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RIASSUNTO DEL LIBRO DI ANTONIO PINELLI "STORIA DELL'ARTE, ISTRUZIONI PER L'USO", Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

RIASSUNTO CHIARO E COMPLETO DEL LIBRO "STORIA DELL'ARTE ISTRUZIONI PER L'USO DI ANTONIO PINELLI"

Cosa imparerai

  • Come la storia del restauro è correlata alla storia dell'arte?
  • Come le tendenze artistiche dominanti influiscono sulla comprensione di una opera d'arte?
  • Perchè è importante vedere un'opera d'arte in suo ambiente originario?
  • Come la gestualità e l'iconografia influiscono sulla comprensione di una opera d'arte?
  • Come il contesto temporale influisca sulla comprensione di una opera d'arte?

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 28/04/2021

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Scarica RIASSUNTO DEL LIBRO DI ANTONIO PINELLI "STORIA DELL'ARTE, ISTRUZIONI PER L'USO" e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! ISTITUZIONI DI STORIA DELL’ARTE ESAME CRONOLOGIA E GEOGRAFIA DELL’ARTE: IL PROBLEMA DEL CONTESTO RELAZIONE ARTE-TEMPO: Storia dell’arte -> è un ramo della storia, che ha a che fare con la cronologia -> di conseguenza è importante saper contestualizzare una certa opera nel contesto temporale in cui è stata concepita e per il quale è stata realizzata -> uno dei maggiori fondamenti dell’arte è quello di creare qualcosa che abbatta le barriere del tempo, che miri ad esistere in eterno -> sebbene questo sia un fondamento principale, per capire l’opera è fondamentale leggerla secondo i canoni e le regole vigenti al tempo in cui è stata realizzata RELAZIONE ARTE-SPAZIO: Le riproduzioni delle opere d’arte (es. fotografie, diapositive) non sono mai totalmente fedeli all’opera d’arte in sé. Per questo è importante vedere dal vivo l’opera d’arte, vederla nel posto in cui si trova, ancora meglio se quell’opera è situata nell’ambiente originario a cui era stata destinata. Le architetture spesso restano laddove sono state concepite, create con materiali del luogo: per questo è importante considerare quando quell’architettura sia stata costruita con materiali di lontana provenienza. Le opere d’arte mobili (pitture, sculture), con le proprie eccezioni, nascono per un determinato ambiente ES. CROCIFISSIONE DI SAN PIETRO e CONVERSIONE DI SAULO di CARAVAGGIO sono state eseguite (e ancora si trovano) per la Cappella Cerasi della chiesa romana di Santa Maria del Popolo -> questi d+ue quadri sono posti ai lati della cappella, mentre al centro, facilmente più visibile dai visitatori, è posto un quadro eseguito da Annibale Carracci, molto più famoso di Caravaggio a quel tempo (inizio del 600) -> è inoltre importante sapere la collocazione dei due quadri perché entrambi hanno un forte scorcio in diagonale, creato appunto proprio per la posizione dei due quadri. Caravaggio decide di attribuire alle due opere questo conflitto di luce ed ombra per dare un fortissimo risalto plastico che aumenta l’impatto visivo delle due opere contrastando la condizione sfavorevole dei due laterali -> grazie a questo accorgimento il visitatore non è portato a guardare solo il quadro centrale di Carracci ma anche i due laterali -> Caravaggio concepisce la composizione dei quadri in funzione di una visione scorciata su assi obliqui: in questo modo le loro principali direttrici prospettiche convergono sull’”Assunta” del Carracci a rendere un tutto compatto la Cappella Cerasi. Il restauro dell’opera, necessario per preservarne l’esistenza, interviene a modificare la consistenza fisica dell’opera d’arte -> l’opera rischia sempre di riflettere qualcosa del gusto e delle abitudini visive, non dell’epoca in cui è stata compiuta, ma di quella in cui subisce l’intervento di restauro. -> ogni epoca ha le sue abitudini percettive e queste hanno influenzato e influenzano i criteri di restauro. La storia del restauro corre parallela a quella del gusto e delle tendenze artistiche di volta in volta dominanti GESTUALITA’ E ICONOGRAFIA L’opera d’arte è il risultato di una somma di fattori: 1 la personalità dell’artista 2 le richieste del committente 3 il peso della tradizione sia iconografica che stilistica 4 il riflesso della cultura dell’epoca in cui è stata prodotta -> per questo per capire un’opera bisogna far propri quei canoni e codici d’interpretazione propri del periodo in cui quell’opera è stata creata -> anche i colori possono avere un particolare significato, diverso da epoca ad epoca, da luogo a luogo (es. LUTTO: nero -> Italia; bianco -> Cina) -> anche i gesti non hanno in significato univoco ICONOGRAFIA -> necessità di decifrare il soggetto di un’opera d’arte del passato -> noi viviamo in un’epoca che tende a disinteressarsi del soggetto, ma nelle opere d’arte del passato la forma interpreta e media un contenuto ben preciso, risultandone necessariamente condizionata: è essenziale per questo, conoscere il contenuto per capire l’opera (“Flagellazione” di Piero della Francesca e “Tempesta” di Giorgione hanno un contenuto a noi ancora incomprensibile) -> spesso dietro ad un soggetto che ci pare ovvio, si celano piccoli e grandi enigmi che è necessario decifrare ES. ADORAZIONE DEI MAGI di AMICO ASPERTINI -> perché la canonica capanna di legno si appoggia agli archi e alle colonne dirute di un antico tempio? ES. NATIVITA’ di FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI -> perché in luogo della capanna o dei ruderi del tempio, alle spalle della Sacra Famiglia compare un arco trionfale in rovina? Una leggenda narra che al tempo della nascita di Gesù i Romani, vivendo da parecchi anni senza guerre, eressero un Tempio della Pace, e poiché l’oracolo di Apollo aveva predetto che quel Tempio sarebbe durato fino a quando una vergine non avesse partorito un figlio, avevano posto sull’edificio l’incauta iscrizione: “Templum Pacis Aeternum” -> per questo la misera capanna di legno che sorge sulle rovine di un antico tempio pagano (ES 2) allude dunque a questa leggenda, simboleggiando l’era cristiana che sorge sulle grandiose rovine della civiltà pagana. Un’altra leggenda invece narra che Ottaviano Augusto, fiero del suo immenso potere e della pace che aveva saputo realizzare nel suo Impero, interrogò la Sibilla sulla durata della sua fama, ricevendone l’inattesa risposta che presto sarebbe nato un uomo la cui gloria avrebbe cancellato perfino il ricordo del suo pur immenso potere. L’arco trionfale in rovina alle spalle della Natività di Cristo (ES 1) riassume pertanto in sé sia la leggenda del crollo del Tempio della Pace che quella della fragilità del potere dell’Impero romano, delle cui folgoranti glorie militari l’arco era il simbolo più eloquente e diffuso. La presenza dell’arco non allude soltanto alla nascita del Cristianesimo sulle rovine del mondo pagano, ma anche alla caducità della gloria terrena al cospetto della gloria eterna promessa dal Cristianesimo. Inoltre non è un caso che l’arco raffigurato nella “Natività” di Francesco di Giorgio Martini rimandi all’arco di Costantino, fatto edificare da lui stesso nei pressi del Colosseo per celebrare la sua vittoria contro Massenzio. Costantino infatti attribuiva questa sua vittoria al favore di Cristo L’OPERA D’ARTE: ETERNO PRESENTE CHE VIENE DAL PASSATO E SI INOLTRA NEL FUTURO Se è vero che le opere d’arte sono il prodotto del proprio tempo e ne portano impresse tutte le stimmate, è altrettanto vero che esse godono, in un certo senso, di una vita autonoma, svincolata sia dal loro autore sia dall’epoca in cui nascono. Per misurare la distanza che ci separa dalle opere d’arte del passato è di somma importanza indagarne in profondità la fortuna (o la sfortuna) critica, cioè analizzarne l’apprezzamento, spesso altalenante, che hanno suscitato nel corso dei secoli Tra i compiti principali dello storico dell’arte vi è quello di attivare tutti i canali conoscitivi al fine di rendere tale interpretazione il meno arbitraria possibile IL RUOLO SOCIALE DELL’ARTISTA ARTI LIBERALI E ARTI MECCANICHE: L’EMANCIPAZIONE DELL’ARTISTA Nel Medioevo vigeva una netta distinzione fra le cosiddette ARTI LIBERALI e le ARTI MECCANICHE, intendendosi con queste ultime tutte quelle attività di carattere artigianale o artistico la cui principale modalità operativa è costituita dall’abilità manuale. Le ARTI LIBERALI venivano considerate le più importanti in quanto in esse la manualità era considerata del tutto secondaria rispetto al rilievo assunto dalle capacità di ordine intellettuale, conferivano ai loro adepti una condizione e considerazione sociale elevate. Le ARTI LIBERALI venivano poi suddivise in ARTI DEL TRIVIO (Grammatica, Retorica, Dialettica) e ARTI DEL QUADRIVIO (Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia). Per via della forte componente di manualità, le ARTI VISIVE erano pertanto confinate tra le ARTI MECCANICHE, in una posizione subalterna, che le assimilava alle attività artigianali, organizzate in CORPORAZIONI. -> a partire dal XV secolo gli artisti svilupparono una sempre più esplicita volontà di emancipazione, conquistandola grazie alla crescente considerazione sociale di cui godette il loro operato, fino a trovare una prima e significativa sanzione istituzionale nella Firenze della seconda metà del 500 con la nascita della prima ACCADEMIA DI BELLE ARTI, che svincolava gli artisti locali dalla Corporazione, costituendosi come organizzazione autonoma. -> gli artisti fiorentini riuscirono a farsi riconoscere uno stato non dissimile da quello degli adepti alle ARTI LIBERALI, attraverso la costituzione di una propria accademia, l’ACCADEMIA DELLE ARTI DEL DISEGNO (1563), il cuo vero ideatore e massimo protagonista fu Giorgio Vasari -> seguì l’istituzione a Roma dell’ACCADEMIA DI SAN LUCA su iniziativa del pittore Federico Zuccari -> nel corso del XVII e del XVIII, le Accademie d’arte si diffusero a macchia d’olio e le arti visive entrarono così nelle ARTI LIBERALI PAGATI COME GLI OPERAI UN TANTO ALL’ORA? IL COSTO DEL LAVORO ARTISTICO EKPHRASIS: pratica di descrivere minuziosamente un’opera d’arte in un brano letterario. Nel corso dei secoli, dalle varie ekphrasis antiche e moderne hanno tratto ispirazione molti artisti tra cui Sandro Botticelli (La Calunnia di Apelle) ALLE ORIGINI DEL FARE ARTE MAGIA, MALINCONIA E GENIALITA’ L’artista opera dando forma alla materia bruta attraverso strumenti e procedimenti tecnici che ne sfruttano le potenzialità. Ne risulta una forma che dipende, oltre che dall’immaginazione dell’artista, dalle sue capacitò tecniche e dal loro interagire con le potenzialità insite nei materiali di cui l’artista si serve. L’opera d’arte, al di là della sua consistenza materiale, ha un’innegabile radice che affonda nel territorio dell’immaginazione e dell’inconscio. Secondo una leggenda, i Greci attribuivano l’invenzione della pittura ad una donna innamorata, la figlia di Butade, un vasaio di Corinto, che per conservare un ricordo del suo amato in procinto di partire, ne aveva tracciato sul muro il ritratto, ricalcando la silhouette del suo profilo proiettata dalla luce della lucerna sulla parete -> questa leggenda diviene un soggetto caro ai pittori di età neoclassica -> la capacità dell’artista di fissare l’attimo fuggente, di bloccare per sempre ciò che per sua natura è transitorio è certamente una caratteristica che ha contribuito a donare all’arte il suo potere di fascinazione L’arte, all’origine, equivaleva di fatto ad una pratica magica -> è ben nota la teoria secondo la quale gli animali selvatici dipinti nelle grotte di Lascaux e di Altamira andrebbero interpretati come raffigurazioni di prede da catturare “in effigie” e dunque come rito propiziatorio per la caccia. In questo caso, dunque, l’artista mette al servizio della comunità il suo potere magico NATI SOTTO SATURNO Questo topos dell’artista mago e veggente si perpetua nel topos dell’artista saturnino, malinconico, la cui predisposizione ad operare è di carattere ciclotimico, nel senso che alterna stati di esaltazione a stati di depressione -> questo stereotipo dell’artista (la cui ispirazione si presenta sotto forma di FUROR) è presente anche nella Grecia antica ed è tornato in auge durante il Rinascimento. -> le caratteristiche tipiche dell’artista saturnino sono: la malinconia, l’atteggiamento pensieroso, la completa astrazione dalla realtà quotidiana a causa della totale immersione nel proprio lavoro, che assume talvolta le forme di una concentrazione così ossessiva da sconfinare nella malattia, nella depressione, nell’incapacità di intraprendere il lavoro finchè non giunga l’ispirazione, il furor creativo -> Michelangelo fu considerato il “tipo” stesso dell’artista geniale e malinconico Nell’antichità avevano supposto una distinzione tra le quattro tipologie psicofisiche in cui nel mondo antico si suddividevano gli esseri umani: esse erano determinate dalla diversa mescolanza dei quattro “umori” fondamentali di cui si credeva fosse composto il corpo umano: il sangue, la flemma, la bile gialla e la bile nera. A seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro umore, ogni uomo era classificato come appartenente ad uno dei quattro tipi: il “sanguigno”, il “flemmatico”, il “collerico” e il “malinconico”. Quest’ultima tipologia era considerata fin dai tempi di Aristotele quella in cui maggiormente attecchiva la creatività artistica Nel Rinascimento si codificò anche una vera e propria iconografia della Malinconia -> La Melancolia di Albrecht Durer TIPI ICONOGRAFICI: GENESI, VARIAZIONI, IBRIDAZIONI Con ogni probabilità, il tipo iconografico della Malinconia deriva da un’invenzione figurativa dell’arte greca di cui sono giunte fino a noi molte derivazioni, tutte concernenti la rappresentazione di Penelope che, afflitta e inconsolabile per il mancato ritorno di Ulisse da Troia, finisce per non riconoscerlo quando egli appare davanti a lei sotto le mentite spoglie di un mendicante. -> il capo coperto da un velo, il mento appoggiato ad una mano, le gambe accavallate (allusive alla sua ostinata e virtuosa chiusura nei confronti delle offerte dei Proci che ambivano a sposarla), quest’immagine di Penelope “vedova inconsolabile” già nell’arte romana aveva subito uno “sdoppiamento” semantico, essendo stata adattata anche a tipo iconografico della PROVINCIA CAPTA. Fu facile, infatti, far slittare il significato allegorico di quella donna afflitta, piegandolo a simboleggiare la dolorosa sottomissione delle popolazioni che, dopo esser state sconfitte dai Romani, venivano da essi integrate nella compagine imperiale Nel 400 ritroviamo una tipologia simile di vedova afflitta in un’illustrazione del poema “Dittamondo” di Fazio degli Uberti -> la donna in abiti vedovili che si vede in questa illustrazione è la personificazione di Roma che, interrogata da Fazio, denuncia la propria condizione di vedova inconsolabile per la rovina che si è abbattuta su di lei a seguito del trasferimento ad Avignone della sede papale Nel 500 si affermò l’immagine allegorica della Malinconia, di cui Durer ha tracciato il tipo iconografico più affascinante e complesso. Ma lo stesso artista tedesco attinse anche al repertorio iconografico della PROVINCIA CAPTA, per commentare la sconfitta subita dai contadini tedeschi nella rivoluzione da loro scatenata sull’onda della “protesta” luterana SPESSO I TIPI ICONOGRAFICI SI ARRICCHISCONO DI NUOVI E DIVERSI SIGNIFICATI, MODIFICANDOSI E CONTAMINANDOSI L’UNO CON L’ALTRO -> gli artisti attingono al repertorio di immagini già codificate effettuano innesti e producono ibridazioni da cui scaturiscono nuovi tipi iconografici. Si veda, ad esempio, come il tema della Malinconia, collegato allo studio, alla concentrazione, ma anche al pentimento, al digiuno, alla meditazione sulla morte e sulla caducità delle cose terrene, si sia insinuato nel tipo iconografico della Maddalena o del San Girolamo in meditazione (ES. MADDALENA PENITENTE di FRANCESCO FURINI / LA MALINCONIA di DOMENICO FETTI) ARTE E SCIENZA: L’IMITAZIONE COME FORMA DI CONOSCENZA Imitare ciò che vediamo utilizzando una delle tante modalità tecniche che sono state escogitate per dar forma ad un’immagine bidimensionale (pittura) o tridimensionale (scultura) è stato uno dei mezzi privilegiati per conoscere il mondo in cui viviamo, e dunque per cercare di controllarlo, governarlo, padroneggiarlo L’imitazione realizzata per mezzo del disegno e delle altre pratiche della pittura e della scultura, consentiva di analizzare la realtà e di indagarla in profondità LEONARDO DA VINCI è la più efficace dimostrazione di questa sostanziale sovrapposizione tra la pratica artistica e l’attitudine analitica e indagatrice dello scienziato (ricorreva anche alla dissezione dei cadaveri) -> analizzando il moto dei corpi, la luce, l’ombra, il variare dei colori, la vasta gamma delle espressioni dei sentimenti, e così via, Leonardo approdava a nuove conoscenze che poi metteva al servizio della sua pittura IL BRACCIO INERTE DI MELEAGRO La rappresentazione della storia di Meleagro, articolata nelle diverse e drammatiche scene del suo mito, è un tema molto frequente nei rilievi dei sarcofagi romani -> la ripetizione delle invenzioni iconografiche più riuscite era una pratica quanto mai diffusa nell’età classica e quelle relative alla storia di Meleagro non fanno certo eccezione -> Nel clima di venerazione ed emulazione dell’antico diffusesi in Italia tra 400 e 500, tale composizione costituì motivo di ispirazione per molti artisti rinascimentali alle prese con la rappresentazione di temi analoghi, ed in particolare con quella del TRASPORTO DEL CORPO DI CRISTO DEPOSTO DALLA CROCE -> tra le molte derivazioni la rappresentazione in assoluto più nota e rilevante è Trasporto del corpo di Cristo di Raffaello Sanzio -> questo dipinto fu poi il principale punto di riferimento per la Deposizione di Cristo di Caravaggio DEPOSIZIONE DI CRISTO di CARAVAGGIO -> in questo dipinto il tema è declinato in modo abbastanza diverso da come lo era nel sarcofago antico, ma emerge con particolare evidenza un elemento comune alle due scene: IL BRACCIO INERTE DEL CADAVERE, che segna un apice drammatico della composizione caravaggesca -> Aby Warburg (storico dell’arte e della cultura) coniò per questo tipo di immagini la definizione di PATHOSFORMELN Nel 1793 David estrapolerà proprio questo particolare del braccio inerte per adattarlo ad un dipinto in cui non è rappresentato né il cadavere di Meleagro né quello di Cristo, ma quello del rivoluzionario Jean Paul Marat, ucciso a tradimento da Charlotte Corday -> c’è un processo di velata cristianizzazione compiuto da David, adattando alla rappresentazione di un rivoluzionario assassinato a tradimento il tipo iconografico tradizionalmente associato nell’immaginario collettivo al corpo esanime di Cristo. Non c’è dubbio che ciò evocasse nel pubblico dell’epoca un’aura di sacralità religiosa attorno a quell’immagine di una morte laica. Istituendo questa sotterranea analogia tra la sorte di Cristo e quella di Marat, David si muoveva in sintonia con la pratica propagandistica giacobina, che nei cortei funebri e nei comizi esponeva alla venerazione delle masse effigi degli esponenti rivoluzionari assassinati e oggetti a loro appartenuti, proprio come se si trattasse di immagini miracolose e di sacre reliquie Ma ritroviamo questa PATHOSFORMEL anche in un’opera recentissima del grande videoartista Bill Viola, Emergence, in cui egli ha rievocato il tema del “braccio di Meleagro” all’interno di una rivisitazione della Pietà di Masolino da Panicale Fin dal 300, in area tedesca era nato un tipo di gruppo scultoreo con la Madonna che tiene in braccio il cadavere del Cristo morto (VESPERBILD) -> questa tipologia di immagine devozionale dette origine anche a molte Pietà italiane -> ES. PIETA’ di MICHELANGELO -> in alcuni Vesperbilder e nella stessa Pietà michelangiolesca compare un braccio pendulo e inerte molto simile a quello di Meleagro -> l’invenzione tedesca nasce del tutto indipendente dal modello antico, non si può dire con certezza la stessa cosa del braccio nella Pietà di Michelangelo Nei Vesperbilder nordici il corpo di Cristo è smagrito dai patimenti e si mostra in tutta la sua dolente e straziata afflizione e rigidità cadaverica, nel Vesperbild michelangiolesco il corpo di Cristo, benchè ferito ed esanime, conserva una sua composta armonia ed esibisce la muscolatura e le perfette proporzioni di quello di un eroe o di un giovane atleta -> nella TRADIZIONE FIGURATIVA NORDICA il realismo tende sempre a caricarsi di una forte componente espressiva, mentre nella TRADIZIONE FIGURATIVA ITALIANA, che affonda le sue radici nell’antichità classica e tende perciò ad evitare, specie per la rappresentazione della divinità, ma non solo, di ricorrere ad un naturalismo troppo schietto ed intenso, privilegiando invece una bellezza idealizzata e a malapena scalfita dalle asprezze esistenziali ARTE NATA DALL’ARTE Un tema di fondo della storia dell’arte è quello chiamato “ARTE NATA DALL’ARTE” -> le opere d’arte dipendono non solo dall’immaginazione dell’artista e dalla sua osservazione della realtà che lo circonda, ma anche dalla sua memoria visiva, in cui ha immagazzinato, consciamente o inconsciamente, immagini di opere d’arte di altri artisti che lo hanno preceduto. Ogni opera d’arte è la risultante del rapporto che si instaura tra invenzione e memoria -> questo processo di rielaborazione creativa non riguarda soltanto la sfera dell’iconografia, ma investe anche quella più propriamente stilistica, delle scelte formali ed espressive ES. L’INVERNO o IL DILUVIO di NICOLAS POUSSIN e SCENA DI DILUVIO di GIRODET. -> il DILUVIO di POUSSIN fa parte di una serie di 4 tele che rappresentano le stagioni mediante altrettanti episodi biblici POUSSIN ha agito come uno scrittore o un oratore che punta sull’efficacia espressiva della sintesi, utilizzando la ben nota figura retorica della sineddoche: sceglie, infatti, di rappresentare la parte in luogo del tutto. Agendo “per via di levare”, imprime il massimo di risalto al dramma lasciando libero campo all’immaginazione dello spettatore GIRODET prende spunto proprio dalla sineddoche visiva del dipinto di Poussin, ma, ne isola un frammento, quello del gruppo che tenta un problematico salvataggio di un bambino avvolto in una veste arancione, lo esaspera sul piano espressivo e lo enfatizza, ingigantendolo fino a fargli occupare l’intera superficie di una tela di dimensioni monumentali -> riempie il compresso scenario apocalittico del diluvio con l’ultrapatetico gruppo di disperati che cercano di aiutarsi a vicenda, aggrappandosi l’uno all’altro e al dubbio sostegno di un albero scheletrico. Opera una sorta di “zoomata” sulla catena umana del quadro di Poussin con il tentativo di salvataggio, ma ne rovescia il segno, che da gesto di speranza si trasforma in funesto presagio di tragedia. La SPERANZA, che in Poussin è visualizzata dalla presenza dell’arca nello sfondo, ma anche dall’acuto di quei mantelli vivacemente colorati che squarciano come fosse grida l’uniforme e sordo grigiore della scena segnalando i guizzi di vita non ancora spenti, in Girodet è appesa ad un ramo che appare manifestamente in procinto di spezzarsi. La catena umana, che in Poussin è saldamente ancorata ai due estremi, lasciando presagire il salvataggio del bimbo, diventa una catena acrobatica, precaria e slittante, nella scena di Girodet. E il manto color arancio, che avvolge la madre già ghermita dal gelo della morte come fosse un sudario, non si traduce in un grido di speranza ma di disperazione. Alla sobria ancorché toccante retorica seicentesca, si sostituisce una squassante retorica preromantica, che aggredisce lo spettatore con “effetti speciali” volti a sbalordirlo e a coinvolgerlo emotivamente ES. LE DUE CUGINE di WATTEAU e L’ODALISCA BRUNA di BOUCHER Le etichette non vanno scambiate per entità concrete, né si può pretendere che esse abbraccino l’intera fenomenologia artistica di un’epoca, così come sarebbe un grave errore ritenere che ciascuna di esse abbia confini cronologici precisi -> le date di inizio e fine di una corrente, di un’etichetta, sono puramente convenzionali ES. FRANCISCO GOYA (LA FAMIGLIA DELL’INFANTE DON LUIS DI BORBONE) rientra perfettamente nell’ambito cronologico del Neoclassicismo (1750-1815), eppure le sue opere non sono inquadrabili nella nozione di Neoclassicismo IL GOTICO CORTESE La definizione di “Gotico internazionale” trae origine da questa sua ampia diffusione europea, mentre quella di “Gotico cortese” deriva dalla forte impronta che i modelli culturali delle corti europee conferiscono alle opere d’arte ascrivibili a questa tendenza. Il termine “Tardogotico”, invece, fa riferimento al fatto che questo stile può essere di fatto considerato come una sorte di propaggine del Gotico, mentre “Gotico fiorito” mette in luce il carattere particolarmente ornato di questo stile. “RIMUTO’ L’ARTE DEL DIPINGERE DI GRECO IN LATINO, E LA RIDUSSE AL MODERNO” La pittura bizantina discende dai modelli dell’arte classica, che però, col tempo, si erano andati riducendo a formule sempre più schematiche e lontane da quella verità naturalistica che era alla base della rappresentazione nell’antichità classica ES. tema iconografico del CRISTO CROCIFISSO, come cambia nel corso dei secoli CROCIFISSIONE in SANTA MARIA ANTIQUA -> il modo di rappresentare la figura umana deriva alla lontana dalla tradizione classica, ma è come se questa si fosse andata prosciugando e disseccando. Sotto la lunga tunica le membra di Cristo non hanno consistenza tridimensionale: egli appare come una sorta di cadavere disidratato, che aderisce completamente al legno della croce, pur tenendo gli occhi ben aperti, secondo l’iconografia, allora molto diffusa, del CHRISTUS TRIUMPHANS, ovvero del Cristo crocifisso che non solo appare vivo, ma non mostra alcun segno di sofferenza per il martirio che sta subendo Caratteristica di fondo dell’arte bizantina è la staticità con cui certi modelli si ripetono sostanzialmente inalterati nel corso dei secoli. CROCE DIPINTA di MAESTRO FIORENTINO -> è trascorso mezzo millennio dall’esecuzione dell’affresco in Santa Maria Antiqua, eppure il modo di raffigurare il corpo di Cristo è praticamente identico, fatto salvo un blando e assai schematico tentativo di resa anatomica del torace La sostanziale assenza di evoluzione storica nel repertorio di forme prodotto dall’arte bizantina discende dal fatto che essa è l’espressione di una società teocratica e rigidamente gerarchizzata, che poneva al vertice l’imperatore, il cui potere era considerato diretta emanazione del potere divino. La pittura era chiamata a ripetere pedissequamente modelli ritenuti immodificabili, fossilizzati. All’autore delle opere non si chiedeva di apportare cambiamenti nello stile o nell’iconografia, ma di fare del proprio meglio all’interno di un canone precostituito, portandolo al massimo grado di raffinatezza formale di cui era capace. ICONA DELLA TRINITA’ di ANDREJ RUBLEV -> eleva all’apice della squisitezza e dello splendore formale il repertorio di forme che ha ereditato da una secolare tradizione pittorica La tradizione figurativa bizantina cominciò ad essere scossa dalle proprie fondamenta quando pittori come Cimabue, e ancor più Giotto, tornarono a confrontarsi con la realtà naturale e con la statuaria antica, resuscitando il cadavere disseccato della civiltà classica, con una potente trasfusione di naturalismo. CROCIFISSO di CIMABUE ad AREZZO -> pur mantenendo ancora forti legami con la tradizione figurativa bizantina, Cimabue mostra già rapporti con il mondo gotico transalpino: il suo Cristo non è più TRIUMPHANS, bensì PATIENTS, vale a dire sofferente, con il capo reclinato, gli occhi chiusi, e il corpo che si inarca con dolorosa eleganza, discostandosi dalla croce. Certi schematismi nella rappresentazione dell’anatomia risalgono però ancora ai modelli greco-bizantini CROCIFISSO di CIMABUE in SANTA CROCE A FIRENZE -> il pittore riprende, 10 anni dopo, lo stesso soggetto, ma quegli stilemi tipicamente bizantini che nell’altro Crocifisso avevano il compito di delineare in modo astratto il corpo martoriato di Cristo sono praticamente spariti, per dar luogo ad una rappresentazione anatomica più naturalistica e modellata plasticamente dalla luce CROCIFISSO di GIOTTO in SANTA MARIA NOVELLA -> si può dire che Giotto abbia rappresentato, appeso sulla croce, un uomo in carne ed ossa. La tensione dei muscoli e dei nervi rende evidente il peso di quel corpo senza vita, che grava verso il basso Giotto fu influenzato dalla scultura di Nicola Pisano e dei suoi seguaci, che abbandonarono la tradizione bizantina, ispirandosi direttamente alla scultura classica -> era ormai tramontata l’epoca dei modelli immutabili, e con essa l’idea che l’artista non fosse altro che un mero esecutore, un semplice artigiano, sia pure di lusso. Gli artisti cominciarono a firmare sempre più spesso le proprie opere, a competere tra loro e ad ispirarsi, ma anche a rivaleggiare, con l’arte del passato QUESTO PROCESSO E’ ALTRETTANTO EVIDENTE IN CAMPO ARCHITETTONICO -> vengono introdotti elementi come l’arco ogivale (“a sesto acuto”), i grandi pilastri a fascio (“polistili”), i contrafforti e gli archi rampanti -> le cattedrali esibiscono una tensione verso l’alto che può essere messa in relazione con l’aspirazione mistica di una società impregnata di valori trascendenti, ma che costituiva anche una sorta di orgogliosa autorappresentazione delle capacità tecnologiche e della ricchezza economica di una civiltà mercantile, le cui città avevano come simbolo identitario la CATTEDRALE -> ogni città profonde nella costruzione della cattedrale le sue migliori risorse. La CATTEDRALE diviene così l’insegna stessa della comunità cittadina, la testimonianza visibile della sua prosperità e intraprendenza economica I primi esempi di architettura gotica apparvero intorno agli inizi del XII secolo in Francia e nella Renania, per poi diffondersi nel resto dell’Europa. La cattedrale gotica veniva sempre concepita come una struttura di imponenti dimensioni, che doveva dominare l’ambiente circostante -> rispetto alla tipologia dell’architettura romanica, l’edificio gotico è assai più verticale e, al tempo stesso, meno massiccio. Le sue pareti perdono gran parte della loro poderosa consistenza, venendo in gran parte sostituite da ampie vetrate. La struttura portante è messa inoltre in piena evidenza, così com’è apertamente mostrata la funzione strutturale dei grandi pilastri polistili. Quello gotico è un equilibrio dinamico, caratterizzato sia da spinte verticali che da spinte laterali contrastanti, le quali ultime, scaricandosi sul perimetro dell’edificio, vengono contenute dalle controspinte degli archi rampanti esterni. ES. CATTEDRALE DI NOTRE-DAME -> l’interno è spoglio di ogni decorazione: ne viene esaltato il carattere strutturale della costruzione, con le nervature dei pilastri polistili e le costolonature che dividono in quattro parti le grandi volte a crociera ogivale CATTEDRALE DI CHARTRES -> l’interno esemplifica l’evoluzione gotica del concetto di parete: mentre nell’architettura romanica le pareti svolgevano una fondamentale funzione portante, in quella gotica si alleggeriscono e si svuotano, fino a formare un puro e semplice diaframma, posto a separazione tra l’interno e l’esterno, che innerva il fragile e luminoso schermo policromo dei finestroni vetrati In Francia, sorse ben presto un dibattito tra due diverse concezioni dell’architettura religiosa: 1 secondo BERNARDO DA CHIARAVALLE (fondatore dei Cistercensi) le chiese dovevano essere pover e spoglie per evitare distrazioni ai fedeli 2 secondo SUGER DI SAINT-DENIS era necessaria un’architettura lussuosa ed ornata, che doveva fungere da elemento di richiamo e di ammaestramento per i fedeli. -> un riflesso delle idee dell’abate di Saint-Denis si coglie nella diffusa pratica di decorare le grandi cattedrali gotiche con ricche vetrate policrome -> le vetrate gotiche costituiscono una variopinta meraviglia per il fedele, ma al tempo stesso gli offrono un amplissimo dispiegamento di figure e scene sacre, che mirano a trasmettergli la verità della fede e le storie dei martiri e dei santi (la maggioranza dei fedeli era allora analfabeta o semianalfabeta) Nel Cristianesimo delle origini convivono due radici storiche ben precise: quella GIUDAICA che è assolutamente contraria alla rappresentazione dell’immagine di Dio, e quella che affonda nell’HUMUS della civiltà classica greco-romana, la quale ha invece dato forma e figura alle proprie divinità fatte a somiglianza dell’uomo. Di tanto in tanto le spinte anti-iconiche si sono riaffacciate nel Cristianesimo, ma sono state puntualmente respinte dalla Chiesa di Roma, in cui molto forte era il retaggio della tradizione classica. Colui che non sa né leggere né scrivere può conoscere e memorizzare meglio le verità e i protagonisti delle Sante Scritture e della vita della Chiesa, grazie alla loro rappresentazione figurativa -> convinzione di GREGORIO MAGNO che è il fondamento dottrinario da cui trae origini la gran quantità e varietà di affreschi, statue, dipinte, vetrate ed altri oggetti figurati di arredo liturgico, che gremiscono le chiese cattoliche fin dall’epoca paleocristiana L’ARCHITETTURA GOTICA concentra tutte le linee di forza nei pilastri polistili e nelle costolonature che innervano le vele ogivali. All’esterno della cattedrale gotica, i contrafforti e gli archi rampanti contrastano le spinte laterali degli archi ogivali che scandiscono le navate interne, mentre la tensione dinamica di tutto l’edificio si scarica in alto con guglie e pinnacoli che salgono verso il cielo come fiamme pietrificate. Quanto ai doccioni, che incanalano e scaricano l’acqua piovana all’esterno dell’edificio, essi prendono spesso forma di mostruosi animali fantastici (gargouilles), quasi fossero presenza diaboliche che vengono espulse, a viva forza, dallo spazio sacro Il GOTICO INTERNAZIONALE moltiplicherà le guglie, i pinnacoli e gli ornati sia all’esterno che all’interno, in una proliferante e fiammeggiante profusione decorativa, che giustifica il termine suggestivo di Gotico flamboyant IL GOTICO FIAMMEGGIANTE ES. DUOMO DI MILANO PALAZZO DI CITTA’ a LOVANIO CHIOSTRO GRANDE della CATTEDRALE DI GLOUCESTER -> corpo di fabbrica che segna l’inizio del cosiddetto “stile perpendicolare”, caratterizzato da una fitta ramificazione di costolonature filiformi, che si sviluppa dalle pareti alle volte avviluppandole in un fantasioso reticolo geometrico A Venezia, il Gotico internazionale ha assunto caratteri peculiari, poiché il ruolo della città, che fungeva da snodo tra Occidente e Oriente, ha favorito la contaminazione tra civiltà gotica e civiltà bizantina (da cui discende il gusto per la preziosità e la policromia dei rivestimenti marmorei, ma anche per i giochi di trasparenze e di trafori, che trasformano la pietra in una sorta di trina o merletto). Nell’architettura veneziana gli edifici, per evitare dissesti statici si ergono su fondazioni a palafitta, con pali, che per trovare un solido appoggio, sono piantati in profondità nel suolo lagunare. Ne deriva la necessità di non gravare le fondamenta con pesi eccessivi, alleggerendo, per quanto possibile, la costruzione ES. CA’ D’ORO -> il Gotico fiorito si arricchisce di suggestioni orientaleggianti PALAZZO DUCALE di VENEZIA -> la leggerezza è dislocata in basso, in quel grande e buio porticato, scandito dalle squillanti note bianche delle colonne L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO Il Gotico internazionale corrisponde ad una fase che gli storici sono soliti denominare “autunno del Medioevo” -> un autunno dorato e prolungato, in cui prevale la cultura sofisticata delle corti europee, grandi e piccole, che si discosta dall’acceso misticismo religioso per coltivare modelli e ideali più profani. Di qui la denominazione di “Gotico cortese” La Lombardia fu uno dei centri maggiori di diffusione e produzione del Gotico cortese in Italia ES. di Gotico cortese MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA di MICHELINO DA BESOZZO -> riconosciamo una delle più peculiari cifre stilistiche del Gotico cortese nell’andamento sinuoso dei panneggi, che si attorcigliano e si snodano in lente onde flessuose. Panneggi assai poco realistici, che sembrano fluttuare e ricadere in modo indipendente dalla legge di gravità. Santa Caterina d’Alessandria, con le sue dita affusolate, la corona tempestata di gemme, le maniere aggraziate sembra in tutto e per tutto una dama di corte. STUDIO DI COSTUMI SONTUOSI: UNA DAMA E UN CAVALIERE di PISANELLO -> uno degli esempi più noti e clamorosi di questa sofisticata eleganza tardogotica predella hanno in genere un carattere molto diverso da quelle che compaiono nella pala e di cui rappresentano una sorta di nota a piè pagina. Di solito gli artisti in questa zona del dipinto ricorrono ad un linguaggio più vivacemente narrativo e compendiario, rivolgendosi in modo più diretto e colloquiale al pubblico, mentre il linguaggio della pala è sempre più aulico e compassato, più ufficiale ed iconico -> la pala d’altare appare però in questo caso più incline alla vivacità narrativa e alla divagazione aneddotica di quanto non mostri di esserlo lo scomparto di predella. Masaccio infatti adotta un tono narrativo quanto mai austero ed essenziale. Evita accuratamente qualsiasi profusione di ori, argenti, pastiglie e ornati sontuosi: solo la sedia su cui è seduta la Madonna è impreziosita dall’oro, ma la sua caratteristica più interessante è che si tratta di un oggetto la cui forma rimanda inequivocabilmente alla SELLA CURULIS, il seggio del sacerdote romano -> si tratta dunque di una citazione dotta, di pretto stampo umanistico Diversamente da Gentile, che ha dispiegato le sue figure eleganti e flessuose in un paesaggio gaio, fiorito e quanto mai vario, illuminato dal fondo dorato, Masaccio ha preferito far campeggiare i suoi personaggi sullo sfondo di un paesaggio brullo e disadorno -> ogni personaggio ha una sua solida concretezza e fisicità, sottolineata dalla rigorosa geometria degli scorci prospettici e delle nette ombre che ciascun corpo proietta sul terreno, individuando i diversi piani di profondità determinati dalla disposizione di ciascun gruppo sulla scena -> qui la luce proviene da una fonte unitaria ben individuata e ogni corpo si dispone nello spazio, diminuendo proporzionalmente in funzione della distanza dal primo piano. Rilevante è anche il fatto che due di questi personaggi siano contemporanei di Masaccio, come denunciano le loro austere vesti quattrocentesche. Si tratta, ovviamente dei committenti della pala -> il fatto più insolito è il fatto che essi siano di proporzioni identiche a quelle dei protagonisti sulla scena sacra -> Masaccio si è attenuto all’applicazione integrale del metodo prospettico e non ha agito come un pittore medievale, il quale avrebbe utilizzato la cosiddetta “prospettiva invertita”, diminuendo a bella posta le dimensioni dei committenti per renderli minuscoli rispetto ai personaggi sacri verso cui rivolgono la propria devozione FATTI DI MASOLINO E MASACCIO L’opera più giovanile che si può attribuire a Masaccio è un trittico conservato nella Pieve di Cascia di Reggello, presso la cittadina natale dell’artista, San Giovanni Valdarno: il Trittico di San Giovenale, datato aprile 1422 Masaccio ebbe un rapporto molto stretto con Masolino da Panicale, che era originario della sua stessa zona, il Valdarno -> Masolino, con le sue figure e le sue scene ancora impregnate di aggraziate reminiscenze tardogotiche contrapposto al più giovane e rivoluzionario Masaccio, con la sua visione asciuttamente naturalistica, fondata sulla prospettiva, la saldezza volumetrica delle forme, l’austera concretezza della narrazione -> Masolino aggiorna la sua cultura figurativa, assimilando alcuni caratteri del linguaggio figurativo di Masaccio, ma ne addolcisce la radicalità e le asprezze, ibridandoli con la gentile eleganza tardogotica -> la posizione di Masolino non è troppo dissimile a quella di Lorenzo Ghiberti, il quale rispetto alle sconvolgenti novità prospettiche e naturalistiche della triade Brunelleschi-Masaccio-Donatello assume una posizione più moderata. Pur adottandone alcuni aspetti, non rinuncia ai ritmi fluidi ed eleganti della tradizione gotica MADONNA DELL’UMILTA’ di MASOLINO -> 1423, a questa data Masolino mostra di non aver ancora recepito le novità masaccesche. Sia la Madonna che il Bambino possiedono una loro consistenza plastica, ottenuta attraverso la modulazione chiaroscurale, ma non hanno quella soda e massiccia fisicità che Masaccio conferisce sempre alle sue figure. La Vergine siede su un cuscino, ma questa sua posa manca di una sua fisica concretezza. Il contorno che definisce la figura è delineato in modo dolce e melodioso, con sinuose cadenze che si riverberano nelle ampie falde del panneggio: tutti elementi che ci parlano di un linguaggio figurativo di transizione tra le eleganze del Gotico cortese e l’asciutta sobrietà delle novità rinascimentali SANT’ANNA METTERZA di MASOLINO e MASACCIO -> dipinto in cui è raffigurata la Sant’Anna in trono, vestita con un ampio manto rosso, che tiene quasi in grembo sua figlia, la Madonna, la quale a sua volta ha in braccio il Bambin Gesù. “Anna Metterza” è la traduzione, brutalmente letterale, proposta da Roberto Longhi per Anna Selbsdritte, con cui viene indicata in lingua tedesca questa particolare iconografia in cui Sant’Anna figura come Terza Persona insieme alla Madonna e al Bambino. La storiografia dell’arte ha identificato in questa tavola la prima opera frutto della collaborazione tra Masolino e Masaccio. Il gruppo della Madonna con il Bambino (Masaccio) è costruito secondo un impianto semplificato e piramidale. Sono evidenti la potenza plastica di questo erculeo Bambino, che ricorda certi putti della statuaria antica, e della massiccia figura della Vergine, il cui panneggio non si snoda con le cadenze sinuose della Madonna di Brema di Masolino, ma è scandito da pieghe nette, modellate sapientemente dalla luce e dall’ombra. Attraverso questo uso del chiaro-scuro, le figure acquistano quella solida tridimensionalità che è uno dei tratti più peculiari di Masaccio. AFFRESCHI NELLA CAPPELLA FIORENTINA DEI BRANCACCI AL CARMINE, dove Masolino e Masaccio lavorano fianco a fianco nel 1424-1425 La scena più famosa della Cappella è quella in cui Masaccio ha rappresentato IL TRIBUTO -> l’episodio centrare costituisce una delle sene più elogiate e imitate di tutta la pittura fiorentina. Giunto a Cafarnai, Cristo, attorniato dagli apostoli, vede venirgli incontro un gabelliere, che gli chiede il tributo dovuto a chi entra in città. Le figure sono imponenti e si stagliano contro lo sfondo di un paesaggio montuoso. Ostentano una GRAVITAS che ricorda inconfondibilmente quella dei personaggi togati della statuaria classica (prende spunto dai Quattro Santi coronati di Nanni di Banco) Il BATTESIMO DEI NEOFITI -> scena dipinta quasi interamente da Masaccio, è rappresentato San Pietro che battezza i nuovi convertiti al Cristianesimo. Sulla sinistra, il pittore ha inserito due personaggi con turbante che hanno tutta l’aria di essere membri della famiglia Brancacci, o comunque eminenti personaggi della Firenze quattrocentesca -> Masaccio contravviene alle regole medievali della “prospettiva invertita”, dimensionando le figure in base all’imparziale legge della prospettiva -> un’altra caratteristica da sottolineare è l’attenzione compiaciuta nella rappresentazione dell’anatomia umana: Masaccio sembra essersi ispirato direttamente al vero, utilizzando un modello, ma non c’è dubbio che abbia anche tratto spunto dalla statuaria antico Quel che più colpisce è lo scabro e lucido realismo della scena, con lo straordinario dettaglio del giovane in piedi, seminudo, che sembra percorso da brividi e tremare per il freddo, mentre attende impaziente il suo turno ed essere battezzato -> il realismo masaccesco è strettamente funzionale al racconto, cui conferisce carattere, forza espressiva, attendibilità PECCATO ORGINALE di MASOLINO e CACCIATA DI ADAMO ED EVA DAL PARADISO TERRESTRE di MASACCIO a confronto: I progenitori rappresentati da MASOLINO hanno un aspetto gentile ed elegante, vagamente imbambolato: nei loro corpi, dalle membra snelle e affusolate, si percepisce lo studio della statuaria antica (la testa di Adamo rimanda con tutta evidenza a certi busti-ritratto di età classica), ma la pennellata fluida di Masolino delinea armoniosamente i contorni senza dar loro alcun risalto plastico e tridimensionale. Lo spazio alle spalle dei personaggi è indefinito, ed essi stessi, invece di piantare saldamente i piedi sul terreno, sembrano quasi danzarvi sulle punte, proprio come accadeva nei dipinti tardogotici I personaggi di MASACCIO poggiano saldamente i piedi per terra e proiettano le proprie ombre sul terreno. Possiedono una struttura massiccia e i loro corpi hanno un forte rilievo tridimensionale, suggerito da un modellato potente, che alterna colori intrisi di luce e zone d’ombra. Lo spazio entro cui si muovo è definito in modo sintetico, ma molto chiaro: la direzione da cui proviene la luce è deducibile limpidamente, i vari piani lungo cui si snoda l’azione sono scalati in profondità, e le linee diagonali, ombre comprese, fungono da precisi indicatori di tale illusoria profondità spaziale. La scena che Masaccio è stato incaricato di dipingere comporta, ovviamente, un tono altamente drammatico, diversamente da quella assegnata a Masolino, ma il pittore è andato ben oltre una generica intonazione dolorosa e commovente, conferendo alle pose, ai gesti e alle fisionomie dei protagonisti un’intensità tragica, che ne deforma i tratti fino a sfigurarli e a sconvolgere le armoniose proporzioni e fattezze derivate dalla statuaria antica. L’artista si è chiaramente ispirato alla cosiddetta VENUS PUDICA che, sorpresa durante il lavacro, si copre con le mani i seni e il pube -> Masaccio, prendendone in prestito la gestualità, non ha esitato ad adattarla all’espressione dolente e alla greve fisicità di questa Eva. DUE MADONNE DELLA MISERICORDIA A CONFRONTO Confronto tra due Madonne della Misericordia per mostrare i caratteri del Gotico cortese e quelli della rivoluzione prospettica avviata in Toscana all’alba del Quattrocento. La Madonna della Misericordia è un’iconografia cara a quelle Confraternite della Misericordia, assai diffuse fin dal Medioevo, che erano associazioni laiche, ma con fini religiosi e, soprattutto, di assistenza agli infermi. La Madonna della Misericordia che accoglie sotto il suo manto il popolo, tra cui ben si distinguono i ritratti dei committenti e membri della Confraternita, è un’eloquente e materno simbolo della protezione divina e dei compiti assistenziali di questo tipo di associazioni. MADONNA DELLA MISERICORDIA di HANS CLEMER -> 1498-1499, è un manifesto esempio di persistenza del linguaggio ornato ed elegante del Gotico cortese: fondo oro, ma soprattutto, gusto per il fasto profano e una decorazione sontuosa. Ma ancor più significativa è la sostanziale assenza di profondità prospettica: la Vergine allarga le sue braccia e due santi che l’affiancano, in secondo piano, sollevano le estremità del suo mantello, dispiegandolo in modo da accogliere il gregge dei fedeli. Ma la Vergine non crea con il suo gesto uno spazio concavo: la sua figura si dispiega in superficie e la sua silhouette dorata disegna un elegante arabesco. Anche la folla che si assiepa sotto la sua protezione non viene rappresentata secondo le regole della prospettiva. POLITTICO DELLA MISERICORDIA di PIERO DELLA FRANCESCA -> 1445-1460, esegue quest’opera per la Confraternita della Misericordia della sua città natale, Borgo Sansepolcro. Anche la Vergine di Piero campeggia su un fondo dorato, ma questa è l’unica analogia tra i due dipinti. In questo caso è chiaro che, indipendentemente o meno dalla volontà dell’artista, fu la Confraternita a chiedere a Piero d’impreziosire la tavola con un fondo oro, ma è comunque significativo che l’artista abbia evitato qualsiasi tipo di arricchimento ornamentale, usando l’oro in modo naturalistico, come pura fonte di luce. La differenza sostanziale rispetto alla tavola di Hans Clemer deriva dalla rigorosa impostazione prospettica del dipinto, dall’asciutta nudità strutturale di quel manto che si apre a formare una sorta di concava abside, entro cui si dispongono i fedeli, assumendo anch’essi pose attentamente calcolate sul piano della “diminuzione prospettica”. La Madonna si erge frontalmente in tutta la sua impotenza, solenne e rigida come un’icona. La luce e l’ombra ne modellano la figura potentemente, conferendole un forte risalto plastico di tipo statuario. All’abbraccio della Madonna, che apre il suo mantello formando un’ampia concavità, corrisponde la convessità della disposizione a semicerchio dei fedeli. Il risultato è un potente effetto illusivo di spazio tridimensionale BREVE STORIA DELLA RAPPRESENTAZIONE ILLUSIONISTICA DELLO SPAZIO LA TRADIZIONE CLASSICA Questo gusto per l’illusionismo spaziale non è una peculiarità dell’età moderna, ma risale all’epoca classica, come dimostrano ampiamente le pitture parietali rinvenute all’interno di tanti edifici di epoca romana -> tali pitture parietali sono tutte variamente caratterizzate da una volontà di simulare sulla superficie piana marmi o altri materiali di rivestimento e, soprattutto, di “sfondare” illusoriamente la parete, rappresentandovi spazi aperti -> questo tipo di decorazione però deriva dalla civiltà figurativa greca -> per quanto riguarda la pittura parietale romana, i casi più noti sono quelli sopravvissuti nelle ville e nelle domus di Pompei, Ercolano e di altri centri dell’area vesuviana La finzione illusionistica della pittura parietale greca e romana non era però realizzata con una geometria governata da regole certe, ma obbediva a criteri puramente empirici che, pur essendo spesso molto efficaci, non erano privi di smagliature e incoerenze ottiche -> questa tendenza a fingere con la pittura o con il mosaico uno spazio architettonico a tre dimensioni su supporti bidimensionali perdurò in Italia fino all’epoca tardo-antica e all’inizio del Medioevo, quando fu progressivamente abbandonata in favore di un’ambientazione spaziale più indefinita e di un appiattimento nella rappresentazione di figure ed oggetti, con conseguente rinuncia a simularne la concretezza plastica e la solidità tridimensionale ES del passaggio dalla tendenza tridimensionale dell’età classica, alla tendenza bidimensionale del medioevo I QUATTRO EVANGELISTI E ANGELI, RAVENNA, PALAZZO ARCIVESCOVILE -> nella volta, su uno sfondo di tessere musive dorate, quattro grandi angeli sorreggono con le loro braccia levate il monogramma di Cristo, rappresentato al centro, all’interno di un tondo. Le quattro figure alate scandiscono la volta in quattro spicchi, entro cui sono rappresentati i simboli dei quattro Evangelisti. Le figure appaiono appiattite, anche se sopravvive qualche sporadico accenno alla tridimensionalità. Nessun elemento è, però, in grado di mostrarci la misurabilità di questo spazio dorato, che ha una forte valenza simbolica: si presenta come infinito e, al tempo stesso, indefinito. IMPERATRICE TEODORA E IL SUO SEGUITO, RAVENNA, BASILICA DI SAN VITALE -> le figure, rigidi e allungate, perdono di fisicità, consistenza, volume. I personaggi non calcano concretamente il terreno, ma l’iscrizione con la mano destra. Egli è rappresentato nell’atto di declamare l’epigramma. Il vero soggetto è dunque il Platina che, al cospetto dei quattro nipoti del Papa, rende omaggio a Sisto IV, verosimilmente nel giorno della solenne inaugurazione della rinnovata Biblioteca Vaticana. Questo affresco non è solo un’esplicita testimonianza del disinibito nepotismo pontificio, ma è anche il più eloquente manifesto del ruolo centrale che i papi del Rinascimento assegnavano al potere umanistico -> essi, infatti, contavano molto sulla stretta alleanza tra umanesimo e arti visive per testimoniare e propagandare la propria ispirazione a rilanciare il primato di Roma, accreditandosi come eredi e continuatori degli antichi Cesari, nell’era e sotto il segno di Cristo. La PROSPETTIVA è usata come elemento retorico che rende più efficace e magniloquente il messaggio visivo affidato all’affresco. L’incisiva caratterizzazione di ciascun ritratto, la solennità delle pose, la calibrata armonia della composizione e la forza illusiva di quel portico marmoreo e sfolgorante di ori, che riecheggia ed amplifica l’interno della Biblioteca in cui l’affresco si trovava, producono un effetto grandioso ed eloquente, che va al di là delle sottili e dotte allusioni celebrative di cui pure il dipinto è costellato. I rami di quercia pieni di ghiande dorate, ad esempio, alludono alla vigorosa e ricca progenie del Papa, essendo la quercia (rovere) il suo principale simbolo araldico. Perfino la profusione di solidi pilastri che scandiscono la prospettiva architettonica dell’affresco e la perfetta centralità della colonna che funge da asse visivo, verso il quale convergono tutte le linee di fuga della composizione, alludono, probabilmente, alle virtù di un papa e di un casato che portavano impresso nel proprio nome e nel proprio stemma la vigorosa solidità della rovere. La colonna è infatti il più comune attributo della Fortezza, ma la Fortezza, o fortitudo, ha un suo sinonimo latino nel termine robur, da cui deriva, per l’appunto, la parola italiana rovere. Melozzo utilizza l’espediente prospettico dello “SCORCIO DI SOTTINSU’” per rendere più magniloquente la propria scena affrescata e più imponenti i personaggi che la abitano -> consiste nella rappresentazione di una scena come se fosse vista da uno spettatore posto più in basso rispetto ad essa. CAMERA DEGLI SPOSI di MANTEGNA -> 1465-1474 nel castello di San Giorgio a Mantova, rappresentando sulle pareti importanti episodi politico-familiari della vita di corte dei Gonzaga. È un affresco che finge di “sfondare” un soffitto, facendo irrompere in una sala un cielo immaginario, popolato di nuvole e di figure. Sul soffitto della stanza, Mantegna ha dipinto un finto oculo: un’apertura circolare sul cielo luminoso, con un parapetto da cui si affacciano, guardando verso l’interno, putti potentemente scorciati di sottinsù, accanto ad un vaso con una pianta, ad un pavone e ad alcune figure femminili che ridono, guardando verso il basso un immaginario spettatore stupefatto CRISTO MORTO di MANTEGNA -> brutalmente scorciato in profondità, preso da un punto di vista molto ravvicinato, posto appena al di sopra dei piedi del letto funebre. In questo caso, Mantegna sembra aver usato la prospettiva in funzione espressiva, per amplificare e rendere ancora più drammatica e compassionevole la rappresentazione del Cristo morto, imponendoci un’angolazione che di fatto ci risucchia nello spazio del quadro e ci fa sentire anche noi attorno a quel catafalco. BRAMANTE E PERUZZI CORO DI SANTA MARIA PRESSO SAN SATIRO di BRAMANTE -> esempio di accorto impiego della finzione prospettica in architettura: trovandosi nell’impossibilità di realizzare un edificio a croce greca perché da un lato la costruzione era impedita da una strada, l’architetto risolse il problema prolungando illusivamente, con un calibrato accorgimento prospettico, il coro della chiesa, in modo che essa apparisse a croce greca anche se in effetti non lo era. Gli bastò pochissimo spazio per realizzare un finto coro a tre arcate che, mediante la forzatura dello scorcio prospettico della volta a botte cassettonata e delle arcate laterali, crea un illusorio effetto di profondità, facendo sembrare quel braccio uguale agli altri tre dell’edificio a croce Questo genere di trucchi illusionistici per sorprendere e ingannare lo spettatore è connaturato alla storia della prospettiva e trovò applicazione un po' dappertutto ma soprattutto nel campo della scenografia teatrale GALLERIA PROSPETTICA DI PALAZZO SPADA CAPODIFERRO di BORROMINI -> colonnato che in realtà è di misure alquanto ridotte, ma grazie ai sapienti scorci appare invece profondo e monumentale. Sullo sfondo c’è una statua che, guardandola dall’ingresso, appare alta per lo meno quanto una persona di normale statura. Ma chi si inoltra nel colonnato credendo di dover percorrere una certa distanza, si trova a fare pochi passi e ad arrivare in un battibaleno davanti alla statua, che in realtà si rivela di proporzioni assai più modeste di quanto egli avesse supposto in precedenza SALA DELLE PROSPETTIVE in VILLA FARNESINA di PERUZZI -> nella sala più ampia del piano nobile della Farnesina, Peruzzi ha dipinto un finto portico, scandito da filari di colonne marmoree, oltre il quale si ammira un vasto panorama della città di Roma. Ispirata ad alcuni esempi di Melozzo e di altri autori quattrocenteschi di decorazioni prospettiche nei palazzi romani, questa sala affrescata da Peruzzi costituì per più di tre secoli un modello imitatissimo in tutta Europa LO SFONDATO ILLUSIONISTICO DI VOLTE E CUPOLE SALA DEI GIGANTI presso PALAZZO TE A MANTOVA di GIULIO ROMANO -> questa decorazione occupa interamente sia le pareti che la volta di una sala circolare. Zeus, dall’alto dell’Olimpo, lancia le sue saette sui Giganti ribelli che hanno osato sfidarlo, e costoro, incalzati anche dagli altri dei, vengono investiti da una valanga di massi che crolla e li sommerge. Ma la finzione mesa in scena da Giulio Romano implica che anche il visitatore abbia la sensazione di vedersi crollare addosso la volta e le pareti: un “effetto speciale”, volto a produrre un moto di paura che presto si tramuta in riso e sollievo. A rendere visibilmente giocoso il tono della decorazione è il registro esplicitamente grottesco usato dal pittore nel descrivere i Giganti, che appaiono mostruosi, goffi e impotenti. CUPOLA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA e CUPOLA DEL DUOMO DI PARMA di CORREGGIO -> partendo dagli scorci di sottinsù messi in pratica da Mantegna nell’oculo della Camera degli Sposi, Correggio “sfonda” illusivamente la cupola mostrandoci la veduta dal basso di un cielo luminoso e popolato di nuvole morbide e fioccose. Nella cupola di San Giovanni Evangelista la cerchia di apostoli in basso funge da quinta ombrosa, che rende ancor più abbagliante lo squarcio tra le nubi inondato di luce verso cui s’invola la figura di Cristo nel suo moto ascensionale. Nella cupola del Duomo la Madonna è assunta in cielo in un’apoteosi di luce fra gli svolazzi festanti degli angeli. Le cerchie celesti e i nastri gonfi di nuvole si dispongono in modo da dar vita ad un gigantesco moto a spirale, che si avvita fino a culminare nell’audace scorcio del Cristo che, in un gorgo di luce, nuota scompostamente nel cielo mulinando le gambe e aprendo le braccia come per attrarre a sé la Vergine in ascesa. Questi mirabili exploits prospettici di Correggio costituiscono il prototipo di tutte le vorticose e vertiginose visioni celesti che irrompono dall’alto delle cupole e delle volte barocche e post-barocche. TRIONFO DELLA DIVINA PROVVIDENZA in PALAZZO BARBERINI di PIETRO DA CORTONA -> si tratta di un affresco che celebra, con una complicata e dotta allegoria, l’apoteosi della famiglia committente Nel Seicento, Roma fu il principale laboratorio e centro d’irradiazione in tutta Europa della grande decorazione barocca, caratterizzata dai più audaci virtuosismi illusionistici e dagli sfondati prospettici più spettacolari TRIONFO DEL NOME DI GESU’ in CHIESA DEL GESU’ del BACICCIO GLORIFICAZIONE DI SANT’IGNAZIO in CHIESA DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA di ANDREA POZZO -> in questa Chiesa Pozzo, usando un surrogato illusivo, dipinge su una tela perfettamente piana una finta cupola in trompe-l’oeil Nell’armamentario ideologico dei Gesuiti (ordine militante al servizio del potere pontificio, caratterizzato da una ferrea disciplina e dal culto dell’obbedienza gerarchica: una sorta di agguerrita milizia cattolica, dedita a riconquistare la fede delle masse) l’arte, la musica e il teatro, in tutte le loro manifestazioni, rivestirono un ruolo centrale In età barocca queste grandi macchine illusionistiche non furono utilizzate solo nelle chiese, ma anche nelle regge e nei palazzi nobiliari Già a partire dal primo Seicento erano cominciate a svilupparsi le specializzazioni, con artisti che si dedicavano esclusivamente alla progettazione ed esecuzione delle finzioni architettoniche L’ultimo grande protagonista di questa straordinaria tradizione figurativa fu il TIEPOLO (Wurzburg, L’Olimpo e i Quattro continenti) LA PROSPETTIVA FIORENTINA E I SUOI SVILUPPI IL CONCORSO DEL 1401 L’”invenzione della prospettiva” è il frutto di un processo che si è andato sviluppando nel corso del XIII e XIV secolo, ma che giunge a piena maturazione a Firenze, con Brunelleschi all’inizio del Quattrocento -> per esemplificare questa svolta nelle arti figurative è pressochè inevitabile soffermarsi su un evento cardine che si svolse a Firenze nel 1401: il concorso per assegnare l’incarico di esecuzione della seconda porta del Battistero. Le modalità della competizione prevedevano che ciascuno dei concorrenti presentasse una formella con la rappresentazione di un tema ben preciso: il sacrificio di Isacco -> vari artisti parteciparono al concorso, ma il confronto definitivo si svolse tra la formella presentata da Ghiberti, che vinse la prova, ottenne questo incarico e, in seguito, anche quello di realizzare una terza porta, e la formella presentata da Brunelleschi. Il soggetto della formella è tratto dalla Bibbia -> per mettere alla prova Abramo, Dio gli ordina di immolare il figlio Isacco. Abramo, pur con la morte nel cuore, obbedisce, porta l’ignaro giovinetto su un monte ed è sul punto di pugnalarlo sull’ara, quando un angelo ferma la sia mano. Dio ricompenserà Abramo per la sua eroica devozione e, in luogo di Isacco, un montone verrà destinato al sacrificio -> per la teologia cristiana Isacco è TYPUS CHRISTI, vale a dire una prefigurazione di Cristo. Ghiberti, benchè coetaneo di Brunelleschi, appare artista più maturo sul piano delle capacità tecniche, tanto da esser stato capace, diversamente dal suo concorrente, di fondere la propria formella in un unico pezzo. Egli, inoltre, dimostra maggiore abilità nell’organizzare la scena in modo chiaro ed accattivante, alternando parti più lisce e levigate, su cui la luce scorre e risplende, a parti più accidentate, come la quinta rocciosa, che frantuma la luce, incanalandola nel buio dei solchi più profondi e facendola brillare sulle creste e sulle sporgenze più acuminate. La quinta rocciosa di Ghiberti ha, inoltre, un importante ruolo nello spartire nettamente la composizione: sulla destra il sacrificio, sulla sinistra, l’asino al pascolo e i due accompagnatori che conversano tra loro, indifferenti ed ignari al dramma che si sta compiendo a poca distanza. Nella formella ghibertiana le rocce fungono dunque, oltre che da piano d’appoggio per lo svolgimento di tutta la scena, anche da elemento di suddivisione dell’episodio biblico in due azioni, una principale ed una secondaria. Nella prima agiscono i protagonisti del dramma, nella seconda le comparse, che rimangono estranee all’azione drammatica perché non in grado di elevarsi ad una dimensione eroica, la dimensione del sacro. Ghiberti fa risaltare la bellezza fisica del corpo del giovane Isacco, introducendo un esplicito richiamo alla statuaria classica, cui fa riferimento anche il rigoglioso girale di acanto che spicca sul basamento dell’ara. Nel suo stile, il riecheggiamento dell’antico si fonde con la fluida ritmica eleganza di movenze e panneggi che hanno ancora un sapore tardogotico. Quello che però manca del tutto in questo rilievo, è il senso del tragico: Ghiberti sfoggia uno stile chiaro, gradevole, moderatamente innovatore e tecnicamente magistrale Brunelleschi mette in mostra un linguaggio più radicalmente innovativo, che conferisce una drammatica concisione al racconto figurativo. La sua formella è spartita orizzontalmente dallo spartiacque centrale costituito dal dorso dell’asino. I gesti dei protagonisti sono concatenati in modo da comunicare un senso di drammatica simultaneità: la sincronica concatenazione dei gesti è enfatizzata dal fatto che i protagonisti sono vicini tra loro, si toccano. Brunelleschi non esita a rinunciare alla verosimiglianza, pur di rendere questa concentrazione drammatica attraverso il contatto fisico. Nella parte inferiore della formella brunelleschiana è platealmente evidente il disinteresse dei servi per il dramma che si svolge vicino a loro: un motivo, questo, che ricorre spesso nelle rappresentazioni di eventi drammatici o miracolosi, allo scopo di porre l’accento sul diverso livello di consapevolezza dei protagonisti. Anche queste due figure di Brunelleschi sono di fatto citazioni dalla statuaria antica (ES. Spinario) per meravigliare lo spettatore. Questo sbocco ludico si sviluppò soprattutto in Germania, in Francia e nei Paesi Bassi. -> c’è una linea di continuità tra questo tipo di divertissements prospettici e l’intrico di guglie del gotico fiammeggiante o gli arabeschi capricciosi del più sfrenato rocaille Quel genere di bizzarrie prospettiche si addicono ad un genere “minore” come la tarsia lignea, una forma di decorazione a mezza strada tra arte e artigianato. Il 400 e il 500 sono due secoli in cui la tarsia lignea godette di grande diffusione e impegnò artisti anche di notevole caratura, ma più spesso artigiani di buon livello, che traducevano in questa tecnica disegni e invenzioni altrui. La tarsia lignea consiste nell’accostare ad intarsio forme ricavate in legni di diverso colore, al fine di realizzare figure, ornati e vedute di vario genere -> giocando sulla giustapposizione di legni di diversa tonalità cromatica l’intarsiatore riesce ad ottenere efficaci effetti di tridimensionalità simulata, sfaccettando i volumi e alternando piani di differente tonalità luminosa. Le opere più famose di Paolo Uccello sono le tre tavole dipinte con scene della battaglia di San Romano -> si è sempre affermato che queste, come in genere tutte le scene figurate di Paolo Uccello, hanno un rigoroso impianto prospettico, ma a dispetto di ciò presentano un tono fiabesco e irreale IMPIEGHI DELLA PROSPETTIVA: LA SCENA TEATRALE A partire dal 500, la pratica della scenografia teatrale fu, accanto a quelle dello “sfondato” illusionistico e del vedutismo, il campo di più ampia e rigorosa applicazione delle leggi prospettiche. La scenografia prospettica cinquecentesca è frutto del clima di fervore umanistico con cui si cercò di resuscitare il teatro all’antica, imitandone sia i testi che le forme di rappresentazione scenica. Nel mondo classico il pubblico sedeva sulle gradinate di una cava semicircolare, davanti alla quale si ergeva il palcoscenico dominato dalla SCENAE FRONS, un monumentale scenario in muratura che rappresentava la facciata di un palazzo principesco. Di norma tale facciata era scandita da colonnati su più ordini, ornata da statue disposte entro nicchie e aveva da 3 a 5 porte, distribuite in modo simmetrico, da cui entravano e uscivano gli attori. In alcuni passi di non facile interpretazione, il trattato di Vitruvio accosta la prospettiva alla scenografia, indicando una tripartizione delle scene a seconda del genere di spettacolo rappresentato: scena tragica (edifici nobili e regali), scena comica (edifici privati comuni) e satirica (ambiente boschereccio con capanne). Queste suggestioni vitruviane indussero gli umanisti a concepire come scenario di spettacoli teatrali vedute prospettiche di città, con edifici nobili o comuni, a seconda che si trattasse di tragedie o commedie, e con vedute di paesaggi boschivi nel caso di rappresentazioni satiriche. Oggi si ritiene che nel teatro classico questo tipo di scenari dipinti avesse un valore accessorio e puramente evocativo, diversamente da quanto avvenne nel teatro rinascimentale. Nel rinascimento non ci si propose quasi mai di edificare uno spazio teatrale stabile Uno dei pochissimi edifici teatrali stabili cinquecenteschi è il Teatro Olimpico di Venezia, progettato da Andrea Palladio, che è una sala teatrale all’interno di un palazzo -> Palladio costruì una cavea semicircolare ed edificò una maestosa scenae frons con colonnati corinzi, nicchie con statue e canoniche versus laterali. Poi introdusse una veduta di città in legno, cartapesta e stucco, sotto forma di tre strade che si irradiano al di là delle porte della scenae frons -> questa veduta di città appare assai più profonda di quanto non sia in realtà, grazie all’artificio prospettico di far convergere in modo molto accentuato le linee di fuga degli edifici in scorcio e di conferire una marcata pendenza al pavimento delle tre strade -> nel Teatro Olimpico la scenae frons non è più una facciata di palazzo, ma un’aulica e sovrabbondante cornice, che invece di fare da sfondo convoglia lo sguardo dello spettatore al di là di se stessa, nello spazio illusorio di una veduta di città che si estende a perdita d’occhio Il contributo più vistoso di architetti e pittori al teatro rinascimentale consistette nell’ideare e realizzare grandi scenari prospettici con vedute cittadine Nella seconda metà del 500 la veduta prospettica fissa fu sostituita da uno scenario mutevole, ovvero da scene che cambiavano a vista davanti allo spettatore, passando, ad esempio, dalla veduta di una città ad un paesaggio campestre, con un gusto sempre più pronunciato per la sorpresa, tanto che questo tipo di spettacolo, il cui scopo principale era stupire il pubblico con straordinarie “mutazioni a vista”, finì di fatto per prevalere sul contenuto drammaturgico del testo rappresentato. La mutazione a vista delle scene si realizzava mediante quinte che giravano su un perno, mostrando, ad ogni rotazione, una faccia diversa. Il principale elemento dello spettacolo teatrale nell’età della Maniera e poi in quella barocca fu proprio la scenografia, con le sue spettacolari mutazioni a vista. A ridimensionare il ruolo del testo della commedia e della tragedia contribuì anche la crescente importanza assunta dai cosiddetti “intermezzi”, veri e propri spettacoli nello spettacolo, realizzati durante gli intervalli tra un atto e l’altro. Si trattava di complesse e spettacolari coreografie, che dilagavano nella platea. Gli intermezzi avevano quasi sempre una funzione allegorica a sfondo encomiastico, con allusioni alle virtù e ai meriti del principe nella cui reggia si svolgeva lo spettacolo Nella seconda metà del 500, soprattutto a Firenze, alla corte dei Medici, si sviluppò una pratica scenografica caratterizzata da uno straordinario virtuosismo, con mutazioni a vista che offrivano allo spettatore mirabolanti illusioni sceniche, all’insegna della sorpresa ottica, dell’ingegnosità scenotecnica e della spettacolarità coreografica -> la scenotecnica cinquecentesca finge ogni sorta di fenomeno naturale. Rompendo la staticità della scena fissa, la mutazione a vista delle scene simula lo scorrere del tempo, il varare dei luoghi e delle stagioni, l’alba e il crepuscolo, il tuono e la neve, il canto degli uccelli e il fruscio delle fronde. PIERO DELLA FRANCESCA Fu uno dei maggiori protagonisti della prospettiva quattrocentesca. Nato intorno al 1415-20 a Borgo Sansepolcro, si formò a Firenze negli anni Trenta, collaborando con Domenico Veneziano. Il suo maggiore e più impegnativo capolavoro sopravvissuto è il grande ciclo ad affresco con la Leggenda della vera Croce, eseguito nel coro della chiesa di San Francesco ad Arezzo intorno alla metà del secolo. Piero non si limitò ad esercitare la pittura, ma fu anche matematico e teorico della prospettiva Conterraneo di Piero fu Luca Pacioli, che assorbì molti dei principi matematici e geometrici formulati dal pittore e li riversò in trattati come la Summa de Arithmetica e il De divina proportione. Questo secondo testo tratta della cosiddetta “sezione aurea”, un rapporto matematico-geometrico che si basa sulla divisione di un segmento in due parti tali da far sì che la parte maggiore corrisponda alla media proporzionale tra l’intero segmento e la parte minore -> Piero la utilizza spesso nelle sue composizioni, perché la matematica e la geometria rivestono una valenza estetica decisiva nella sua pittura. Piero analizza l’anatomia del corpo umano, individuandone i rapporti proporzionali ideali e mostrandone la proiezione prospettica da varie angolazioni. Uno dei dipinti più celebri di Piero, in cui la composizione è basata sulla sezione aurea, è la Flagellazione di Cristo, una tavoletta che ha rappresentato e rappresenta ancora uno dei più affascinanti e controversi enigmi di carattere iconografico. La parte sinistra della composizione racchiude l’episodio della Flagellazione -> Cristo è nel Palazzo del Pretorio, legato ad una colonna, attorno a lui i suoi aguzzini e, sul trono, Pilato. Ma è la parte destra del dipinto la più enigmatica, con 3 personaggi in primo piano di controversa identificazione Dal punto di vista compositivo il quadro è costruito secondo il modulo della sezione aurea: la parte sinistra, che termina con la colonna di destra della loggia del Pretorio, sta infatti in rapporto proporzionale di sezione aurea con la parte destra. La luce contribuisce a rivelare l’architettura della scena, mettendo in evidenza certi particolari e lasciandone in ombra altri, mentre il pavimento tassellato accentua l’effetto di profondità e permetta di individuare le direttrici prospettiche, caratteristica di Piero della Francesca è la semplificazione geometrica delle forme e della gamma cromatica. Il colore, in Piero, è sempre intriso di luce e la sua nitida distribuzione ha lo scopo di precisare meglio i diversi piani di profondità, distanziandoli otticamente l’uno dall’altro. Un’altra particolarità da rilevare in quest’opera è la presenza della firma (OPUS PETRI DE BURGO SANCTI SEPULCRI) che si trova nella base del trono di Pilato: è abbastanza singolare, infatti, che Piero della Francesca abbia sentito il bisogno di firmare e datare, e per di più in lettere capitali maiuscole ad imitazione delle epigrafi latine, questa tavoletta che è tutto sommato molto piccola e potrebbe sembrare, a prima vista, lo scomparto di una predella. Uno degli enigmi più intriganti di questo quadro è, infatti, proprio quello concernente la sua destinazione e funzione originaria. L’ipotesi che la Flagellazione facesse parte di un’opera più grande sembra decisamente da scartare perché, da recenti indagini tecniche, è emerso che tutti e quattro i lati della tavoletta erano stati predisposti per il suo inserimento in una cornice: quindi il dipinto doveva avere una propria autonomia. D’altro canto le piccole dimensioni della Flagellazione di Piero escludono che potesse trattarsi di un’opera da collocarsi sull’altare di una chiesa. L’idea che dietro il quadro si nasconda un messaggio di tipo politico è divenuta ricorrente nelle più recenti interpretazioni -> altre ipotesi invece interpretano la scena in primo piano come il Rilascio di Barabba. Secondo tale interpretazione, il personaggio a sinistra rappresenterebbe un dignitario romano che esegue gli ordini del governatore Pilato, il giovane al centro sarebbe per l’appunto Barabba (il che spiegherebbe, con la sua condizione di prigioniero, l’enigma di quei piedi nudi altrimenti inspiegabili) e l’uomo corpulento di destra incarnerebbe, da solo, l’intera collettività ebraica, cui Barabba viene consegnato dal governatore, in omaggio ad una consuetudine che si ripeteva ad ogni Pasqua ebraica Hope e Taylor mettono in rapporto la tavoletta di Piero con analoghe esercitazioni prospettiche che prendono a pretesto un tema sacro, come ad esempio quelle ben note di Jacopo Bellini, tra le quali figurano anche alcune Flagellazioni DISTINGUERE, ACCORPARE, IDENTIFICARE: L’ATTRIBUZIONISMO, OVVERO LA PRATICA DEL CONOSCITORE Per quel che riguarda i nostri “documenti” più peculiari, che sono innanzi tutto le opere d’arte, la storia dell’arte ha in serbo una metodologia che le è propria: l’ATTRIBUZIONISMO L’attribuzionismo ha radici nella natura visiva dell’oggetto delle nostre ricerche: si tratta infatti di un metodo di lavoro che mira ad identificare l’autore di un’opera d’arte ed a stabilirne, in via approssimativa, la cronologia, basandosi principalmente sui dati visivi ricavati dal suo stile. Fondendosi in massima parte sulla facoltà della vista, l’attribuzionismo può essere senz’altro insegnato ed appreso, ma non c’è dubbio che, per padroneggiarlo e ricavarne utili risultati, occorre essere dotati, innanzi tutto, di una buona memoria visiva -> la memoria visiva deve essere alimentata ed esercitata giorno dopo giorno con lo studio diretto ed indiretto delle opere d’arte In assenza di cronologie accreditate da prove dirette, poiché lo stile degli artisti è spesso influenzato da quello dei colleghi, la cronologia di un’opera si può a volte dedurre indirettamente dalla presenza o meno di tali influssi, i quali ci possono indicare essi stessi una datazione più o meno precisa. Ad esempio, se un’opera dipende visibilmente da un’altra, e quest’ultima ha una data precisa, tale data funge da post quem anche per l’opera di derivazione. Quando ci si trova di fronte ad un’opera di cui non conosciamo l’autore, i dati visivi che ricaviamo dal suo stile ci indirizzano verso un’area che sarà tanto più precisa e definita quanto più lo sono le nostre già consolidate conoscenze sull’autore di quella determinata opera Occorre tenere ben presente che spesso gli artisti ricorrono a registi stilistici differenti in funzione del tema da trattare e soprattutto del pubblico cui si rivolgono. ES. che si sta per trattare -> il pittore adotta scientemente, in una medesima volta affrescata, due registri stilistici profondamente diversi, applicandone uno (che potremmo definire “ufficiale”) alle figurazioni principali della volta, e l’altro (che ha invece un carattere pressochè privato, di tipo sperimentale) ad una zona secondaria che, presentando figure troppo piccole per essere messe a fuoco con precisione da un pubblico che resta necessariamente distante da esse, si presta ad essere dipinta in piena libertà, senza condizionamenti di sorta LA CAPPELLA DI SAN BRIZIO NEL DUOMO DI ORVIETO Giovanni da Fiesole (BEATO ANGELICO, la denominazione “Angelico” risale alla seconda metà del Quattrocento, mentre la denominazione di “Beato” è frutto della stagione romantica e preraffaellita che, in odio alla cruda realtà di un mondo moderno che con la sua rivoluzione industriale metteva in crisi il tradizionale ruolo sociale dell’artista, vagheggiava un ritorno al Medioevo, epoca di cui si era costruita Tutti e 3 questi disegni, eseguiti con una tecnica straordinariamente parsimoniosa e al tempo stesso raffinatissima, con punta d’argento e biacca su carta leggermente colorata, hanno la strepitosa qualità naturalistica e la vibrante freschezza esecutiva dei più bei ritrattini orvietani, tanto che sembra di palmare evidenza che ci troviamo di fronte al medesimo pittore. I 3 fogli sono disegnati sia sul recto che sul verso. Dietro il “chierico” sono disegnate a penna e bistro, ma su carta lasciata bianca, 3 figure che ritroviamo negli affreschi di Angelico e Benozzo nella Cappella Niccolina in Vaticano. Dietro il “ragazzo in semiprofilo” sono disegnate, sempre su carta lasciata bianca, quattro figure di santi seduti e panneggiati, anch’essi facenti parte del repertorio dell’Angelico, mentre dietro il “bambino paffuto” degli Uffizi troviamo una madonna con il bambino Nessuno di questi 3 disegni sul verso possiede la purezza e l’elevatissima qualità formale in grado di candidarlo ad una paternità dell’Angelico, ma tutti e tre sono stati a suo tempo convincentemente attribuiti a Benozzo, e presentano infatti quel carattere più opaco e “di maniera” che caratterizza il repertorio benozzesco quando il pittore, ancora giovane, collaborava con il maestro IL TEMPO IN TRAPPOLA: LE ARTI DELLO SPAZIO ALLE PRESE CON LA DIMENSIONE TEMPORALE DELLA NARRAZIONE “UT PICTURA POESIS”: LESSING E LA DISTINZIONE TRA ARTI DELLO SPAZIO E ARTI DEL TEMPO Il tema del rapporto tra la narrazione di una sequenza di azioni che si svolgono in un arco temporale più o meno lungo e la loro rappresentazione figurativa nello spazio unitario di un dipinto o di una scultura è una questione fondamentale per la storia dell’arte -> si tratta del rapporto tra parole e immagini o, più specificamente, del rapporto tra arti visive e arti della parola e della scrittura. Fin dai tempi del poeta greco Simonide di Ceo, cui era attribuita la massima “la pittura è poesia muta e la poesia pittura parlante”, e del poeta latino Orazio, che aveva dichiarato “ut pictura poesis”, ovvero la poesia è come la pittura, l’accento della teoria artistica cadde sulle analogie piuttosto che sulle differenze tra il potere evocativo della parola e quello rappresentativo dell’immagine -> equiparare la pittura alla poesia equivaleva ad affermare che la pittura e la scultura erano degne di entrare nel privilegiato consesso delle “arti liberali” Il problema delle differenze tra arti figurative e arti della scrittura cominciò ad affacciarsi timidamente nelle riflessioni teoriche sei e settecentesche, ma colui che per primo impostò il problema della distinzione tra narrazione visiva e narrazione verbale fu il filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing in un suo libretto, il “Laocoonte, ovvero sui limiti della pittura e della poesia” -> Lessing, in buona sostanza, demolì la vecchia massima dell’”ut pictura poesis”, affermando che le arti della parola, ovvero la letteratura, sono “arti del tempo”, poiché la narrazione , sviluppandosi diacronicamente, possiede una propria durata temporale, mentre le arti figurative sono “arti dello spazio”, perché si offrono allo sguardo simultaneamente, avendo, diremmo noi oggi, come proprio “specifico” l’unità sincronica dello spazio visivo I due maggiori protagonisti, rispettivamente, della pittura e della scultura neoclassiche – Jaques-Louis David e Antonio Canova – mostrano di aver riflettuto e recepito le indicazioni del filosofo tedesco volte a “intrappolare la durata” nello spazio figurativo, ovvero ad evocarla in maniera implicita all’interno della simultaneità spaziale dell’immagine dipinta o scolpita -> rappresentare in un dipinto o in una scultura un “momento pregnante” significa scegliere di raffigurare quell’istante della narrazione che è capace di evocare ciò che lo precede a ciò che seguirà: l’antefatto di un’azione e le sue conseguenze IL MEDIOEVO E LA “NARRAZIONE CONTINUA” Il sistema di “tradurre” una sequenza narrativa in tante unità spaziali, distinte ma ravvicinate è diffuso fin dall’antichità: basti pensare alle raffigurazioni che si sviluppano sulla superficie curva di certi vasi greci, o alle tante pitture parietali in cui si dispiega un intero ciclo narrativo, frazionato in riquadri contigui. Quando invece si deve rappresentare una narrazione nello spazio unificato di un “solo” riquadro si può ricorrere all’espediente, in uso già nell’antichità e diffusissimo nel Medioevo, della cosiddetta “NARRAZIONE CONTINUA”. Es. di narrazione continua -> ORAZIONE NELL’ORTO DEGLI ULIVI di DUCCIO DI BUONINSEGNA -> la storia è nota: Gesù dopo l’“ultima cena” va con i discepoli a pregare nell’orto del Getsemani, sul Monte degli Ulivi. Raccomanda ai discepoli di sedersi e mettersi a pregare, poi si apparta con tre di essi, Pietro e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, mostrandosi solo con loro particolarmente afflitto, quindi si sposta “ad un tiro di pietra” per pregare da solo. Duccio rappresenta al centro della scena Gesù che parla con Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre sulla destra ritroviamo la figura di Gesù, facilmente riconoscibile grazie all’aspetto e agli abiti che indossa, intento a pregare inginocchiato e chiedere angosciato al Padre se sia possibile evitare l’amaro calice che lo aspetta. In alto, a destra, è parzialmente rappresentato anche un messo celeste che scende a consolarlo, un personaggio non menzionato dai Vangeli, ma che è entrato stabilmente nella tradizione iconografica del tema. Sulla sinistra vediamo invece il gruppo degli altri discepoli, che sono caduti in un sonno profondo. I Vangeli raccontano infatti che Gesù, tornando dalla sua preghiera solitaria, trova i discepoli addormentati e li rimprovera, raccomandando loro di vegliare e pregare. Come si vede, il metodo della “narrazione continua” prevede la raffigurazione ripetuta di uno o più personaggi. Tale ripetizione stimola lo spettatore a riconnettere la sequenza degli eventi grazie ai protagonisti che si presentano più di una volta sulla scena, dove appaiono impegnati in azioni diverse, ma correlate tra loro. La scelta compiuta dal pittore sacrifica dunque parecchi passaggi del racconto, dandoli per impliciti. Il che non solo rende ardua la ricostruzione dell’episodio nella sua interezza, ma lascia anche un margine di ambiguità sull’interpretazione della scena centrale LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE PROSPETTICA Unificando in modo geometricamente controllato lo spazio illusivo del dipinto, la prospettiva brunelleschiana mette in crisi l’empirismo del metodo della “narrazione continua”, imponendone una revisione che tenga conto dell’esattezza matematica con cui la prospettiva gestisce i rapporti spaziali tra le varie figure dislocate nella simulata tridimensionalità dell’immagine dipinta. Il metodo della “narrazione continua” non viene pertanto abbandonato dopo la rivoluzione prospettica, ma questa impone un’esatta traduzione della dimensione temporale del racconto in quella spaziale che è propria dell’immagine: se veidamo un personaggio che compare due o anche più volte in una stessa scena, esso deve essere rappresentato in modo che la sua apparizione risulti ogni volta proporzionalmente rimpicciolita o ingrandita rispetto alle altre. Tale rappresentazione, prospetticamente distanziata o ravvicinata, ha infatti lo scopo di segnalare inequivocabilmente allo spettatore che i diversi episodi compresenti nella scena non sono simultanei, ma sono separati tra loro da una distanza temporale (tradotta in termini spaziali) Quest’uso della distanziazione prospettica assume una chiarezza emblematica nell’ANNUNCIAZIONE di BEATO ANGELICO -> la scena ci mostra l’arcangelo Gabriele che porta il suo annuncio divino alla Vergine. Lontano, sullo sfondo, è rappresentato l’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. In primo piano, l’annuncio e il concepimento divino, ovvero l’Incarnazione di Gesù che si fa uomo per morire sulla croce e riscattare l’umanità dal peccato originale compiuto dai Progenitori; sullo sfondo l’episodio da cui trae origine la venuta di Gesù in terra. Fatto e antefatto distanziati tra loro a significare la distanza temporale che li separa. Ma Angelico, a rendere ancora più evidente questo collegamento di causa-effetto, ha inserito il portico in prospettiva, che con le sue bianche colonne scalate in profondità raccorda il “prima” con il “dopo”. TRIBUTO DELLA MODENTA di MASACCIO -> Masaccio organizza in uno spazio unitario una sequenza narrativa complessa, riducendo all’osso il racconto, ma chiarendo i nessi tra una scena e l’altra non solo attraverso la dislocazione spaziale e un’accorta distanziazione prospettica, ma anche usando i gesti e gli sguardi dei personaggi come indicatori vettoriali che aiutano a connettere i diversi fili del racconto. Gesù e i suoi discepoli giungono a Cafarnao e incontrano il gabelliere, che chiede a Pietro di versare un tributo. Il discepolo è sconcertato, ma Cristo gli ordina di recarsi al mare, gettare un amo e pescare un pesce, nella cui bocca troverà la moneta da consegnare al gabelliere. Masaccio suddivide la scena in tre zone: al centro dispone Gesù con attorno i suoi discepoli, cui si accosta il gabelliere che reclama il tributo con un esplicito gesto della mano sinistra tesa e con il palmo aperto rivolto all’insù. Il muto dialogo tra Gesù e Pietro è espresso dall’incrociarsi dei loro sguardi, ma Cristo, contemporaneamente, indica a Pietro con la mano destra tesa lo specchio d’acqua in cui pescare il pesce miracoloso, gesto che è significativamente ripetuto da Pietro con la propria destra. Seguendo l’indicatore vettoriale delle due mani tese, lo spettatore può ora dirigere il suo sguardo verso sinistra, dove trova, prospetticamente distanziato, Pietro che sta già frugando nella bocca del pesce appena pescato. Seguendo invece il gesto della mano destra del gabelliere, lo sguardo dell’osservatore è condotto verso destra, dove la storia si compie, con Pietro che versa il tributo allo stesso gabelliere, che questa volta vediamo rappresentato quasi frontalmente. Con una mano, dunque, il gabelliere mette in moto il racconto, e con l’altra mano ne avvia la conclusione. Masaccio ha conferito a questa figura un ruolo cruciale di snodo, al tempo stesso narrativo e spaziale. CAPPELLA SISTINA -> il programma iconografico del ciclo sistino è imperniato fondamentalmente sulla stretta concordanza tra la vita di Mosè e quella di Cristo, ad ogni episodio della vita di Mosè corrisponde, sulla parete opposta, un analogo episodio della vita di Gesù, e i tituli in latino che figurano sopra ogni scena sottolineano i significati teologici di tale confronto, che si svolge nel segno della tradizionale concordantia tra Vecchio e Nuovo Testamento, con Mosè indicato come typus Christi, ovvero come prefigurazione di Cristo. Il parallelismo teologico tra i due dipinti è spiegato dai titoli delle due scene, poco prima di morire, sua Mosè che Cristo confermano ai propri seguaci le verità rivelate, ribadendo, rispettivamente, gli articoli della fede ebraica e quelli del Cristianesimo: TESTAMENTO E MORTE DI MOSE’ di SIGNORELLI e DELLA GATTA -> in un paesaggio unitario, ma molto vario e articolato, la composizione presenta un primo piano affollato da figure di grandi dimensioni, mentre sullo sfondo sono disseminate figurette variamente raggruppate. Il filo del racconto si dipana a partire dallo sfondo, sulla montagna che svetta al centro della scena. Su quella rupe un angelo sta mostrando al vecchio Mosè la Terra Promessa. L’aspetto e gli abiti di Mosè ci aiutano a riconoscerne la figura anche nel vecchio che sta scendendo dal monte, dopo la visione della Terra Promessa. Seguendo il suo cammino, arriviamo al primo piano dove, sulla destra della composizione, è rappresentato il popolo di Israele: una folla di persone di ogni età e condizione, che è intenta ad ascoltare Mosè, il quale se ne sta seduto in posizione elevata con un libro aperto in grembo. È la scena di Mosè che legge il proprio testamento al suo popolo. Restando sempre sul primo piano del dipinto, ma spostando il nostro sguardo sul lato opposto troviamo l’ultimo atto compiuto da Mosè prima di morire: la consegna del bastone di comando al giovane Giosuè, scelto per succedergli alla guida del popolo d’Israele nel suo viaggio verso la Terra Promessa. In alto a sinistra, l’ultimo atto della narrazione: il compianto sul corpo di Mosè, che giace a terra senza vita, steso sul lenzuolo che gli servirà da sudario ULTIMA CENA di ROSSELLI -> affresco che sta di fronte a “Testamento e morte di Mosè”. Ai due lati del proscenio Rosselli inserisce gruppi di astanti che sono certamente ritratti di personaggi contemporanei al pittore. Egli ha disposto in modo che la fastosa sala ottagonale in cui ha ambientato l’Ultima Cena si apra, alle spalle dei commensali, con un’ampia loggia tripartita. Ciascuna apertura della loggia inquadra un diverso episodio della vita di Gesù: da sinistra a destra, l’Orazione nell’orto, la Cattura e la Crocifissione. Ma è interessante notare che le tre scene si svolgono in un paesaggio unitario. LO SPERIMENTALISMO CINQUECENTESCO GIUSEPPE IN EGITTO di JACOPO PONTORMO -> con questa tavola ci spostiamo in un’epoca caratterizzata da una forte componente di sperimentalismo linguistico, uno sperimentalismo che mette in crisi anche l’ormai tradizionale organizzazione prospettica dello spazio pittorico, contaminandola con altre modalità di rappresentazioni spaziali, mutuate dal linguaggio nordico, fiammingo e tedesco, come ad esempio la visione dall’alto, “a volo d’uccello”. Il Pontormo attinge a piene mani alla cultura nordeuropea, tanto da non esitare ad inserire nel paesaggio “egizio” di questo dipinto un caseggiato di inconfondibile tipologia flandro-tedesca. Il Pontormo utilizza il metodo della “narrazione continua” non per semplificare e chiarire i nessi tra i diversi episodi, ma al contrario, per moltiplicare le ambiguità e le “trappole” visive tese all’osservatore In primo piano, sulla sinistra, vediamo Giuseppe, che in Egitto ha fatto fortuna ed è diventato governatore, incontrarsi con i propri anziani genitori e riconciliarsi con i fratelli, che in passato avevano complottato contro di lui e lo avevano venduto, facendo credere ai genitori che era morto. Giuseppe è riconoscibile per il berretto rosso che ha in mano, per il manto viola e la veste gialla. Nel passaggio successivo sulla destra riconosciamo Giuseppe nella figura che siede su un carro, ai piedi della scalinata curva. È l’episodio di Giuseppe governatore, che durante la carestia distribuisce cibo al popolo. Accanto a lui, in ginocchio, vediamo un messo che ne interrompe l’azione, portandogli un ferale messaggio: Giacobbe, padre di Giuseppe, è in punto di morte. Il terzo ed ultimo episodio occupa gran arte della zona a destra e in alto della scena, dispiegandosi lungo la scala curva e nella camera da letto circolare, dove Giacobbe giace in
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