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Riassunto del libro ''La storia dell'arte'' di Antonio Pinelli, Prima parte, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Prima parte del riassunto, completo e dettagliato, del libro di Antonio Pinelli ''La storia dell'arte''.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 07/06/2023

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Scarica Riassunto del libro ''La storia dell'arte'' di Antonio Pinelli, Prima parte e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! ANTONIO PINELLI “ LA STORIA DELL’ARTE” Istrzion per ’us Capitolo 1 PER COMINCIARE Cronologia e geografia dell’arte: il problema del contesto La storia dell’arte è un ramo della storia e quindi ha a che fare con la cronologia. È quindi necessario saper inquadrare in tal senso gli avvenimenti artistici, sforzandosi di collocarli nel contesto temporale nel quale sono stati concepiti e per il quale sono stati realizzati. L’arte è strettamente connessa anche al concetto di durata: l’ambizione è realizzare opere destinate a durare del tempo. Ma anche se l’orizzonte dell’arte si estende al di là dei confini cronologici di chi la produce, è dentro quei confini che essa affonda le sue radici. Ed è comunque a quel contesto temporale in originario che occorre risalire per poterla interpretare. Anche le questioni legate allo spazio e alla geografia hanno a che fare con la storia dell’arte. Un grande storico e filologo, Carlo Dionisotti, autore di Geografia e storia della letteratura italiana (1967), espresse in estrema sintesi la differenza tra lo storico dell’arte e quello della letteratura. Diceva Dionisotti: Girolamo Tiraboschi, studioso gesuita di origine bergamasca, che pubblico una colossale e ancora fondamentale Storia della letteratura italiana, potè realizzarla grazie agli studi da lui compiuti nell’immensa e fornitissima Biblioteca Estense di Modena. Un suo contemporaneo e amico, l’abate Luigi Lanzi, scrisse un’opera altrettanto fondamentale per la storia dell’arte: la Storia pittorica dell’Italia.Ma diversamente dal suo amico letterato, che aveva speso la sua vita in un lavoro sedentario, l’abate Lanzi trascorse un’esistenza molto più dinamica e movimentata, compiendo viaggi in Italia e in Europa per recarsi ad osservare direttamente le opere d’arte di cui parlava. 1 La letteratura è fatta di parole e queste non perdono nulla delle proprie qualità essenziali una volta riprodotte. Anche le opere d’arte possono essere riprodotte, ma anche la riproduzione più perfetta non potrà mai sostituire la visione diretta dell’opera d’arte. Fotografie, diapositive o immagine scansionate alterano e nascondono elementi fondamentali di ciò che riproducono: ne modificano le dimensioni, i colori, la luce, ma soprattutto ne tradiscono la consistenza materiale, la corposa tattilità. Ecco perché Tiraboschi poté starmene chiuso in biblioteca, mentre il suo amico Lanzi dovette andare su e giù per l’Europa. L’opera d’arte va vista nell’ambiente in cui si trova, meglio ancora se questo coincide con il luogo cui essere era originariamente destinata e per il quale era stata appositamente concepita. Le opere d’arte mobili generalmente nascono per un determinato ambiente, anche se esistevano opere per compratori generici, il che esimeva l’artista dal preoccuparsi di adattarle all’ambiente e alle condizioni specifiche in cui sarebbero state esposte. La “Crocifissione di san Pietro” e la “Conversione di Saulo” diMichelangelo da Caravaggio sono invece state eseguite, all’alba del 600 proprio per il luogo in cui tuttora le possono ammirare, la Cappella Cerasi nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo. 2 Restituire il contesto cronologico e territoriale di un’opera d’arte del passato può dunque voler dire anche decifrarne codici divenuti per noi estranei ed incomprensibili. Inoltre non va sottovalutato il problema dell’iconografia, cioè non va sottovalutata la necessità di decifrare il soggetto di un’opera d’arte del passato, in un’epoca che tende a disinteressarsi del soggetto convinti che la qualità dell’opera sia data dalla sua forma e non dal suo contenuto. Nelle opere d’arte del passato la forma interpreta e media un contenuto ben preciso, risultandone necessariamente condizionata. Ci sono dipinti il cui soggetto è per noi un vero e proprio enigma e rischiano di rimanerlo indefinitamente: basti pensare a dipinti celeberrimi come la Flagellazione di Piero della Francesca o la Tempesta di Giorgione. Più spesso, invece, il soggetto è palese e a tutti ben noto. Ma delle volte, sotto un’apparenza superficie di ovvietà, si celano piccoli e grandi enigmi che è necessario decifrare. Eccomi un esempio: ● La Natività: con la grotta la mangiatoia, l’asino, il bue, i pastori in adorazione, l’arrivo dei re Magi. Chiunque sa riconoscere questo soggetto. Ma perché per esempio, in certe Natività, la grotta assume l’aspetto di un tempio in rovina, come ad esempio nell’Adorazione dei Magi del pittore bolognese Amico Aspertini, dove la canonica capanna di legno si appoggia agli archi e alle colonne dirute di un antico tempio? Amico Aspertini, Adorazione dei Magi, 1500 ca, Bologna, Pinacoteca Nazionale. : 5 E perché in certi casi, come ad esempio nella Nativitá del senese Francesco di Giorgio Martini, in luogo della capanna o dei ruderi de tempio, alle spalle della Sacra Famiglia compare un arco trionfale in rovina? Francesco di Giorgio Martini, Natività, 1495-1500 ca., Siena, chiesa di San Domenico Nulla è a caso. Nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, un testo medievale che raccoglie un’infinità di leggende relative alla vita di Cristo e dei Santi, si legge che al tempo di Gesú i Romani, vivendo da parecchi anni senza guerre eressero un Tempio alla Pace, e poiché Apollo aveva predetto che quel Tempio sarebbe durato finché una vergine non avesse partorito un figlio, avevano posto sull’edificio l’inviata iscrizione <<Templum Pavis Aeternum>>. Le rovine classiche di tante Natività alludono dunque a questa leggenda, che si conclude con il crollo del Tempio durante la notte di Natale. La misera capanna di legno che sorge sulle rovine di un antico tempio pagano allude dunque a questa leggenda, simboleggiando l’era cristiana che sorge sulle grandiose rovine della civiltà piana, raccogliendone l’eredità, ma rinnovandola nel profondo. Quanto alla variante iconografica con l’arco di Trionfo in rovina, anch’essa svolge lo stesso concetto, ma inglobando in esso un’allusione ad un’altra leggenda relativa alla Natalità di Gesù, che ha come protagonista Ottaviano Augusto. Essa narra, infatti, che quel dominatore di uomini interrò la Sibilla sulla durata della sua fama, ricevendone l’inattesa risposta che presto sarebbe nato un uomo la cui gloria avrebbe cancellato persino il ricordo del suo immenso potere. 6 L’arco trionfale in rovina alle spalle della Natività di Cristo riassume in sé la leggenda del crollo del Tempio della Pace che quella della fragilità del potere dell’Impero romano. Ma non basta: forse non è un caso che l'immagine di questo arco rimandi soprattutto ad uno specifico arco trionfale, quello fatto edificare da Costantino nei pressi del Colosseo, per celebrare la propria vittoria sul rivale Massenzio, ottenuta nel 312 d.C , alle porte di Roma, nei pressi di Ponte Milvio. Com'è noto, Costantino attribuiva questa sua vittoria al favore di Cristo, il cui simbolo della croce aveva fatto inalberare sulle insegne del proprio esercito dopo che un angelo gli era apparso alla vigilia della battaglia, esortandolo a compiere tale gesto. Divenuto dopo quella vittoria unico imperatore dei romani, Costantino favorì apertamente i cristiani emanando l’editto di Milano, che poneva fine alle persecuzioni e concedeva la piena libertà di culto. Inoltre, fondò a Roma, assieme a papa Silvestro, una serie di Basiliche cristiane, tra cui la chiesa cattedrale, che ora conosciamo con il nome di San Giovanni in Laterano, e la Basilica di San Pietro in Vaticano, eretta sopra la presunta sepoltura dell’apostolo Pietro. Venerato quasi come un santo, non è forse un caso se quell’arco dipinto da Francesco di Giorgio alle spalle della Natività sembra ispirato all’Arco di Costantino. L’opera d’arte: eterno presente che viene dal passato e si inoltra nel futuro Se è vero che le opere d’arte sono il prodotto del proprio tempo e ne portano impresse tutte le stimmate, è altrettanto vero che esse godono, in un certo senso, di una vita autonoma, svincolata sia dal loro autore sia dall'epoca in cui nascono. Stanno davanti a noi e ci trasmettono i loro silenziosi messaggi, i loro muti interrogativi. A noi, che abbiamo esperienze culturali e visive diverse rispetto a quelle del pubblico per le quali esse sono state concepite. Per misurare la distanza che ci separa dalle opere d'arte del passato, è di somma importanza indagarne in profondità la fortuna (o la sfortuna) critica, cioè 7 rappresentato in pittura, specie nel corso del Rinascimento e in età neoclassica. perché significativo degli onori tributati ad un artista da un regnante. A questo punto è importante prendere in considerazione un altro aspetto importante: le modalità con cui veniva ricompensato, nell’antica Grecia, il lavoro degli artisti. Le poche fonti relative all’età arcaica e di Pericle giunte a noi ci riferiscono di pagamenti che, oltre a tener conto del prezzo dei materiali usati ( ad esempio il marmo), e quindi riconoscendo agli artisti le spese vive da loro sostenute, ne ricompensavano il lavoro in ragione di una tariffa oraria. Questo ricompensa basata sul tempo impiegato a realizzare materialmente l’opera, escludeva qualsiasi considerazione sulle particolari capacità intellettuali impiegate dall’artista, assimilando il suo lavoro a qualsiasi altra attività manuale e artigianale. A partire dall’epoca di Alessandro Magno emergono i primi segnali di cambiamento: grandi artisti come Apelle, pittore e ritrattista di fiducia di Alessandro Magno, e Lisippo che ricopriva lo stesso ruolo nell’ambito della scultura percepivano compensi assai maggiori della semplice paga oraria. Il diffondersi poi del collezionismo d’arte riversò nelle loro tasche somme inavvicinabili per la gente comune. Cominciò, infatti, ad affermarsi quel principio moderno per cui nell’opera d’arte il rapporto valore-lavoro non è quantificabile nei termini esclusivamente temporali delle ore impiegate per eseguirla materialmente. Aneddoto che ci testimonia questo concetto: Vasari introduce l’aneddoto che racconta che Leonardo da Vinci, dopo aver realizzato una parte del Cenacolo senza interruzioni, giunto in prossimità della conclusione sembrò bloccarsi, passando intere giornate sovrappensiero, tanto da indurre il priore del convento a intervenire con la presa che l’artista lavorasse senza tregua, sollecitandolo al lavoro continuo e a concludere il lavoro. Non ottenendo nulla dall’artista il priore finì con il rivolgersi al duca di Milano, Ludovico il Moro, pregandolo di intervenire sull’artista e al duca Leonardo spiegò cosa lo aveva bloccato nell’esecuzione: confidò a Ludovico il Moro che gli restavano da eseguire solo 2 teste, quella di Cristo, per la quale non voleva ispirarsi ai modelli terreni e di Giuda. Alla fine Leonardo, non riuscendo a fare di meglio, per la testa di Giuda si ispirò a quella del Priore, mentre quella di Cristo fu volutamente lasciata incompiuta. Questo ci dimostra che la creatività artistica, come sostenuto anche dallo stesso Leonardo e da altri artisti, è regolata da un tempo non quantificabile. Quindi possiamo vedere come non si può ridurre il 10 valore di un’opera dell’arte alla mera quantificazione delle ore di lavoro ad essa dedicate. Bisogna, infatti, considerare i tempi lunghi necessari alla concentrazione creativa e ideativa. L’arte non può essere misurata in base al tempo. Arte e Industria: la nascita della Fotografia e il presagio dell’Arte Astratta Il mondo artistico dell’Ottocento è caratterizzato da un evento che sconvolse l’arte: la nascita e la rapida diffusione della fotografia, che consisteva in una riproduzione meccanica della realtà visibile. Con il diffondersi anche dei processi di produzione industriale, basati sull’introduzione di macchine nella fabbricazione di oggetti di uso comune scadeva il rango di attività produttiva e artigianale ormai sempre più marginale, di cui si poteva addirittura immaginare una possibile, futura estinzione. L’arte a sua volta di fronte all’irruzione dell’era industriale e della fotografia si vide scalzata dal suo piedistallo. Soprattutto alcune categorie di artisti, come quelli dediti a specialità come il ritratto, vedutismo topografico o reportage di guerra o viaggio poterono constatare sulla propria pelle, vedendo crescere minacciosamente accanto a loro la concorrenza dei fotografi che realizzavano mediante un mezzo meccanico, in tempi più brevi, a costi minori e con risultati più sorprendenti. Tutto ciò provocò una crisi nell’arte, che reagì all’entrata in scena della fotografia in due modi diversi: ● Preraffaelliti: rifiutano la realtà industriale che stava trasformando il loro paesaggio urbano della Londra in cui vivevano, rifugiandosi nel Medioevo. Questi artisti si rifugiavano ed evadevano idealmente in un mondo dove l’arte non era scalzata, ponendosi come modello. Da qui le ambientazioni medievali e gli espliciti riferimenti all’arte fiamminga e italiana del 400 e del Medioevo e il perfezionismo artigianale dell’esecuzione e maniacale precisione ottica con cui mettevano a fuoco, anche un minimo dettaglio. ● Seguaci di Whistler: guardavano ad una realtà esotica, il Giappone e la Cina, lontana sia nel tempo che nello spazio da quella Europa industrializzata. Questa supposizione è esplicitata nei dipinti di Whistler, come ad esempio “ Accordo in grigio e nero” : 11 Whistler adotta espressioni tratte dal lessico dei musicisti. La sfocata indeterminatezza delle immagini, sfrondano o limitano a suggerire i dettagli invece di definirli nitidamente. Whistler, ci ha lasciato un suggestivo aforisma che altro non è che una dichiarazione d’amore per il buio. Lo scemare della luce e ispessirsi delle ombre dove ogni dettaglio scompare, non si vedono i bottoni, resta il modello e sussiste l’ombra. Whistler sostiene che questo dipinto deve essere considerato non come un ritratto della propria madre, che lo è ma il dipinto non va considerato solo per l’aspetto meramente contenutistico. Ciò che aspetta all’artista è andare oltre, oltre l’apparenza. Questa diventa una delle più grande asserzioni dell’arte moderna: l’avventura astratta, intesa come ciò che non fa parte della realtà e dunque oltre la soglia del visibile. Questo concetto diventerà comune delle avanguardie artistiche dei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo. L’autoconsiderazione dell’artista: firme e trattatistica Già gli artisti greci firmavano le proprie opere : ne troviamo su alcune statue di età arcaica e parecchi vasi. Nel mondo romano ciò succede più di rado, a dimostrazione di una minore considerazione sociale per l’individualità del creatore artistico. L’unico grande architetto che firma e di cui troviamo il nome è Apollodoro di Damasco che progettò il foro di Traiano e i mercati Traianei. Come abbiamo già detto lo scarso prestigio sociale degli artisti iniziò ben presto ad entrare in contraddizione con la realtà di un collezionismo che si compiaceva di accumulare opere d’arte migliori pagandole a prezzi da capogiro con collezionisti disposti a spendere un patrimonio. 12 Alberti così descrive: a destra vi si vedeva re Mida con due lunghe orecchie d'asino che tendeva la mano al Livore, un uomo pallido e ripugnante, il quale, a sua volta, guardava una donna che impersonava la Calunnia. Ai lati del re c'erano altre due figure allegoriche femminili, l'Ignoranza e il Sospetto. La Calunnia era rappresentata come una donna affascinante, acconciata nell'abito e nei capelli dall'Insidia e dalla Frode, ma con il volto stravolto da un'espressione d'ira furibonda. Nella mano sinistra la Calunnia reggeva una torcia, mentre con la destra trascinava per i capelli un giovane inerme, che levava le mani al cielo in una supplice invocazione della propria innocenza. Dietro veniva la Penitenza, una donna dall'aria dolente, vestita con un abito nero e cencioso, che si voltava indietro a guardare la Verità, rappresentata sotto forma di una donna nuda, che guarda verso l'alto e leva una mano ad indicare il cielo. Questa pratica di descrivere minuziosamente un'opera d'arte in un brano letterario si definisce, usando un termine greco proprio dell'antica retorica, ekphrasis. Sandro Botticelli La calunnia di Apelle, Firenze, Galleria degli Uffizi CAPITOLO 3: ALLE ORIGINI DEL FARE ARTE Magia, malinconia, genialità Per valutare un'opera d'arte occorre prestare particolare attenzione alla sua consistenza materiale, valutandone non solo lo stato di conservazione e le 15 trasformazioni da essa subite nel corso del tempo, ma anche le caratteristiche e le proprietà chimico-fisiche dei materiali di cui essa è costituita. Detto questo, però, occorre sottolineare che l'opera d'arte, al di là della sua consistenza materiale, ha un'innegabile radice che affonda nel territorio dell'immaginazione e dell'inconscio. Secondo una leggenda tramandata da Plinio nella sua Naturalis Historia, i Greci attribuivano l'invenzione della pittura ad una donna innamorata, la figlia di Butade, un vasaio di Corinto, che per conservare un ricordo del suo amato in procinto di partire, ne aveva tracciato sul muro il ritratto, ricalcando la silhouette del suo profilo proiettata dalla luce della lucerna sulla parete. Divenuta un soggetto caro ai pittori di età neoclassica, la leggenda della figlia di Butade è, ovviamente, una ricostruzione arbitraria e poetica dell'origine della pittura, ma non per questo priva di significato o del tutto implausibile. David Allan, L’origine della pittura, 1775, Edimburgo, National Gallery of Scotland Le prime pitture conosciute risalgono al Paleolitico Superiore e le troviamo spesso in grotte, dove il fuoco che proietta le ombre sulle parete può aver svolto un ruolo non indifferente alla nascita delle prime rappresentazioni pittoriche. Ma quel che più ci interessa è il collegamento tra la pittura e la capacità di fermare il ricordo, ovvero di fermare il tempo. La capacità di catturare l’apparenza della realtà affascina e spaventa allo stesso tempo. Tutt’oggi, presso alcune popolazioni animiste, troviamo ancora una forte riluttanza a farsi fotografare, per il timore che il ritratto possa catturare qualcosa della persona raffigurata, addirittura la sua anima, la sua stessa vita. 16 L’arte, all’origine, equivaleva di fatto ad una pratica magica. In età paleolitica, l’artista era circondato dal timore e dal rispetto che spettava ad uno stregone, ad uno sciamano, un’’’aura’’ che si perpetua ancor oggi. E’ ben nota la teoria secondo la quale gli animali selvatici dipinti nelle grotte di Lascaux e di Altamira andrebbero interpretati come raffigurazioni di prede da catturare e quindi come atto propiziatorio. Nati sotto Saturno Questo topos dell'artista mago e veggente, che agisce in preda ad un'ispirazione e cade in trance per risvegliare la sua attività oracolare, si perpetua nel topos dell'artista saturnino, malinconico, la cui predisposizione ad operare è di carattere ciclotimico, nel senso che alterna stati di esaltazione a stati di depressione. Questo stereotipo dell'artista «mago malinconico», la cui ispirazione si presenta sotto forma di furor, ci arriva dunque dalla notte dei tempi, ma è presente anche nella Grecia antica ed è tornato in auge durante il Rinascimento, che ha codificato il topos della genialità artistica connessa al carattere ‘’saturnino’’, ovvero al carattere dominato da Saturno, pianeta considerato cogitabondo e ‘’malinconico’’ perché procede molto lentamente nel suo itinerario celeste attorno al sole. Jacob de Gheyn, La Melanconia, 1595-96 ca, incisione. 17 sotto forma di pitture vascolari e rilievi in terracotta, tutte concernenti la rappresentazione di Penelope che, afflitta per il mancato ritorno di Ulisse da Troia, finisce per non riconoscerlo quando egli appare davanti a lei sotto le mentite spoglie di un mendicante. Quest’immagine di Penelope ‘’vedova inconsolabile’’ già nell’arte romana aveva subito uno ‘’sdoppiamento’’ semantico, essendo stata adattata anche a tipo iconografico della Provincia capta. Provincia capta, età augustea, Roma, Palazzo dei Conservatori Fu facile, infatti, far slittare il significato allegorico di quella donna afflitta, piegandolo a simboleggiare la dolorosa sottomissione delle popolazioni che, dopo esser state sconfitte dai Romani, venivano da essi integrate nella compagine imperiale. Nel Quattrocento ritroviamo una tipologia simile di vedova afflitta in un'illustrazione di un poema trecentesco in terza rima del toscano Fazio degli Uberti, il Dittamondo. Ricalcando lo schema della Commedia dantesca, Fazio immagina di compiere un viaggio, non nell'aldilà ma nell'Italia a lui contemporanea, accompagnato da una guida, che non è il poeta Virgilio ma il geografo romano Gaio Giulio Solino. L'illustrazione quattrocentesca ci mostra Fazio e la sua guida che si affacciano alle mura della città di Roma, che è rappresentata in modo approssimativo, ma 20 con qualche velleità di verosimiglianza topografica e con indicati i principali monumenti. Sulle sponde del Tevere siede una donna in abiti vedovili: è la personificazione di Roma che, interrogata da Fazio e Solino, denuncia la propria condizione di vedova inconsolabile per la rovina che si è abbattuta su di lei a seguito del trasferimento ad Avignone della sede papale. Il Dittamondo fu infatti scritto intorno alla metà del Trecento e dunque nel pieno di quel periodo, convenzionalmente definito della ‘’cattività avignonese’’. Fazio degli Uberti, Dittamondo, pianta di roma, miniatura di un codice del 1447, Parigi, Bibliothèque Nationale. Nel Cinquecento si affermò l'immagine allegorica della Malinconia, di cui Dürer ha tracciato il tipo iconografico più affascinante e complesso. Ma lo stesso artista tedesco attinse anche al repertorio iconografico della Provincia capta, per commentare, con un parodistico e amaro monumento celebrativo, la sconfitta subita dai contadini tedeschi nella rivoluzione da loro scatenata sull'onda della ‘’protesta’’ luterana. 21 Albrecht Durer, Monumento celebrativo alla vittoria sui contadini, 1525, xilografia Spesso i tipi iconografici si arricchiscono di nuovi e diversi significati, modificandosi e contaminandosi. Si veda, per esempio, come il tema dellaMalinconia, collegato allo studio, alla concentrazione, ma anche al pentimento, al digiuno, alla meditazione sulla morte e sulla caducità della vita e delle cose terrene, si sia insinuato nel tipo iconografico dellaMaddalena o del San Girolamo in meditazione, colorandosi di sfumature ascetiche e penitenziali. Francesco Furini, Maddalena Penitente, 1635 ca, Vienna, Kunsthistorisches Museum. Domenico Fetti, La malinconia, 1622 ca., Venezia, Gallerie dell’Accademia. 22 L’artista-scienziato Leonardo non era, dunque, troppo dissimile da quell’artista-mago delle grotte di Altamira e di Lascaux, anche se gli strumenti di intervento di Leonardo si erano immensamente affinati rispetto a quelli utilizzati dagli artisti-maghi del Neolitico ed implicavano un grande dispiegamento di razionalità scientifica, componente che ad Altamira e Lascaux, per quanto possiamo presumere, stava muovendo i suoi primi ed incerti passi. Il braccio inerte di Meleagro Nel suo ‘’De pictura’’ Leon Battista Alberti indica la pittura di ‘’istorie’’ come il più elevato genere pittorico e istituisce un implicito paragone tra l'arte di rappresentare visivamente una ‘’istoria’’ e l'arte di comporre un'orazione in prosa, adattando alla ‘’pittura di storia’’ la terminologia in uso presso le scuole di retorica. Commentando questo passaggio del ‘’De pictura’’, Salvatore Settis chiarisce molto bene il senso di tale equivalenza albertiana tra pittura e retorica. Nel proseguo del suo discorso sulla ‘’pittura di storia’’ Alberti esemplifica ciò che intende a proposito dell'articolazione dei membri in un'istoria, attraverso la descrizione di un bassorilievo antico in cui è rappresentato il trasporto del cadavere diMeleagro. Morte e trasporto funerario di Meleagro, 150-160 d.C., Istambul, Museo Archeologico Quel che conta è come la descrizione fornita dall’Alberti corrisponda esattamente alla composizione che abbiamo sotto gli occhi. 25 Tale composizione costituì motivo di ispirazione per molti altisti rinascimentali alle prese con la rappresentazione di temi analoghi, ed in particolare con quella del trasporto del corpo di Cristo deposto dalla Croce. Tra le molte derivazioni va segnatata quella dell’affresco di Luca Signorelli del Duomo di Orvieto, che risale ai primissimi anni del 500. Luca Signorelli, Trasporto del corpo di Cristo, 1500 ca., Orvieto, Duomo, Cappellina dei Corti Santi. Ma la rappresentazione in assoluto più nota e rilevante è senza dubbio quella del dipinto di Raffaello Sanzio e datato 1507 nella pala Baglioni, conservata nella Galleria Borghese di Roma. Raffaello Sanzio, Trasporto del corpo di Cristo, 1507, Roma, Galleria Borghese. 26 La pala Baglioni fu, a sua volta, il principale punto di riferimento per un’altra celebre derivazione, la Deposizione di Cristo, compiuta quasi un secolo dopo dal Caravaggio in una tela per un altare della Chiesa romana di Santa Maria in Vallicella. Michelangelo da Caravaggio, Deposizione di Cristo, 1602-04, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. In questo dipinto il tema è declinato in modo abbastanza diverso da come lo era nel sarcofago antico, ma emerge con particolare evidenza un elemento comune alle due scene: il braccio inerte del cadavere, che segna un apice drammatico della composizione cavaraggesca. Il grande storico dell’arte e della cultura Aby Warburg coniò per questo tipo di immagini, che troviamo più volte ripetute in diverse epoche e contesti, la definizione di pathosformeln, formule espressive. Nel 1793 Jacques-Louis David estrapolerà proprio questo particolare del braccio inerte, così carico di storia e di suggestioni emotive, per adattarlo ad un dipinto in cui non è rappresentato né il cadavere di Meleagro né quello di Cristo, ma quello del rivoluzionario Jean-Paul Marat, ucciso a tradimento da Charlotte Corday. 27 In alcuni Vesperbilder e nella stessa Pietàmichelangiolesca compare un braccio pendulo e inerte molto simile a quello di Meleagro, ma se è assolutamente certo che l'invenzione tedesca nasce in modo del tutto indipendente dal modello antico, non si può dire con certezza la stessa cosa del braccio nella Pietà di Michelangelo. Un fatto, comunque, è indubbio: diversamente da quanto accade in tutti i Versperbilder nordici, dove il corpo di Cristo è smagrito e si mostra in tutta la sua afflizione e rigidità cadaverica, nel Vesperbildmichelangiolesco, ma anche in tutte le altre dirette o indirette citazioni dal sarcofago antico che abbiamo elencato, il corpo di Cristo, benché ferito ed esanime, conserva una sua composta armonia. Tocchiamo così con mano una differenza di fondo tra la tradizione figurativa nordica, in cui il realismo tende sempre a caricarsi di una forte componente espressiva, e quella italiana, che affonda le sue radici nell'antichità classica e tende perciò ad evitare di ricorrere ad un naturalismo troppo schietto ed intenso, privilegiando invece una bellezza idealizzata e a malapena scalfita. Arte nata dall’arte La storia della figura allegorica della Malinconia, così come quella delineata dalla ‘’ripetizione differente’’ della pathosformel del ‘’braccio di Meleagro’’ fanno emergere con forza un tema di fondo della storia dell’arte, quello che potremmo definire dell’’’arte nata dall’arte’’. A partire da Cennino Cennini, come si è detto, gran parte della letteratura artistica del passato si interroga se l'artista debba osservare ed imitare solo la natura che lo circonda o se debba anche guardare alla rappresentazione che ne fornisce uno (o più) maestri. Questa seconda opzione, in particolare, è di norma riferita all'apprendista, che solo dopo aver imitato assiduamente e fedelmente la ‘’maniera’’ del maestro, potrà a sua volta acquistare una propria e inconfondibile ‘’maniera’’. Le opere d’arte infatti dipendono non solo dall’immaginazione dell’artista e dalla sua osservazione della realtà, ma anche dalla sua memoria visiva, in cui ha immagazzinato immagini di opere di altri artisti. 30 Ogni opera d’arte è quindi la risultante del rapporto tra invenzione e memoria, in apparenza contraddittori, ma che in realtà sono le due facce di una stessa medaglia. Questo processo di rielaborazione creativa non riguarda soltano la sfera iconografica, ma può investire anche quella più propriamente stilistica, delle scelte formali ed espressive. Il primo esempio ce lo forniscono due quadri famosi, che sono entrembi conservati al Louvre. 1. Il Déluge di Nicolas Poussin: o più precisamente l’Hiver, di Poussin fa parte di una serie di quattro tele che rappresentano le stagioni mediante altrettanti episodi biblici. La serie fu dipinta dall’artista negli altimi anni della sua vita, tra il 1660 e il 1664, per il duca di Richelieu, nipote del pptente cardinale. Delle quattro tele con le stagioni, l’Hiver fu senza dubbio il più celebrato. Poussin ha agito come uno scrittore o un oratore che punta sull’efficacia espressiva della sintesi, utilizzando la sineddoche: sceglie, infatti di rappresentare la parte in luogo del tutto. Agendo ‘’per via di levare’’, imprime il massimo risalto al dramma lasciando libero cambo all’immaginazione dello spettatore. Nicolas Poussin, L’inverno o il diluvio, 1660-64, Parigi, Musée du Louvre 2. Una scéne de déluge di Anne-Louis Gidoret-Trioson: 31 Gidoret a sua voltaprende spunto proprio dalla sineddoche visiva del dipinto di Poussin ma rilancia, raddoppiando la posta: ne isola un frammento, quello del gruppo che tenta un problematico salvataggio di un bambino avvolto in una veste arancione, lo esaspera sul piano espressivo e lo enfatizza, ingigantendolo fino a fargli occupare l’intera superfice di una tela di dimensioni monumentali. Opera quindi una sineddoche della sineddoche, potenziandone l’effetto con un’iperbole: riempie il compresso scenario apocalittico del diluvio con l’ultrapatetico gruppo di disperati che cercano di aiutarsi a vicenda. Opera una sorta di ‘’zoomata’’ sulla catena umana del quadro di Poussin con il tentativo di salvataggio , ma ne roveglia il segno che da un gesto di speranza si trasforma in funesto presagio di tragedia. Anne-Louis Gidoret-Trioson, Scena di Diluvio, 1806, Parigi, Musée du Louvre. La speranza, che in Poussin è visualizzata dalla presenza dell'arca nello sfondo, ma anche dall'acuto di quei mantelli vivacemente colorati, che squarciano l'uniforme e sordo grigiore della scena segnalando i guizzi di vita non ancora spenti, in Girodet è appesa ad un ramo che appare manifestamente in procinto di spezzarsi. La catena umana, che in Poussin è saldamente ancorata ai due estremi (la barca e la roccia), lasciando presagire il salvataggio del bimbo, diventa una catena acrobatica e precaria, nella scena di Girodet. E il manto color arancio, che avvolge la madre già ghermita dal gelo della morte, non si traduce in un grido di speranza ma di disperazione. 32 1. Il debito di Signac riguarda tanto la composizione generale che le singole figure, tra cui spicca quella dell’uomo in primo piano che, deposta la palaalza il braccio sinistro per coglire un fico dal ramo (guarda pag 33, punto 1). 2. Doux Pays di Puvis: La citazione dal Doux pays di Puvis de Chavannes, che risale al 1882, è puntuale per l’albero di fico, meno per il gesto, ma in altre idilliache rappresentazioni dell’età dell’oro eseguite da Puvis troviamo infinite varianti del gesto di chi allunga un braccio per cogliere un frutto. Pierre Puvis de Chavannes, Doux pays, particolare, 1882, Bayonne, Musée des Beaux-Arts 3. D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? e Nave Nave Mahana (Jours délicieux) di Paul Gauguin: Di rimando in rimando, come non rievocare analoghi gesti in tele celeberrime di Paul Gauguin. D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? del Museum of Fine Arts di Boston, che è del 1897, ma anche al meno noto Nave Nave Mahana (Jours délicieux) del Musée des Beaux-Arts di Lione,che è di un anno prima, in cui Gauguin celebra a sua volta la pacifica e indolente ‘’harmonie’’ di un paradiso terrestre polinesiano. 35 Paul Gauguin, D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?, 1897, Boston, Museum of Fine Arts. Paul Gauguin, Nave Nave Mahana (Giorni deliziosi), 1896-97, Lione, Musée es Beaux-Arts. Nonostante l’impegno, la grande tela-manifesto di Signac non ebbe il successo sperato. Fu così che dopo la morte dell’artista, la vedova offrì la tela alla Municipalità comunista di Montreuil, benchè Signac non avesse mai aderito al Partito comunista. A dispetto della ‘’sfortuna’’ critica, la grande tela di Signac non passò invano. Basti pensare a quanto gli debba Luxe, calme ed volupté, il capolavoro diMatisse. Il sotterraneo ma documentabile rapporto che lega la tela di Matisse al quadro- manifesto di Signac insidua dunque un insospettabile venticello di anarchia nei tanti Eden mediterranei disseminati nella pittura post-impressionista. 36 Capitolo 4 : LE ETICHETTE STORICO-ARTISTICHE La storia dell’Arte fa un largo uso di definizioni concettuali per classificare linguaggi figurativi e tendenze artistiche di lungo periodo: Romanico, Gotico, Barocco, Neoclassicismo, e così via. Si tratta di categorie di comodo e concetti astratti. Sono “ etichette” di carattere generale per mettere ordine nell’affollato panorama della storia, ingabbiando artisti e opere che mostrano di avere qualcosa in comune. Non bisogna mai dimenticare però che ogni artista è un mondo a sé. Spesso, queste categorie storico-critiche nascono da una reazione ostile e inizialmente hanno significato dispregiativo. Il termine Gotico, ad esempio, compare per la prima volta nel linguaggio critico del pieno Rinascimento italiano come termine dispregiativo per indicare l’arte medievale, rifiutando perchè considerata come un’arte da “ goti” e da “ barbari” , in quanto estranea a quelle auree regole dell’arte antica, che il Rinascimento riproponeva come modello supremo di bellezza, armonia e razionalità espressiva. Tra i primi ad utilizzare questo termine troviamo proprio uno dei massimi esponenti del nostro Rinascimento, Raffaello Sanzio, che giunto all’apice della fama si rivolge al Papa per ottenere un incarico: egli chiede di poter realizzare una mappa dell’Antica Roma per poterne studiare e conoscere l’antico in ogni suo aspetto e dettaglio, con lo scopo di emularne la magnificenza. Raffaello si proponeva di fare un accurato studio degli edifici antichi per poterli conoscere a fondo e riproporre nuovi che potessero essere degni di essere a paragone di quegli aurei modelli. Nel contesto di questa appassionata volontà di rinascita si chiarisce meglio il senso e la portata dell’aspra condanna raffaellesca nei confronti della barbara architettura dei Goti. Alla morte di Bramante, Papa X aveva incaricato proprio Raffaello di succedergli nell’incarico di architetto della nuova basilica di San Pietro, la cui prima pietra era posata da Bramante e da Giulio II nel 1506. Nel comunicare in una lettera ai parenti la notizia dell’incarico Raffaello definiva con grande orgoglio di essere stato messo a capo di quella che egli definisce “ la più grande fabbrica che si sia mai vista”. Bramante, infatti, concependo quella nuova fabbrica intendeva sfidare l’antichità realizzando un’opera la cui imponenza era doppia rispetto a quella dei più colossali edifici antichi. 37 Bernini Algardi Quello di Bernini si caratterizza per la ricchezza cromatica e polimaterica ( marmo bianco, marmi colorati, bronzo, legno dorato…) e per la veemenza espressiva delle figure e per l’accentuato movimento centrifugo che conferisce all’opera una forza esplosiva. Al contrario, quello dell’ Algardi è realizzato esclusivamente in marmo bianco e le sue statue non hanno la foga impetuosa del Bernini, tutto l’impianto risulta più placido ed equilibrato. In pittura poi, accanto all’esuberanza barocca troviamo pittori come il Domenichino o Guido Reni si muovono in direzione opposta, incanalando la tumultuosa foga barocca negli argini di un classicismo sobrio, composto e razionale, che ama l'ordine e la misura, si ispira alla statuaria antica, rifugge dalla rappresentazione di pose e moti dell'animo troppo accesi e concitati, predilige all'incendio cromatico di una tavolozza di impronta veneteggiante tinte più fredde e armonie più attentamente bilanciate e composizioni basate su assi ortogonali, anziché sulle scattanti diagonali, predilette dai pittori barocchi. accanto alla categoria critica del Barocco è necessario aggiungere quella del Classicismo seicentesco o Classicismo barocco, il panorama artistico seicentesco ci propone infinite altre categorie e sottocategorie. Basti pensare soltanto al realismo di Caravaggio e dei caravaggeschi, che non ha nulla a che fare né con il Barocco né con il Classicismo seicentesco. In ogni epoca coesiste una pluralità di 40 tendenze e sotto tendenze, ciascuna delle quali possiede una propria legittimità e utilità storico-critica. ➔ Rococò : Anche il termine Rococò nacque come alterazione dispregiativa di rocaille, parola utilizzata per indicare quelle rocce, naturali o anche simulate a colpi sapienti di scalpello, che non mancavano mai nei giardini settecenteschi come decorazione di ninfei, finte grotte e fontane, secondo una tradizione che risaliva al Cinquecento. Il movimento neoclassico, nella seconda metà del Settecento, coniò il termine Rococò per definire spregiativamente, in quanto frivole, artificiose e vanamente capricciose, le tendenze artistiche in auge nel primo Settecento cui esso intendeva reagire ed opporsi. Limitiamoci pertanto a ribadire come ciascuna grande «etichetta» rischia sempre di essere troppo generica se non si procede ad ulteriori suddivisioni. Come per il Barocco, anche per il Rococò si potrebbero proporre numerose altre sottocategorie. Non vanno dunque scambiate per entità concrete, né si può pretendere che esse abbraccino l'intera fenomenologia artistica di un'epoca, così come sarebbe un grave errore ritenere che ciascuna di esse abbia confini cronologici precisi, scanditi in modo netto, con una data di nascita ed una di morte, come se si trattasse di organismi biologici. Il Rococò, tanto per fare un esempio, fiorisce tra il 1690 e il 1730-40 circa, ma ciò non toglie che esso si prolunghi ben oltre quest'ultima data con artisti, che operano quando già sta decollando e conquistando sempre più favore il Neoclassicismo. Il Neoclassicismo, è senz'altro la corrente stilistica egemone tra il 1750 e il 1815. Ma ad esempio, Francisco Goya, pur rientrando perfettamente in questo ambito cronologico, non è neppure alla lontana inquadrabile nella nozione di Neoclassicismo, è facile constatare come opere che in tutto e per tutto corrispondono ai canoni estetici e ai precetti neoclassici non solo continuino a nascere anche nell'Ottocento inoltrato, ma addirittura vengano riproposte in pieno Novecento. 41 Il gotico Cortese : Gotico Cortese, Gotico Internazionale, Gotico Fiorito, Gotico fiammeggiante, Tardogotico: tante etichette per indicare una stessa grande corrente stilistica, che tra la seconda metà del Trecento e il Quattrocento si estende un po' ovunque in Europa, presentando caratteri piuttosto omogenei, anche se ovviamente non mancano le varianti e le declinazioni di carattere regionale e locale. La definizione di «Gotico internazionale» trae origine da questa sua ampia diffusione europea, mentre quella di «Gotico cortese» deriva dalla forte impronta che i modelli culturali delle corti europee conferiscono ai le opere d'arte ascrivibili a questa tendenza, siano esse di destinazione profana o sacra. Il termine «Tardogotico», invece, fa riferimento al fatto che questo stile può essere di fatto considerato come una sorta di propaggine del Gotico, mentre «Gotico fiorito» (ma anche «fiammeggiante»)mette in luce il carattere particolarmente ornato di questo stile, che emerge principalmente nelle fiammeggianti decorazioni che impreziosiscono le cornici dei polittici, e in quella selva di guglie e pinnacoli che coronano gli edifici tardogotici innalzandosi verso il cielo. Vediamo ora le principali caratteristiche del Gotico. «Rimutò l'arte del dipingere di greco in latino, e la ridusse al moderno» La pittura bizantina, discende dai modelli dell’arte classica che però col tempo si stavano riducendo a formule sempre più schematiche e lontane da quella vitalità naturalistica del Classicismo. Per analizzare ciò prendiamo come esempio un tema iconografico diffuso. 42 ➔ Giotto Crocifisso di Santa Maria Novella Con Giotto questo progressivo abbandono degli stilemi astratti in favore di un nuovo naturalismo diviene un fatto compiuto: nel suo celebre Crocifisso fiorentino , si può dire che Giotto abbia rappresentato, appeso sulla croce, un uomo in carne ed ossa. La tensione dei muscoli e del nervi rende evidente il peso del corpo senza vita che grava verso il basso. L’ARCHITETTURA GOTICA: L'architettura gotica fa sfoggio di una tecnica edilizia audacissima, che le permette di portare alle estreme e più ardite conseguenze la tradizione costruttiva romanica, fondata sull'uso dei grandi pilastri e degli archi a tutto sesto. Grazie a queste audaci novità, cui si aggiungono altre membrature architettoniche propriamente gotiche, come i contrafforti e gli archi rampanti, le cattedrali esibiscono una tensione verso l'alto che può essere messa in relazione con l'aspirazione mistica di una società impregnata di valori trascendenti. Ogni città profonde nella costruzione della cattedrale le sue migliori risorse, per generazioni e generazioni. I cantieri edilizi restano attivi per secoli attorno a questi edifici religiosi, che crescono lentamente e a dismisura, accumulando al proprio interno tesori d'arte e di fede. La cattedrale diviene così l'insegna stessa del. la comunità cittadina, la testimonianza visibile della sua prosperità e intraprendenza economica. 45 I primi esempi di architettura gotica apparvero intorno agli inizi del XII secolo in Francia e nella Renania, per poi diffondersi nel resto d'Europa. La cattedrale gotica veniva sempre concepita come una struttura di imponenti dimensioni, che doveva dominare l'ambiente circostante. L'edificio gotico è assai più verticale e, al tempo stesso, meno massiccio. Le sue pareti perdono gran parte della loro poderosa consistenza, venendo in gran parte sostituite da ampie vetrate. La struttura portante, ovvero lo scheletro dell'edificio, è messa inoltre in piena evidenza, così com'è apertamente mostrata la funzione strutturale dei grandi pilastri polistili. Vediamo come esempio: L'interno della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi è spoglio di ogni decorazione e ne viene esaltato il carattere strutturale della costruzione, con le nervature dei pilastri polistili e le costolature che dividono in quattro parti le grandi volte a crociera ogivale. Per certi aspetti, possiamo apparentare l’esibizione di capacità tecnologica delle cattedrali gotiche, esaltata nella sua nudità strutturale e da interni spogli di decorazione. ● Evoluzione gotica del concetto di parete: mentre nell'architettura romanica le pareti svolgevano una fondamentale funzione portante, in quella gotica si alleggeriscono e si svuotano, fino a formare un puro e semplice diaframma, posto a separazione tra l'interno e l'esterno, che innerva il fragile e luminoso schermo policromo dei finestroni vetrati. ● Le vetrate gotiche: costituiscono una variopinta meraviglia per il fedele che si aggira in una chiesa gotica, ma al tempo stesso gli offrono un amplissimo dispiegamento di figure e scene sacre, che mirano a trasmettergli le verità della fede e le storie dei martiri e dei santi. Non bisogna ovviamente dimenticare che, a quell'epoca, la maggioranza dei fedeli era analfabeta o semianalfabeta. queste istanze iconoclaste, sostenendo la necessità delle immagini nelle chiese per svolgere la funzione di «bibbia degli idioti» (termine, quest'ultimo, che significava, per l'appunto, analfabeti). Colui che non sa né leggere né scrivere può 46 conoscere e memorizzare meglio le verità e i protagonisti delle Sante Scritture e della vita della Chiesa, grazie alla loro rappresentazione figurativa. Cattedrale di Sainte Chapelle, Parigi: Attesta la capacità gotica di concentrare tutte le linee di forza nei pilastri polistili e nelle costolonature che innervano le vele ogivali, svuotando le pareti e riducendole a pura cornice di quella che appare, di fatto, come un'unica, grande vetrata scandita da esili intervalli. All'esterno della cattedrale gotica: i contrafforti e gli archi rampanti contrastano le spinte laterali degli archi ogivali che scandiscono le navate interne, mentre la tensione dinamica di tutto l'edificio si scarica in alto con guglie e pinnacoli che salgono verso il cielo come fiamme pietrificate. Il gotico fronteggiante : Un edificio italiano tipicamente gotico fronteggiante è il Duomo di Milano, che fu cominciato nel Trecento inoltrato e concluso nell'Ottocento, ma che da un punto di vista progettuale è sostanzialmente un'architettura che ha le sue radici nel gusto del Gotico internazionale. In Inghilterra, Francia, Portogallo, Germania esistono numerosi esempi non meno arditi e spettacolari. A Venezia, il Gotico internazionale ha assunto caratteri peculiari, poiché il ruolo della città, che fungeva da snodo tra Occidente e Oriente, ha favorito la contaminazione tra civiltà gotica e civiltà bizantina (e, più in generale, orientale). Nella Ca' d'Oro così chiamata perché un tempo rifulgeva di dorature oggi non più visibili, il Gotico fiorito si arricchisce di suggestioni orientaleggianti, trattando la pietra d'Istria come un ricamo o un merletto. Anche il Palazzo Ducale a Venezia ha un impianto fondamentalmente tardogotico, che nella sua facciata rivolta verso la piazzetta San Marco risale al pieno Quattrocento. In genere, è la parte inferiore di una costruzione ad essere, o quanto meno ad apparire, più soda e massiccia, in quanto funge da base e 47 Il Ciclo dei Mesi di Maestro Venceslao è uno dei massimi capolavori del Gotico cortese alpino, con la sua ordinata successione di mutevoli paesaggi che convivono, e talvolta si mescolano, i riti sociali svagati e piacevoli di dame e gentiluomini, che intrecciano amori, giocano a palle di neve o insegno con il falcone la preda, e quelli, modesti ma operosi, di contadini e pesto-ri, che seminano, mietono, mungono, vendemmiano, tagliano e trasportano legna, pigiano e torchiano l'uva o fanno il formaggio. Il ciclo deriva da un modulo iconografico che ha una lunga tradizione e prevede che ciascun mese sia contraddistinto dal segno zodiacale, dalle condizioni climatiche e dalle attività che gli sono peculiari. Nel ciclo, che si sviluppa sulle quattro pareti della sala, esili colonne tortili dipinte separano ciascun mese dall'altro, ma dietro di esse il paesaggio è concepito in modo programmaticamente unitario. Cambiano i personaggi e le attività che popolano ogni singola scena, così come cambiano, più o meno vistosamente, le condizioni meteorologiche e quelle relative alla vita vegetativa dei terreni, ma non muta la configurazione orografica del paesaggio, un vasto panorama, disseminato di monti, boschi, castelli, campi, orti, fattorie, ora biondeggiante di messi e di prati fioriti, ora di lande innevate e di arbusti scheletriti, con trapassi ora più bruschi ora più lievi che segnano il lento trascorrere delle stagioni. Ad esempio, il mese di Gennaio nel ciclo dei mesi : Sotto un cielo in cui brilla un sole in pastiglia dorata con la scritta «Sol in Aquario», è rappresentato un grande castello circondato da un paesaggio copiosamente innevato. Davanti ad esso, al di là del fossato che lo circonda, dame e signori elegantemente abbigliati giocano senza alcuna remora a tirarsi palle di neve, mentre in lontananza vediamo due cacciatori che avanzano a fatica, affondando nella neve fino ai polpacci, e tengono al guinzaglio coppie di cani, che annusano e ispezionano il terreno in cerca di selvaggina. Come accade spesso nella cultura figurativa del Gotico cortese, nel Ciclo dei Mesi il gusto per l'eleganza sofisticata e per un 50 mondo da favola s'intreccia con quello per una descrizione attenta, fino al più minuto dettaglio, della vita quotidiana, tanto da costituire una preziosa documentazione anche per gli storici della cultura materiale, grazie alla cura analitica con cui sono rappresentati abiti, strumenti di lavoro, attività contadine. Nel mese di Giugno, ad esempio, è rappresentato ogni aspetto del ciclo produttivo del latte, dalle donne intente alla mungitura e al trasporto dei secchi colmi di liquido, ai lavoranti che, in prossimità delle malghe, producono il burro sbattendo la crema di latte nella zangola o preparano le forme di formaggio. Nel mese di Ottobre è invece rappresentata la vendemmia e il processo di pigiatura dei grappoli e di vinificazione, con la descrizione particolareggiata di un grande torchio «a vite». Anche in questo caso, come in tutte le scene del ciclo, signori e contadini, diversi per abiti e attività, convivono serenamente. Da questa programmatica sottolineatura della pacifica convivenza di signori e sudditi traspare un evidente intento ideologico, che appartiene più al regno delle aspirazioni che a quello della realtà vissuta: tutta quell'armonia e quella pace sociale che sono sbandierate in questo ciclo. Era un'epoca in cui nell'Europa centrale si moltiplicavano le rivolte contadine Non è raro, del resto, che tra arte e realtà politica si manifestino palesi sfasature: le immagini ci parlano di un mondo pacifico e concorde, ma invece di riflettere la realtà danno forma alle aspirazioni, più o meno velleitarie, del committente. Nel ciclo dei mesi ( detto anche ciclo di Trento) troviamo tanti altri gustosi episodi narrativi, caratterizzati da dettagli insoliti e descritti con acuto senso dell'osservazione. 51 Come nel caso, già menzionato, del gioco delle palle di neve, o come nella rappresentazione delmese di Dicembre, dove il pittore ha inserito un insolito particolare naturalistico, soffermandosi a descrivere le aguzze stalattiti di ghiaccio, che pendono come festoni dalle grondaie delle torri di un castello. Questo gusto per il dettaglio realistico e per la saporita descrizione di attività quotidiane non lo si ritrova, però, esclusivamente negli ambienti artistici alpini, ma anche altrove. Si veda, ad esempio il caso : I fratelli Jacopo e Lorenzo Salimbeni “ storie di San Giovanni Evangelista” Due pittori marchigiani che furono attivi nella prima metà del Quattrocento, e pur provenendo da un ambiente totalmente differente rispetto a quello del pittore boemo Venceslao, condivisero la sua stessa passione per la cura dei particolari narrativi di una scena. I Salimbeni hanno lasciato il loro capolavoro ad Urbino, sulle pareti dell'Oratorio di San Giovanni Battista. Il dettaglio figurativo qui riportato, però, fa parte di un ciclo affrescato in una chiesa di San Severino Marche, paese natale dei Salimbeni. Si tratta di un particolare di una scena sacra molto animata, in cui sono rappresentati i santi Giovanni e Crotone impegnati a distribuire l'elemosina. La narrazione è arricchita da una serie di aneddoti presi di peso dalla quotidianità e che distolgono l'attenzione di chi guarda dal soggetto principale, come i bambini che si azzuffano o come la donna che annaffia i vasi da fiori sul balcone di casa. Si tratta di un particolare che compare anche in molti altri dipinti di quest'epoca, tanto che può definirsi un topos della pittura tardogotica. 52
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