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Riassunto del libro "Manuale del film", Sintesi del corso di Teoria Del Cinema

Riassunto della terza edizione del testo: "Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi" di G. Rondolino e D. Tomasi.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 17/05/2020

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Scarica Riassunto del libro "Manuale del film" e più Sintesi del corso in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! Manuale del film 1 Sceneggiatura e racconto 1.1 Che cosa è una sceneggiatura. La sceneggiatura nasce come descrizione coerente e sistematica di una serie di eventi, personaggi e dialoghi connessi fra loro: è l’idea alla base del film. Essa passa attraverso diversi stadi. Il primo è quello del soggetto: un piccolo racconto, uno spunto narrativo; solitamente contenuto in poche righe, ma che può comunque avere un’esistenza legale. Nel caso degli adattamenti possono avere una mole ben maggiore: dunque il soggetto originale si allunga, quello letterario si abbrevia. La fase successiva è quella del trattamento, in cui gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi: la forma è ancora quella letteraria, ma ha acquistato una caratterizzazione narrativamente più definita, più funzionale alla descrizione delle varie scene. Decina di pagine, intrigo già articolato, dialoghi abbozzati indirettamente. Segue poi la scaletta che segna la fase del passaggio dal momento letterario della storia a quello della costruzione del film: si scandisce e suddivide il trattamento in scene che vengono numerate. Scaletta e trattamento interagiscono per dare vita alla sceneggiatura, in cui sono messe in ordine tutte le scene del film, descritti con cura ambienti, personaggi ed eventi. Un’ulteriore fase sta nel découpage tecnico: scene divise in singole immagini, a loro volta numerate, di cui si individua il contenuto, il punto di vista della cinepresa, la presenza di eventuali movimenti di macchine; determinante la collaborazione del regista. Le indicazioni fornite possono essere pressoché infinite. Lo stadio finale della sceneggiatura è il modello di un film già fatto, e non più da farsi: ovvero è desunta dalla copia definitiva. Jean-Claude Carrière dice che la sceneggiatura è un oggetto effimero: è concepito per eclissarsi, giacché lo sceneggiatore non cerca solo parole, frasi o azioni, ma anche immagini, inquadrature, suoni. Pasolini diceva che allude al significato attraverso due strade diverse. Naturalmente la sceneggiatura ha anche una funzionalità pratica, poiché fornisce indicazioni più o meno concrete su vari aspetti del film quali gli attori, i luoghi, i costi, gli effetti speciali, i tempi etc. 1.2 Che cosa è un racconto. Nel film cerchiamo sempre un racconto, termine che in sé raccoglie due significati diversi: storia, vale a dire il contenuto o concatenarsi di eventi, e dialogo, ossia l’espressione, i mezzi per il cui tramite viene comunicato il contenuto. Cosa e come viene raccontato. La storia è data dalla causalità, dal tempo e dallo spazio. A monte vi è anche il concetto di narratività: laddove il racconto cinematografico e quello letterario sono molto diversi, la narratività è il valore virtuale che sta alla base di entrambi, come il rapporto tra grammatica e lingua. André Gardies propone il rapporto: equilibrio – (serie di eventi) – squilibrio – (serie di eventi) – riequilibrio. Greiamas, così come Propp, ha cercato di stabilire un modello fornito di varie funzioni che si ripeta sempre uguale alla base di un racconto: un destinatore assegna ad un soggetto di conquistare un oggetto di cui un destinatario potrà beneficiare; ci saranno adiuvanti e opponenti. Le funzioni sono dette attanti, ogni volta ricopribili da figure diverse a seconda delle diverse funzionalità. Barthes dal canto suo insiste sul concetto di solidarietà interna: in un racconto nulla è insignificante, tutto serve a qualcosa, ma non tutte le cose allo stesso modo. Così distingue tra funzioni, che rinviano ad un fare, ed indizi, che rinviano ad uno stato; funzioni si dividono in cardinali e catalisi a seconda della loro preminenza. Altro elemento fondamentale di un racconto è la causalità, un rapporto causa-effetto che leghi le varie situazioni. Ultima distinzione utile è quella tra diegesi ed extradiegesi: è diegetico tutto ciò che fa parte del mondo del racconto – basti pensare alla musica sentita nel film, diversamente percepibile. 1.3 Il racconto cinematografico. 1.3.1 Narrazione e rappresentazione. Dove si colloca il cinema nella bipolarità di narrazione e mostrazione o rappresentazione? Sembrerebbe nella seconda categoria, ma a differenza del teatro qui abbiamo un elemento che fa da mediatore; è quindi giusto parlare di una mostrazione particolare, per la mediazione della macchina da presa, ma manipola sia immagini che suoni. 1 Esempi: Voyage à travers l'impossible, la macchina da presa abbandona il vettore principale della storia allontanandosi dal treno per seguire il sole. Hitchcock, Young and innocent: sappiamo che l’assassino ha un tic all’occhio, ed il protagonista deve riuscire a trovarlo; la macchina da presa fa un primissimo piano sugli occhi di un musicista e d’improvviso notiamo il tic, così sappiamo che lui è l’assassino. Tratto essenziale del racconto, e pertanto anche di quello cinematografico, è quello della selezione e della combinazione: se parleremo della vita di un uomo, sceglieremo solo i tratti più significativi. Il compito del “narratore filmico”, il narratore extra-diegetico, si può riassumere in mostrare, far sentire, narrare. 1.3.2 Lo spazio del racconto. Nel racconto cinematografico, lo spazio è importante tanto quanto il tempo e la causalità. Distinguiamo tra spazio della storia e spazio del racconto: il primo è lo spazio diegetico rappresentato, il secondo è lo spazio che viene a formarsi sullo schermo. Da un lato avremo una stanza, dall’altra come o quali parti della stanza verranno mostrate. Rapporti spaziali: il primo è l’unico dove ci sia identità, articola due segmenti dello spazio diegetico in sovrapposizione parziale fra un’immagine e l’altra: per esempio vedo una parete con dei quadri, nella seconda vedo una parte di parete ed un solo quadro. Le altre tre sono caratterizzate da alterità. La seconda è caratterizzata da contiguità, quando i due spazi sono adiacenti, congiunti tra loro e legati da un rapporto di comunicazione visiva immediata: esempio la conversazione tra due personaggi, vediamo prima uno poi l’altro. Le altre due sono disgiunzione di prossimità ogni qualvolta fra due spazi non adiacenti è possibile una comunicazione visiva o sonora non amplificata, per esempio due celle separate da un muro in cui i due detenuti possono comunque comunicare; disgiunzione di distanza viene a costituirsi fra due spazi privi di una possibilità di comunicazione visiva o sonora diretta, lontani in tutto e per tutto. Dunque lo spazio della storia è definibile anche come spazio diegetico, lo spazio del racconto è desumibile a partire dal primo. Le varie immagini, le azioni, gli eventi, lasciano intendere allo spettatore il significato complessivo da fornire all’opera: la rappresentazione dà vita ad uno o più significati che lo spettatore deve organizzare; il referente primo è quasi sempre uno spazio immaginario. Ma anche e soprattutto, lo spazio può avere un valore funzionale. Anzitutto può assumere una funzione attanziale: es. la città può essere l’oggetto di un esercito che cerca di invaderla, l’adiuvante di un fuorilegge, etc. Può avere una funziona narrativa: es. in Psycho la stanza di Norman piena di uccelli impagliati dice qualcosa sulla sua personalità. Incipit di The Searchers di John Ford (Sentieri selvaggi): da una parte abbiamo Martha, messa in cornice dal vano della porta di casa, dall’altro Ethan incorniciato dalle due montagne mentre girovaga nel deserto. Conflitto tra casa e deserto, civiltà e barbarie, famiglia e vagabondaggio. Ethan entra per poi uscire – il passaggio fuori dentro fuori prefigura già quello che sarà la vicenda della storia. Martha apre la porta ad Aaron permettendole di entrare, mentre l’uomo, temendola, la chiude: dentro e fuori diventano gli spazi di un dramma che definisce una condizione esistenziale. 1.3.3 Il tempo del racconto. Il tempo del cinema è sempre il presente. Ovviamente va sempre distinto il tempo della storia da quello del racconto. Genette indica gli ambiti di ordine, durata e frequenza. L’ordine può essere disturbato dalla presenza di flashback o flashforward: l’ordine della storia in tal caso diventa una costruzione mentale dello spettatore. I momenti passati o futuri possono essere rievocati anche da una voce esterna: rientrano così nell’ambito più grande di analessi o prolessi, mentre i primi due sono più specifici. Distinguiamo tra analisi esterna ed interna a seconda che abbia luogo o meno all’interno della durata del racconto; mista se ha inizio prima e finisce dopo. Chiaramente questi salti hanno un senso, servono a chiarire qualcosa; le prolessi sono meno frequenti, spingono lo spettatore a chiedersi non che cosa accadrà, ma come e perché, in generale hanno un tono molto più enigmatico delle analessi. Il cinema può dare adito a costruzioni particolarmente complesso: ad esempio Hiroshima mon amour, una donna rievoca il suo passato in guerra ma sentiamo ancora la musica del jukebox del bar, mischia i due piani in maniera peculiare. La durata cinematografica, a differenza di quella letteraria, è fissa. Quando TR = n e TS = 0 parliamo di pausa, in letteratura resa con la descrizione. Nel cinema si rende ad esempio con movimenti della macchina 2 cadenza settimanale ma al contrario farne un consumo consapevole e capace di assimilarne la densità: esempio principe è quello delle macro-produzioni come Game of thrones, e di tutto ciò che comporta la visione di una serie di questo tipo. Nel rapporto tra tempo della storia e del racconto vi sono anche scelte particolari: basti pensare a 24 o In treatment. Al contrario Lost è l’apoteosi di continui flashback che fanno emergere il background dei vari personaggi, o True detective, che oltre ad innumerevoli altri meriti, ha anche e soprattutto quello di una trama segmentata in tre piani narrativi differenti – una cosa simile l’aveva fatta Ryan Murphy in American Horror Story: Asylum. Altro caso particolare è quello di The Affair, che presenta i diversi punti di vista dei due amanti. 1.4.5 Lo showrunner. Jonathan Franzen dice che le serie tv stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddisfatto da certo realismo del XIX secolo: su questo solco nasce la figura dello showrunner, che supera quello del semplice sceneggiatore per indicare una figura trasversale che si occupa della scrittura in ogni suo aspetto, supervisiona tanto aspetti creativi quanto quelli organizzativi ed industriali. Lo sceneggiatore. 2 L’inquadratura. L’inquadratura è l’unità base del discorso filmico e può essere definita come una rappresentazione in continuità di un certo spazio per un certo tempo. Definita spazialmente dalla porzione di realtà delimitata da una cornice ideale, temporalmente dalla durata tra il suo inizio e la sua fine. Spazio e tempo emergono subito come elementi fondamentali per differenziare e “catalogare” i vari tipi di inquadratura. Il termine è ormai sovrapponibile a quello di piano, anche se questo dovrebbe limitarsi ad indicare la porzione di spazio inquadrata. Tratto peculiare dell’immagine cinematografica (e fotografica) è quella di una bidimensionalità percepita come tridimensionalità, grazie al concetto di prospettiva che le è in qualche modo connaturato. Ogni inquadratura è il risultato di scelte relative a due livelli: il primo è quello del profilmico, ovvero di tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa, appositamente per essere filmato e fa parte della storia narrata: è fortemente connesso con la messa in scena, vale a dire il lavoro di organizzazione del regista dei materiali di ogni inquadratura – evidente il legame con il teatro. Il secondo livello è quello filmico, che concerne il piano discorsivo propriamente detto, i modi con cui vengono rappresentati gli elementi profilmici: si parla allora di angolazione, distanza, dialettica di campo e fuori campo, movimenti della cinepresa etc. Inquadrare è scegliere. La nozione di inquadratura presenta almeno un ultimo problema: distingueremo quindi tra quelle che danno vita ad un solo quadro, una sola immagine, e quelle che si articolano in diversi quadri, vuoi per un movimento filmico o profilmico. Il formato dell’inquadratura: l’aspect ratio. Analizzeremo ora i principali parametri costitutivi dell’immagine cinematografica attraverso cui ogni singola inquadratura può essere discussa, sebbene un’analisi reale non possa prescindere dal rapporto che i diversi parametri dell’inquadratura instaurano tra loro. 2.1 Il profilmico e la messa in scena. 2.1.1 L’ambiente e la figura. Lo spazio ambientale di un’inquadratura può essere naturale, parzialmente modificato o interamente ricostruito – solo negli ultimi due casi ha senso parlare di scenografia. La scenografia cinematografica è diversa da quella teatrale, poiché è a sua volta frazionata in aspetti particolari della stessa. L’ambiente è spesso legato alle figure, perlopiù umane, che vi entrano a far parte: l’ambiente non è un semplice contenitore, ma può dare un contributo essenziale alla definizione dei personaggi. Dopo Neorealismo e nouvelles vagues ha avuto molta importanza la ricostruzione dell’ambiente, a volte anche per motivi economici, spesso ricostruire è più economico: questo permette di modificare e all’occorrenza renderlo più espressivo e funzionale. Martin propone un’efficace tripartizione di come si può concepire un ambiente: - Realista: l’ambiente non ha altra implicazione che la sua stessa materialità, non significa che quello che è. 5 Basti pensare al Neorealismo: ambienti disadorni, strade piene di macerie, desolate periferie. - Impressionista: l’ambiente è scelto, modificato e ricostruito a partire dalla dominante psicologica dell’azione, è il paesaggio di uno stato d’animo – dalla prima avanguardia francese, poi Fellini etc. - Espressionista/artificiale: l’ambiente può essere o meno funzionale alla dominante psicologica dell’azione, ma quest’ambiente è esplicitamente artificiale, il mondo è deformato e stilizzato in funzione simbolica. È meno diffuso, un capostipite in Das Kabinet des Dr. Caligari. Esempio: nella scena del comizio di Charles Kane, protagonista di Citizen Kane, vediamo un suo poster gigante posto proprio dietro di lui, in carne e ossa e decisamente più piccolo: in questo modo si sottolinea la contraddizione grande/piccolo tra un uomo in grado di determinare le scelte politiche di un’intera nazione e un individuo prigioniero della propria infanzia, la cui dimensione privata è destinata a fallire. Così come rimarca l’opposizione naturale/artificiale dove il poster rappresenta un simulacro fatto di apparenze, volontà di piacere e persuadere. Altro esempio: in Marnie la protagonista è divorata dal senso di colpa per aver ucciso involontariamente da giovane un marinaio che molestava la madre. Costretta a tornare da questa per superare il trauma, Hitchcock ci presenta la scena in “due quadri”, il secondo dei quali è composto dai marciapiedi e dalle case, a realizzare una ideale seconda inquadratura al cui centro è posta una nave. Si tratta di una metafora dell’ostacolo che la donna deve affrontare per superare il proprio rimosso, così come un claustrofobico senso d’oppressione. Nella seconda ripresa sia lei che la nave sono fuori campo, ma la seconda è sotto, la prima è sopra: chiara valenza simbolica. L’ultima immagine del film riprende la nave, ma questa volta in modo molto più “innocente”, è ripresa dall’alto, molto più lontano, per altro colpita da un raggio di sole, a simboleggiare il superamento da parte di Marnie della storia, dopo essersi confrontata con la madre. Altro esempio è quello di Lanterne rosse, quasi tutto ambientato nel sontuoso palazzo di un uomo ricchissimo presso il quale la donna è costretta a concedersi in qualità di concubina: vediamo campi lunghi, angolazioni dall’alto per mettere in risalto l’espressione di un potere assoluto che perpetua se stessa attraverso il rigido rispetto della tradizione, e della conseguente piccolezza ed impotenza della donna. La stessa scena iniziale prefigura lo spazio claustrofobico ed oppressivo in cui la donna andrà a vivere (prosegue, più indicazioni nel libro con le immagini). 2.1.1 Scenografie virtuali. Il cinema contemporaneo ha aggiunto agli ambienti naturali anche quelli virtuali, generati direttamente dal computer, dei simulacri che potrebbero portare ad una scomparsa del profilmico. Si deve comunque distinguere tra ambienti digitali puri e ambienti digitali parziali che usano immagini dal vero sottoposte ad un trattamento di sintesi che ne modifica alcune caratteristiche – es. un cielo azzurro che si trasforma in quello stesso cielo attraversato da una nube bizzara, Le Fabuleux destin d’Amélie Poulain. Puri o parziali che siano, possono essere anche realistici o fantastici; illusori o espliciti. Il lavoro dello scenografo è in questo modo pesantemente rivisto – si ricorre sempre più spesso a blue o green screen, secondo la tecnica del chroma-key. Ambienti virtuali possono creare effetti illusori (esempio Spielberg in Munich, ambientato nel 1972, inserisce il WTC digitalmente, oppure ancora Michael Mann in Collateral) oppure denunciare la propria artificialità, basti pensare a certi eclatanti casi di Inception, comunque coerenti nell’ottica onirica in cui è ambientato. Altro è il caso di La nobildonna ed il duca di Eric Rohmer, che lascia percepire la differenza tra attori dal vero da una parte e ambienti digitalizzati dall’altra – strada seguita anche da Coppola in One from the Heart (1982), da Baz Luhrmann in Moulin Rouge (2001), dove gli effetti legati al chroma-key vengono usati non per dare un maggior senso di realismo, ma per esplicitare la diversità delle fonti visive coinvolte, per conferire un senso straniante ed innaturale. Caso emblematico quello di Dogville (2003, Lars von Trier), che pur girato in HD usa scenografie reali palesemente fittizie, es. case senza pareti, porte o finestre, la scenografia “a vista” mette a vista le contraddizioni degli abitanti di Dogville. Scenografo. 2.1.3 La luce e il colore. Illuminare uno spazio non è solo dargli luce sufficiente, ma è anche e soprattutto organizzarlo, dargli una struttura: attraverso il gioco di luci e ombre, di chiari e di scuri, lo spazio 6 cinematografico si drammatizza. Bisogna anzitutto distinguere tra luce intradiegetica e luce extradiegetica: la prima identifica tutte quelle fonti di luce che fanno parte della messa in scena, della storia raccontata: lampadine, candele, fuochi, etc. La seconda invece quel tipo di illuminazione prodotta da riflettori e superfici riflettenti che esistono nella realtà produttiva del film: sono proprio gli effetti di queste macchine ad entrare nella diegesi del film, pertanto la funzione della luce intradiegetica è proprio spesso quella di giustificare tali effetti. Se in uno spazio completamente buio ed oscuro io illumino il volto di un personaggio, potrò ammantare questa azione facendogli tenere in mano una candela. Le caratteristiche fondamentali della luce sono: qualità, direzione, sorgente e colore. In merito alla qualità, la luce si può distinguere tra illuminazione contrastata ed illuminazione diffusa: il primo, ottenuto attraverso l’uso dell’illuminazione diretta, crea netti contrasti all’interno dello spazio rappresentato tra zone in luce e zone in ombra, i cui margini sono ben delineati. Tale soluzione è usata perlopiù in situazioni narrative di particolare intensità: drammatizza lo spazio (personaggi in luci o ombre), dà vita a spazi privilegiati, che catturano quindi subito l’attenzione dello spettatore. Spesso subentra anche la luce dinamica, ovvero quel tipo di illuminazione creata attraverso le fonti di luci in movimento che determinano una rappresentazione dello spazio caratterizzata da un continuo processo di riversibilità tra zone di luce e quelle in ombra. La luce diffusa ricorre invece con maggior frequenza in situazioni narrative meno forti e più distese. In quanto alla direzione, possiamo distinguere la luce frontale, che tende ad eliminare le ombre e ad appiattire l’immagine; la luce laterale, che scolpisce i tratti del volto e ne accentua il gioco di ombre e luci; il controluce, stacca la figura dallo sfondo e ne evidenzia i contorni; la luce dal basso distorce i tratti del volto creando forti effetti drammatici; la luce dall’alto, meno frequente, suggerisce la presenza di una fonte di luce diegetica posta al di sopra. Bisogna però parlare anche delle sorgenti: raramente lo spazio profilmico è illuminato da una sola sorgente di luce, sono almeno due: la key light, quella principale, e la fill light, quella di riempimento; nel cinema americano classico troviamo anche la back light (controluce). Così il personaggio è messo in evidenza dalla key, scolpito dalla fill e staccato dallo sfondo dalla back: la luce viene dunque asservita ad una logica narrativa centrata intorno al personaggio, anche per favorire i processi di identificazione dello stesso. La scelta di illuminare solo parzialmente alcuni aspetti di un personaggio si accompagna a caratteri ambigui – es. Persona ricorre frequentemente a primi piani delle due protagoniste con il volto diviso in due dall’illuminazione. Del colore parleremo più avanti: intanto diciamo che la luce può creare effetti di colore attraverso l’uso di filtri colorati. Questo quadro pertiene più al cinema classico che a quello moderno, che infatti assegnava alla potenza espressiva della luce un ruolo di primo piano. Tre imperativi della fotografia classica: la simbolizzazione (ha il suo fulcro nell’espressionismo), la luce si metaforizza, impone un senso “massiccio” ed uno solo; la gerarchizzazione, pone come elemento d’elezione primaria l’attore e che determina ciò che è più importante all’interno dell’inquadratura; la leggibilità, la luce deve servire a rendere ogni immagine chiara e riconoscibile. Con il cinema moderno si intravede un diverso modo di operare: un intervento minimale, o per meglio dire minimamente significante, massimamente oggettivo. È solo negli anni Cinquanta e Sessanta che il colore si afferma in modo decisivo (sebbene esistessero già prima): questo non determinò significativi mutamenti a livello del discorso filmico, come invece era stato per il sonoro. Fu inizialmente pensato come accrescimento delle potenzialità realistiche del cinema: ma negli anni Cinquanta il colore avevano poco a vedere con quelli della realtà, infatti si usavano per generi come il musical o il western, per esaltarne i suoi paesaggi grandiosi; in seguito a certe migliorie tecniche, negli anni Sessanta si vedrà l’affermarsi del colore anche nell’ambito del cinema d’autore – es. Deserto rosso (1964), esempio radicale ed estremo di uso espressivo, antidecorativo ed antirealistico del colore per esprimere l’interiorità dei personaggi. Dunque due tendenze del colore: una decorativa-estetizzante, un’altra espressivo-psicologica. Il colore ovviamente gioca un ruolo di primo piano nella composizione dell’immagine: i colori chiari attirano più di quelli scuri, i toni caldi attraggono più di quelli freddi. I rapporti dominanti tra primo piano e sfondo possono essere assecondati ma anche rovesciati, se per esempio metto colori vividi in uno sfondo ne accentuo l’importanza. Pertanto è la stessa cosa che si facevano con bianchi, 7 Il fuori campo va dunque diviso in fuori campo attivo e passivo: quello attivo è proprio delle inquadrature a struttura centrifuga, che tendono verso l’esterno, rimandano a qualcosa sito oltre i bordi dell’immagine; quello passivo è delle inquadrature a struttura centripeta, dove tutto converge verso il proprio interno. Altra distinzione fondamentale: fuori campo esterno e fuori campo interno: quest’ultimo è il fuori campo che è sotto un certo aspetto in campo, perché interno all’inquadratura, ma celato allo sguardo dello spettatore da un elemento profilmico (una tenda, un oggetto, etc.). Burch propone una distinzione tra fuori campo concreto ed immaginario: questo indica la porzione di fuori campo a cui allude una determinata inquadratura ma che non abbiamo potuto vedere. Bonitzer propone l’idea di un fuori campo anti-classico, ovvero lo spazio della produzione occupato dalla troupe e dalle macchine necessarie alla lavorazione. L’inizio di M, il mostro di Dusseldorf. Di fatto il fuori campo ha la stessa funzione dell’ellissi. Il rapporto tra visibile è un rapporto fluttuante, col tempo le cose che si possono mostrare su uno schermo sono progressivamente aumentate (sesso, violenza, etc). In esame un frammento di L’estate di Kikujiro, Kitano Takeshi, 1999. 2.2.4 Soggettiva e sguardo. Le inquadrature soggettive esprimono un punto di vista ben determinato che diventa quella di un personaggio. Già nel cinema delle origini: Grandma’s Reading Glass, del resto i film incentrati su personaggi che guardano “attraverso qualcosa” divenne quasi un genere all’inizio. Branigan articola in questo modo la struttura base per costruire una soggettiva: un punto nello spazio dove si trova un personaggio che dispone di uno sguardo; una transizione; posizione della macchina da presa da cui si guarda; oggetto; consapevolezza della presenza del personaggio. Sulla base di questo sembra evidente che la soggettiva possa darsi come tale solo a partire da un’oggettiva, un’inquadratura che la preceda o la segua: in realtà non è sempre così, certi movimenti di macchina o particolari posizioni lo possono suggerire – cfr. l’incipit di Halloween. Altre dinamiche diffuse sono quelle di semisoggettiva e falsa soggettiva: la prima è un’inquadratura che pur rappresentando lo sguardo di un personaggio non ne rispetta fino in fondo la posizione (es. la macchina da presa è più lontana o vicina, o l’angolazione è diversa), oppure anche quando la macchina da presa è poco più dietro ed entra in campo anche la nuca. La falsa soggettiva invece simula un carattere di soggettiva stilistica ma si rivela infine un piano oggettivo. Alcuni studiosi hanno messo in discussione questo stesso concetto, perché tutto il cinema è di fatto interpretabile come una serie di soggettive e semisoggettive. Il ruolo delle soggettive è importante anche per quanto riguarda l’identificazione dello spettatore, che può avvenire innanzitutto rispetto alle emozioni che vediamo sui personaggi, e successivamente “vivendoli” in prima persona una volta che ci siamo calati al loro interno. Se identifichiamo A come l’oggettiva del personaggio che guarda e B come la sua soggettiva su chi o che cosa è guardato, potremo avere un sintagma soggettivo aperto (AB), sintagma soggettivo chiuso (ABA), sintagma successivo alternato (ABAB...), sintagma soggettivo rovesciato (BA). Esempi tratti da Psycho (la sequenza di Marion con il poliziotto), poi Lady in the Lake (Robert Montgomery, 1947). Lo sguardo dinamico delle cose. 2.2.5 I movimenti di macchina. Il movimento di macchina costituisce uno degli elementi portanti. L’inquadratura si caratterizza anche a partire dal suo essere statica o dinamica, a seconda di ciò che accade sul piano del filmico e del profilmico: le possibili combinazioni sono dunque profilmico statico-filmico statico; profilmico dinamico-filmico statico; profilmico statico-filmico dinamico; profilmico dinamico-filmico dinamico. La dinamicità del filmico è data dai movimenti di macchina: attraverso questi gli spettatori hanno l’impressione di muoversi nello spazio rappresentato: un’inquadratura dinamica è quella che muta i rapporti di distanza, l’altezza e l’angolazione, aumentando così le informazioni a nostra disposizione. Quando nasce ha un punto di vista molto statico: il movimento arriva già molto presto grazie ad alcuni operatori Lumière, i primi movimenti si realizzarono in Queen Victoria’s Diamond Jubilee (1897), e solo più avanti carrellate e panoramiche arrivarono anche nel cinema di finzione. Solo negli anni Venti questi verranno autenticamente fatti propri dal linguaggio cinematografico. Principali movimenti: 10 - La panoramica, in cui la cinepresa, fissata su un cavalletto, ruota sul proprio asse, in senso orizzontale o verticale. Un tipo di panoramica molto particolare è quella di 360°, dove la macchina da presa esplora tutto lo spazio circostante: è in sostanza un “guardarsi intorno”, ma è molto difficile perché rischia di mettere in campo il fuori campo proibito. Tipo particolare: “a schiaffo”, molto brusca e veloce. - La carrellata, in cui la macchina da presa è sistemata su un carrello che corre su binari o su un veicolo: qui è la macchina da presa tutta a spostarsi nello spazio. Se il movimento è rapportato a quello di un personaggio, si parlerà di carrello laterale, se si muove parallelamente al personaggio e lo riprende di profilo; se precede il personaggio inquadrandolo frontalmente, di carrello a precedere; se lo segue arretrando o avanzando, di carrello a seguire. - Il termine travelling indica movimenti di macchina più complessi che uniscono alle possibilità dinamiche di panoramiche e carrelli quelli di far salire e scendere la cinepresa. Questi si realizzano attraverso macchine come la gru o il dolly. Fissata su un braccio mobile, collocato su una piattaforma sistemata su un veicolo a ruote (dolly) o una vera e propria gru che consente una maggiore possibilità di elevazione. Nuove apparecchiature: la steadycam, che permette all’operatore di correre o comunque muoversi bruscamente senza provocare il benché minimo sobbalzo. È molto particolare, l’operatore deve ricevere una grande preparazione e formazione specifica. Altra apparecchiatura è la louma, un braccio assai sottile che, fissata ad una gru, è in grado di muoversi e ruotare in tutte le direzioni possibili. - Un ultimo movimento è quello della macchina a spalla o a mano: la cinepresa è tenuta dall’operatore stesso, quindi risente volontariamente di sbalzi, scossoni irregolari. Nasce nel reportage, si diffonde molto a partire dalla Nouvelle Vague. Un problema a parte è quello della carrellata ottica, la macchina non si muove ma varia la lunghezza focale dell’obiettivo, dunque mostra un piano più ravvicinato o viceversa, zoom avanti e indietro. Questa scelta conferisce una rappresentazione più appiattita ed artificiale. Possiamo parlare di movimenti subordinati e movimenti liberi: quelli subordinati seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto in movimento, mantenendo costanti la velocità, la distanza e l’angolazione. I movimenti liberi sono invece quelli che prescindono totalmente dai movimenti profilmici, in cui la macchina da presa si muove autonomamente nello spazio rappresentato, per allontanarci da qualcosa e avvicinarci a qualcos’altro. Non sempre la distinzione è così precisa: es. in Shining la macchina segue i movimenti del triciclo di Danny lungo i corridoi, ma è più lenta e ad un certo punto prende una via diversa. Una modalità importante dei movimenti di macchina subordinati è quella detta correzione di campo (o re- inquadratura): brevi movimenti della macchina rapportati a quelli di un personaggio che si sposta all’interno di uno spazio limitato: es. alzandosi dalla sedia, inchinandosi, avvicinandosi di uno o due passi. Sono molto comuni ma poco notati, servono per mantenere l’equilibrio e la centratura del piano. I movimenti possono dunque definirsi sulla base della dimensione temporale e di quella spaziale. Varie possono essere le funzioni. Anzitutto c’è quella descrittiva: mostra allo spettatore quello che è presente in un determinato ambiente. Ha anche una funzione connettiva, stabilendo un legame filmico tra due elementi profilmici, o rendendo reversibile campo e fuoricampo. Una funzione cognitiva, possono rivelare allo spettatore l’esistenza di qualcosa di rilevante, ai fini di una certa situazione narrativa, di cui questi era precedentemente ignaro: riguarda da vicino la focalizzazione. Inoltre una funzione selettiva ed estensiva se vanno avanti o indietro; tensiva se percorre uno spazio con una certa lentezza. Se è raccordato allo sguardo di un personaggio, avremo una funzione affettiva, concernente cioè il sentimento di brama di un personaggio verso qualcosa. I travelling possono avere anche una funzione estetica, cioè contribuire alla valorizzazione artistica di ciò che mostrano; si può aggiungere infine anche quella semantica, in cui i movimenti di macchina possono contribuire alla definizione del senso della situazione rappresentata. Analisi di Notorious, Full Metal Jacket e The Crowd. Ebbrezza, vertigine e iperspettacolo: i movimenti di macchina nel cinema contemporaneo. 2.2.6 Inquadrature multiple e “finestre”: verso il montaggio. L’idea di inquadrature multiple o sdoppiate attraversa tutta la storia del cinema: The Life of an American Fireman (1903) con il sogno circondato da un 11 mascherino; Napoléon, il caso più celebre di moltiplicazione schermica grazie al Polyvision. La frammentazione è detta split-screen, una sorta di riduzione del montaggio al piano dell’inquadratura, fu molto usata negli anni Sessanta e Settanta: grazie a Pillow Talk (Michael Gordon, 1959), classica scena del telefono, impreziosita da loro in vasca e i due piedi si toccano, quasi metacinema. In altri casi diventa puro effetto di enfatizzazione grafica, l’immagine viene frantumata ma in maniera fine a se stessa. Ne fu un grande utilizzatore Brian De Palma, recentemente abbiamo una nuova diffusione: Requiem for a Dream, Tarantino, Spike Jonze. Un caso particolare è quello di riprendere diversi monitor presenti all’interno di uno stesso piano, es. Appunti di viaggio su moda e città, documentario di Wim Wenders (1989). Caso ancora più particolare: Timecode (2000), quattro piani sequenza che occupano tutto il film. Il più sapiente utilizzatore è stato forse Peter Greenway: analisi dell’inizio di The Tulse Luper Suitcases – Part I. The Moab Story, 2003. 3.Il montaggio. 3.1 Che cosa è il montaggio. Il montaggio non nasce insieme al cinema: il primo a scoprirlo sarà George Méliès, ma solo come trucco; poi arriva ma è di fatto inteso come semplice passaggio di sequenze altrimenti autonome. I modelli di montaggio cominciano ad emergere tra il 1909 ed il 1916, ovvero il periodo di transizione tra cinema primitivo (1902-1908) e cinema classico (1917-1960). La prima tappa della sua maturità viene raggiunta con il lavoro di David Wark Griffith. Il compito spetta al montatore, spesso coadiuvato dal regista stesso, anche se non nel cinema classico americano. Il montaggio è innanzitutto un mettere in relazione due o più elementi tra loro: relazione che può darsi sul piano diegetico, suq uello discorsivo, su quello diegetico-discorsivo. Non è quindi una semplice operazione tecnica: è dar vita ad un rapporto tra immagini sulla base di un progetto narrativo, semantico e/o estetico. Altro esempio tratto da Psycho e Là regle du jeu. La transizione da un’inquadratura all’altra avviene tramite lo stacco, il passaggio diretto e immediato da un piano a quello successivo. Altri modi sono la dissolvenza, distinguibile in: dissolvenza d’apertura, in chiusura e incrociata – erano molto comuni nel cinema classico. Altre soluzioni cadute in disuso sono quelle dell’iris, dove un foro circolare si apre o si chiude intorno a una parte dell’immagine; la tendina, dove la nuova immagine si sostituisce alla precedente facendola scorrere dallo schermo. Si intende poi per piano d’ambientazione quel tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena col compito di introdurne i caratteri ambientali, consentire allo spettatore di conoscere il luogo in cui sta per svolgersi una determinata sequenza. 3.2 Spazio e tempo. Dal punto di vista spaziale, il montaggio ha assunto la funzione di articolare lo spazio diegetico in diverse unità, stabilendo delle connessioni secondo un progetto narrativo: lo stesso si può dire per l’asse temporale. Il montaggio è fondamentale, perché è uno strumento con cui si costruisce il racconto. Lo spazio si dividerà in uno spazio diegetico, cioè l’ambiente virtualmente totale, e lo spazio filmico, cioè la porzione racchiusa nell’inquadratura. Le possibilità sono tendenzialmente due: ad un piano d’insieme dell’ambiente seguono una serie di inquadrature che lo frammentano e che in qualche modo sono comprese nel piano originario (scelta tipica del cinema classico); lo spazio di insieme è costruito attraverso una serie di inquadrature parziali che ce ne mostrano sempre e solo una parte e mai la sua globalità. Esempio da Notorious. Per il tempo, allo stesso modo il montaggio può introdurre brevi ellissi (si parla di ellissi tecniche): spesso neanche avvertite, hanno il compito di abolire i tempi morti, servono per definire la differenza tra una scena ed una sequenza vera e propria. Il montaggio incide evidentemente sulla durata delle inquadrature, che determina il ritmo di una sequenza: più sono brevi, più il ritmo è sostenuto e viceversa. Ovviamente il montaggio compie il suo ruolo anche e soprattutto a livello intra-sequenziale, per quanto riguarda le sequenze macro-narrative: è lo strumento che consente di determinare il rapporto tra l’ordine degli eventi della storia e quelli dell’intreccio. L’ordine infatti può essere invertito in caso di flashback o flashforward. Le ellissi, in questa prospettiva, sono praticamente obbligate, perché + impossibile mostrare tutto. Si parla di ellissi narrative, sono esplicite e più che evidenti; se invece il montaggio omettono fatti rilevanti ed importanti, allora è un caso di montaggio ellittico. È un tipo di montaggio che stuzzica lo 12 entrambi danno vita ad un rapporto coercitivo con lo spettatore, decidono che cosa mostrare allo spettatore e come mostrarlo, per quanto tempo ed in che ordine. A partire da queste considerazioni diviene fondamentale l’apporto di Bazin, che dà vita ad un’altra concezione del montaggio, per certi aspetti ad una sua negazione. Si fonda su due postulati: il primo individua come vocazione ontologica del cinema la rappresentazione del reale nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali; il secondo vuole che nella realtà nessun avvenimento sia dotato di un senso determinato a priori, che il reale, in sostanza, sia caratterizzato da un’immanente ambiguità. Poiché il montaggio si oppone per sua natura all’espressione dell’ambiguità, il cinema dovrebbe superarlo: arriva a parlare di montaggio proibito ogni volta che “l’essenziale di un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell’azione”. Il cinema deve seguire la strada della riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica ed evenemenziale, nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale. Così affiorano due modalità espressive di importanza primaria nell’ambito dei parametri che costituiscono il linguaggio cinematografico: la profondità di campo ed il piano sequenza. Sul piano strettamente fotografico, un’immagine in profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano che quelli di sfondo, sono perfettamente a fuoco: essa è vecchia come il cinema. Fu abbandonata, per motivi tecnici, con la fine del muto: si privilegiavano effetti di sfocatura, ovvero flou. In realtà la scelta del flou risponde al segno del trasferimento delle condizioni di credibilità della rappresentazione filmica dal piano della singola immagine a quello delle forme del racconto, della verosimiglianza psicologica, della continuità spazio-temporale. La profondità di campo torna con Quarto potere (1941), e per Bazin questa è un’acquisizione capitale della regia, un progresso dialettico nella storia del linguaggio cinematografico, perché pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà. Un’altra figura del linguaggio cinematografico è quella del piano sequenza, un piano che da solo svolge le funzioni di una sequenza o scena: rappresenta un episodio caratterizzato da una relativa autonomia nel contesto narrativo del film in questione. Si caratterizza anch’essa per il rifiuto del montaggio: rappresentano entrambe una radicale messa in discussione della centralità che il montaggio aveva assunto nell’ambito della riflessione teorica e della pratica registica. In America preferiscono il più duttile termine di long take, termine con il quale possiamo intendere quelle inquadrature che, pur non esaurendo un intero episodio narrativo, esibiscono un’evidente volontà di rifiuto del montaggio. Anch’esso nasce con il cinema: i primi film erano a tutti gli effetti dei piano sequenza, e la sostanza non cambiò fino all’emergere del montaggio in continuità (1905 circa). Nel corso degli anni Venti la loro durata media ruota intorno ai cinque secondi, per tendere a raddoppiarsi con l’arrivo del sonoro: ci sono anche registi che hanno preferito ricorrere a inquadrature dalla durata maggiore di quella media: Renoir, Mizoguchi, Welles, Dreyer, Antonioni, Godard, ecc., non casualmente gli stessi che ricorrono alla profondità di campo. In altre parole, l’ipotesi di Bazin vuole che con piano sequenza e profondità di campo il regista dà allo spettatore la possibilità di essere lui a decidere, non è più lui a decidere il significato per noi. Due osservazioni critiche: la prima insiste sul fatto che la realtà e la sua rappresentazione non possono venire confuse, perché anche prescindendo dal montaggio, la rappresentazione non coinciderà mai con la realtà. Bazin risponde che esiste un tipo di cinema che sta dalla più dalla parte della rappresentazione ed un altro che cerca di avvicinarsi al reale. La seconda è invece quella di aver sottovalutato certe caratteristiche proprie del piano sequenza e della profondità di campo: non tutte le volte che queste vengono usate vanno nella direzione indicata da Bazin. Infatti non è così vero che piano sequenza e profondità di campo rappresentino una radicale negazione del montaggio: esso può continuare ad essere presente, ma in una forma particolare, detta montaggio interno. Si intende una forma di montaggio che si costruisce non all’interno di un solo piano. Esempi tratti da Welles, Jia Zhang-ke, Howard Hawks, Alain Resnais, Nagisa Oshima. 4. Il suono, l’immagine. Il cinema nacque privo dell’accompagnamento di un suono registrato, ma già nei suoi primi anni si avvertiva 15 l’esigenza di una presenza sonora, in particolare musicale: gli studiosi dibattono ancora delle cause, secondo alcuni fu per coprire il fastidioso rumore della macchina di proiezione. Così in molte sale si ricorreva alla presenza di un pianista o persino di un’intera orchestra: già negli anni Dieci i problemi tecnici essenziali erano stati risolti, ma il sistema produttivo preferì utilizzare il più a lungo possibile le tecniche già esistenti. Il primo film con commento sonoro registrato sulla pellicola fu Don Juan (1926, Alan Crosland), il primo parlato fu dell’anno dopo, The Jazz singer: sempre di Alan Crosland, sempre Warner Brothers. Il successo fu tale che il sonoro conobbe una rapidissima diffusione, progressivamente il muto fu abbandonato del tutto – prima in America, solo più tardi in Europa. Il dibattito circa il sonoro fu molto aspro tra vari artisti e teorici: certo è che l’affermarsi del sonoro determinò un grave arretramento rispetto alle conquiste linguistiche ed espressive a cui era giunto il cinema muto. 4.1 Le funzioni del suono. Qualsiasi discorso sul suono non può prescindere dal suo rapporto con l’immagine: la percezione visiva influenza quella sonora e viceversa. Michel Chion parla di valore aggiunto. Nel découpage classico, il suono ha assunto un ruolo di primo piano: sua funzione chiave è quella di giocare un ruolo determinante nell’unificare il flusso delle immagini, nell’attutire l’effetto di brusca rottura implicito in ogni stacco. Nel cinema classico è sempre servito a questo: es. in un dialogo con battute che si accavallano tra più inquadrature. Allo stesso modo, poteva servire proprio per enfatizzare un brusco contrasto: nel cinema moderno, Le mépris è un ottimo esempio di conflitti sonori. Anche il suono è sottoposto ad un processo di selezione e combinazione: non si possono inserire tutti i suoni che vengono registrati in un esterno. Una volta selezionati, si passa al montaggio sonoro: qui il volume di ogni singolo suono acquista un’importanza particolare, si tratta di scegliere quali suoni mettere in evidenza e quali in secondo piano. Il montaggio dei suoni e la regolazione del volume viene definita missaggio. Spesso si parla di montaggio audio-visivo. 4.1.1 Suono e spazio. Sul piano spaziale, possiamo distinguere tra suono intradiegetico e quello extradiegetico. La distinzione tra i due è solitamente determinata in modo chiaro, tuttavia in alcuni casi i confini possono essere volutamente labili, come nel caso di certe musiche che iniziano come diegetiche e di trasformano poi in extradiegetiche. Il suono intradiegetico è a sua volta suddivisibile in suono in campo e fuori campo: è quindi l’elemento visivo a fungere da discrimine. Alcuni casi sono in realtà difficilmente catalogabili in una di queste categorie, Michel Chion ne individua tre. Il suono ambiente, quel suono inglobante che avvolge una scena nella quale diventerebbe assurdo chiedersi se il cinguettio d’uccelli che sentiamo sia in campo o fuori campo. Il suono interno, che si oppone a quello esterno: proviene dalla realtà interna del personaggio, suoni che sentiamo in quanto immaginati o ricordati da un personaggio. Il suono on the air è quello che sentiamo trasmessi da radio, altoparlanti, etc. Le tre possibilità di suoni che abbiamo identificato possono essere denominate come suono over, suono in e suono off. Chion ha introdotto la definizione di suono acusmatico (si sente senza vedere la fonte) e di visualizzato. Il suono inoltre ha una funzione selettiva, perché induce a concentrarsi su alcuni aspetti piuttosto che altri (es. “Guarda quella donna con il vestito giallo”). Si pone il problema della direzione: fino agli anni Settanta il suono nelle sale cinematografiche proveniva solo da dietro, poi alcuni altoparlanti anche a destra e sinistra. Queste tecniche, tra cui il dolby, permette di direzionare il suono. Secondo Chion questa possibilità ha determinato un certo cambiamento delle regole del montaggio, con l’introduzione della figura del supercampo, una sorta di campo audiovisivo, determinato sia dall’immagine sia dal suono circostante. Lo spettatore continua ad avere l’immagine davanti a sé, ma il suono lo circonda. In questo modo il suono può suggerire anche la distanza dalla sua sorgente, con un volume più o meno alto. 4.1.2 Suono e tempo. Una prima distinzione riguarda la differenza tra suono simultaneo e suono non simultaneo: la prima è quella che si realizza quando il sonoro e l’immagine si danno in uno stesso tempo narrativo, mentre quello non simultaneo anticipa o segue le immagini che noi stiamo vedendo. Un caso frequente di non simultaneità è quello del ponte sonoro: brevi anticipazioni sonore in cui i suoni della scena immediatamente successiva iniziano a sentirsi già prima. Altra importante particolarità è 16 individuabile nel suono acusmatico ed in quello visualizzato: il suono visualizzato che diventa acusmatico e quello acusmatico che si fa visualizzato. Un’altra questione fondamentale è il ritmo: si può parlare di ritmo sonoro a partire dalle sue componenti chiave, la velocità e la regolarità degli intervalli. La velocità è determinata dalla durata degli intervalli, la regolarità nasce sulla base della coincidenza o meno di queste durate. Un suono lento = passi di un uomo che cammina; veloce = uomo che corre; regolare = ticchettio; irregolare = esplosioni. Il ritmo sonoro è chiaramente complicato dall’esistenza del ritmo del montaggio, dell’inquadratura in sé. Spesso il ritmo visivo e quello sonoro vengono adeguati l’uno all’altro come accade ad esempio nei musical. 4.2 Suono e racconto: il punto d’ascolto. Si può parlare di un punto d’ascolto basandoci sulla differenza tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva. I poli estremi di questa dicotomia sono coincidenza (un uomo si allontana ed il rumore dei suoi passi si affievolisce) e contrasto (un uomo si allontana ma il rumore dei suoi passi rimane uguale). Grazie al suono stereofonico e al dolby, il punto di ascolto ha trovato ulteriori possibilità di esistenza. L’aspetto più interessante risulta comunque legato alla dimensione narrativa, inerente al rapporto fra ciò che sentiamo e ciò che sente un determinato personaggio, è stato proposto il termine di auricolarizzazione. L’auricolarizzazione interna è quella che àncora un suono diegetico a un determinato personaggio: è primaria quando assume una dimensione esplicitamente soggettiva (es. un personaggio si distrae ed i suoni si fanno più flebili), secondaria quando determinati meccanismi visivi o di montaggio la evidenziano. L’auricolarizzazione esterna si dà nel caso in cui i suoni del film non sono ancorati in modo particolare ad un determinato personaggio, basti pensare alla gran parte dei suoni d’ambiente, sentiti dal personaggio ma che non rivestono per lui un significato particolare. Analisi de Il lamento del sentiero, Satyajit Ray, 1955. 4.3 Parole e voci. La parola al cinema non nasce con l’avvento del sonoro: si poteva ricorrere ad un narratore o, più spesso, alle didascalie. Il commentatore pronunciava delle parole in simultaneità con l’immagine, ma il suo testo comportava un evidente margine d’alea. La voce è sicuramente lo strumento di primo piano per il suono al cinema: è staccata e messa in evidenza, musiche e rumori non possono mai interferire. Come dice Chion, il cinema è voco-centrista, o ancor meglio verbo-centrista, perché sono proprio le parole espresse ad assurgere al ruolo importante. Chion distingue tre tipi di parola: la parola-teatro, il caso più ricorrente: assoluta intelligibilità, emanata dai personaggi, è la parola dei dialoghi. La parola-testo, ugualmente intellegibile, si caratterizza per essere emessa dal narratore. Infine la parola-enunciazione, più rara, è tale nel momento in cui ciò che è detto non è necessariamente compreso nella sua interezza e non è connessa a quello che si potrebbe chiamare il centro dell’azione (cfr. a tal proposito l’ultima scena de La dolce vita). In molti film girati in presa diretta i rumori d’ambiente possono limitare l’intelligibilità, ma talvolta questa diviene una cosciente scelta espressiva. La parola serve a far circolare delle informazioni fra i personaggi del film da una parte e fra il film e il suo spettatore dall’altra: può sostituirsi alle immagini. Avremo allora i seguenti casi: la parola dice più di quel che dicono le immagini; la parola dice quel che dicono le immagini; la parola dice meno di quel che dicono le immagini. E poi: immagini e parole dicono la stessa cosa, oppure dicono due cose diverse. Analisi da Jules et Jim, poi Hiroshima mon amour e Notorious. 4.4 Musiche. Sin dal 1895 ci si è incominciati a porre il problema del rapporto tra musica e immagini. Nasce inizialmente come supporto dell’azione e raddoppiamento dei suoi effetti drammatici, con gli anni Venti acquista importanza formale ed estetica grazie alle avanguardie. Due grandi modi di rapporto tra musica e immagini: partecipazione e distanza. Nel primo caso la musica esprime la sua partecipazione all’emozione della scena, assumendone direttamente il tono ed il ritmo; nel secondo la musica manifesta una sorta di indifferenza, sviluppandosi in autonomo. Questa indifferenza potrà indicare la volontà di allontanarsi oppure il dar vita ad una diversa forma di drammatizzazione. Nei modelli di rappresentazione classica, frequenti sono il leitmotiv, tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi; ed anche la figura dell’avvio o dell’interruzione improvvisa, si dà quando la musica si avvia o cessa di colpo col compito di accentuare drammaticamente. 17
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