetto, per poterlo appropriatamente considerare una norma giuridica?); (d) della nozione di completezza di una norma giuridica (che cosa deve contenere una norma giuridica per essere una norma completa, e non un semplice frammento di norma?). Tornando ai problemi di scienza della legislazione menzionati ai punti precedenti (1- 2), Bentham ritiene dunque, in conclusione, “che la nozione di una norma giuridica completa debba prioritariamente essere fissata, affinché il legislatore possa in ogni caso sapere che cosa deve fare, o quando la sua opera sia terminata”. Un tale compito, sostiene Bentham, appartiene alla giurisprudenza espositiva non- autoritativa universale. Rispetto alla scienza della legislazione e all'opera pratica dei codificatori, essa occupa infatti la stessa posizione della “scienza dell'anatomia” rispetto “all'arte della medicina”. Il concetto benthamiano di norma giuridica: considerazioni introduttive Il nucleo della teoria benthamiana delle norme è costituito da una definizione di "norma giuridica" che Bentham formula nel capitolo I di Of Laws in General. 25 tradizionale e corrente, ma debba essere usato in un significato nuovo: un significato più generico, e dunque più ampio, di quello usuale, in virtù di una stipulazione definitoria fondata su di una teoria del diritto realistica - elaborata a partire dall'osservazione delle entità reali presenti nell'esperienza giuridica, secondo i dettami della “vera metafisica” così come intesi dallo stesso Bentham. Bentham ritiene anzitutto che il termine "comando" non sia una buona denominazione per l'elemento costitutivo del diritto, poiché risulta al tempo stesso troppo generico: 1. Non suggerisce in alcun modo che la volontà di cui si tratta sia in qualche modo riferibile al sovrano e troppo specifico; 2. Non include i contro-comandi [counter-commands]; 3. Non è applicabile, senza una certa dose di forzatura, agli strumenti [(material instrument), come i documenti scritti o stampati, per il cui tramite la volontà in questione è espressa. Quando lo si applica a uno scritto, sembra infatti denotare la volontà in esso espressa, ad esclusione dello scritto da cui è espressa. Parimenti, Bentham nega che il termine "ordine" ("order") faccia al caso suo, poiché: 1. Presta il fianco alla prima delle obiezioni che valgono per il termine comando. 2. [...] sembra limitato a quei comandi che sono considerati o come non molto generali con riguardo alla moltitudine di persone cui si estendono, o tali da non emanare direttamente dall'autorità sovrana, o per loro natura non perpetui. Questi inconvenienti - legati agli usi tradizionali dei termini "comando" e "Ordine" - non sorgerebbero invece, suggerisce Bentham, con il termine "law" (letteralmente: "legge"). Nel linguaggio ordinario, "law" designa, in modo specifico, quel particolare tipo di prescrizione giuridica che rappresenta il risultato dell'esercizio del potere legislativo: dimodoché non costituiscono "leggi" tutte le altre cose - comandi, ordini, sentenze, ordinanze, decreti, ecc. - che non siano, in senso tecnico, il risultato di atti di legislazione. Sostiene Bentham, tuttavia, che il significato del termine "law" si presti (diremmo noi) a essere opportunamente ridefinito in via stipulativa, in modo da elevarlo a denominazione generica di qualunque tipo di prescrizione giuridica: venendo così a fungere da nome per qualunque prescrizione, imperativa o non imperativa, generale o particolare, scritta o non scritta, permanente o temporanea, giudiziale, amministrativa, legislativa, o d'altro tipo, che promani direttamente o indirettamente dal sovrano di uno stato, e dunque in modo da includere non soltanto le leggi propriamente dette, ma anche le ordinanze giudiziali, gli ordini militari e gli altri ordini 26 del potere esecutivo, nonché le prescrizioni formulate nell'àmbito dei rapporti “privati”, come i rapporti tra datori e prestatori di lavoro (masters and servants), tra genitori e figli, tra mariti e mogli (“laddove - scrive Bentham - la richiesta di un marito assuma la forma severa del comando”, e abbia dietro di sé la forza del sovrano). L'ineludibile teoreticità della nozione di norma giuridica La seconda tesi fondamentale della teoria benthamiana delle norme giuridiche sostiene che la nozione di norma giuridica dev'essere intesa come una nozione squisitamente teorica - o, potremmo anche dire, filosofica, essendo la sua definizione di competenza di ciò che per Bentham è la vera filosofia (“genuine metaphysics”). A differenza degli obblighi, dei poteri, dei diritti soggettivi, dei doveri, ecc., le norme giuridiche, secondo Bentham, non sono entità fittizie. Si tratta, invece, di entità reali, la cui natura, tuttavia, non è affatto evidente, potendo essere afferrata soltanto in esito a laboriose investigazioni. Valgono invero per le norme giuridiche le considerazioni che Bentham formula, in via generale, per qualunque “verità” nel campo delle scienze morali: “le verità che formano la base della scienza politica e morale non si possono scoprire se non per il tramite di ricerche altrettanto rigorose di quelle matematiche, e in esito a comparazioni tra le più estese e intricate. Si è detto, in generale, che le verità sono cose ostinate [stubborn things]: le verità appena menzionate lo sono a loro modo. Esse non si prestano a essere compresse in proposizioni generali e isolate, non appesantite da spiegazioni ed eccezioni. Non si lasciano racchiudere in epigrammi. Rifuggono la lingua e la penna degli amanti delle declamazioni. Non fioriscono sullo stesso suolo dei sentimenti. Crescono tra le spine, e non possono essere raccolte, come margherite, da pargoli ruzzanti. Il duro lavoro, ineluttabile destino dell'umanità, mai come in questo caso rappresenta la sola via percorribile. Invano un Alessandro farebbe predisporre una strada soltanto per sé, secondando la sua regale vanità; o un Tolomeo una strada agevole, secondando la sua regale indolenza. Non vi è infatti alcuna Via Regia, né alcuna Porta del Supremo Reggitore dello Stato, che conducano alla scienza della legislazione, non diversamente che per la scienza matematica» Ciò premesso, Bentham ritiene che il compito del filosofo che si occupi delle norme giuridiche consista, come vedremo meglio tra breve, nell'elaborare nozioni e tipologie di norme giuridiche, che possano essere utilizzate da modelli (patterns) per (meglio) comprendere, e foggiare, la realtà del diritto. 27 Testi legislativi, norme, idee di norme Una teoria adeguata delle norme giuridiche - per venire alla terza tesi benthamiana - deve introdurre una duplice distinzione. Occorre, in primo luogo, che essa distingua accuratamente le norme giuridiche, in quanto contenuti di significato volitivi e prescrittivi espressi da un insieme discreto di segni, da un lato, dai testi legislativi (statutes) comunemente utilizzati dalle autorità normative per veicolarle, dall'altro. Occorre, in secondo luogo, che essa distingua accuratamente le norme giuridiche reali, in quanto contenuti prescrittivi di testi legislativi, da un lato, dalle idee di norme giuridiche complete, quali prodotti della riflessione filosofica sul diritto positivo, dall'altro. Le due distinzioni permettono di fissare alcuni punti centrali della teoria benthamiana delle norme giuridiche. 1. Le norme giuridiche sono non soltanto entità semiotiche ma altresì, e più precisamente, (diremmo noi) entità linguistiche. 2. Si tratta in particolare, in un lessico non benthamiano, delle proposizioni prescrittive, espresse da un certo insieme di segni linguistici, che costituiscono il significato di segni dichiarativi di atti di volontà del sovrano o dei suoi; 3. In quanto proposizioni prescrittive, le norme giuridiche possono essere espresse dai detentori di potere normativo mediante segni dichiarativi non necessariamente linguistici. Anche in questi casi, tuttavia, esse sono sempre formulabili mediante enunciati prescrittivi o "volitivi"; 4. Nella realtà del diritto, ciò che può essere immediatamente percepito non sono, dunque, le norme giuridiche, ma, appunto, i segni dichiarativi - i materiali empirici -, provenienti dalle autorità legislative (o, in genere, nomotetiche), che si assume esprimano norme giuridiche. 5. Quando i segni dichiarativi consistono in enunciati legislativi – in "leggi" o in "testi legislativi" (statutes) -, sarebbe incauto presumere a priori una corrispondenza puntuale, biunivoca, tra gli enunciati legislativi, da una parte, e le norme legislative da essi espresse, dall'altra. Al contrario - sostiene Bentham, ricorrendo alla metafora del macellaio - gli enunciati legislativi non corrispondono (praticamente) mai a norme giuridiche (complete): queste ultime devono pertanto essere ricostruite, a cura dei giuristi Espositori, a partire dagli atti legislativi, e spesso si possono ricavare soltanto combinando pezzi di documenti legislativi diversi; 30 (N1) "Nessun uomo cagioni la morte di un altro uomo" Nella norma N1 sono chiaramente identificabili il soggetto attivo, o agente, il soggetto passivo, o paziente, e l'oggetto. Nessuna norma giuridica è concepibile, ritiene Bentham, se non contiene - sia pure implicitamente - i tre elementi appena menzionati. Il soggetto attivo di una norma giuridica è costituito dalle persone o cose, dalle quali ha origine l'atto (la condotta, il comportamento) regolato dalla norma: gli individui che sono il punto da cui l'atto si diparte, il suo terminus a quo. Nella norma N1, il soggetto attivo è costituito, apparentemente, dall'intera classe degli individui della specie umana in quanto potenziali autori di omicidi. Il soggetto passivo di una norma giuridica è costituito dalle persone o cose, che costituiscono il termine finale dell'atto regolato dalla norma: ciò su cui tale atto dispiega i suoi effetti. Nella norma N1, il soggetto passivo è costituito, pertanto, dall'intera classe degli individui della specie umana in quanto potenziali vittime di omicidi. L'oggetto di una norma giuridica è costituito, infine, dall'atto, dalla condotta, dal comportamento - singolo o classe - regolato dalla norma. Nella norma NI, l'oggetto è costituito, pertanto, dall'intera classe degli atti che consistono nel cagionare la morte di un individuo della specie umana. Sotto i profili appena illustrati, la norma N2: (N2) "Nessun uomo cagioni la morte del bestiame di un altro uomo". A differenza della norma N1, ha per soggetto passivo non una classe di persone, ma una classe di cose: l'altrui bestiame. Le norme N1 e N2 sono accomunate, peraltro, da ciò che nella prospettiva benthamiana costituisce una descrizione non circostanziata dell'atto regolato. Sotto questo profilo, NI e N2 si differenziano dalle tre norme seguenti; in esse la descrizione dell'atto regolato dalla norma, del soggetto passivo, o del soggetto attivo è invece, nel lessico di Bentham, circostanziata: (N3) "Nessun uomo cagioni la morte di un altro uomo mediante la somministrazione di veleno” (N4) ""Nessun uomo cagioni la morte di un altro uomo maggiorenne"; (N5) "Nessun uomo che respiri cagioni la morte di un altro uomo" Nella norma N3, l'atto di cagionare la morte di un uomo viene specificato sotto il profilo procedurale, attinente alle sue modalità di esecuzione. In esito all'introduzione di una tale circostanza, la norma N3 presenta, com'è ovvio, un ambito di applicazione 31 diverso, e più limitato, rispetto alla norma N1, poiché vieta unicamente l'omicidio perpetrato mediante avvelenamento. Nella norma N4, la circostanza introdotta attiene, invece, alla qualità del soggetto passivo dell'atto regolato e ha l'effetto di circoscrivere la classe degli omicidi vietati dalla norma, limitandola all'omicidio dei maggiorenni. In virtù del loro impatto sull'àmbito di applicazione delle norme cui accedono, le circostanze introdotte nelle norme N3 e N4 sono, nella terminologia di Bentham, delle circostanze specificanti, a differenza della circostanza introdotta nella norma N5, la quale può essere eliminata senza che l'ambito di applicazione di tale norma risulti in alcun modo modificato. Si tratta, infatti, nella terminologia di Bentham, di una circostanza non specificante. Nella teoria di Bentham, le norme NI-N5 sono esempi di norme non condizionali: il comportamento da esse regolato dev'essere tenuto, non già in un qualche “caso” - singolo o classe - specificamente determinato, ma, apparentemente, in qualunque caso indeterminatamente. Sotto questo profilo, tali norme possiedono (diremmo noi) una struttura sintattica categorica e si distinguono, in quanto tali, dalle norme a struttura ipotetica, come la seguente: (N6) "Nessun uomo cagioni la morte di un altro uomo, se è stata dichiarata la fine della guerra civile". N6 esemplifica, nella terminologia benthamiana, una norma condizionale: il comportamento da essa regolato non dev'essere tenuto dal soggetto attivo in qualsivoglia situazione (o caso), ma soltanto se si verifichi la condizione specificamente indicata nella norma. Destinatari ("parti interessate") Sostiene Bentham, che la presenza di norme giuridiche influisce fatalmente sulla situazione in cui si vengono a trovare singole persone, o classi di persone, le quali sono pertanto le “parti interessate da una norma giuridica”. Bentham ritiene inoltre che, in relazione a qualsiasi norma giuridica, occorra distinguere tre posizioni soggettive: tre diversi modi di essere (diremmo noi) destinatari di una norma. In primo luogo, vi è la posizione di quei soggetti che sono vincolati o costretti dalla norma: “senza costoro - sostiene Bentham - una norma giuridica non può neppure essere concepita. Una norma giuridica da cui nessuno sia vincolato, una norma giuridica da cui nessuno sia costretto, una norma giuridica da cui la libertà di nessuno 32 sia limitata, tutte queste espressioni, tra loro equivalenti, sarebbero altrettante contraddizioni in termini”. In secondo luogo, vi è la posizione, parimenti “necessaria per l'esistenza di una norma giuridica”, di quei soggetti che si trovano esposti a una probabile sofferenza - a un dolore, a una diminuzione di piacere - in conseguenza della norma. In terzo luogo, e infine, vi è la posizione dei «beneficiari» della norma: di quei soggetti che sono favoriti, o si è inteso favorire, tramite la norma. Il legislatore, peraltro, può favorire qualcuno in due modi diversi: (a) negativamente, o “in point of agency”, se il favore consiste nell'assenza di normazione - i.e., nell' astenersi dall' assoggettare taluno al vincolo di una norma; (b) positivamente, o “in point of interest”, se si crea una norma intesa ad attribuire a qualcuno un qualche beneficio, provvedendo così a soddisfare un suo interesse. Osserva Bentham, che le tre posizioni possono essere occupate, in relazione a una stessa norma, da una stessa persona o classe di persone, oppure da persone o classi di persone distinte. Ad esempio: 1. rispetto alle norme giuridiche sostanziali che creano degli illeciti di ciascun uomo contro se stesso, una stessa persona è ad un tempo: (a) vincolata, (b) esposta alla probabilità di subire una sanzione negativa, e (c) favorita dall'esistenza della norma; 2. rispetto alle norme giuridiche sostanziali che creano degli illeciti di un uomo contro altri uomini – “extra-regarding offences”: a loro volta distinti in illeciti “privati” o “individuali”; illeciti “semi-pubblici”; illeciti “pubblici”; e illeciti “multiformi” -, le tre posizioni sono occupate, in-vece, da persone diverse. Di solito, le persone vincolate coincidono con le persone suscettibili di subire una sanzione, ma sono diverse dalle persone beneficiate - sempre costituite dalla collettività nel suo complesso, nonché da singoli individui determinati, o da singoli sottogruppi determinati di individui, qualora gli illeciti siano privati o semi-pubblici. Bentham non esclude, tuttavia, la possibilità che le persone vincolate siano diverse dalle persone suscettibili di subire una sanzione, le quali possono a loro volta essere diverse dalle persone beneficiate; 3. rispetto alle norme giuridiche sussidiarie o rimediali, infine, si avrebbe tipicamente una divaricazione tra il soggetto vincolato (il giudice o altro organo statale competente a irrogare la sanzione), il soggetto che è “espressamente e intenzionalmente” suscettibile di subire un dolore (il delinquente), e il soggetto beneficiario: la collettività nel suo complesso, nel caso delle norme punitive come, ad esempio, la norma N7; il danneggiato e, indirettamente, la comunità nel suo complesso, nel caso delle norme risarcitorie come, ad esempio, la norma. (N7) "Il giudice ordini che chiunque abbia commesso un furto sia impiccato" 35 per le norme che vertano sui comportamenti di colui, o coloro, che siano gli esclusivi detentori della sovranità in uno stato. Non valgono, invece, qualora il potere sovrano sia diviso: un'eventualità che Bentham, a differenza di Austin, ammette pacificamente. In quest'ultimo caso, infatti, norme costituzionali come la norma N9 possono pacificamente essere sorrette da sanzioni giuridiche: “Supponiamo - osserva Bentham - [...] che vi siano due uomini, l'uno dei quali possieda tutti i poteri dello stato, salvo che l'altro, nel caso di una pubblica accusa, proferita secondo certe forme, abbia il potere di giudicarlo: includendo in questo potere quanto sia necessario ad assicurare l'esecuzione del giudizio. È chiaro che la sovranità non risiede in modo esclusivo in nessuno dei due uomini: ma congiuntamente in entrambi” Norme generali, norme particolari Si considerino infine, accanto alle norme N1-N10, le due norme giuridiche seguenti: (N11) "Nessuno si rechi in Piazza Bandiera il giorno 12 ottobre 2099" (N12) "La sig.ra Crudelia Demón si astenga dall'usare l'automobile dalle ore 6,00 alle ore 24,00 del giorno 12 ottobre 2099 Nella terminologia di Bentham, le norme N1-N7 sono esempi di norme giuridiche totalmente generali: si rivolgono a classi di soggetti attivi e concernono classi di comportamenti (“oggetti"). Per contro, la norma N12 è totalmente particolare, vertendo su di un atto determinato di un soggetto attivo determinato. Le norme N8, N9, N10, e N11, infine, sono norme parzialmente generali ovvero parzialmente particolari: sebbene in modi tra loro diversi, come si può agevolmente rilevare. La fonte delle norme giuridiche Si consideri nuovamente la definizione, con cui si apre Of Laws in General, secondo cui una norma giuridica (“a law”) è: “una combinazione di segni dichiarativi di una volizione, concepita o adottata dal sovrano in uno stato, concernente la condotta che dev'essere tenuta in un caso da una persona o da una classe di persone, che sono, o si assume siano, soggetti al suo potere [...]”. Chi legga questo passo alla luce incrociata della teoria benthamiana delle norme giuridiche, da una parte, e delle concezioni del diritto circolanti nella cultura occidentale moderna e contemporanea, dall'altra, troverà in esso un compendio di 36 modi di pensare solitamente associati al positivismo giuridico. Vi si possono leggere, in particolare: 1. una concezione volontaristica delle norme giuridiche (volontarismo); 2. una concezione statualistica del diritto (statualismo); 3. un'esemplificazione perspicua del principio epistemologico della neutralità etico- normativa dei concetti teorico-giuridici, che costituisce una versione epistemologica della tesi della separazione tra diritto e morale. 1. Nel passo di Bentham, si registra anzitutto l'adesione a una concezione volontaristica del diritto, laddove si afferma che le norme giuridiche sono combinazioni di segni “dichiarativi di una volizione”. La concezione volontaristica delle norme giuridiche può essere intesa come una specificazione della tesi dell'artificialità del diritto. La tesi dell'artificialità sostiene, in termini affatto generici, che il diritto è un artefatto sociale: un prodotto - non importa se volontario o involontario, consapevole o inconsapevole - della convivenza di una moltitudine di uomini in uno spazio e in un tempo determinati (ubi societas, ibi ius). Il volontarismo sostiene invece, in modo più specifico, che le norme giuridiche sono - e non possono essere altro se non - il prodotto e/o il senso di atti di volontà di autorità normative: di individui che, all’interno di una compagine sociale, agiscono in qualità di detentori di un potere normativo. Si possono distinguere due varianti principali della concezione volontaristica, alle quali corrispondono due concetti diversi di norma giuridica. Una prima variante, più rigorosa, sostiene che le norme giuridiche sanno il prodotto e/o il senso di atti di volontà discreti: ovverosia, di deliberazioni manifestate secondo certe forme (costituzione, legge, decreto, senatoconsulto, sentenza, ordinanza, ecc.), in un tempo e in un luogo de. terminati, da singoli individui determinati (ad esempio: un monarca legislatore, un giudice monocratico), o da collettività determinate di individui (ad esempio: un'assemblea costituente, un'assemblea parlamentare, una commissione legislativa in sede deliberante, un comitato di salute pubblica con poteri normativi, un giudice collegiale). Una seconda variante, meno rigorosa, sostiene invece che le norme giuridiche sono il prodotto e/o il senso vuoi di atti di volontà discreti, vuoi di volizioni manifestate mediante comportamenti concludenti (tacite o per facta concludentia) e imputabili: (a) a singoli individui determinati, (b) a collettività di individui determinati, 37 (c) a collettività di individui indeterminati - si pensi alle comunità di individui che, con i loro comportamenti regolari e i loro atteggiamenti normativi, creano le norme "non scritte" di tipo consuetudinario. La concezione volontaristica adottata da Bentham, come vedremo tra breve, è assai vicina alla variante più rigorosa delle due ora richiamate. 2. Lo statualismo, come accennato prima, è la tesi secondo cui il diritto è il prodotto di quella particolare organizzazione politica di una società che è lo stato. Anche questa seconda tesi positivistica trova apparentemente una concisa, ma inequivoca, formulazione nel passo benthamiano: le norme giuridiche sono, infatti, i segni dichiarativi di una volizione, concepiti o adottati dal “sovrano in uno stato”. 3. Il passo di Bentham sopra riportato offre, infine, un’esemplificazione perspicua del principio epistemologico della neutralità etico-normativa dei concetti teorico-giuridici - un principio che, come accennavo prima, costituisce una versione epistemologica della tesi della separazione tra diritto e morale. Il principio impone al filosofo del diritto, nello svolgere indagini di giurisprudenza espositiva non-autoritativa, di servirsi di concetti non compromessi con valutazioni fondate su di una qualche dottrina morale o ideologia politica. Orbene, Bentham definisce la nozione di norma giuridica in modo tale, che la giuridicità di una norma viene fatta dipendere esclusivamente dalla presenza di proprietà fattuali, suscettibili di empirica rilevazione. Nella teoria di Bentham, infatti, la condizione sufficiente della giuridicità di una norma è identificata con la sua imputabilità - diretta o indiretta - a una volizione del “sovrano in uno stato”. Con l'adozione di questo criterio, semplice e formale, della fonte di produzione e/o d'imputazione, Bentham rigetta tacitamente i seguenti criteri alternativi di giuridicità. In primo luogo, Bentham rigetta il criterio avalutativo (wertfrei), ma composito, che fa dipendere la giuridicità di una norma da due condizioni, disgiuntamente necessarie e congiuntamente sufficienti: a) la sua imputabilità, diretta o indiretta, a una volizione del sovrano in uno stato; b) l'essere garantita, sotto il profilo dell'efficacia, da sanzioni giuridiche, i.e., irrogabili da organi statali. Le sanzioni giuridiche sono senza dubbio, per Bentham, gli elementi costitutivi della parte quantitativamente più significativa delle norme giuridiche vigenti in uno stato (si pensi alle norme indirizzate al “people a large”, o a un qualche suo settore). Tuttavia, affinché un “insieme di segni dichiarativi di una volizione” circa la condotta che dev'essere tenuta da una persona o da una classe di persone esprima una norma giuridica, non occorre affatto che la sua efficacia sia garantita da una sanzione giuridica: bastando a tale fine la probabilità, ancorché remota, di una sanzione non 40 di disposizione, o anche “auto-cheiristic power” o “impressive power”, a sottolineare che colui che subisce un male viene trattato come una cosa nelle mani di colui che lo infligge. Entrambi questi poteri del sovrano, “in uno stato costituito”, riposano sulla “sottomissione e obbedienza della popolazione”. Tenuto conto di ciò, A esprime una proposizione apofantica - che può essere empiricamente vera o falsa; ed è vera se, ma solo se, risulti vera un'affermazione grosso modo del seguente tenore: (A'1) Se Rex produrrà direttamente o indirettamente delle norme, secondo certe modalità di produzione, tali norme saranno probabilmente osservate dai membri della comunità politica di Freedonia complessivamente considerata, e ciò a causa di svariati fattori motivazionali, tra i quali occorre includere anzitutto la soggezione della comunità dei Freedoniani alle sanzioni politiche comminate direttamente o indirettamente da Rex: l'esposizione dei Freedoniani ai mali prospettati da Rex quali conseguenze della violazione delle sue norme. In ossequio al principio epistemologico della neutralità etico-normativa dei concetti teorico-giuridici, Bentham ha dunque definito la nozione di sovrano, in quanto supremo produttore di norme giuridiche in una comunità, in termini che escludono qualunque giudizio di valore etico-normativo. Per identificare il sovrano di una “comunità politica” occorre fare riferimento, come si è visto, a due fatti sociali complessi. 1. In primo luogo, il fatto (che Hart configura come) artificiale che consiste nella disposizione, solitamente abituale, di una popolazione (ad esempio: Il popolo di Freedonia) a obbedire in via preferenziale alle norme prodotte, direttamente o indirettamente, da un certo individuo o gruppo di individui determinati (ad esempio: Rex). Questa disposizione - rileva Bentham - può peraltro essere (a) mutevole nel tempo e (b) limitata di fatto alle sole norme che abbiano un certo contenuto, in virtù dell'adesione dei sudditi a certe dottrine morali o religiose. 2. In secondo luogo, il fatto (che Hart configura come) naturale che consiste nella disponibilità, da parte di tali individui, della forza fisica occorrente a irrogare ai trasgressori le sanzioni comminate - ciò che Bentham chiama, come si è visto, “potere di disposizione” (“power of contrectation”). In conclusione: (1) Bentham configura il potere normativo sovrano come un potere di fatto: che sussiste, in una comunità politica, se, ma solo se, sussiste una disposizione preferenziale a obbedire alle leggi del sovrano (tale disposizione, precisa Bentham, è 41 «la causa costituente» del potere del sovrano), la quale disposizione dipende a sua volta, tipica- mente, dal potere di disposizione del sovrano, dalla sua effettiva capacità di trattare i sudditi come cose, come corpi inanimati; (2) il potere normativo del sovrano è suscettibile di incontrare limiti, parimenti fattuali, costituiti dall'eventuale disposizione dei sudditi a non osservare certe sue norme (in virtù del loro contenuto o della loro forma), correndo se del caso il rischio di subire le sanzioni prospettate da costui; (3) il potere normativo sovrano, in quanto potere di fatto, può essere esercitato dal sovrano per produrre norme costituzionali che ne comportano la giuridicizzazione, attenendo al suo contenuto e/o alle sue modalità di esercizio; ciò lo trasforma in un potere di diritto, nel "diritto" ("right) di imperazione; in forza di ciò, (4) il potere normativo sovrano può anche essere soggetto a limiti giuridici: derivanti dalle norme costituzionali in principe, qualora si tratti di un potere indiviso; derivanti da apposite norme di garanzia, qualora tale potere sia invece diviso tra due o più organi. Nella teoria di Bentham, l'esistenza di un sistema giuridico positivo - per usare una terminologia corrente - viene pertanto fatta dipendere, occorre sottolinearlo, dall'esistenza di un potere coercitivo di fatto, in capo a un insieme di persone determinate, rispetto al quale sussiste una disposizione preferenziale all'obbedienza da parte di una collettività determinata. Il fattore esplicativo dell'esistenza dei sistemi giuridici si risolve, dunque, in un rapporto di dominazione (“dominion”) tra un gruppo dominante (il sovrano e i suoi ausiliari) e un gruppo di dominati. In tale prospettiva, le norme - a cominciare dalle norme costituzionali – arrivano "dopo": come peraltro suggerisce l'antico brocardo ex facto ius oritur (-il diritto nasce dal fatto-). La teoria del diritto contemporanea, come vedremo trattando di Kelsen e di Hart, seguirà una strada in parte diversa circa "il fondamento" dei sistemi giuridici positivi: una strada nella quale il rapporto di dominazione tende a sfumare nell'ombra, lasciando il centro della scena sia a una norma fondamentale ipotetica o fittizia, peraltro parassitaria rispetto all’efficacia, e alla capacità di coercizione, degli ordinamenti giuridici (Kelsen → cap. V), sia a una regola di riconoscimento consuetudinaria (Hart). Norme concepite, norme adottate (norme sovrane, norme subordinate) Il sovrano di uno stato, sostiene Bentham, è la fonte di tutte le norme giuridiche di quello stato. 42 Il sovrano non è però la fonte immediata, o diretta, di tutte le norme giuridiche. Sotto questo profilo, Bentham distingue due tipi di norme: le “norme concepite”, o norme sovrane, e le “norme adottate”, o norme subordinate. Sono norme concepite le norme che il sovrano produce direttamente. Sono invece norme adottate le norme direttamente prodotte da soggetti diversi dal sovrano, alle quali quest'ultimo attribuisce però (diremmo noi) "validità giuridica", ovverosia, la qualità di essere norme giuridiche. Bentham esamina l'adozione di norme da parte del sovrano sotto quattro profili: il profilo temporale (tempo dell'adozione) e il profilo personale (soggetti che hanno originariamente prodotto le norme adottate); il profilo del “grado di forza” connesso all'adozione; il profilo formale, delle modalità di adozione. 1. Sotto il profilo temporale, che attiene al momento in cui la norma adottata viene prodotta, l'adozione può essere successiva oppure preventiva. L'adozione successiva - o mediante “recezione” (susception) - ha per oggetto norme già prodotte dal sovrano precedente o dai suoi delegati. La recezione può essere tacita o espressa. Nel primo caso, il sovrano si limita a non produrre alcuna norma incompatibile con quelle prodotte dai suoi predecessori e i loro subordinati. Nel secondo caso, invece, il sovrano recepisce la norma precedente emanando un'apposita “norma di recezione” (adopting mandate). La recezione espressa può divenire opportuna qualora sorgano dubbi, nei sudditi, circa la “continuità” delle norme del sovrano precedente: in tali casi, la norma di recezione è una norma sopravvenuta iterativa. L'adozione preventiva - o “preadozione” (pre-adoption) - consiste invece nel conferire un potere normativo (the power of imperation and/or de-imperation) a certi individui o classi di individui, i quali, in virtù di tale conferimento, agisce da “nomoteti subordinati” (subordinate power-holders). Così facendo, il sovrano attribuisce il valore di norme giuridiche alle norme che saranno prodotte dai nomoteti subordinati, secondo le modalità e nelle materie indicate dalle norme di delegazione. Bentham distingue, a questo proposito, tra il conferimento di un potere normativo “a titolo di beneficio” (beneficial) e “a titolo fiduciario” (fiduciary). Il conferimento a titolo di beneficio investe il nomoteta subordinato di un potere normativo da esercitarsi nel suo esclusivo interesse: si pensi al conferimento ai singoli dei poteri di autonomia privata consistenti nello stipulare contratti o nel disporre dei propri beni per testamento. Il conferimento a titolo fiduciario, per contro, investe il nomoteta subordinato di un potere normativo da esercitarsi nell’interesse di terzi. Se si tratta dell'interesse di 45 Norme imperative, norme non-imperative Una norma giuridica, sostiene Bentham, è “una combinazione di segni dichiarativi di una volizione, concepita o adottata dal sovrano in uno stato, concernente la condotta che deve essere tenuta [.. ] da una persona o da una classe di persone, che nel caso in questione sono, o si suppone siano, soggette al suo potere: la quale volizione affida la propria realizzazione all' aspettativa di certi eventi rispetto a quali la dichiarazione stessa s' intende che debba costituire una condizione del loro verificarsi, e la possibilità dei quali s'intende che debba agire come un motivo su coloro della cui condotta si tratta”. A una lettura letterale, questo passo parrebbe suggerire che, per Bentham, vi sia un solo tipo di norme giuridiche: le norme che prescrivono ciò che si deve fare, le norme imperative, o imperativi. In altre parole, che le norme giuridiche siano insiemi di segni espressivi, “dichiarativi” (o “indicativi”), di un unico tipo di volizione: di una volizione che comanda o vieta comportamenti, e stabilisce sanzioni per la violazione dei comandi e dei divieti. Una tale conclusione sembra avvalorata anche da diversi altri passi di “Of Laws in General”. Per questo, Bentham è un esponente paradigmatico dell'imperativismo. Al di là della definizione di norma giuridica con cui si apre Of Laws in General, la posizione di Bentham appare tuttavia assai più articolata. Bentham ritiene che le norme imperative costituiscano, da un punto di vista funzionale, l'elemento essenziale, imprescindibile, del diritto positivo. A cosa mai servirebbe il diritto, quale sarebbe mai la sua utilità sociale, se non contenesse norme imperative, che guidano i comportamenti dei comuni cittadini (e/o degli organi giuridici) in virtù della pressione esercitata da sanzioni giuridiche o politiche, in ultima istanza irrogabili dal sovrano? Bentham ritiene però che il diritto sia costituito anche da norme giuridiche di diverso tipo, le quali sono espressione di volizioni di diverso tipo: e segnatamente, da quelle altre norme che chiama non-imperative, non-coercitive, non-direttive. Inoltre - ed è questo un punto sintomatico di un imperativismo non radicale, ma temperato - Bentham ritiene che le norme non-imperative svolgano un ruolo importante nella disciplina giuridica dei comportamenti; sebbene lo stesso Bentham suggerisca che tali norme siano tipicamente sussidiarie (quanto alle loro funzioni), e parassitarie (quanto alla loro efficacia), rispetto alle norme imperative. Ciò premesso, Bentham elabora la distinzione tra norme imperative e norme non- imperative - preannunziata sin dal primo capitolo di Of Laws in General, in cui contrappone i “commands” ai “countermands” - trattando dei diversi aspetti che può 46 assumere la volizione di un'autorità normativa rispetto a un comportamento o a una classe di comportamenti. Vediamo brevemente come. Si considerino le quattro norme giuridiche seguenti: (N1) "Tutti i cittadini portino armi"; (N2) "Nessun cittadino porti armi"; (N3) "I cittadini possono astenersi dal portare armi"; (N4) "I cittadini possono portare armi". La norma N1 è una norma di comando: comanda ai cittadini di tenere il comportamento commissivo (positivo, attivo) consistente nel portare armi. La norma N2 è una norma di divieto o proibizione: vieta ai cittadini il comportamento commissivo consistente nel portare armi, e inversamente, comanda loro il comportamento omissivo (negativo, passivo), che consiste nell'astenersi dal portare armi. Comandi e divieti sono pertanto, osserva Bentham, norme intercambiabili: possono essere convertite l'una nell'altra, trasformando comportamento commissivo in omissivo e viceversa. La norma N3 è una norma di non-comando: permette ai cittadini di tenere il comportamento omissivo che consiste nell'astenersi dal portare armi. Infine, la norma N4 è una norma permissiva, di non-divieto o permesso: permette ai cittadini di tenere il comportamento commissivo che consiste nel portare armi. Gli aspetti che la volizione nomotetica può assumere rispetto a uno stesso atto sono dunque quattro, ai quali corrispondono quattro tipi di norme giuridiche. Le norme dei primi due tipi - esemplificate dal comando N1 e dal divieto N2 - sono norme imperative, direttive, obbligative, o coercitive, le quali riflettono la decisione del nomoteta (solitamente il legislatore) di produrre norme che influiscano sulla condotta dei destinatari, incidendo sulla loro libertà di autodeterminazione. Le norme degli ultimi due tipi - esemplificate dal non-comando N3 e dal permesso N4 - sono invece norme non-imperative, non-direttive, non-obbligative, o non-coercitive, le quali riflettono la decisione del nomoteta di assumere un atteggiamento neutrale rispetto alla condotta dei destinatari: di non influire su di essa, delimitando la loro libertà di auto-determinazione. Nel lessico dell'attuale teoria del diritto, gli aspetti della volizione identificati da Bentham costituiscono altrettante modalità deontiche o qualificazioni normative dei comportamenti o ancora - nella terminologia di von Wright - caratteri normativi: e precisamente i quattro caratteri comandato, vietato, non-comandato (o facoltativo), e permesso (in senso stretto). 47 La "logica del volere": frammenti di logica deontica benthamiana Con la locuzione logica deontica si può designare, in termini affatto generici, quel settore di ricerche, nell'ambito della logica contemporanea, in cui s'indaga se, e quali, relazioni, informate a quali regole e/o principi logici (della logica classica e/o di altre logiche), si possano configurare, in sede di analisi dei modi di ragionare correnti e/o di costruzione di sistemi logici ideali: • tra le "norme", intese come proposizioni prescrittive, né vere né false - nel quale caso la logica deontica si risolve in un'indagine di logica delle norme; • tra le "proposizioni normative", intese come proposizioni descrittive, vere o false, che vertono su, o attengono a, norme - nel quale caso la logica deontica si risolve in un'indagine di logica delle proposizioni normative. Con particolare riguardo alle relazioni logiche tra norme, tra i problemi affrontati dai cultori di logica deontica negli ultimi cinquant'anni si registrano: a) problemi di teoria delle figure di qualificazione normativa dei comportamenti ("obbligatorio", "vietato", "permesso", "facoltativo", "indifferente", "autorizzato", "competente", "incompetente", "illecito", есс.). b) problemi di teoria delle inferenze normative ("direttive", o "deontiche") - che consistono, in particolare, nel chiedersi se, e quali, regole d'inferenza "si applichino" (in un qualche senso di "applicarsi”) alle norme; c) problemi di teoria dei conflitti normativi - che consistono, in particolare, nel chiedersi se un’antinomia sia - o possa, quantomeno, essere assimilata a - una contraddizione logica tra due proposizioni apofantiche. Note finali sull' imperativismo benthamiano Per Norberto Bobbio, esponente italiano, occorre distinguere due forme di imperativismo: l'imperativismo ingenuo e l'imperativismo critico. L'imperativismo ingenuo si caratterizza: • per concepire il diritto come un insieme di comandi del sovrano, indirizzati ai comuni cittadini, nonché • per la disattenzione rispetto alla struttura degli imperativi giuridici. L'imperativismo critico si caratterizza, invece: • per sostenere che i ("veri") destinatari degli imperativi giuridici non siano i comuni cittadini, bensì i giudici e gli altri organi dell'applicazione del diritto; • per aver riflettuto sulla struttura degli imperativi giuridici, pervenendo alla conclusione secondo cui si tratterebbe, tipicamente, di enunciati condizionali, 50 • non ontologico - Bentham non crede che esista un unico tipo di norme giuridiche, le norme imperative; • non essenzialistico - Bentham non ritiene che vi sia un vero concetto, di sapore platonico, di "norma giuridica"; • funzionalistico - la centralità delle norme coercitive è il riflesso di considerazioni circa la funzione, e l'utilità, del diritto in un universo altrimenti retto dalla legge universale di libertà; • non-riduzionistico - Bentham non è interessato a ridurre tutte le norme giuridiche a un solo tipo: e precisamente a norme imperative, apparenti o camuffate; preferisce adottare, invece, l’idea della necessaria implicazione, o necessaria connessione, tra norme permissive e norme imperative; quest'ultima riflette a sua volta gli ideali regolativi, ispirati al principio di ragion sufficiente, secondo cui "Nessuna norma sia senza scopo", "Nessuna norma sia priva di utili effetti"; • coazionistico debole - Bentham, come si è visto, non configura la sanzione giuridica come condizione necessaria della giuridicità delle norme imperative. 2. Destinatari delle norme giuridiche Per quanto concerne i destinatari delle norme giuridiche, appare evi. dente che la teoria di Bentham non possa in alcun modo essere annoverata tra gli imperativismi ingenui. Si è visto al contrario che, secondo Bentham: • di alcune norme giuridiche sono destinatari i comuni cittadini (norme principali); di altre norme giuridiche sono invece destinatari i detentori subordinati di potere normativo, inclusi i detentori parziali di potere sovrano (norme sussidiarie, norme di competenza); di altre norme giuridiche ancora è destinatario lo stesso sovrano e i suoi successori (norme costituzionali in principem, raccomandazioni costituzionali); • i comuni cittadini sono i destinatari indiretti delle norme sussidiarie punitive o premiali, che permettono o prescrivono agli organi dell'applicazione di punire o premiare certi comportamenti in certi modi; tali norme, infatti, implicano norme imperative semplici direttamente indirizzate a costoro, dimodoché queste ultime, in presenza delle norme sussidiarie, diventano superflue. Un tale modo di vedere sarà riproposto centocinquant'anni dopo da Hans Kelsen, il quale, per la stessa ragione di Bentham, riserverà il nome di "norma primaria" alla 51 norma sanzionatrice immediatamente indirizzata agli organi dell'applicazione, e chiamerà invece "norme secondarie" le norme imperative semplici di Bentham. 3. Struttura delle norme giuridiche Contrariamente agli imperativisti ingenui oggetto della critica di Bobbio, Bentham ha svolto indagini minuziose circa la struttura degli imperativi giuridici: 1. analizzando gli elementi costitutivi delle norme: aspetti normativi, soggetti, oggetti, circostanze; 2. distinguendo, in particolare, tra norme incondizionate e norme condizionali, ed elaborando un'articolata tipologia delle condizioni (qualificative o estensive, limitative o di eccezione, ecc.); 3. delineando una tipologia dei diversi gradi di completezza - nuovamente, da un punto di vista strutturale - delle norme: dalla struttura atomica delle norme puramente direttive, alla struttura complessa delle norme con una parte direttiva e una parte sanzionatoria, alle connesse norme sussidiarie; 4. caratterizzando ogni norma come composta di due elementi fondamentali: il carattere normativo (aspetto) e il contenuto normativo (oggetto, ovvero il comportamento, commissivo o omissivo). 4. Relazioni tra norme giuridiche Bentham ritiene infine che le norme giuridiche che compongono un qualunque diritto positivo non siano elementi tra loro irrelati, semplicemente giustapposti. Ritiene, al contrario, che tra le norme giuridiche intercorrano relazioni di diverso tipo, di cui ogni legislatore, o aspirante tale, dovrebbe tenere conto qualora intenda operare razionalmente. → In primo luogo, vi sono relazioni “necessarie”, “logiche”, o “statiche”. Sono di questo tipo: • le relazioni - di necessaria implicazione, necessaria ripugnanza, o indipendenza - che intercorrono tra le norme giuridiche, se considerate sotto il profilo del loro carattere deontico (aspetto) e del loro contenuto normativo (oggetto); • le relazioni, sempre di necessaria implicazione, tra le norme sussidiarie punitive e le corrispondenti norme imperative semplici. → In secondo luogo, vi sono relazioni (potremmo dire) di implicazione funzionale. Sono di questo tipo, ad esempio, le relazioni tra le norme permissive - in quanto norme parassitarie - e le "connesse" norme imperative sanzionatorie. 52 → In terzo luogo, vi sono relazioni dinamiche, tra norme originarie e norme sopravvenute, provenienti da una stessa fonte, ovvero da fonti diverse e gerarchicamente ordinate, di cui una "inferiore", o delegata, e una “superiore", o delegante. → In quarto luogo, e infine, vi è nella teoria benthamiana una chiara consapevolezza dell’importanza delle norme di competenza: delle norme mediante le quali il sovrano ascrive poteri normativi ad agenti subordinati. La riflessione sulla "struttura" degli "ordinamenti" o "sistemi" giuridici positivi - sotto il profilo delle norme che conferiscono poteri normativi - costituirà, come vedremo, uno degli aspetti qualificanti delle più avvertite teorie del diritto novecentesche, tra cui, anzitutto, la teoria pura del diritto di Hans Kelsen (→ cap. V). -Capitolo II- Imperativismi ottocenteschi: John Austin e l'analytical jurisprudence L'età del positivismo imperativistico Il lascito della cultura giuridica ottocentesca a quella del secolo XX comprende, oltre ai due modelli di filosofia del diritto positivo menzionati all'inizio - il modello inglese e il modello germanico, anche alcuni modi di pensare circa la natura del diritto, l'interpretazione giuridica, l'applicazione giudiziale del diritto e la scienza giuridica, i quali saranno sottoposti a una critica radicale da parte dei teorici novecenteschi. Tra questi modi di pensare, figurano anzitutto: 1. la concezione imperativistica del diritto, o imperativismo, secondo cui, come si è visto, il diritto sarebbe essenzialmente un insieme di comandi e divieti di un certo tipo; 2. la concezione sistematica del diritto, secondo cui ogni diritto positivo (evoluto) sarebbe non già un mero coacervo di materiali più o meno casualmente giustapposti e affidati all'arbitrio di legislatori transeunti, bensì un sistema: un tutto, organico e comunque ordinato, dotato delle proprietà della coerenza e della completezza - se non in superficie, certamente a quel livello più profondo della realtà di un diritto positivo, nel quale soltanto la scienza giuridica è in grado di penetrare; 3. la concezione cognitivistica – o formalistica - dell'interpretazione giuridica, secondo cui l'interpretazione dei materiali giuridici da parte degli operatori del diritto - giudici, funzionari amministrativi, giuristi - sarebbe un'attività puramente conoscitiva di un senso o di un pensiero dati; avrebbe pertanto carattere valutativo (wertfrei), tecnico, scientifico, non creativo, e politicamente adiaforo; 55 in funzione critica: le quali ultime sono raggruppate da Austin, rispettivamente, nell'àmbito della "scienza dell'etica" o "etica" ovvero della "scienza della deontologia" o "deontologia". Nell'ambito delle discipline puramente conoscitive, che vertono sulle (diremmo noi) norme sociali che governano di fatto il comportamento degli uomini in determinati contesti spazio-temporali, Austin distingue: • la scienza della morale positiva, la quale ha per oggetto le norme (o "leggi") della morale positiva; questa disciplina, secondo Austin, sarebbe stata coltivata soltanto relativamente a quella parte che, nella prospettiva dello stesso Austin, è costituita dal "diritto internazionale" o "diritto delle nazioni" (ius gentium); • la giurisprudenza (jurisprudence), che ha invece per oggetto il diritto positivo, nel cui ambito Austin distingue ulteriormente tra giurisprudenza generale e giurisprudenza particolare. Nell'ambito delle discipline conoscitive in funzione critica, che vertono invece sulle norme che dovrebbero governare il comportamento degli uomini, Austin distingue parimenti due discipline, omologhe delle due precedenti: • la scienza della morale o morale (the science of morals - morals), che attiene alla valutazione e alla critica della morale positiva; • la scienza della legislazione o legislazione (the science of legislation - legislation), che attiene invece alla valutazione e alla critica del diritto positivo. Nella mappa austiniana le discipline normative specificamente giuridiche - poiché rivolte al diritto positivo - sono, dunque, tre: la giurisprudenza particolare (particular jurisprudence), la scienza della legislazione (science of legislation), la giurisprudenza generale (general jurisprudence). La tripartizione, nonostante si basi su quella di Bentham, se ne discosta in modo marcato sotto il profilo terminologico. In primo luogo, Austin riserva il nome di "jurisprudence" ai discorsi delle discipline che attengono al, ovvero vertono sui, diritto positivo; escludendo con ciò che esso possa convenire per designare anche i discorsi del diritto (come avviene invece nella benthamiana giurisprudenza espositiva autoritativa). In secondo luogo, Austin riserva il nome di "jurisprudence" ai soli discorsi descrittivi del diritto positivo quale esso è; con ciò escludendo che esso convenga anche ai discorsi di tipo valutativo o censorio. Le tre discipline giuridiche di Austin 1. Particular jurisprudence 56 “Avendo delimitato il campo della giurisprudenza - scrive Austin - distinguerò la giurisprudenza generale, ovverosia la filosofia del diritto positivo, da ciò che può denominarsi giurisprudenza particolare, ovverosia la scienza di un particolare diritto; vale a dire, la scienza di un qualsivoglia sistema di diritto positivo, in quanto sia di fatto esistente ora, o sia effettivamente esistito un tempo, in una nazione specificamente determinata, o in nazioni specificamente determinate”. La giurisprudenza particolare - talora anche denominata "national jurisprudence" - è dunque una disciplina immediatamente orientata alla pratica giuridica, essendo volta a conoscere, e a far conoscere, il diritto vigente in una determinata comunità politica, al fine di fornire soluzioni a quesiti del tipo: "Che cosa prescrive il diritto con riguardo al caso F?” ("Quid juris?"). Questa branca del sapere giuridico corrisponde pertanto a ciò che, qui e ora, si suole denominare "scienza giuridica", "dottrina giuridica", "giurisprudenza" (come calco di "iuris prudentia") o anche, per metonimia, "dogmatica giuridica". Posto che la giurisprudenza particolare di Austin corrisponde alla c.d. scienza del diritto qual era, ed è, praticata nelle esperienze giuridiche occidentali, occorre formulare un'avvertenza. L'idea secondo cui si tratterebbe di una disciplina puramente conoscitiva appare - qui e ora - oltremodo dubbia. Austin, infatti, non ne assicura l’oggettività e l’avalutatività ma ci fornisce parametri empiristici (di oggettività e avalutatività): • l'individuazione dei materiali giuridici positivi, sulla base dei criteri di fatto utilizzati a tale fine dagli operatori pratici (giuristi, giudici, avvocati, ecc.) in una certa esperienza giuridica; • la rilevazione delle interpretazioni di fatto offerte e delle manipolazioni di fatto compiute da costoro sul "loro" diritto, dando conto di eventuali difformità di posizioni diacroniche e/o sincroniche; • la rilevazione delle tesi e delle costruzioni dottrinali, incluse le definizioni di concetti giuridici, di fatto elaborate e propugnate da costoro, in vista dell'interpretazione e manipolazione dei materiali giuridici del "oro" diritto, dando conto di eventuali difformità di posizioni diacroniche e/o sincroniche; • la formulazione di previsioni circa quali interpretazioni e/o quali soluzioni a problemi giuridici potrebbero essere ragionevolmente offerte, in quell'esperienza giuridica, alla luce dei criteri interpretativi, delle costruzioni dottrinali, e delle ideologie giuridiche colà imperanti. 57 Sembra al contrario incontestabile che, sul punto, il pensiero di Austin sia stato influenzato da quello che, al suo tempo, era il modello più autorevole di scienza giuridica particolare: alludo al modello desumibile dagli scritti dei più illustri giuristi tedeschi della prima metà del secolo XIX, tra cui, K.F. Eichhorn, N. Falck, Paul J. Anselm Feuerbach, G. Hugo, F. Mackeldey, C.F. Mühlenbruch, F.C. von Savigny, e A.F.J. Thibaut. 2. Science of legislation La science of legislation (scienza della legislazione) è quella parte dell'etica, o deontologia, che si propone di: “determinare il test o il criterio (unitamente ai principi subordinati o conformi a tale criterio) sulla base del quale il diritto positivo dev'essere prodotto, o al quale il diritto positivo dev'essere adeguato” Alla scienza della legislazione, che corrisponde grosso modo alla benthamiana "censorial jurisprudence" (anche denominata "the art of legislation"), Austin assegna apparentemente quattro compiti principali. 1) Il primo compito - di carattere conoscitivo - consiste nell' individuare l'insieme dei parametri (il "criterio" e i "principi subordinati”) metagiuridici alla luce dei quali si deve valutare la bontà (giustizia, legittimità) di un diritto positivo, o di singole sue norme: se, in altre parole, il diritto quale di fatto è, in un certo tempo e in un certo luogo, corrisponda o no a ciò che esso deve essere. 2) Il secondo compito - per Austin, di carattere parimenti conoscitivo - consiste nell'accertare se, e quali, parti di un diritto positivo siano - ovvero: non siano - così "come devono essere". 3) Il terzo compito - di carattere critico, o normativo de iure condito - consiste nel censurare un diritto positivo, per la sua eventuale non rispondenza ai ("corretti") parametri metagiuridici di valutazione, e nel suggerire ai nomoteti i mutamenti idonei a adeguarlo ad essi, mediante opportune abrogazioni e sostituzioni di norme positive. 4) Il quarto compito - parimenti di carattere normativo, ma de iure condendo - consiste, infine, nel suggerire ai nomoteti che intendano legiferare su di una certa materia, quale contenuto la nuova legge debba avere, per essere così "come deve essere". Quali sono, secondo Austin, i parametri metagiuridici in base ai quali si deve valutare la (diremmo noi) correttezza (bontà, giustezza) morale di un diritto positivo, o di singole sue norme? 60 inglese moderno, i diritti codificati continentali della Francia e della Prussia - presentino tutte le caratteristiche proprie di qualunque sistema giuridico - e dunque comuni anche ai diritti primitivi, o meno evoluti - nonché una serie di caratteristiche comuni ad essi soltanto. Austin ritiene inoltre che, nell'ambito dei principi, delle nozioni, delle distinzioni comuni a tutti i sistemi giuridici (o a tutti quelli più progrediti), ve ne siano alcuni che “possono essere stimati necessari”, nel senso che sono “costitutivi” della struttura essenziale dei diritti positivi. La giurisprudenza generale viene anche presentata, più precisamente, come la disciplina che: “si occupa direttamente dei principi e delle distinzioni che sono comuni ai diversi sistemi di diritto particolare e positivo; i quali sono inclusi inevitabilmente in ciascuno di tali sistemi, sia esso meritevole di approvazione o di riprovazione [...] In altri termini, la giurisprudenza generale [...] si occupa del diritto quale esso è necessariamente, piuttosto che del diritto quale deve essere; del diritto quale non può che essere, sia esso buono o cattivo, piuttosto che del diritto quale deve essere, per essere buono”. E in un altro passo Austin giunge ad affermare che: “l'obiettivo peculiare della Giurisprudenza Generale o Universale [...] consiste in una descrizione dei contenuti e dei fini del Diritto in quanto siano comuni a tutti i sistemi; e di quelle somiglianze tra sistemi differenti che trovano il loro fondamento nella comune natura dell'uomo, o corrispondono a punti simili nelle loro diverse posizioni”. Secondo un autorevole studioso, con questo riferimento a somiglianze “fondate sulla comune natura dell'uomo”, Austin abbraccerebbe, sia pure inconsapevolmente, una concezione giusnaturalistica dell'oggetto della teoria del diritto, defezionando dal positivismo. Quale che sia la soluzione che si ritenga di dare al problema di esegesi austiniana appena richiamato, occorre chiedersi quali mai sarebbero, per Austin, i principi, le nozioni e le distinzioni "necessari" del diritto positivo, ovvero tali da rappresentare gli elementi costitutivi, e in tale senso "strutturali", dei diritti positivi più evoluti. A titolo esemplificativo, e in esito a una comparazione dei quattro sistemi giuridici evoluti prima richiamati, Austin include in questa classe di oggetti le seguenti cose: 1. i concetti giuridici fondamentali - o, nel suo lessico: le “nozioni pervasive” - come "dovere" (duty), "diritto soggettivo" (right), "libertà" (liberty), "illecito" (injury), “pena" (punishment), "risarcimento" (redress), ecc.; questi concetti - ritiene Austin - devono essere analizzati sia isolatamente presi, sia nei loro rapporti reciproci e in 61 relazione alle nozioni di "diritto (oggettivo)" e "norma giuridica" (law), "sovranità" (sovereignty), e "società politica indipendente" (independen political society) 2. la distinzione, relativa alle fonti e ai modi di produzione del diritto, tra il diritto "scritto", o "promulgato”, o prodotto mediante “legislazione diretta” (“direct legislation”), da un lato, e il diritto "non scritto", "non promulgato", o prodotto mediante “legislazione indiretta” (indirect o judicial legislation, dall'altro una serie di concetti e di distinzioni attinenti agli "scopi" (purposes) e ai "contenuti" (subjects) del diritto positivo in generale, tra cui: 3. la distinzione tra diritti soggettivi assoluti, o erga omnes (availing against the world at large), e diritti soggettivi relativi, o inter-partes (availing exclusively against persons specifically determined); 4. la distinzione, nell'ambito dei diritti reali, tra il diritto di proprietà e gli altri diritti in rem (“the variously restricted rights which are carved out of property or dominion”); 5. la distinzione delle obbligazioni contrattuali da fatto illecito, o da quasi-contratto; e infine 6. la distinzione tra illeciti penali e illeciti civili, questi ultimi a loro volta suddivisi in illeciti aquiliani ("torts"), illeciti da inadempimento contrattuale, e illeciti da quasi contratto. Le nozioni fondamentali, quelle sulla cui base è possibile delimitare il campo della giurisprudenza rispetto ad altri ambiti disciplinari, sono la nozione di diritto positivo e la nozione (diremmo noi) di norma giuridica (“law”, “legal rule”), con le connesse nozioni di sovranità o di società politica indipendente. Queste nozioni, sebbene indicate di passaggio nell'elencazione sopra riportata, costituiscono gli oggetti primari della filosofia del diritto positivo austiniana. Il metodo analitico della general jurisprudence I principali strumenti del metodo analitico, di cui il teorico (o filosofo del diritto positivo) austiniano deve servirsi, sono richiamati da Austin in alcuni passi delle lezioni introduttive al corso, pubblicate postume con il titolo “The uses of the study of Jurispudence”. 1. Un primo strumento della giurisprudenza generale austiniana è costituito, apparentemente, da ciò che potrebbe chiamarsi principio della metodica ignoranza lessicale. Come ebbe a osservare Michel de Montaigne, “il noto non è conosciuto”; e la familiarità con un oggetto o con un termine può accompagnarsi alla più completa ignoranza circa la sua natura o significato. Dimodoché, a differenza dei tradizionali giuristi istituzionali, il teorico austiniano deve assumere di non conoscere il significato 62 dei principali termini giuridici in uso; e ciò quale passo preliminare per una spassionata, e ineludibile, analisi concettuale degli stessi. 2. Un secondo strumento della giurisprudenza generale austiniana è costituito da alcuni rudimenti di analisi del linguaggio, in parte già incontrati trattando del metodo dell’Espositore benthamiano. (a) Il teorico austiniano deve anzitutto essere consapevole della tipica ambiguità semantica dei principali termini giuridici: del fatto che essi sono usati, sovente, a denotare cose eterogenee; e deve pertanto rilevare e distinguere accuratamente le loro diverse accezioni; (b) Il teorico austiniano deve, inoltre, saper distinguere due usi radicalmente diversi del linguaggio e, di conseguenza, due tipi radicalmente diversi di discorso. Da un lato, vi sono infatti i discorsi (diremmo noi) descrittivi, che si propongono di chiarire che cosa sia una certa cosa - fornendo risposte, ad esempio, a quesiti come: che cos'è il diritto non scritto? In che cosa si differenzia dal diritto scritto? Quali ne sono i caratteri identificativi? ecc. Dall'altro, vi sono invece i discorsi (diremmo noi) valutativi, nei quali si formulano giudizi circa i meriti o i demeriti di una certa cosa, assumendo che ne siano note le proprietà. (c) Il teorico austiniano deve poi saper riconoscere quelle espressioni in lingua che sono (direbbe Bentham) fittizie, essendo prive di un immediato referente empirico, come le espressioni dotate di un significato complesso - che designano le lockeane "idee complesse", tra cui ad esempio i nomi collettivi, “idonei a essere confusi con entità reali” (existences). (d) Il teorico austiniano deve saper distinguere, infine, tra i ragionamenti compiutamente formulati e i ragionamenti ellittici, nei quali ultimi non sono state esplicitate alcune premesse, d'importanza talora fondamentale per comprenderli e valutarli adeguatamente. 3. Un terzo strumento della giurisprudenza generale austiniana è costituito da una teoria delle definizioni e dei loro limiti. Orbene, il teorico austiniano: (a) deve saper riconoscere, e censurare, le definizioni viziate da circolarità, nelle quali il termine che si tratta di definire (definiendum) ricorre nella formula definitoria (definiens); (b) deve saper riconoscere, e censurare, gli abusi del metodo definitorio, i quali vengono tipicamente commessi nei discorsi in cui si pretende di risolvere problemi teorici complessi mediante “semplici definizioni” per genere e differenza specifica, di certi termini isolatamente considerati, confondendo così un problema di definizione reale (o quid rei) con un problema di definizione verbale (o quid nominis) e, 65 datori di lavoro ai prestatori di lavoro subordinati, dai mutuanti ai mutuatari, dai patroni ai loro clienti, dalle associazioni ai loro affiliati. Sono invece leggi in senso improprio, ma affini alle leggi propriamente dette, le regole morali fondate sull'opinione: come, ad esempio, le leggi dell'onore o quelle della moda - nonché, come vedremo meglio tra breve, una buona parte delle regole del diritto costituzionale e, per definizione, tutte le regole del diritto internazionale generale, che sono regole consuetudinarie. Infine, e per contro, nessuna delle "leggi" in senso metaforico, o figurato, è vuoi una legge in senso proprio, vuoi una legge in senso improprio ma affine alle leggi in senso proprio: “È questo il caso - afferma Austin - quando parliamo delle leggi osservate dagli animali inferiori; delle leggi che regolano la crescita o il deperimento dei vegetali; delle leggi che determinano il movimento di corpi o masse inanimate”. A quali condizioni, tuttavia, una legge appartiene alla classe delle leggi in senso proprio? A condizione, sostiene Austin, che si tratti di una “legge imperativa” (law imperative); che, in particolare, sia configurabile come: “una regola posta per la guida di un essere intelligente, da parte di un [altro] essere intelligente, che ha potere su di lui”. Le "leggi" o "regole" imperative sono a loro volta - sostiene Austin - una specie del genere dei “comandi” (commands). Per comprendere che cosa sia una legge positiva, occorre dunque chiarire preliminarmente che cosa sia un comando. Occorre, in altri termini, chiarire quella nozione che, per Austin, costituisce “la chiave della scienza della giurisprudenza”. A tale fine, in conformità ai canoni metodologici del proprio operare (tra cui, come si ricorderà, il principio della metodica ignoranza lessicale, il principio dell'avalutatività dei concetti teorico-giuridici, l'idea che il lavoro filosofico sul diritto consista nell'elaborare una rete di concetti esplicativi, chiari e distinti), Austin sviluppa un'analisi concettuale della nozione di "comando", osservando come essa sia frequentemente richiamata nei discorsi dei giuristi (e dei filosofi politici), ma di rado indagata a fondo nei suoi (pretesi) elementi costitutivi. La teoria austiniana dei comandi “Se qualcuno - sostiene Austin - esprime, o lascia comunque intendere (intimate), il desiderio (wish) che io compia, o mi astenga dal compiere, una certa azione, e costui mi infliggerà un male nel caso in cui io non mi conformi al suo desiderio, l'espressione o la tacita comunicazione del suo desiderio è un comando. Un comando si distingue 66 da altre manifestazioni di desiderio, non in virtù del modo [style] in cui il desiderio sia manifestato, bensì in vitti del potere e dell'intenzione della parte che comanda di infliggere un male, o un dolore, qualora il suo desiderio venga disatteso. Se qualcuno non può, o non vuole, farmi del male qualora io non mi conformi al suo desiderio, l'espressione del suo desiderio non è un comando, anche se costui abbia formulato il suo desiderio mediante una forma verbale imperativa (imperative phrase). Per contro, se qualcuno può, e vuole, farmi del male qualora io non mi conformi al suo desiderio, l'espressione del suo desiderio equivale a un comando, anche se costui, per spirito di cortesia, sia stato indotto a esprimerlo nella forma di una preghiera [request]». Il brano mette in luce non meno di cinque distinti elementi che Austin, riflettendo sulla nozione comune di "comando", sembra reputare disgiuntamente necessari e, con le precisazioni di cui sotto, congiuntamente sufficienti, a identificare un comando: • un desiderio rivolto all' altrui comportamento; • la volontà di nuocere (“willingness to harm”); • la capacità, o il potere, di nuocere (“ability to harm”, “power to harm”); • la manifestazione del desiderio; • la manifestazione della volontà di nuocere. Dei cinque elementi, i primi due hanno carattere interno, psicologico: attengono a stati mentali - e precisamente, ad atteggiamenti - del soggetto che comanda, e costituiscono pertanto ciò che potrebbe chiamarsi il sostrato psicologico dei comandi. Gli ultimi tre elementi rappresentano, invece, dei dati esterni: in linea di principio suscettibili d'immediata rilevazione empirica. La nozione austiniana di "comando" è dunque una nozione di tipo rigorosamente empirico-psicologico: del tutto depurata sia da componenti di carattere valutativo - Austin non ci fornisce infatti, nemmeno surrettiziamente, una qualche nozione di "comando giusto", ma semplicemente di "comando": giusto o ingiusto che sia; sia da componenti di carattere normativo - in nessun punto, la ridefinizione austiniana di "comando" rinvia infatti a norme di un qualche tipo. Dopo averla brevemente illustrata, vedremo come, presso i teorici del diritto contemporanei: (a) l'analisi austiniana della nozione di comando sia stata ritenuta, tutto sommato, accettabile - con l'eccezione di Neil MacCormick - il quale la considera troppo ristretta, ritenendo inopportuna l'esclusione di ogni riferimento a norme di un qualche; (b) si sia tuttavia negato che la nozione di comando, così intesa, possa davvero costituire “la chiave della scienza della giurisprudenza”. Contrariamente a quanto ritiene Austin, si sostiene, la maggiore e più rilevante parte delle norme giuridiche 67 positive - le norme del "diritto scritto": le costituzioni, le leggi, i regolamenti, ecc. - non possono essere configurate come una specie di comandi, se non al prezzo di introdurre nella teoria del diritto un'evidente, inutile, e - secondo Kelsen - pericolosa, finzione. Desiderio rivolto all'altrui comportamento Perché vi sia un "comando", occorre anzitutto che in un individuo "intelligente", o "razionale", si formi un desiderio rivolto al comportamento di un altro individuo parimenti "intelligente", o "razionale". Questo primo requisito solleva non meno di quattro distinti problemi e precisamente: 1. il problema dell'intelligenza dell'emittente; 2. il problema dell'intelligenza del destinatario; 3. il problema dell'oggetto del desiderio; 4. il problema della persistenza del desiderio. 1. Intelligenza dell'emittente Nella prospettiva austiniana, affinché vi sia un comando, è - o no - necessario che l'emittente sia un essere umano effettivamente capace di intendere e di volere? Ad esempio: un insano di mente può "formare un desiderio" rivolto all'altrui comportamento"? Austin non fornisce una chiara risposta sul punto. Svariati passi delle sue Lectures sembrano suggerire, tuttavia, la soluzione più rigorosa: chi, di fatto, non abbia la capacità di intendere e di volere non può comportarsi razionalmente - "non può", per definizione, "desiderare" alcunché. Pertanto, di fronte al preteso comando di un pazzo pericoloso, non sorge in capo ai destinatari alcun obbligo (nel senso austiniano del termine, su cui tra breve); il loro essere esposti all'eventualità di subire un danno da parte di costui concreta infatti una situazione equiparabile al trovarsi esposti alla furia cieca di un tornado. 2. Intelligenza del destinatario Nella prospettiva austiniana, affinché vi sia un comando, è - o no - necessario che il destinatario sia un essere umano effettivamente capace di intendere e di volere? Il comportamento di un infermo di mente (insane), o di un minore (infant), può essere l'oggetto di un comando? 70 4. la persistenza del desiderio e della volontà di nuocere, successivamente alla loro manifestazione, in un arco di tempo nel quale il destinatario del desiderio possa effettivamente scegliere se conformarvisi oppure no. Desiderio e volontà di nuocere svolgono pertanto due funzioni distinte rispetto all'esistenza di un comando. Da un lato, essi sono condizioni genetiche, o produttive: condizioni del venire in essere del comando; dal. l'altro, essi sono altresì condizioni "persistenziali": condizioni dalle quali dipende la successiva conservazione e/o estinzione del comando, ovvero condizioni del suo mantenersi in essere. Capacità di nuocere La capacità di nuocere - nelle parole di Austin, “ability to ham”, “power to harm” - è la possibilità effettiva, da parte di colui che manifesta un desiderio rivolto all'altrui comportamento, di infliggere a quest'ultimo il male espressamente o tacitamente prospettato, qualora costui non tenga il comportamento desiderato. Si tratta, nel lessico di Austin (con una chiara eco di Bentham), del requisito della “superiorità” dell'emittente nei confronti del destinatario del comando. La superiorità - l'effettiva capacità di nuocere a terzi - è, in particolare, la capacità di infliggere “sanzioni (sanctions), ovverosia di “imporre l'obbedienza” (enforcement of obedience) al proprio volere. Austin si domanda se sia opportuno estendere la denominazione di "sanzione" anche ai premi e alle ricompense, come espressamente proposto da John Locke [1632-1704] e da Jeremy Bentham. Opta tuttavia per l'inopportunità di una stipulazione siffatta, ritenendola “gravida di confusione e di perplessità”, poiché elide la distinzione tra cose, a suo modo di vedere affatto eterogenee, quali sono i comandi e le promesse. Il requisito della capacità di nuocere solleva due distinti problemi. In primo luogo, il problema della persistenza della superiorità dell'emittente: perché vi sia un "comando", è sufficiente che la superiorità sussista al momento della sua manifestazione, o è invece necessario che tale superiorità persista anche successivamente? In secondo luogo, il problema dell'entità della sanzione: perché vi sia "sanzione" è necessario che sia minacciato un male di particolare gravità, oppure è sufficiente la minaccia di un male purchessia, anche di lievissima entità? A entrambi i problemi, Austin fornisce una chiara risposta. Una risposta che, sia detto per inciso, costituisce una precisazione, solitamente negletta nella letteratura secondaria, della posizione gius-teorica nota come concezione sanzionistica, o concezione predittiva, dell'obbligo giuridico. 71 Per Austin, esiste una connessione concettuale istituita tra le nozioni di comando, sanzione, e dovere ("duty") o obbligo ("obligation"). Dimodoché, in virtù di tali stipulazioni, data una qualsiasi situazione, non è possibile affermare la sussistenza di una cosa designabile mediate uno dei tre termini (poniamo, un "comando"), senza con ciò affermare la sussistenza di cose designabili con gli altri due termini (un "obbligo" e una "sanzione"). Se, ad esempio, nella situazione S, Rossi ha indirizzato a Verdi un "comando" allora Verdi ha, e non può non avere, l’obbligo" di tenere il comportamento desiderato da Rossi, ed è soggetto a subire una "sanzione" da parte di Rossi, qualora violi tale obbligo. Un'ultima osservazione. Nella teoria austiniana, la “ability and willingness to harm” costituiscono le condizioni della normatività di una qualunque comunicazione prescrittiva formulata, o formulabile, in una lingua naturale; e, pertanto, anche della normatività del diritto o, in termini austiniani, della normatività delle manifestazioni di desiderio dei superiori politici. Il c.d. "problema della normatività del diritto" viene solitamente posto mediante interrogativi del seguente tenore: perché ci si deve comportare così come prescrive il diritto? Su che cosa si fonda la “obbligatorietà” dei precetti giuridici? In che modo il diritto fornisce "ragioni per l'azione" a coloro che gli sono soggetti? Com'è ovvio, a tali domande si possono fornire le risposte più diverse, secondo il punto di vista di volta in volta adottato. Orbene, nella prospettiva della general jurisprudence austiniana - statutariamente rivolta a conoscere il diritto positivo “quale di fatto è”, e come esso funzioni nella vita dei membri di una comunità politica - la risposta consiste nel fare esclusivo riferimento all' effettiva possibilità di subire una sanzione, ovvero a situazioni in cui si è indotti all'obbedienza dalla minaccia di subire un male a opera di un superiore politico. In questa prospettiva pertanto – che è la prospettiva del teorico che persegue l'ideale di una conoscenza rigorosamente empirica e avalutativa del diritto positivo - la normatività (o obbligatorietà) giuridica delle norme giuridiche, lungi dall'essere una proprietà metafisica o, in qualche senso, "spirituale", viene concepita in termini di, e fatta dipendere unicamente da, dati di esperienza, tra cui l'efficacia dell’apparato sanzionatorio statale si tratta, è bene avvertire, di una risposta che non pretende in alcun modo attribuire in modo automatico al diritto positivo, a qualunque diritto positivo in quanto tale, il crisma della legittimazione - e della obbligatorietà - morale. Al contrario. In primo luogo, la moralità del diritto positivo - se, in particolare, le norme di un dato ordinamento statale siano, o no, conformi a una qualche morale assunta come 72 parametro esclusivo di valutazione della sua giusti-zia, legittimità, e/o obbligatorietà - non è una questione di competenza della general jurisprudence, così come non lo è per la dottrina pura di Kelsen o per la “legal theory” di Hart, competendo invece alla scienza della legislazione: “L'esistenza del diritto è una cosa; i suoi meriti e demeriti sono un'altra cosa”. In secondo luogo, se si assume la prospettiva del singolo individuo, come lo stesso Austin ha cura di evidenziare in svariati passi delle sue Lectures, il diritto positivo non ha il monopolio della disciplina dei comportamenti umani. Invero, esso non è che uno degli insiemi di norme (leggi, regole) che vertono sulla condotta dei singoli: accanto a, e in eventuale competizione con, le norme della morale positiva e quelle del diritto divino. E, se comparato con le leggi divine, non è nemmeno il più importante: da un punto di vista assiologico, beninteso. Rispetto al problema fondamentale dell'etica normativa - "Che cosa devo fare?" - le risposte fornite dal diritto - da un qualunque diritto positivo - non possiedono dunque, suggerisce Austin, alcun titolo di esclusività: sebbene esse possano senza dubbio esercitare un'influenza notevole sui singoli, in virtù dell'immanenza ed entità delle sanzioni giuridiche. Austin distingue, nell'ambito dei doveri, tra i doveri giuridici, i doveri morali positivi, e i doveri trascendenti imposti dalla divinità. Tali doveri, nella sua prospettiva, sono congeneri: dipendono tutti dai comandi di un superiore. Come vedremo meglio tra breve, non c'è spazio, nella costruzione concettuale austiniana, per dei "doveri" d'altro tipo: né per un qualche dovere giuridico non (giuridicamente) sanzionato, come è stato sostenuto, invece, da Bentham e da Thon; né per doveri morali privi di sanzioni esterne, ma fondati unicamente sull'intima adesione dei singoli individui. Manifestazione del desiderio e della volontà di nuocere Perché vi sia un "comando" nel senso austiniano del termine, non è sufficiente che sussista un desiderio rivolto alla condotta di un terzo, accompagnato dalla volontà e dalla capacità di nuocergli. Occorre altresì che il desiderio e la volontà di nuocere siano espressamente o tacitamente manifestati, con la parola o con altro segno percepibile dal destinatario. Come in Pufendorf, un desiderio rivolto all'altrui comportamento che rimanga totalmente inespresso non può valere da "comando". L'effettiva comunicazione costituisce, in altri termini, una ulteriore proprietà definitoria del concetto austiniano di "comando". 75 In primo luogo, A può trovarsi, rispetto a B, in una posizione di superiorità coercitiva (“coercive superiority”): A, in altre parole, dispone personalmente, o in virtù dell'ausilio di complici, scherani, o protettori - della forza fisica sufficiente a piegare B alla propria volontà, costringendolo a fare x o a patire un male qualora non faccia x. In secondo luogo, A può trovarsi, rispetto a B, in una posizione di superiorità normativa, o autorità (“authority”): ciò accade allorquando, in virtù di una qualche norma di un'organizzazione sociale alla quale A e B appartengono, A sia autorizzato (legittimato, competente) a rivolgere delle prescrizioni a B, e a pretendere che quest'ultimo le osservi per il solo fatto che esse provengono da A. In terzo luogo, e infine, la posizione di comando di A rispetto a B può consistere in una combinazione dei due casi precedenti: in tale caso, A, rispetto a B, è un’autorità e gode al tempo stesso di una superiorità coercitiva su quest' ultimo. Tra la nozione di comando di Austin e quella di MacCormick intercorrono due differenze degne di nota. La prima differenza attiene alla ricostruzione del sostrato psicologico dei comandi. Sulla falsariga di Hart, MacCormick dà conto dell'atto linguistico del comandare utilizzando la nozione di significato intenzionale dell'emittente, elaborata dal filosofo del linguaggio Paul H. Grice. In virtù di essa, come si è visto, la configurazione del so. strato psicologico dei comandi si arricchisce, guadagnando in precisione, di un ulteriore elemento: l'intenzione riflessiva, o di second'ordine, dell'emittente, che il destinatario del comando riconosca la sua intenzione di comandargli qualcosa, e comprenda, pertanto, che deve fare quella cosa per il fatto che così vuole l'emittente. La seconda differenza attiene, invece, alla ricostruzione del requisito della posizione di comando. Qui, prendendo nuovamente spunto da Hart. MacCormick ritiene che sia opportuno distinguere nel modo più reciso i comandi fondati sulla superiorità puramente coercitiva dell'emittente, da un lato, e i comandi che si fondano invece (anche) sull'autorità, o superiorità normativa, dell'emittente, dall'altro; dimodoché la teoria austiniana dei comandi sarebbe censurabile, paradossalmente, per "difetto di analisi": per non avere tracciato tutte le distinzioni necessarie a una chiara e accurata configurazione del fenomeno dei comandi. Su questa base, la critica di MacCormick alla teoria austiniana dei comandi si articola nelle seguenti censure. 1. Per descrivere le situazioni di superiorità puramente coercitiva - esemplificate dal brigante che ordina al viaggiatore di consegnargli la borsa sotto la minaccia di una severa lesione della sua integrità fisica - è del tutto inappropriato, e fuorviante, ricorrere a enunciati in termini di 76 "obbligo". Così facendo - sostiene MacCormick, echeggiando Hart (e Kelsen) - si confonde la situazione in cui qualcuno "è stato obbligato", ovverosia costretto, a dare la sua borsa a un altro, con la situazione, radicalmente diversa, in cui costui "aveva l'obbligo" di consegnargliela. 2. Anche non tenendo conto delle abitudini linguistiche dei comuni parlanti, sovente bisognose di interventi terapeutici (e del resto non sono allora gli stessi filosofi, com'è stato autorevolmente sostenuto, a cadere vittima di modi di parlare ingannevoli), il termine "obbligo" può essere usato appropriatamente, senza ingenerare confusione, soltanto in presenza di comandi autorizzati da norme. 3. Austin, tuttavia adotta una nozione unitaria di comando, e inter-definisce "comando" e "obbligo" in modo tale, che anche il comando del brigante fa sorgere paradossalmente in capo al viaggiatore l'obbligo di consegnargli la borsa. 4. Nell'intento - lodevole - di forgiare nozioni di "comando" e di "obbligo" depurate da ogni elemento assiologico, irrazionale, o metafisico (giusnaturalistico), Austin avrebbe dunque gettato via, con l'acqua sporca, anche il proverbiale (e malcapitato) bene. Fuor di metafora: Austin, secondo la corretta critica mossagli da Hart, avrebbe ignorato la peculiarità dei discorsi normativi: dei discorsi in termini di "obbligo" "dovere”, "diritto", "pretesa"; "competenza", "illecito", ecc. Orbene, questi discorsi non possono essere tradotti, senza perdita di significato, in discorsi fattuali relativi ad atteggiamenti psicologici e a comportamenti, essendo inestricabilmente legati a pratiche e istituzioni sociali normative, attinenti alla creazione, all'osservanza, all' applicazione, all'uso di norme, al di fuori delle quali non hanno alcun senso, né possono essere compresi o esplicati. La "superflua e pericolosa finzione" della sovrana volontà: due critiche al volontarismo austiniano La critica di MacCormick si rivolge alla concezione austiniana dei comandi. Le critiche di cui darò sommariamente conto nel presente paragrafo, invece, interessano la teoria austiniana del diritto in quanto fondata sulla concezione austiniana dei comandi. Austin sostiene che le leggi positive (norme giuridiche) sono una specie di comandi - e segnatamente, come si è accennato, i comandi indirizzati dai superiori politici ai loro sudditi. Questa tesi comporta: • che la concezione austiniana del sostrato psicologico dei comandi costituisca, al tempo stesso, una componente della teoria austiniana delle leggi positive; • che, in conseguenza di ciò, quest'ultima risulti informata a una forma estrema di volontarismo; quella che - sulla falsariga di alcune considerazioni di Kelsen - 77 potrebbe denominarsi volontarismo del contenuto prescrittivo: intendendo con ciò l'idea secondo cui la volizione rivolta all' altrui comportamento da parte di un superiore politico, senza la quale non vi è "comando (giuridico)", né "norma giuridica", consista nell'effettiva volizione che un soggetto, o una classe di soggetti, tengano un determinato comportamento. Kelsen e Hart, tuttavia, hanno sostenuto - con argomenti non privi di forza persuasiva, come vedremo ora - che il volontarismo del contenuto precettivo, se può forse essere accettabile in sede di teoria generale dei comandi, debba invece essere abbandonato in sede di teoria delle norme giuridiche. Le norme giuridiche, infatti, non sono "comandi" austinianamente intesi, o, se proprio si vuole, sono comandi assai peculiari, dimodoché l'assimilazione, compiuta da Austin, delle leggi positive (norme di diritto) a una specie del più vasto genere dei comandi costituirebbe, a ben vedere, una finzione, gravida di conseguenze assurde. Kelsen vs Austin Kelsen ravvisa una finzione nell'idea che dietro a ogni norma giuridica - intesa come una specie di comando - vi sia la volontà in senso psicologico di un sovrano, così come configurata da Austin. Ciò poiché ritiene, al contrario, che si tratti di un elemento: che è difficilmente presente nel momento in cui si producono norme giuridiche; che non è per nulla necessario al fine di dare conto della perdurante esistenza-obbligatorietà delle norme giuridiche in un ordinamento. Muovendo da queste considerazioni, Kelsen oppone ad Austin una concezione de- psicologizzata delle norme giuridiche (“Il diritto potrebbe essere denominato un comando "privo di contenuto psicologico”), la quale rispecchia un diverso tipo di volontarismo: un volontarismo della formulazione prescrittiva. Per il volontarismo della formulazione prescrittiva, chi produce una norma giuridica non vuole (necessariamente) che i suoi destinatari si comportino in un modo determinato; vuole semplicemente che costoro si debbano comportare così come statuito dalla norma (nella formulazione adottata), quale che ne sia il contenuto (che potrebbe anche ignorare del tutto). Secondo la concezione austiniana delle norme giuridiche, perlomeno nella sua applicazione negli stati contemporanei, la legge riposerebbe su una finzione: la finzione della volizione del contenuto precettivo. Orbene, secondo Kelsen, si tratta anzitutto di una finzione “superflua”»: si può infatti conservare l'idea, in sé corretta, che le norme giuridiche siano il prodotto di atti di 80 In un passo della prima delle sue Lectures, tuttavia, Austin fornisce - sia pure incidentalmente - la seguente analisi di una regola giuridica. Se si adotta il punto di vista della teoria degli atti linguistici, l'analisi austiniana di una regola giuridica, desumibile dal passo sopra trascritto, può essere riformulata nei seguenti termini. Dato, ad esempio, l'enunciato legislativo: "I ladri devono essere impiccati" Austin ritiene apparentemente che, formulando un enunciato siffatto all'interno di un documento legislativo, il legislatore abbia compiuto in modo simultaneo tre atti linguistici illocutori (gli atti che si compiono "nel dire" qualcosa), distinti ma correlati, riconducibili: (a) alla categoria degli atti esercitivi, secondo la classificazione di John Langshaw Austin; oppure (b) alle categorie degli atti, rispettivamente, dichiarativi (il primo) o prescrittivi (il secondo e il terzo), secondo la diversa classificazione proposta da John Searle. → Il primo atto illocutorio consiste nell'individuare una certa classe di comportamenti come meritevole di disciplina giuridica. Si tratta, pertanto, di un atto che potrebbe denominarsi di identificazione della fattispecie astratta della norma. → Il secondo atto illocutorio consiste nel vietare i già menzionati comportamenti. Si tratta, pertanto, di un atto di qualificazione della fattispecie astratta giuridicamente rilevante in termini di divieto, o proibizione - ovvero in termini di obbligo, in questo caso negativo (l'obbligo di non rubare). → Il terzo atto illocutorio consiste, infine, nel comandare che i violatori del divieto siano puniti con l'impiccagione. Si tratta, pertanto, dell'atto di comandare la punizione dei trasgressori del divieto. L'analisi austiniana, così ricostruita, appare del tutto congruente con le nozioni austiniane di comando e di legge imperativa: invero, con un solo enunciato, il legislatore esprimerebbe sia un desiderio rivolto all'altrui comportamento (il desiderio che non si rubi), sia la volontà che il trasgressore sia punito (la volontà di infliggere un male al trasgressore, tramite l'apparato sanzionatorio esistente). L’analisi austiniana suggerisce alcune osservazioni. 1. Apparentemente, secondo Austin, una legge positiva come, ad esempio, "Thieves shall be hanged" esprimerebbe, non una, ma due prescrizioni, logicamente distinte e indirizzate a due diverse classi di destinatari: da un lato, il divieto di commettere furti, indirizzato alla generalità dei cittadini e/o dei sudditi, dall'altro, il precetto, indirizzato ai giudici, di ordinare l'impiccagione di quanti abbiano trasgredito il divieto. 81 Dal punto di vista dell'enunciato utilizzato dal legislatore, peraltro, il divieto di commettere furti è una norma implicita, laddove il precetto di punire i ladri con l'impiccagione è, invece, una norma esplicita 2. Il filosofo del linguaggio John Searle fornirebbe un'analisi pragmatica in parte diversa della stessa situazione. Searle, in particolare, direbbe che, nel formulare un enunciato come "Thieves shall be hanged", il legislatore ha compiuto, direttamente o espressamente, un solo atto il locutorio: l'atto che consiste nel comandare (ai giudici) di condannare i ladri all' impiccagione. Per contro, il divieto di rubare può essere unicamente configurato come un atto illocutorio indiretto, sempre di tipo prescrittivo o direttivo. 3. Nella teoria del diritto, una posizione analoga a quella di Austin è stata sostenuta da Bentham citato da Austin in proposito, e da Hans Kelsen, ancorché sulla base di un apparato concettuale e terminologico diverso. Kelsen distingue infatti, come si è visto trattando di tra “norme primarie” e “norme secondarie”. Le prime corrispondono ai comandi austiniani di punire, sono indirizzate agli organi dell'applicazione, e costituiscono il caso paradigmatico di norma giuridica; le seconde corrispondono, invece, ai divieti austiniani, sono indirizzate a privati cittadini, residenti, ecc., e sono norme giuridiche implicite, la cui vigenza dipende dalla vigenza delle corrispondenti norme primarie. 4. Un'ulteriore, più radicale, posizione, è stata sostenuta da Thomas Hobbes. In un passo di “The Elements of Law Natural and Politic” [1640], la sua prima opera giuspolitica, Hobbes distingue tra le “leggi pure e semplici” - ad esempio: "Non rubare" - e le “leggi sanzionatorie” (penal laws, judicial laws) - ad esempio, "Chi ruba un bue, dovrà restituire il quadruplo del suo valore". Le prime sono rivolte a ogni uomo indistintamente; le seconde sono rivolte, invece, (diremmo noi) agli organi dell'applicazione ed esecuzione. Dalle leggi sanzionatorie, tuttavia, contrariamente alle (pur diverse) opinioni di Bentham, Austin e Kelsen (e Thon, come vedremo in seguito), non sarebbe ricavabile alcuna regola giuridica per gli uomini in genere. Per Hobbes, infatti, la vigenza di una regola sanzionatoria costituirebbe unicamente la spia, l'indice, del pericolo sovrastante di subire un male. 5. La posizione di Hobbes echeggia, duecentocinquant'anni più tardi, nelle parole formulate dall'eminente giurista statunitense Oliver Wendel Holmes Jr. [1841-1935], in un saggio celeberrimo, “The Path of the Law” [1897], che sarà considerato, nel corso del Novecento, come il proto-manifesto del realismo giuridico americano. 82 “Quando studiamo il diritto - scrive Holmes - non studiamo nulla di misterioso, ma una ben nota professione [...] La ragione per cui è una professione, del perché la gente è disposta a pagare degli avvocati che la difendano o la consiglino, consiste nel fatto che, in società come le nostre, il controllo [command] della forza pubblica è affidato, in certi casi, ai giudici; e, se necessario, si farà ricorso all'intero potere dello stato per dare esecuzione alle loro pronunce e ai loro decreti. La gente vuole sapere in quali circostanze, e fino a che punto, essa corre il rischio di scontrarsi con qualcosa di tanto più forte di lei, e di conseguenza l'attività che consiste nello scoprire quando un tale pericolo debba essere temuto diviene economicamente profittevole” Vi è peraltro una fondamentale differenza tra la posizione di Holmes (o il modo in cui tale posizione viene solitamente configurata nella letteratura gius-teorica), da un lato, e la posizione di Hobbes, quale risulta dal passo degli “Elements of Law”, dall'altro. Per Holmes, la prospettiva rispetto alle regole giuridiche sopra delineata è la prospettiva, "pragmatica" o "(sanamente) realistica", dell'uomo privo di scrupoli morali. Nell'antropologia disincantata di Hobbes, per contro, tutti gli uomini, indistintamente e fatalmente, assumono le vesti del bad man di fronte alle norme giuridiche sanzionatrici. 6. In sede di meta-teoria del diritto, si suole distinguere tra teorie normative e teorie predittive dell'obbligo giuridico. Le teorie normative sostengono che “gli enunciati conoscitivi in termini di "obbligo" sarebbero proposizioni né fattuali, né predittive, bensì proposizioni esistenziali su norme [come, ad esempio: "Esiste una norma che comanda a tizio di fare x", n.d.r.)”. Le teorie predittive sostengono, invece, che: “gli enunciati conoscitivi in termini di "obbligo" sarebbero proposizioni puramente fattuali, senza alcun riferimento a norme. In particolare, si tratterebbe di predizioni o previsioni probabilistiche (condizionali), suscettibili di verificazione o falsificazione”. In sede di meta-teoria del diritto, si suole inoltre ascrivere Austin (insieme al suo maestro Bentham) alla schiera dei predittivisti. Alla luce della presente ricostruzione, tuttavia, bisogna considerare la teoria austiniana dell'obbligo giuridico, come quella di Bentham, come una teoria mista (l'etichetta è stata coniata da Hart): “né puramente normativa, né puramente predittiva". Dal punto di vista di Austin, infatti, un enunciato conoscitivo in termini di "obbligo" come, ad esempio: "Tizio ha l'obbligo giuridico di fare x"; Non sembra si possa tradurre, senza perdita di significato, in un enunciato come: 85 Parimenti, sono aristocrazie, nel senso austiniano del termine, molti dei governi comunemente ritenuti monarchici. Austinianamente parlando, è ad esempio un'aristocrazia la monarchia britannica, sebbene venga considerata di solito come un caso paradigmatico di “monarchia limitata” o “costituzionale”. Per Austin, infatti, il “sovrano” britannico non è un singolo individuo superiorem non recognoscens, bensì l'insieme di individui costituito, in particolare: dal re (o dalla regina); dai membri della camera dei pari, che sono tali per designazione regia o per successione; nonché dagli individui facenti parte del corpo elettorale della camera dei comuni, che sono tali in base alle leggi sull'elettorato attivo. Sovrano e produzione di norme giuridiche Al pari di Bentham, Austin sostiene che il sovrano produce regole giuridiche ("positive laws") o in modo diretto, o indirettamente: per il tramite di autorità politiche subordinate, da esso espressamente o tacitamente investite di poteri nomotetici - legislatori locali, giudici, viceré, governatori, intendenti, pascià, prefetti, visir, voivodi, bani, ecc. Austin ritiene inoltre, che, affinché una norma imperativa abbia valore di regola giuridica in una determinata società politica indipendente, in un determinato momento t, non sia necessario che essa sia stata effettivamente prodotta dal sovrano attuale o dai suoi delegati, ma sia sufficiente che esso l'abbia espressamente o tacitamente munita della sua “sanzione”. Come per i comandi in genere, anche per le leggi positive valgono i requisiti della persistenza del desiderio e della volontà di nuocere. Un desiderio e una volontà che, tuttavia, sono costituiti da un presunto idem sentire tra il sovrano precedente e il sovrano attuale. Limiti giuridici al potere del sovrano Nella teoria austiniana, il potere del sovrano è, per definizione, “incapace di limitazioni giuridiche”. Occorre formulare alcune precisazioni circa la teoria austiniana della sovranità, al fine di evitare possibili fraintendimenti - come, ad esempio, l'annoverare Austin tra i fautori di una qualche ideologia assolutistica o totalitaria del potere politico. 1. Austin ritiene che solitamente, in punto di fatto, il potere di un sovrano sia limitato: sia dalle leggi divine, sia dalle norme della morale positiva - di cui secondo Austin fanno parte, come accennavo prima, le norme del diritto costituzionale e del diritto 86 internazionale. L'assenza di limiti giuridici - nel senso rigoroso di "giuridico" definito da Austin - non comporta dunque necessariamente l'assenza di qualsivoglia limite normativo. 2. Le disposizioni, talora inserite nelle carte costituzionali, con le quali il sovrano pone dei limiti al proprio potere o a quello dei suoi successori non esprimono, propriamente parlando, delle regole giuridiche, poiché non impongono, né possono imporre, obblighi giuridici; sono, tutt'al più, delle “massime” o “raccomandazioni”, sorrette talvolta dalla morale positiva, che un sovrano rivolge a sé e a chi gli succederà. 3. La non limitabilità giuridica del potere sovrano, laddove il sovrano non sia monocratico, bensì collegiale, vale unicamente per il corpo sovrano considerato come un soggetto unitario. 4. Qualora la titolarità del potere sovrano sia ripartita tra soggetti diversi, nessuno dei quali ne sia, pertanto, l'esclusivo titolare, i titolari dei diversi “poteri”, o porzioni di potere sovrano, possono essere destinatari di veri e propri doveri giuridici: possono essere soggetti a sanzioni giuridiche. L'assenza di limiti giuridici al potere sovrano, dunque, non come porta necessariamente l'assenza di limiti giuridici per i singoli poteri statali e, indirettamente, per i loro detentori. In forza di quest'ultimo aspetto, la teoria austiniana della sovranità non si può considerare “antinomia irriducibile tra sovranità e diritto”, che invece caratterizza la concezione moderna della sovranità. La teoria austiniana sembra accreditare l'incompatibilità tra sovranità e diritto - e la soggezione del diritto al potere politico sovrano - in due casi: nei governi autocratici; nei governi aristocratici in cui, contingentemente, nessun dovere giuridico - nessun freno o contrappeso giuridico - sia stato imposto ai singoli componenti dell'aristocrazia. 5. Austin sostiene che gli atti ultra vires dei singoli membri o delle singole componenti collettive del corpo sovrano possono risultare del tutto inefficaci, e ciò quale conseguenza del dovere giuridico, che può essere imposto agli organi dell'applicazione, di disapplicarli. Accanto ai vincoli imposti dalla morale positiva, questo meccanismo costituirebbe, secondo Austin, un ulteriore modo di impedire a un “individuo giuridicamente irresponsabile” oppure a un “gruppo di individui giuridicamente irresponsabili”, di dare luogo a “un esercizio incostituzionale del loro potere giuridicamente illimitato”. 6. Ferrajoli sostiene, illustrando la concezione filosofico-politica moderna della sovranità, che sovranità e diritto sono incompatibili, non soltanto sul piano del diritto interno, ma anche “sul piano del diritto internazionale, ove essa [la sovranità, n.d.r.] è 87 ormai contraddetta dalle odierne carte costituzionali internazionali e, in particolare, dalla Carta dell'Onu del 1945 e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti del 1948”. Su questo punto, la teoria austiniana della sovranità parrebbe davvero incappare nella "antinomia" segnalata da Ferrajoli. Lo stesso Austin considera il diritto internazionale non già come diritto in senso proprio, bensì come un coacervo di regole appartenenti alla morale positiva. Dimodoché, in linea con la concezione moderna (o "classica") della sovranità, egli affermerebbe la supremazia dello stato - e del diritto statale - sul diritto internazionale nel modo più reciso: giungendo addirittura a negare al diritto internazionale il prestigioso nome di "diritto". Si noti tuttavia che, così intesa, la teoria austiniana della sovranità e dei rapporti tra diritto statale e diritto internazionale sarebbe un’ideologia: un discorso assiologicamente compromesso, volto, in particolare, a configurare lo stato - i singoli stati - come soggetti la cui azione sulla scena internazionale non può, né deve, patire limiti normativi di sorta. Così intesa, inoltre, la teoria austiniana non si limiterebbe a servirsi di una distinzione concettuale - la distinzione fra "diritto positivo statale" e "diritto internazionale" - fondata sull'esperienza. Ma ascriverebbe al diritto positivo statale un valore etico positivo, configurando invece il diritto internazionale, in quanto "morale positiva", come una cosa dotata di minor valore. Un tale modo di vedere appare, però, incompatibile con l'intera prospettiva del discorso austiniano, che è, e vuole essere, una prospettiva "scientifica". Austin non attribuisce affatto al diritto statale - nel suo lessico: al diritto delle “comunità politiche indipendenti” - un maggior valore etico-normativo rispetto alla morale positiva - e al diritto internazionale in quanto morale positiva. Né Austin nega che le norme del diritto internazionale possano regolare e limitare l'azione degli stati, o che siano munite di sanzioni. Si limita soltanto a mettere in luce le differenze tra le due cose. Digressione: norme di competenza e norme sulla produzione giuridica Uno dei principali temi di riflessione nella teoria del diritto sul finire del secolo XX è stato quello delle cosiddette norme di competenza. Ci si è interrogati, in particolare, su quale sia la natura e/o la forma logica, di tali norme, pervenendo peraltro a risultati divergenti. Con riguardo a una stessa "norma di competenza", come, ad esempio: "La funzione legislativa è esercitata dalla Camera dei deputati" Si è sostenuto infatti, alternativamente: 1. che si tratti di una norma permissiva - "È permesso alla Camera dei deputati di esercitare la funzione legislativa" - la cui forma logica sarebbe pertanto del tipo: "Pp"; 90 • dei comandi particolari emanati dai giudici, o da altri superiori politici subordinati, in esecuzione di comandi generali del sovrano; • di certi tipi di leggi o norme, apparentemente non imperative, né riducibili a, o configurabili come, leggi o norme imperative - che chiamerò leggi accessorie -, tra cui figurerebbero, ad esempio, le norme sulla produzione giuridica alle quali Austin fa implicito riferimento nel passo sopra citato. Vi sarebbero infine, in ogni diritto positivo evoluto, delle altre "leggi", le quali si presentano come non imperative ma che sono riducibili a leggi imperative - che chiameremo leggi imperative dissimulate, o imperativi dissimulati. Queste ultime, peraltro, non pongono com'è ovvio alcun problema alla teoria austiniana. La replica di Austin però non può considerarsi soddisfacente. Essa dà luogo, infatti, a un’apparente contraddizione; e in ogni caso, ad un paradosso. La contraddizione consiste in questo. Se la presente ricostruzione del pensiero austiniano fosse corretta, secondo Austin vi sarebbero delle cose - le leggi accessorie, i comandi politici individuali - che non sono diritto positivo, ma di cui la giurisprudenza, che per statuto dovrebbe studiare soltanto il diritto positivo, deve nondimeno occuparsi. Per sfuggire alla contraddizione, occorre modificare, alternativamente, la concezione austiniana del campo della giurisprudenza (1), ma anche la sua concezione di diritto positivo (2). (1) Sotto il primo profilo, si può sostenere che le leggi imperative positive siano non già l'oggetto esclusivo, ma soltanto l'oggetto preminente della giurisprudenza. Quest’ultima, infatti, deve occuparsi, oltre che delle norme propriamente giuridiche, anche di altre norme, non propriamente giuridiche, ma a esse strettamente correlate. (2) Sotto il secondo profilo, si può sostenere che Austin usi due nozioni di diritto positivo: una nozione stretta e una nozione ampia. per la nozione stretta ("diritto positivo in senso stretto"), il diritto positivo è l'insieme delle leggi imperative sanzionate di un sovrano. Per la nozione ampia ("diritto positivo in senso ampio"), il diritto positivo include invece, oltre ai comandi generali del sovrano, anche i comandi particolari del sovrano o dei suoi delegati, nonché le leggi accessorie. Il paradosso - il quale permane in ogni caso, quale delle due soluzioni sopra prospettate venga adottata - consiste in questo. Come che stiano le cose, Austin configura alcune delle norme sulla produzione giuridica utilizzate dai detentori della sovranità: → come regole non giuridiche, appartenenti alla morale positiva (prima ipotesi); → come regole giuridiche secondarie, appartenenti al diritto positivo in senso ampio, ma non al diritto positivo in senso stretto (seconda ipotesi). 91 Lo stesso Austin, peraltro, accenna alla situazione in cui un componente del corpo sovrano, violando alcune norme costituzionali sulla produzione giuridica, produce una legge imperativa destinata a rimanere inefficace in virtù dell'obbligo di disapplicarla che per ipotesi incombe sugli organi dell'applicazione. Situazioni del genere mettono in luce come le norme costituzionali sulla produzione giuridica svolgano un ruolo di primaria importanza rispetto alle leggi positive: esse funzionano, infatti, da parametri (diremmo noi) di “validità” delle leggi imperative, sulla base dei quali gli organi dell'applicazione discriminano tra le leggi imperative (pienamente valide) che essi hanno l'obbligo (sanzionato) di applicare, e le leggi imperative (invalide) che essi hanno l'obbligo (parimenti sanzionato) di disapplicare. Ne consegue che certe regole, di cui lo stesso Austin sembra riconoscere la capitale rilevanza per il diritto positivo: o rimangono confinate nel limbo delle regole non giuridiche; oppure rientrano in quello, contro- intuitivo e incongruo, delle (diremmo noi) norme giuridiche accessorie, non paradigmatiche, secondarie, concettualmente marginali. Una delle principali critiche rivolte da Herbert Hart alla teoria austiniana del diritto consiste nell'accusa di riduzionismo: nell'aver ridotto il diritto positivo all'insieme dei comandi generali di un sovrano, disattendendo e occultando la varietà tipologica delle norme giuridiche positive. L'accusa di riduzionismo mossa da Hart può essere precisata distinguendo due tipi di riduzionismo: il riduzionismo ontologico e il riduzionismo teoretico. Il riduzionismo ontologico (ne vediamo solo la variante monistica, caratterizzata da una reductio ad unum) è la tesi, di carattere ontologico, secondo cui, al di là delle apparenze, esisterebbe un solo tipo di norme giuridiche. Il riduzionismo teoretico (monistico) consiste, invece, nel presentare un certo tipo di norme come il tipo paradigmatico, teoreticamente più interessante, o più rilevante, di norma giuridica, senza negare che, nei diritti positivi, vi siano e vi possano essere anche norme di tipo diverso. Alla luce di questa distinzione, perciò possiamo dire che uno dei principali difetti della teoria del diritto di Austin consiste soprattutto nel riduzionismo teoretico, piuttosto che in un riduzionismo ontologico. Ciò detto, ora bisogna distinguere quali leggi, nella teoria austiniana, siano accessorie e quali siano, invece, degli imperativi dissimulati. →Leggi accessorie Austin individua tre tipi di norme che non sono leggi imperative, bensì leggi accessorie rispetto alle prime. Si tratta, in particolare: 92 • delle leggi interpretative; • delle leggi abrogatrici di leggi imperative; • delle leggi imperfette. 1. Leggi interpretative. Frammenti di ermeneutica austiniana Le leggi interpretative – “declaratory laws”, “declaratory statutes” - sono “atti di interpretazione autentica”. Austin specifica la distinzione tra le leggi oggettivamente interpretative dalle leggi pseudo-interpretative, che sono, invece, (nuove) leggi imperative dissimulate per poter operare questa distinzione occorre dotarsi di un qualche criterio di interpretatività: di un criterio in base al quale distinguere ciò che è "interpretazione" da ciò che, invece, "interpretazione” non è. Si rende dunque necessaria una digressione sulla teoria austiniana dell'interpretazione giuridica. L'ermeneutica austiniana è incentrata sulla distinzione tra “interpretazione vera- genuina” (genuine interpretation) e “interpretazione spuria” (spurious interpretation), che riprende la distinzione, tracciata da Bentham, tra “interpretazione stretta” (strict) e “interpretazione liberale” (liberal). Aderendo al cognitivismo interpretativo, Austin ritiene che l’interpretazione genuina di un documento legislativo sia un'attività conoscitiva, il cui obiettivo consiste nella scoperta del significato che il legislatore ha inteso attribuire originariamente alle parole della legge. L'interpretazione spuria, per contro, si ha ogniqualvolta i giudici effettuino la cosiddetta interpretazione correttiva; quando, sotto il pretesto di interpretare le leggi, costoro attribuiscano ad esse un significato arbitrario, disattendendo e "correggendo" il loro univoco significato originario. Come si fa, tuttavia, a scoprire il significato che il legislatore ha inteso attribuire alle parole di una legge? Austin assume una posizione, per il suo tempo, per nulla convenzionale La vera interpretazione, secondo la metodologia ermeneutica austiniana, è infatti un'attività che, in ossequio al principio della fedeltà all'intenzione del legislatore storico, è informata a quattro canoni, o criteri, interpretativi; questi canoni funzionano non (soltanto) da strumenti per giustificare una certa interpretazione di una disposizione legislativa, ma, anzitutto, da strumenti euristici: per trovare l'interpretazione corretta di una disposizione. Si tratta, in particolare: 1. del canone letterale, secondo cui si deve attribuire alle parole dei documenti legislativi il loro significato “letterale, grammaticale, usuale, o ovvio”; 95 (2) Le norme che attribuiscono, o riservano, una competenza normativa a un componente del corpo sovrano possono, invece, essere vere e proprie norme giuridiche: a condizione che a tali norme corrispondano norme che impongono a terzi l'obbligo (sanzionato) di non interferire con l'esercizio di tale potestà. (3) Le norme sulla produzione giuridica indirizzate a singoli componenti del corpo sovrano, se non sono sanzionate, sono parimenti leggi imperfette: mere raccomandazioni a seguire una certa procedura nel produrre leggi imperative, a non produrre leggi imperative con certi contenuti, a non usurpare la competenza normativa riservata ad altri componenti del corpo sovrano, a non delegare la propria competenza normativa riservata, ecc. Ciò non esclude tuttavia, come si è visto, che la violazione delle norme sulla produzione giuridica abbia l'effetto di condannare all'inefficacia le norme illecitamente prodotte, in virtù di norme sanzionatrici dirette agli organi dell'applicazione e dell'esecuzione. Nella teoria austiniana, per contro, l'obbligo di obbedire alle regole giuridiche (lecitamente) prodotte dagli organi competenti non "deriva" dalle norme attributrici di competenze normative - come è sostenuto, invece, da alcuni teorici contemporanei delle norme di competenza (tra cui Alf Ross). Nella teoria di Austin, infatti, un tale obbligo può soltanto configurarsi in due circostanze: • qualora le singole norme prodotte prospettino una sanzione, con un qualunque margine di probabilità di essere effettivamente irrogata nel caso della loro inosservanza; oppure • qualora viga una norma sanzionatrice, la quale preveda, in via gene-tale, una sanzione, che verrà probabilmente inflitta, per la mancata osservanza delle norme prodotte da una certa autorità. →Imperativi dissimulati Nella tipologia austiniana delle regole giuridiche, vi sono infine tre specie di leggi imperative dissimulate, e precisamente: 1. le leggi attributive di diritti soggettivi; 2. le norme consuetudinarie; 3. le norme giurisprudenziali. Le leggi attributive di diritti soggettivi sono norme apparentemente permissive le quali consistono però, indirettamente, in norme imperative, le quali impongono gli obblighi correlativi dei diritti stessi. Le norme consuetudinarie, al di là della loro origine spontanea ed evoluzionistica nel comportamento dei consociati, acquisiscono lo status di regole giuridiche imperative 96 soltanto per il tramite del loro uso giudiziale. Con ciò, Austin intendeva confutare la teoria tradizionale della consuetudine, secondo cui: • le consuetudini sarebbero norme giuridiche, e non, semplicemente, della morale positiva, ancora prima dell'uso giudiziale, e indipendentemente da esso; • l'uso giudiziale avrebbe carattere puramente dichiarativo, e non (diremmo noi) costitutivo, della giuridicità delle consuetudini utilizzate. Infine, le norme giurisprudenziali - le rationes decidendi delle sentenze su casi non disciplinati direttamente dal sovrano mediante legislazione, dagli stessi giudici corredate di sanzioni - lungi dall'essere l'iterazione di norme preesistenti, valide da tempo immemorabile, come vorrebbe la c.d. teoria dichiarativa del common law, sono invece leggi imperative prodotte dai giudici e autorizzate dalla tacita volontà del sovrano stesso. L'eredità di Austin Austin è quindi comunemente reputato l'inventore della general/analytical, jurisprudence - e storicamente lo fu, data la sorte toccata al manoscritto benthamiano di Of Lans in General. La sua invenzione, tuttavia, rimase negletta per quasi quarant'anni. Fu salvata dall' oblio grazie alla devozione della moglie Sarah Taylor e di alcuni discepoli, i quali, pochi anni dopo la morte di Austin, intrapresero la pubblicazione delle sue Lectures on Jurisprudence, curandone successive edizioni apparse tra il 1861 e il 1885. I tempi erano inoltre maturati per l’inserimento della "giurisprudenza generale" tra le materie d'insegnamento delle università inglesi. Le Lectures austiniane divennero l'archetipo di una vasta progenie di manuali di Jurisprudence, che ne iterarono l'impianto e i temi analitici. Tra gli austiniani operanti tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX si possono menzionare, ad esempio, Sheldon Amos, John Salmond e Thomas E. Holland. Gli ultimi due autori di manuali destinati a numerose edizioni nel corso del Novecento. Sotto i cieli d'Inghilterra e del vasto Commonwealth, la filosofia del diritto positivo conservò l'impronta austiniana fino alla metà del secolo scorso, cullandosi in una consuetudine di forme e contenuti accompagnata dalla sostanziale marginalizzazione accademica e culturale della disciplina. Fu allora che, nel mondo accademico inglese, si produsse un evento straordinario, destinato a interrompere il torpido fluire della jurisprudence austiniana: Herbert Lionel Adolphus Hart, nel 1952, succede ad Arthur 97 Goodhart nella cattedra di professore di Jurisprudence dell'Università di Oxford. Un episodio centrale per l'utopia della ragione analitica. -Capitolo III- Imperativismi ottocenteschi: Savigny, Shering, Thon e l'Allgemeine Rechtslehre. Il modello germanico di filosofia del diritto positivo Il modello germanico di filosofia del diritto positivo si caratterizza - sul piano meta- filosofico e del metodo della riflessione sul giuridico - per una combinazione di storicismo e naturalismo. Lo storicismo influisce sulla prospettiva dei filosofi del diritto germanici, suggerendo loro di assumere come verità incrollabile concernente oggetto delle loro ricerche la semplice idea della “storicità del diritto”. Quest'idea, che identifica ciò che potrebbe chiamarsi storicismo ontologico (il diritto è un fenomeno storico) si accompagna, di solito, allo storicismo epistemologico (l'indagine sul diritto dev'essere, dunque, un'indagine storiografica, genealogica, che tenga conto della storicità del fenomeno indagato). Lo storicismo ontologico ed epistemologico si possono anche accompagnare a posizioni di storicismo ideologico, in chiave anti-legalistica e anti- giusnaturalistica. Il diritto è un fenomeno storico, sociale, popolare, statale, specchio di sentimenti e circostanze mutevoli; è pertanto mutevole esso stesso, vitale, organico, dotato di una ricchezza, peculiarità, mobilità di contenuti che male si prestano a essere rinchiusi nelle pagine cristallizzanti del diritto legislativo caro al razionalismo illuminista (anti-legalismo); ha, inoltre, un intrinseco valore che dev'essere affermato contro la pretesa superiorità assiologica di un immaginario diritto naturale astratto, universale ed eterno (anti-giusnaturalismo). Il naturalismo influisce sulla determinazione dei criteri di scientificità delle investigazioni giuridiche. Lo scienziato naturale procede per ascesi teoretica, passando dall'osservazione, rilevazione e descrizione di dati di esperienza all'elaborazione di apparati concettuali, tipologie, leggi causali, ecc., che quei dati d'esperienza catturano, spiegano, sviluppano. Lo scienziato del diritto - sia esso attento al contenuto di un particolare sistema positivo, oppure alle forme e alle strutture del diritto in generale - deve procedere, per quanto possibile, in modo analogo, rigettando le filosofie metafisiche e astruse così ben rappresentate da Georg W.F. Hegel [1770-1831] e dai suoi seguaci, e operando invece, secondo l'icastica espressione di Rudolf von Jhering [1818-1892], da “naturalista filosofeggiante”.
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