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Riassunto del libro "Pedagogia Speciale. Riferimenti storici, temi e idee"., Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto del libro di Mura A. dal titolo "Pedagogia Speciale. Riferimenti storici, temi e idee" unito ad appunti presi a lezione.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 12/02/2023

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Scarica Riassunto del libro "Pedagogia Speciale. Riferimenti storici, temi e idee". e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PEDAGOGIA SPECIALE. A. MURA INTRODUZIONE: (PAG. 9-12) La pedagogia speciale è una disciplina scientifica che, alla pari delle altre discipline, costruisce e riscostruisce la propria epistemologia (la natura e i limi della conoscenza scientifica) in base alla propria storia (integrazione sociale e scolastica) ma anche in relazione al proprio futuro (complessità e responsabilità etico-civili e scientifico-culturali: nuove sfide). L’epistemologia nasce per risolvere i problemi. Per quanto riguarda la storia si fa riferimento alle tematiche di inclusione e integrazione ma anche accoglienza, riconoscimento, valorizzazione e piena inclusione che sono concetti fondamentali all’interno di una società che, a causa del loro deficit nelle funzioni strutture, venivano escluse dal consorzio umano; basti pensare all’antichità quando i bambini che nascevano con deformità venivano sacrificati. L’integrazione e l’inclusione si ebbero in tutto il mondo, a partire dalla scuola fino ad arrivare ai più contesti sociali: in Italia si realizzò in maniera diversa rispetto al resto del mondo. Quindi, la diversità che prima era motivo di esclusione, diventa oggi accettata e compresa, anche se non si tratta di un processo concluso ma vi sono varie sfide da affrontare per arrivare alla piena inclusione. TEMATICHE PRINCIPALI DELLA PEDAGOGIA SPECIALE: - Educazione ed educabilità (eliminando il concetto dell’ineducabilità), ma anche pregiudizi che sono tuttora presenti. In passato vi furono dunque dei personaggi (l’Epee, Hauy, Itard, Seguin e Montessori) che posero le basi dei processi di integrazione culturale e sociale delle persone con disabilità. Da qui nacque la pedagogia speciale, con i suoi concetti di educabilità ed emancipazione. - Nel ‘900, nell’ambito istituzionale e pubblico la persona in situazione di disabilità viene riconosciuta come soggetto di diritti e di valore. Il processo di scolarizzazione obbligatoria in Italia ha offerto un grosso contributo: prima all’interno di contesti separati e, successivamente, in maniera integrata nelle classi comuni. Questo fu un 1° livello di integrazione comunitaria, nata nella scuola estendendosi posi ai diversi contesti di vita. La disabilità è vista come risorsa della e per la comunità. - Sul piano culturale e politico, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (2006) valorizza il “pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali”. Già negli anni ’70 l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha proposto dei documenti che riconoscevano la dignità delle persone con disabilità, cambiando il modo di rapportarsi ad esse e alla disabilità. - Sul piano teorico e operativo, tale disciplina offre un orientamento futuro valido per il processo di autodeterminazione delle persone in situazioni di disabilità e la loro realizzazione e integrazione sociale e scolastica: Didattica speciale. In Italia si insegna pedagogia speciale a partire dal 1964 e sono dunque aumentate le varie consapevolezze, provenienti anche dal resto del mondo (Special education). Si può parlare dunque di ACCESSIBILITÀ per far riferimento alle strutture e barriere architettoniche o ai livelli di rete: infatti si può parlare di società evoluta in base al suo grado di accessibilità. Si parla anche di DIDATTICA SPECIALE per far riferimento al legame tra gli obiettivi generali dell’educazione e le pratiche e forme d’insegnamento della didattica d’inclusione: se prima si faceva riferimento al modo in cui far apprendere al bambino con disabilità, oggi si cerca di consentire a tutti l’apprendimento, tenendo conto di ogni forma di disagio e difficoltà. Bisogna maturare consapevolezze rispetto al modo in cui è nata la pedagogia speciale ma bisogna aver chiare anche le contraddizioni che sono tuttora presenti e resistenti: ad esempio, l’affrontare la disabilità come se fosse un rischio, oppure non riconoscerla e dunque non riconoscere neppure il diritto all’inclusione e alla cura. Queste contraddizioni necessitano di confronto affinché non vengano necessariamente eliminate ma devono comunque essere accolte e chiarite per poter diventare consapevolezze. CAPITOLO 1: “Al di là delle intenzioni educative: uno sguardo lungo sul passato” 1. “Difficoltà a ricostruire le tracce e rifiuto della disabilità” Oggi si fa coincidere la nascita della Pedagogia Speciale con il pensiero e l’opera di Itard. La sua origine non è lontana dalle consapevolezze e problematiche attuali ma si tratta di un’origine temporalmente lontana ma che ci portiamo dietro ancora oggi e quando ci interroghiamo del passato ci stiamo in realtà interrogando anche del presente. Per andare a studiare l’origine della disciplina si è cercato di rinvenire le tracce della disabilità e dell’interesse nei confronti della persona con disabilità attraverso un lavoro di ricerca a ritroso molto difficile che ha tentato di ricostruire le condizioni socioculturali ed esistenziali delle persone con disabilità. Secondo CANEVARO “le tracce di uomini e donne handicappati nella storia non sono facili da individuare. I termini con cui ci si riferiva loro erano diversi a seconda delle epoche e dei luoghi. E spesso il linguaggio può ingannare se non si ha piena consapevolezza del contesto culturale in cui un determinato termine è inserito. Rinvenire le tracce è quasi impossibile”. Si fa fatica a trovare le tracce delle persone con disabilità perché loro, per gran parte della loro storia non hanno avuto modo di fare emergere le proprie tracce. Nei libri di testo e nei manuali, ad esempio, si trascurano spesso gli umili e i vinti privilegiando la figura degli oppressori piuttosto che gli oppressi. Vengono dunque proposti fatti ed eventi che sono narrati in maniera lineare e scorrevole, secondo il paradigma kunhiano della “scienza normale” in modo tale che fossero adatti per essere studiato. Tali eventi venivano dunque impoveriti fino ad essere falsati. Questo perché l’oggettività dei fatti neve necessariamente fare i conti con la realtà la quale però passa attraverso l’interpretazione, la spiegazione e la rielaborazione mentale/culturale delle persone. Nello studio storico della marginalità e delle sue manifestazioni, a mano a mano che ci si allontana dal tempo, aumenta il rischio che i fatti siano proposti in maniera oggettuale senza scontrarsi con la realtà (soggettiva) dei fatti. Secondo Uliveri, “nella società del passato le caratteristiche che definivano ogni categoria sociale, sessuale o razziale erano poche e precise. Si trattava di società statiche, dove i cambiamenti di status erano rari e difficili e dove una complessa gerarchizzazione veniva considerata come giusta e necessaria, “un’ispirazione divina”, e dove gli stessi modelli educativi razionalizzavano e preordinavano le stesse differenze economiche e sociali”. I medici ricevevano indicazioni rispetto alla necessità di lasciar morire coloro che venivano considerati “naturalmente sani di corpo e d’anima” come affermato nella “Repubblica” di Platone. Platone sosteneva che la società non potesse farsi carico delle persone con disabilità ma vi era la necessità che i cittadini maschi migliori si legassero alle cittadine donne migliori per poter ricostruire una Repubblica migliore che, secondo lui, doveva avere i filosofi a capo del Potere. Le generazioni dovevano essere costruite adeguatamente e se fosse nato un “soggetto minorato” questo avrebbe potuto essere nascosto in un luogo segreto e occulto per non perdere tempo ad educare. Anche Aristotele, in “Politica” crede che sia necessario non allevare o educare un bambino deforme perché reputava che i fanciulli imperfetti nel corpo lo fossero anche nello spirito, per cui esporli e includerli nella società non avrebbe avuto senso perché sarebbero stati incapaci di apportare dei contributi alla società. Coloro che nasceva con evidenti malformazioni venivano infatti eliminate, anche se alcune fonti sostengono che questa eliminazione non riguardasse i bambini e i neonati ma piuttosto a coloro che andavano contro la patria e quindi i traditori. Secondo Trisciuzzi nell’antichità, la necessità legata alla sussistenza alimentare e il pregiudizio giustificavano l’infanticidio del disabile, considerandola una pratica legittima. Il Monte Taigeto a Sparta e la rupe Tarpea a Roma erano i luoghi in cui questo avveniva. L’assenza di cura e l’infanticidio erano consuetudini che assunsero forme differenti (strangolamento, avvelenamento, soffocamento) e che si protrassero per lungo tempo fino al Medioevo. Nonostante la “legge della pietà cristiana” considerasse queste pratiche come un orrore, e tollerava la presenza della disabilità ai margini della società, venivano comunque praticate. Le testimonianze storiche mostrano come era vietato l’allevamento e la cura educativa dei bambini interessati da disabilità e questo rende difficile e quasi impossibile trovare le loro tracce perché non si può andare a dare identità e volto a chi li ha perduti ancora prima di poterli sviluppare ed esibire. Secondo Rita Fadda, la CURA sta alla base di ogni discorso pedagogico ma anche alla base di ogni possibile esistenza umana, prima ancora che compaiano le idee di formazione ed educazione: da questo si deduce che le persone con disabilità non venissero inserite neppure all’interno della categoria “essere umano”. 2. La nascita di uno sguardo plurale In questa ricerca a ritroso si vanno a considerare inferenze e testimonianze indirette che richiedono uno “SGUARDO PLURALE” che richiede di matrici e registri d’analisi differenti: antropologi, filosofi, pedagogici, medici, letterari e artistici che supportino la ricostruzione di un puzzle in cui ancora mancano dei pezzi. Nell’ALTO MEDIOEVO vengono fatti diversi tentativi attraverso la costruzione di confraternite e asili destinati ai ciechi che avevano, però, un carattere assistenziale e portavano alla segregazione. Nel 1784, Valentin Hauy fonda il primo istituto per l’educazione dei giovani non vedenti e, in breve tempo, sorsero istituti simili nelle più importanti città europee: Berline, Vienna, Londra, Edimburgo e Pietroburgo, e in Italia nacquero a Pavia, Napoli e Milano. Sul finire del ‘700, le persone con disabilità iniziano ad essere chiamate da Pinel come “IDIOTI”, ovvero un termine che segna un traguardo scientifico di successo in quanto consente di distinguere, definitivamente, questi dai “folli”. Secondo Roberta Caldin, bisognerebbe scrive una storia dei disabili piuttosto che una storia socioculturale dell’handicap. Una storia delle istituzioni speciali piuttosto che una storia dei deficit che sembra essere più neutrale. Oppure, bisognerebbe scrivere dei luoghi spaziali e concettuali (casa, lavoro, medicina, psichiatria, pedagogia, etc.) in cui i disabili sono presenti nel corso del tempo. Dal punto di vista metodologico le vie da intraprendere sembrano essere molteplici, mentre per quanto riguarda la storia della disabilità appare come frammentata, fatta principalmente di interferenze e fonti indirette piuttosto che delle “tracce” di testimonianza diretta lasciate dai protagonisti. La PARTE “OSCURA” DELLA PEDAGOGIA è quella prima parte scarsamente strutturata e non fondata epistemologicamente, che si sviluppa nel lungo arco temporale che va dalla fine della preistoria all’inizio del XIX secolo. È vero che vi sono delle eccezioni ma queste non consentono di fare nessun tipo di generalizzazione rispetto all’esistenza di pratiche di cura pedagogica, mosse da intenzionalità educativa e tanto meno dalla fiducia nell’educabilità e nell’umanizzazione delle persone interessate da disabilità. CAPITOLO 2: “Jean Marc Itard: dall’insindacabilità della diagnosi alla relazione educativa” 1. “Disprezzo e interesse scientifico: la diversità nella Francia di fine XVIII secolo” Secondo Zavalloni la nascita della Pedagogia Speciale proviene da apporti di diversi Paesi europei e America ma se dovessimo indicare la culla della disciplina dovremmo indicare la Francia perché a Parigi nacquero i primi istituiti per l’educazione delle persone interessate da menomazioni sensoriali uditive e visive e, sempre in Francia, si avrà una rottura dalla curiosità cronachista che è sempre esistita nei confronti dei “bambini selvaggi” perché si inizia a diffondere un certo interesse teorico e pratico di carattere medico- scientifico e pedagogico per l’educazione dei soggetti diversi. Questo momento di rottura viene segnato da JEAN MARC ITARD (1774-1838), un giovane medico che fino ad allora non era troppo conosciuto che si occupò dell’istruzione e dell’educazione di un ragazzo di circa 11 anni che era stato ritrovato “interamente nudo” da alcuni cacciatori che si trovavano nei boschi dell’Aveyron, mentre era impegnano nella ricerca di ghiande e radici di cui si nutriva. Il “selvaggio dell’Aveyron” viene successivamente chiamato Victor, un nome deciso da Itard e Madame Guerin (la governante che li accompagna con amorevolezza nell’esperienza educativa): una scelta che deriva dalla pronuncia ripetuta del fonema “oooo” da parte del giovane che ha fatto pensare come il nome “Victòr” avrebbe facilitato l’apprendimento del proprio nome. Itard, da questo punto di vista, riesce ad unire le sue doti di medico con quelle di educatore perché non rinuncia a capire come si sviluppino, da un punto di vista fisiologico e psico-affettivo, le facoltà umane di Victor. Le sue osservazioni sono infatti caratterizzate da rigore e analiticità ma comunque la sua intenzione è di matrice pedagogica. La vicenda del Selvaggio dell’Aveyron deve però essere contestualizzata all’interna di un clima culturale e sociale risalente al “Secolo dei Lumi” durante il quale si portavano avanti varie maturazioni positive in ambito scientifico e filosofico rispetto allo studio dell’uomo che era stato attivato dagli ideologues nel corso del ‘700. Si diffondono, infatti, una serie di strumenti istituzionali e concettuali che cercano di riassumere in una nuova scienza interdisciplinare: le analisi empirico-sensiste dei processi psicoaffettivi dell’uomo, gli studio medico-fisiologici sull’organismo umano e le osservazioni etno-antropologiche dei viaggiatori. Gli Ideologues portano alla nascita degli istituti per sordomuti e non vedenti e alla nascita della Société des Observateurs de l’Homme che era stata fondata nel 1799 da Jauffret e aveva come obiettivo principale lo svolgimento di indagini che oggi sarebbero definite come psico-antropologiche e si occupava anche dello studio dell’uomo nel suo stato di natura esaminando quindi, su basi positive, la sua condizione pre-civile e pre-sociale. Si cercava, dunque, di sviluppare un primo sapere legato alle diversità e alle differenze che in parte riprendeva: le classificazioni dei naturalisti Buffon e Linné; le indagini sulle origini della conoscenza umana (apprendimento) sulla base dell’empirismo lockiano; il pensiero sensistico di Condillac il quale, nelle sue due opere maggiori “Saggio sull’origine delle conoscenze umane” e il “Trattato delle sensazioni” estremizza il pensiero lockiano fino a negare la distinzione tra sensazione e riflessione, per sostenere che tutte le conoscenze derivano dalle sensazioni e che le modalità con cui si connettono tra loro sono frutto della maggiore o minore vivacità di queste. L’uomo viene considerato come statua che si risveglia e si umanizza per effetto della dinamica sensoriale. Poi, riprendeva il materialismo di Helvetius e di Diderot. Voltaire in quel tempo, invece, diffondeva le sue idee sulla tolleranza, libertà d’opinione e sulla brutalità delle procedure penali; le teorizzazioni di Rousseau rispetto alla nascita delle disuguaglianze tra gli uomini e gli effetti dell’educazione sulla loro vera natura. Lui aveva pubblicato l’Emilio in cui scriveva le ragioni proprio dell’educazione infantile e sottolineava la necessità che questa avvenisse lontano dalla corruzione, dal pregiudizio e dalle ipocrisie della società. Infine, De La Chalotais scrisse il “Saggio sull’educazione nazionale” in cui sosteneva che il problema dell’educazione per tutti doveva essere una questione di interesse nazionale. La DIVERSITA’ non veniva accettata dalla maggior parte degli Illuministi che nutrivano invece disprezzo, sia che questa fosse dovuta ad una condizione sociale e culturale o che dipendesse da malattie o a cause psichiche e sensoriali. Molti Ideologues del tempo credevano che l’istruzione popolare sarebbe stato un pericolo reale perché avrebbe determinato pericolose e assurde ambizioni da parte dei ceti più umili. Lo stesso Rousseau che, nonostante venga considerato come il padre della pedagogia moderna e dei diritti dell’infanzia, sosteneva che il povero non avesse bisogno dell’istruzione in quanto essendo nato in quella determina condizione non avrebbe potuto cambiarla e averne un’altra. Nel I libro dell’Emilio, inoltre, credeva che il suo libro dovesse essere maschio e non femmina, francese e non lappone o “negro”, nobile e non povero, e avrebbe dovuto essere in perfetta salute perché se fosse stato malato la sua educazione sarebbe stata inutile un’inutile perdita di tempo per gli altri. Nonostante questi pregiudizi, si iniziava a registrare un forte interesse verso la diversità nelle sue molteplici manifestazioni, tra cui anche quella dovuta alle condizioni fisiche e sensoriali. I bambini “anormali”, ciechi, sordi, muti “idioti” e “sauvages” nel XVIII secolo hanno appassionato medici e filosofi tant’è che ciascun filosofo francese del XVIII secolo aveva il proprio bambino selvaggio di cui parlare in ogni occasione possibile. Quindi, si prestava attenzione alla condizione degli “ANORMALI”: in questo caso il termine viene usato facendo riferimento a quella che oggi viene definita la “condizione di disabilità” ma in quel periodo storico il significato era molto più generale perché ne “L’Hopital General” venivano internati, fino all’ultimo decennio del ‘700 malati, poveri, delinquenti, folli e disabili senza nessuna separazione tant’è che venivano trattati tutti con modalità simili. Gli anormali venivano dunque trattati attraverso modalità differenti passando però dalla semplice curiosità voyeuristica alle prime forme di interesse medico e filosofico. Attraverso la loro osservazione e “studio” si potevano verificare le ancora precarie conoscenze anatomo-fisiologiche e le relazioni tra funzionamento sensoriale e sviluppo delle conoscenze. Lo psichiatra PINEL porta avanti le prime classificazioni mediche all’interno degli Asyles di Bicètre e della Salpetrière mentre Diderot inizia ad interessarsi della condizione di sordità e cecità e scrive due saggi: “La lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono” e “Lettera sui sordi e i muti”. Il loro contributo non va al di là dell’interesse clinico-nosografico (descrittivo delle malattie) e dimostra la distanza tra la filosofia della conoscenza con le realtà concrete dei problemi di adattamento degli handicappati sensoriali. Probabilmente entrambi avevano iniziato ad intuire che vi sia una correlazione tra condizioni esistenziali e di vita dei disabili e le conseguenze sociali, ma nessuno dei due sviluppò la propria attenzione verso questo aspetto. Pinel però aveva prestato attenzione al miglioramento delle condizioni di vita e di salute degli internati e infatti passerà alla storia per aver liberati i pazzi dalle catene. 2. La diversità assume identità: Jane Marc Itard e il “selvaggio dell’Aveyron”. Grazie all’hummus culturale e scientifico che si era sviluppato rispetto alle questioni legate alla diversità durante il periodo tardo-illuminista aveva fatto sì che “il selvaggio dell’Aveyron” fosse diverso dagli altri. Itard aveva accettato di sfidare il giudizio di ineducabilità che era stato emesso dall’autorità scientifica di Pinel. Il selvaggio era stato ritrovato e sottoposto ad un primo esame condotto dallo zoologo e professore di storia naturale Abbé Bonnatterre, il quale aveva riconosciuto tutte le caratteristiche dell’home ferus (ragazzo selvaggio) sulla base delle classificazioni proposte da Linné e questo offriva una buona occasione per osservare e studiare, da un punto di vista empirico, fenomeni e problemi che fino a quel momento erano semplicemente oggetto di speculazione teorica. Questa occasione era stata offerta nel momento in cui Itard, che in quel periodo lavorava come medico all’Istituto dei Sordomuti, aveva iniziato a credere che il ritardo di tutte le funzioni mentali, sensoriali e sociali manifestato dal ragazzo fossero in realtà causate dalla mancanza di cure educative, all’abbandono e alla solitudine nei boschi e non ad uno stato di Idiozia che diagnosticato da Pinel quando sottopose il ragazzo ad un secondo esame clinico. A cavallo tra il ‘500 e il ‘700 si inizia a configurare una realtà diversa dell’Idiota che è un termine che non viene considerato come dispregiativo ma uno stato patologico vero e proprio. Esquirol (maestro di Pinel) aveva fatto una prima distinzione tra pazzia e idiozia: definendolo come uno stato nel quale le facoltà intellettuale non si sono potute sviluppare e dunque l’idiota non ha potuto acquisire le conoscenze che si acquisiscono attraverso l’educazione. Gli idioti sono considerati coloro che si trovano in una particolare condizione e che devono rimanere in questa situazione per tutto il corso della loro vita in quanto l’idiozia viene considerata come una malattia incurabile, come uno stato di torpore intellettuale che non permette di sviluppare tutte le competenze umane e l’educazione non può supplire a tanti svantaggi. A differenza dei ciechi e dei sordi che venivano vengono considerati come educabili, gli idioti non lo erano perché si trovavano in uno stato intellettuale che non consentiva loro nessun tipo di intervento. L’idiozia non è dunque una malattia ma è uno stato di cose da cui non si può guarire. Pinel rimane vittima della dottrina di Esquirol e quando osserva la condizione del selvaggio dell’Aveyron crede che si tratti di uno stato di demenza o idiotismo per cui non si può fare niente. Itard, invece, non considerava il selvaggio come un adolescente colpito da imbellicità ma come un bambino di 10/12 anni con organi poco flessibili e una sensibilità ottusa aggravate dalle abitudini antisociali in cui era stato costretto a vivere. Sicard, il direttore dell’Istituto dei Sordomuti, accoglie la richiesta di Itard di potersi occupare del ragazzo e infatti ottiene dal Ministero degli Interni l’affidamento ufficiale di Victor per potersi occupare della sua istruzione e rieducazione, ponendo fine allo stato di abbandono di cui era vittima presso l’Istituto in cui era spesso lasciato sporco e veniva maltrattato dagli altri ragazzi. Era stato poi trasformato in un fenomeno da baraccone ed era oggetto della curiosità e dello scherno dei visitatori. *Victor è stato avvistato nel 1779 e poco più tardi è stato catturato e tenuto all’istituto per ciechi e sordi ed è diventato un fenomeno da baraccone. Victor diventa vittima di questo approccio e tutte le persone andavano a vederlo per semplice curiosità, come se fosse considerato come una bestia e nessuno se ne prendeva cura. Victor non è stato l’unico abbandono di bambino con disabilità ma si aveva una cultura dell’abbandono perché il concetto di infanzia non era ancora diffuso ma era in pochi ad interessarsi all’infanzia*. Dunque, inizia una relazione costante tra Itard e Victor che durò dal 1801 al 1806 e che viene da lui descritta in due diari molto dettagliati che raccontano di una relazione caratterizzata dall’unione della pratica medica, delle esigenze terapeutiche e la cura educativa. Nelle pagine della Prima Memoria si mostra contrario alla diagnosi medica fatta da Pinel in quanto lui concepiva una qualche speranza nei confronti del ragazzo a partire dalla causa e della curabilità di questo apparente “idiotismo”. Rispetto a quella che oggi potrebbe essere definita diagnosi funzionale, relativa allo stato di sviluppo intellettivo di un adolescente privato in dall’infanzia di qualsiasi educazione e sempre vissuto separato dagli altri, afferma che la risoluzione del problema darebbe la misura e la causa dello stato intellettuale del ragazzo. Itard fa dunque riferimento all’educazione perché si interroga e fa ipotesi rispetto al fatto che le condizioni esistenziali trascorse dal ragazzo costituiscono la causa del suo stato che è caratterizzato da gravi disfunzionalità sensoriali, linguistiche, intellettivo, motorie, comportamentali, relazionali ed emotive. Però, non trattandosi di un caso di idiozia, questo ritardo potrebbe essere recuperabile attraverso la riattivazione sensoriale che viene usata nell’Istituto dei Sordomuti e a cui Itard crede in quanto appartiene ai medecins-philosophes ed era un convinto sostenitore della teoria sensistica di Condillac e Helvetius. Il caso del ragazzo richiedeva, dunque, una terapia appartenente alla medicina morale mentre il riferimento ai suoi maestri medici, tra cui Pinel, non poteva essergli d’aiuto in quanto i loro precetti non potevano adattarsi a questo caso imprevisto. Per questo motivo ridusse la terapia morale (o educazione morale del selvaggio) a CINQUE OBIETTIVI in cui la componente pedagogica prevale su quella sanitaria: abbia ridotto il numero di obiettivi in cui concentrarsi o il fatto che non sia mai riuscito ad insegnare a Victor l'uso del linguaggio, non riduce la portata innovatrice della sua esperienza. È proprio con lui che la diversità ha cominciato ad acquisire identità e che la fiducia nell’educazione ha dimostrato come ogni limito nello sviluppo e alla realizzazione dell’essere umano sia in realtà infondato, a prescindere dalla sua condizione. APPUNTI: I pionieri dell’educazione: Itard, Seguin e Montessori, ovvero coloro che per primi si sono iniziati ad occupare, in maniera sistematica della disabilità, riorganizzando il proprio metodo scientifico sulla base dei bisogni e delle richieste degli individui in condizioni di disabilità. Loro vengono studiati per capire come è nato l’interesse nei confronti della persona con disabilità e la pedagogia speciale ma anche perché ci portano continuamente degli elementi utili per la riflessione e il fare pedagogico e didattico. La riflessione da una parte e l’agire educativo: guardare alla storia vuol dire capire e guardare ai processi arricchendo il bagaglio conoscitivo attuale. Itard (1774-1838) vive in un periodo legato ancora ai contributi dell’Illuminismo e in un periodo che cerca di comprendere la natura dell’uomo e dunque ci si sofferma sugli studi scientifici. La dimensione morale dell’uomo non può essere più lasciata al solo sensismo ma ha bisogno della razionalità e di un discorso scientifico; vi è dunque bisogno di una ragione pura, e pratica (la ragion pratica). Dominio della fisica come oggetto ma anche dominio della morale come soggetto tra soggetti. Itard coltiva un discorso scientifico che non si accosta a Victor per puro amore o sentimento ma per un esperimento scientifico. Lui è un medico e otorinolaringoiatra e in questo periodo (‘700-‘800) anche lo studio antropologico inizia a strutturarsi e a cercare di comprendere cosa sia l’uomo e quali siano le dimensioni che lo caratterizzano come tale. Victor veniva considerato come persona non in grado di rispondere ai propri interessi e viene considerato come “uno degli animali più deboli e poco intelligenti”. Viene considerato privo di idee innato e forse fisiche perché l’uomo nasce così ma ha bisogno di un ambiente organizzato che gli insegni come deve vivere e come deve essere. Quindi, lui si pone una questione scientifica nei suoi diari, quindi il suo intervento non nasce come educativo ma lo diventa nel corso del tempo. Si pone un quesito di metafisica non originariamente connaturato alla situazione di Victor: cercare di determinare quali sarebbero il grado di intelligenza e la natura delle idee di un adolescente privato fin dall’infanzia di ogni educazione e vissuto nel più completo isolamento dagli altri individui della propria specie. Data una determinazione di quali idee e livelli di intelligenza potrebbe sviluppare un bambino isolato dalla società e privato dalle cure che sono solitamente rivolte ai bambini. Non si sarebbe potuto, infatti, isolare un bambino per poter sperimentare su di lui sia per una questione etica ma anche perché si potrebbero studiare solo gli effetti dell’isolamento e non della sua educazione. Victor è il soggetto sperimentare che serve per risolvere questo quesito di metafisica per poter capire come si sviluppa un ragazzo privato di tutte le cure che oggi diamo agli individui, quale livello può raggiungere se essendo stato privato della socialità viene successivamente accudito ed educato. Serve per capire che l’uomo è frutto di ciò che la società gli permette di diventare ma prima di Victor questa situazione sperimentare non si era mai presentata. Itard si ammala e non riesce più ad occuparsi di Victor quindi il ministero cerca di prolungare il periodo di accudimento. Victor, quindi, tornerà in istituto ma a causa delle sue condizioni che erano state peggiorate dal periodo vissuto in isolamento morirà precocemente. Però, Itard ci ha permesso di capire che l’educazione non è un processo unilaterale ma è un processo di reciproco riconoscimento. Itard è diventato qualcuno nell’aiutare a diventare qualcun altro sé stesso: ha fatto diventare una “cosa”, fenomeno da baraccone, in soggetto; basa infatti l’educazione proposta sull’emancipazione dell’individuo. La soluzione del problema sarebbe la misura e la causa del suo stato intellettuale: essendo stato emarginato dalla società per lungo tempo non ha potuto costruire il suo aspetto intellettivo e morale che noi solitamente costruiamo con l’educazione e quindi si studia come l’educazione possa incidere nel suo sviluppo. In questo approccio potrebbero essere individuate le prime consapevolezze attorno alla concezione della disabilità proposta dall’ICF. La scienza è uno strumento di comprensione in mano all’uomo con le sue doti razionali ed emotive: la scienza un compromesso tra diverse esigenze che soffrono di stereotipi e il modo in cui la scienza si struttura rischia di organizzare il sapere secondo modalità che non avvalorano ciò che accade nella realtà e diventiamo ciechi difronte a ciò che è evidente. Nella considerazione di Itard su Victor si mostra molta attenzione sugli aspetti contestuali perché qualcuno avrebbe potuto dire che i genitori l’hanno abbandonato perché era già in queste condizioni invece secondo lui è proprio l’ambiente e l’isolamento ad averlo reso così. Coloro che avrebbero fatto quest’osservazione non avrebbero osservato bene il ragazzo e l’osservazione viene considerata come lo strumento più importante a livello educativo: lo avrebbero giudicato senza conoscerlo. Victor non ha le nostre abitudini e interessi: prende le cose dal fuoco senza bruciarsi e le ingoia direttamente, è fuggito due volte dalla casa di Itard, il suo disinteresse nei confronti delle cose che interessano l’uomo, il fatto che Victor anziché camminare piano iniziasse spesso a galoppare, non ha assunto la masticazione molare tipica nostra ma con gli incisivi, e si cibava principalmente di vegetali. Molte di queste osservazioni mostrano come lui e le sue condizioni siano frutto di un isolamento prolungato e del suo stato di pieno abbandono. È dunque un problema di piena emarginazione che non gli concesso di assumere le competenze che assumono i ragazzi tenuti in società e soggetti ai processi educativi e formativi. CAPITOLO 3: “Edouard Seguin e l’educazione degli idioti” 1. Premessa L’interesse per la diversità, sia legata alle condizioni di disabilità che alla follia, nasce in Francia grazie agli interventi di Pinel e di Esquirol (suo allievo) che portano l’attenzione verso i problemi igienici e medico legali relativi ai malati di mente. Pinel “libera i pazzi dalle catene” però secondo Foucault, in questo modo, fa diffondere la follia in tutta la popolazione di Bicètre, nascondendola in tutte le forme concrete della ragione e rendendola dunque ancora più confusa rendendo impossibile la sua separazione dagli altri elementi. Esquirol denuncia le condizioni degrado degli ospizi e delle prigioni all’interno delle quali vengono rinchiusi gli “alienati” e propone la creazione di istituti specializzati nelle 26 divisioni giudiziarie della Francia (che hanno un diverso Codice civile). Secondo De Anna da un lato si rafforza il potere della medicina rispetto alle altre discipline dello spirito e dall’altro si riconoscono gli interventi medici come solo ed esclusivamente terapeuti, dunque limitanti, facendo emergere un maggiore interesse verso gli interventi educativi. All’interno degli Asyles non si distinguevano le condizioni dei differenti internati e le cause che avevano portato alla loro custodia (nonostante Pinel avesse già distinto la follia dall’idiozia ed Esquirol aveva distinto l’idiozia dalle altre varie forme di idiotismo) perché l’interesse teorico e pratico della psichiatria nei confronti degli idioti era molto scarso. Sia Pinel che Esquirol credevano che l’idiozia non fosse una malattia ma “uno stato, una condizione” perciò l’intervento educativo avrebbe consentito un recupero limitato delle funzioni a differenza del trattamento morale e fisico degli alienati (considerati come veri malati) li avrebbe condotti alla loro guarigione. 1.1. Eduard Séguin: brevi cenni biografici Edouard Séguin (1812-1880) fu un educatore, non un medico, che iniziò a mostrare un interesse educativo nei confronti degli idioti presso la San Petriere che è l’istituto medico-pedagogico di Parigi in cui lavora anche Itard, suo maestro. *Dichiara di dover fare un passo in avanti rispetto ad Itard ma comunque riconosce i suoi meriti. Riprende, ad esempio, alcuni aspetti dell’idealismo di Hegel*. Solo dopo aver realizzato una parte rilevante della sua opera acquisì anche la laurea in medicina, probabilmente per stemperare l’asprezza e i pregiudizi che i medici del tempo nutrivano nei confronti della sua persona e del suo operato. Da ragazzo venne chiamato dal direttore dell’”Hopîtal des enfants malades”, Guersant, per occuparsi di un ragazzo idiota dopo che Itard aveva rinunciato a causa dei suoi numerosi impegni e la sua precaria salute. Da quel momento in poi, per circa 50 anni, Seguin si dedica prima in Francia come educatore e studioso e poi negli Stati Uniti, come docente universitario, al TRATTAMENTO DELL’IDIOZIA. Egli però portò avanti delle idee innovative e coraggiose per il tempo e questo infatti gli costò, non poco, dal punto di vista personale e professionale. Nel 1838 pubblica con Esquirol una relazione sulla sua esperienza con il ragazzo affidato da Guersant e da qui instaurano una collaborazione fino al punto in cui Esquirol verrà considerato anche come suo maestro. L’anno successivo pubblicarono assieme una seconda relazione che mette in evidenza come Séguin, riprendendo il metodo di Itard, avesse insegnato al suo allievo in soli 18 mesi a “servirsi dei sensi”, a ricordare, a parlare, a confrontare, a scrivere, a fare i conti e a cantare. Per questo motivo il MINISTERO DEGLI INTERNI gli diede l’incarico di proseguire la sua attività di educatore e di tenere delle lezioni ai medici dell’Ospedale degli Incurabili (1841) e a Bicètre (1843) ma la sua collaborazione si concluse nel 1846 a causa dell’ostilità da parte dei medici nei suoi confronti. Nel frattempo, aveva attiva in rue Pigalle una scuola privata per il recupero integrale di coloro che oggi vengono definiti come interessati da disabilità mentale; questa scuola era libera da qualsiasi condizionamento sociale e culturale esterno e perciò diede avvio ad una riflessione organica che evidenziava, per la prima volta nella storia, la necessità di un’educazione completo des idiots per avviarli alla loro integrazione culturale, sociale e anche LAVORATIVA (è il primo a pensare di dare lavoro agli idioti perché devono essere utili a sé stessi e alla società e non devono vivere sempre in una condizione di degrado in cui nessuno si occupano di loro e loro non sono in grado di farlo da sé. La persona in condizione di disabilità deve essere considerata come parte integrante della società anche se a quel tempo non si poteva far parte della società se non poteva far parte dei settori produttivi e quindi Seguin pensa di fargli fare esperienza di integrazione attraverso il lavoro in modo che possano trovare piena espressione di sé anche attraverso una piccola attività lavorativa). Con grande creatività portò avanti anche la progettazione e la realizzazione di materiali didattici che giungono fino ai nostri giorni. Nonostante questa sua ricca esperienza viene però accusato di maltrattamenti nei confronti dei suoi piccoli ospiti che gli era stata rivolta molto probabilmente per questioni economiche dalla padrona dello studio in cui li riceveva; questa accusa lo portò ad affrontare un processo diffamatorio che lo addolorò molto nonostante l’accusa verrà poi sciolta. Nonostante i riconoscimenti di merito ricevuti per la sua opera iniziale “Traitement moral, hygiène et education des idiots et des autres enfants arrieres” (1846), le varie vicende processuali e la sua insofferenza per i medici del tempo e la politica di Napoleone III lo portarono a prendere la decisione di emigrare nell’America del Nord. Qui conseguì la laurea in Medicina ma soprattutto fu docente universitario: riuscì perciò a diffondere le sue idee, le quali vennero accolte con consenso e che lo portarono ad essere considerato come uno tra i maggiori esperi di educazione speciale. Morirà a New York nel 1880 dopo essere tornato per un breve periodo in Francia, dopo aver pubblicato nel 1866 il “Trattato sull’idiozia e suo trattamento col metodo fisiologico” e aver ricoperto importanti incarichi educativi in ambito internazionale. 2. L’educazione degli idioti: pensiero e metodo Séguin, nella sua opera principale, riflette sul suo pensiero e sul significato che per lui assume l’educazione speciale. Le sue vicende biografiche furono influenzate dal suo carattere autonomo, idealista e schietto che lo portarono a prendere le distanze dal pensiero dominante del tempo. Nel “Traitement moral”, di oltre 500 pagine, analizza e definizioni di idiozia precedenti al suo lavoro che lui critica perché provengono tutte dall’ambito medico e che tengono conto solo dell’aspetto psicologico del problema. Critica, infatti, i medici che nello spiegare cosa sia un’idiota rispondono che è “un uomo che non ha molta intelligenza” senza rendersi conto che è proprio la maggiore o minore intelligenza ad essere conseguenza del suo stato: critica, dunque, i medici che hanno per lungo tempo parlato dell’idiozia senza mai comprendere effettivamente che cosa fosse perché prima non vi era un vero e proprio interesse nei confronti della disabilità ma si trattava più che altro di semplice curiosità. Critica persino il medico Esquirol che aveva fatto dimenticare Pinel. La sua affermazione relativa al fatto che l’idiozia non possa essere considerata come una la malattia ma come uno “stato nel quale le facoltà dell’intelletto non si sono mai manifestate o non si sono potute sviluppare sufficientemente in modo che l’idiota abbia potuto acquisire conoscenze legate all’educazione che gli individui della sua età, posti nelle stesse condizioni, ricevono” per Séguin, non fa altro che aumentare la confusione in quanto non si tratta di una vera e propria definizione. Dicendo che l’idiozia non è una malattia Esquirol mostrava come in realtà non fosse in grado di dire cosa essa fosse realmente. Inoltre, l’idiozia non può essere considerata come un’assenza di intelligenza perché, secondo Seguin Esquirol confonde le cause con gli effetti. sono più o meno atrofizzati a causa di un’esistenza ferma in cui la personalità psichica, fisica e morale si limita ad una sola facoltà: la MEMORIA”. * Critica il fatto che non ci si occupa di altri aspetti che non siano strettamente intellettuali: “Non ci occupiamo della motricità” quando in realtà la motricità è fondamentale nello sviluppo intellettuale della persona. L’uomo è costituito quindi da più facoltà e dimensioni dello sviluppo intellettivo che però sono atrofizzate per il fatto che la persona è ferma dal punto di vista corporeo e mentale perché non gli viene data l’occasione di muoversi se non solo con la memoria (che viene considerata come la facoltà principale dell’intelligenza). * Egli crede che non si possa fare a meno dell’educazione per crede sia necessario abbandonare l’educazione delle sole facoltà intellettuali (che definisce come lebbra viva dei tempi moderni) per passare ad un’educazione che sia rivolta alle masse e che prenda in considerazione l’uomo tutto intero e dunque le sue facoltà, funzioni e attitudini anziché solo la sua memoria (riprende i principi della vera fisiologia e psicologia dall’Emilio di Rousseau): gni funzione dell’individuo (cerebrali, sensoriali, movimento, manuali, intelligenza e moralità) deve essere sviluppata e potenziata il più possibile. Crede che sia dunque possibile migliorare l’educazione per tutti e quindi anche per gli idioti che, nonostante abbiano maggiori difficoltà, usufruirebbero di un intervento multidisciplinare che consentirebbe di cogliere le proprie risorse direttamente da quelle discipline più progredite per il tempo: religione, filosofia, psicologia e igiene. Queste sono le discipline che dovrebbero costituire la dottrina pedagogica in modo tale che possano essere applicate a quei casi patologici che vengono invece trattati dalla medicina, che lui invece critica. Oggi nessuno condividerebbe le idee di Seguin perché considera la PEDAGOGIA come un aggregato di altre discipline oppure l’INTERVENTO EDUCATIVO come l’esercizio di un formulario clinico. Ha però il merito di aver smascherato e combattuto i pregiudizi e convenzioni del tempo, ponendo al centro del suo pensiero l’educazione e il tema della presa in carico educativa dei disabili mentali, sottolineando l’importanza del contesto affettivo e sociale che deve essere accogliente e ricco di relazioni significative che stanno alla base di un intervento educativo competente. Secondo lui, l’EDUCAZIONE DEL GIOVANE “IDIOTA” deve rivolgersi all’uomo nella sua integralità e deve includere: l’attività, l’intelligenza e la volontà che corrispondono ai tre aspetti dell’essere umano: il sentimento, l’intelletto e la moralità. Il suo PROGRAMMA EDUCATIVO deve consentire di sviluppare le capacità di: VOLERE, POTERE e SAPERE. Si deve partire dalle attività concrete e dalla semplice imitazione per poter sviluppare le abilità del pensiero attraverso cui giunge al controllo della volontà morale. Secondo lui, infatti, se inizialmente si privilegia l’educazione dei sensi si sviluppano nell’educando le nozioni che sono strettamente connesse e derivata dalle esperienze sensoriali, attraverso le percezioni, e rappresentano la porta d’accesso alle idee che derivano dalla capacità dell’educando di svolgere operazioni induttive e deduttive su di esse. Un esempio di nozioni viene presentato dall’insieme dei concetti che Seguin individua come base per lo studio della lettura: il piano, il colore, l’astrazione lineare, le dimensioni, la configurazione, il rapporto del nome con la figura, il rapporto della figura con il nome, il rapporto di una sola emissione di voce o sillaba con più segni. Attraverso processi d’induzione e deduzione, che sono innati, le nozioni danno luogo alle idee. Questo vuol dire che la nozione si sviluppa attraverso un’operazione passiva di percezione mentre l’idea attraverso un’operazione attiva; la nozione ha come base i sensi mentre l’idea nasce dal ragionamento; che se i sensi sono orientabili e possono essere perfino costretti a percepire una nozione, non si può costringere il ragionamento a funzionare, dunque, si possono imporre le nozioni ma non le idee. Dalle considerazioni di Canevaro e Gaudreau si evidenzia come il metodo di Seguin si fissa in 3 fasi o tempi: - la FISSAZIONE: attraverso la ripetizione variato dello stimolo, l’allievo assimila un nuovo elemento che si fissa per comparazione con le precedenti acquisizioni (simili e differenti). Per fare questo l’educatore mobilizza al massimo l’attenzione e la concentrazione dell’allievo che userà la ripetizione sistematica e la manipolazione concreta; - il RICONOSCIMENTO: attraverso l’individuazione della risposta esatta tra le diverse possibili, si verifica la capacità dell’allievo di decodificare quanto appreso in precedenza. Risulta funzionale la mobilitazione dell’attenzione sul ragionamento possibile e l’analisi degli eventuali errori e insuccessi. - l’EVOCAZIONE: rappresenta la fase di apprendimento più complessa per chi è interessato da deficit mentale perché consiste nell’evocare l’oggetto di interesse in sua assenza: una parola, una frase, un viso, una melodia etc. Secondo Seguin si deve procedere dal noto all’ignoto, dal semplice al complesso, dal concreto all’astrato: tutto questo deve essere compiuto, se possibile, in modo ludico, nei luoghi di vita e in quelli dello studio, coinvolgendo anche i familiari che devono essere costantemente guidati dal maestro affinché l’educazione che è libertà conferisca all’idiota, oltre alla possibilità di inserimento socio-lavorativo, anche la possibilità di governare la propria volontà la quale rappresenta il motore di tutti gli atti fisici e intellettuali della specie umana. È proprio questo governo che consente alla persona di fare propri gli insegnamenti del trattamento morale che rappresenta il principio e il fine dell’educazione, e dunque coincide col suo stesso metodo. Secondo Caldin Seguin può essere rappresentato come l’interprete del continuo transito tra teoria e pratica, capace di individuare l’originalità e la peculiarità di ogni suo allievo senza mai fare generalizzazioni; costruisce, semmai, le basi teoriche su cui costruire nuovi fondamenti operativi che tengano conto di tutte le dimensioni, e non di una sola a discapito della altre. Gaspari crede che egli sia il precursore dell’AMORE COMPETENTE ovvero un atteggiamento intenzionalmente educativo che rappresenta l’educatore nel momento in cui è impegnato a ricercare il senso e il significato della relazione educativa basata sulla reciprocità con l’altro, per poter progettare con lui un percorso di formazione che sia basato su elementi di conoscenza coerenti, scientificamente elaborati e aperti a costante aggiornamento e continua revisione. Secondo Canevaro, Gaudreau e Crispiani può essere considerato come un anticipatore dell’educazione ecologica globale secondo il modello di Bateson. Altri autori sottolineano aspetti importanti della sua opera: la valutazione pedagogico-clinica, la centralità della sensorialità e della corporeità (anticipatrici della moderna psicomotricità); l’educare attraverso l’igiene, l’abbigliamento, l’alimentazione. I precorsi didattici e l’invenzione e costruzione di sussidi; l’importanza dell’educazione familiare precoce; l’educazione come orientamento al lavoro; i primi riferimenti alla sessualità. Seguin quindi si pose il problema di definire chi fosse l’idiota ma si imbatté in problemi più legati all’educazione e alla Pedagogia Speciale. Dopo Itard si è ritrovato a dover dilatare i confini della realtà umana riconoscendola nella dignità di una condizione e di una forma che invece prima venivano rifiutate. APPUNTI: Itard è stato il primo ad avere fiducia nell’educazione, però Seguin è colui che ci fa capire come per poter fare qualcosa per gli idioti bisogna rivoluzionare lo sguardo che abbiamo nei confronti degli idioti a partire dal modificare lo sguardo che abbiamo nei confronti dell’educazione stessa. Secondo Seguin Itard non ha considerato Victor come un’idiota frutto di una menomazione congenita ma come il frutto della lunga emarginazione e isolamento. È necessario cambiare lo sguardo nei confronti della disabilità intellettiva perché non può essere considerato come uno che “non può nulla” ma bisogna cambiare lo sguardo e dargli le possibilità necessarie affinché possa effettivamente fare ed essere qualcosa/qualcuno. La Pedagogia deve essere una scienza in continua ricerca individuando i bisogni dove emergono e le azioni non devono essere “razionali e sempre uguali” ma azioni diverse per rispondere a persone diverse (per la loro emancipazione). Bisogna avere fiducia nell’osservazione e capacità di osservare (Itard), sguardo rivoluzionario nei confronti della pedagogia e della disabilità (Seguin). CAPITOLO 4: “DALLA FRANCIA ALL’ITALIA: MARIA MONTESSORI” 1. “Deficit psichico”: dai primi interessi internazionali al contesto culturale italiano. L’interesse nascente nei confronti delle differenti condizioni di disabilità, i vari apporti di Seguin, Itard, L’Epée, Pereire, Braille etc. per l’educazione dei sordi e dei non vedenti, intrecciandosi con il filantropismo educativo (uguaglianza e fratellanza umana) che caratterizzò il XIX Secolo, fecero sì che aumentasse l’attenzione nei confronti delle difficoltà sensoriali e psichiche e che aprissero, in Europa, gli istituti per l’accoglienza e l’istruzione per i disabili. Anche per il trattamento del deficit psichico (idiozia, imbellicità, cretinismo, demenza, deficienza, ritardo) sorsero delle istituzioni più o meno specializzate come istituti, asili, ospizi, scuole e classi che sottolineano come a partire da quel secolo emerge ancora di più il concetto di EDUCABILITA’ DEL SOGGETTO DISABILE. Il medico francese Bourneville raccolse i numeri delle istituzioni e modalità culturali e metodologiche con cui si diffondeva l’interesse europeo nei confronti dell’educazione dei disabili psichici (si ricordano le esperienze di Guggenbuhl in Svizzera con l’educazione dei cretini, gli asili dell’Inghilterra, la prima scuola per “imbecilli” fondata da Miss White nel 1846 o il 1828, anno in cui a Salisburgo verrò aperta la prima scuola per cretini); questi dati verranno riportati da Giuseppe Montesano nel suo lavoro sui “deficienti, amorali e delinquenti” sottolineando il fenomeno culturale, scientifico e sociale legato alla questione deficienti. Egli riporterà una serie di nomi di medici ed educatori, scuole e istituti che mostrano come nella prima metà dell’800 anche in Belgio, Danimarca, Austria, Olanda, Russia, Svezia, Finlandia, Stati Uniti e Argentina si sia sviluppato il tema della disabilità e come alla fine del secolo abbia richiamato un interesse disciplinare medico psichiatrico ed educativo. L’interesse nei confronti della disabilità è stato influenzato da diversi fattori di natura economica, che con lo sviluppo scientifico e le trasformazioni sociali hanno portato alla possibilità di impiegare alcune categorie di disabili come FORZA LAVORO: collocando i disabili in posti marginali, ma comunque utili per lo sviluppo industriale, si sono create le condizioni affinché si sviluppassero le giuste sensibilità e consapevolezze che stanno alla base del processo d’integrazione: la necessità di conoscere il disabile dal punto di vista psichico oltre che fisiologico; la consapevolezza che l’emarginazione nasca dalla presenza di particolari costumi e modelli culturali e che l’integrazione apra ad un processo di pieno sviluppo della persona umana. Questo processo d’integrazione deve però essere condotto in modo organico, ovvero organizzato, programmato e finalizzato al raggiungimento di obiettivi concreti, realizzabili e verificabili. In Italia, alla dine del XIX secolo, il tema della disabilità ha acquisito rilevanza anche per altri fattori appartenenti all’ambito accademico. A partire dal 1874, dalle esperienze antropologiche di Cesare Lombroso che andavano ad interpretare e classificare da un punto di vista psicometrico la malattia mentale in base a fattori eziopatogenetici organici, sociali e psicologici, nasceva in Italia la SOCIETA’ DI FENIATRIA. È stato scelto questo nome, e non “psichiatria” per prendere le distanze dal modello francese “Societè Medico-Psychologique” perché la psichiatria italiana di matrice medica non volesse mettersi in dialogo con discipline limitrofe come la filosofia e la psicologia. Nel 1877 Andrea Verga, il primo presidente dell’associazione, si riferiva agli idioti definendoli frenastenici per mettere in evidenza come non ci si trovasse difronte ad una vera e propria malattia ma ad una DEBOLEZZA delle funzioni cerebrali che veniva considerata incurabile, di cui non si dovevano occupare i medici ma piuttosto i filosofi o i naturalisti. Secondo Babini questo metteva in luce che lo studio degli anormali era più legato ad una tradizione filosofica che medica e che, infatti, i più prestigiosi esponenti erano Itard e Seguin. Nel 1880 Enrico Morselli, un famoso psichiatra tra i fondatori della Società di Freniatria, riprese un concetto di Verga all’interno di un articolo: pensava che fosse necessario costruire istituti specializzati o sezioni separate all’interno dei manicomi così da potersi occupare di: idioti, imbecilli, arretrati. Credeva, infatti, che in Italia la situazione era arretrata rispetto al resto dell’Europa e in particolare degli Stati Uniti in cui erano veniva applicato il metodo di Seguin ed erano stati costruiti diversi istituti. La psichiatria italiana si iniziò a confrontare con diverse IDEE e DISCIPLINE rispetto alla necessità di separare i trattamenti della frenastenia e della malattia mentale: l’antropologia sociale di Sergi (riprendeva l’evoluzionismo di Spencer e la teoria degenerativa di Morel) che sosteneva l’importanza di un’educazione igienica, sanitaria e morale che operasse tra repressione e prevenzione * Giuseppe Sergi fonda un discorso sulla psico-antropologia e lavora presso il Laboratorio di Psicologia Sperimentale (Roma). Per Sergi è necessario orientare l’opinione pubblica che nella scuola si trova il luogo cruciale per il progresso e la costruzione di una società migliore: i bambini devono poter crescere e diventare adulti con più risorse per effettuare scelte esistenziali che non siano necessariamente legate a necessità di carattere economico. In quel periodo l’uomo vive per lavorare e quindi vi è un capovolgimento dell’equilibrio di salute. L’uomo lavora per circa 14h al giorno e anche i bambini lavorano nelle miniere per circa 10h. L’uomo senza possibilità di emancipazione non può opporsi a queste condizioni di sfruttamento. Sergi si è imposto con la sua idea di EUGENETICA ECOLOGICA: scopo di migliorare le condizioni di vita sociale per tutti attraverso l’educazione. * Vi era poi la pedagogia positivistica che mostrava l’esigenza di rinnovare i metodi educativi ed era favorevole all’approccio biologistico peri problemi educativi e sociali; la psico-fisiologia sperimentale che voleva operare attraverso l’oggettività. plurale. Nel 1900 fonda e dirige a Roma la Scuola Magistrale Ortofrenica e la rivista “L’assistenza ai minorenni anormali”. * 3. L’interesse per il deficit mentale e l’impegno in prima persona L’interesse per la disabilità mentale e per l’educazione nasce in due momenti: prima quando la Montessori inizia ad interessarsi e a partecipare attivamente al clima culturale del periodo tra la fine del XIX secolo e gli inizi del ‘900. L’intreccio tra medicina, politica sociale e femminismo pratico. Successivamente attraverso le esperienze dirette di studio e di lavoro che la Montessori intraprende fin da quando frequentava la sezione minori della Clinica psichiatrica romana. A partire da qui ebbe modo di interessarsi ai bambini idioti ricoverati nel manicomio e condivise la sua esperienza con Montesano, all’interno di un clima radicalmente cambiato rispetto ai precedenti 20 anni. Il problema dell’idiozia era stato considerato da Verga come non riguardante lo psichiatra ma, a seguito della diffusione delle idee di Morel, e condivise da Lombroso attraverso il concetto di “degenerazione” anche la frenastenia, l’imbellicità e le diverse deficienze erano state considerate all’interno di una più vasta tipologia di anormalità intellettuali, morali e sociali e dunque erano entrate a far parte del dibattito medico scientifico. L’idiozia rischiava perciò di non aver spazio all’interno della scienza del tempo, anche perché l’Italia era arretrata rispetto alle altre nazioni europee; era un problema istituzionale e sociale che necessitava di interventi politici, cura sanitaria e educativa. Negli anni successivi alla laurea collabora con Bonfigli, Montesano e altri per la costituzione della LEGA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DEI FANCIULLI DEFICIENTI nel 1899. Già nel 1898 però aveva assunto una posizione ufficiale e pubblica di rilievo durante il primo Convegno Pedagogico Nazionale a Torino durante il quale interviene a nome dei medici psichiatrici per far conoscere le idee e il programma della Lega. Affermò che durante questo colloquio si sentì un’intrusa perché in quel tempo il legame tra medicina e pedagogia non era ancora chiaro e l’obiettivo che si poneva non era semplice perché si trattava di ricercare l’appoggio dei pedagogisti per realizzare un programma educativo sulla base delle conoscenze mediche. In quel periodo la principessa Elisabetta D’Austria era stata assassinata per mano di un italiano e questo diede l’occasione alla Montessori per sottolineare ai pedagogisti come il problema della degenerazione e il diritto di tutti i bambini di essere educati, specie di quelli a rischio di degenerazione in quanto poveri, malati e abbandonati, veniva troppo sottovalutato: lei sosteneva che il problema dei deficienti riguardava una questione prevalentemente pedagogica e non medica. L’intervento della Montessori fu molto convincente a tal punto che un congresso di insegnanti approvò un DOCUMENTO in cui si approvava l’inserimento dell’argomento all’ordine del giorno del successivo Convegno Pedagogico di Napoli (1901) e si chiedeva che i bambini affetti da “speciali caratteri degenerativi” (che non possono trarre nessun profitto dalla scuola comune ma devono essere educati a parte da maestri dotati di attitudini e cognizioni particolari) venissero posti sotto tutela educativa dello Stato all’interno di classi aggiunte presso le scuole elementari e di speciali istituti medico-pedagogici per i più gravi. Gli insegnanti delle scuole normali dovevano specializzarsi seguire tali individui, a seguito, però, di corsi a livello universitario. Il successo ottenuto durante il Convegno verrà riconosciuto anche qualche mese dopo dal Ministro Della Pubblica Istruzione Baccelli che incaricò Maria Montessori a svolgere in tre Scuole Normali di Roma un corso sulla pedagogia emendatrice a cui parteciparono politici e professori illustri. Questo successo verrà menzionato sulla stampa perché la Montessori affrontò temi di rilevanza sociale fino ad allora ignorati: “parlò circa un’ora e attirò l’attenzione del pubblico. La sua parola di scienziata, efficace nella sua apparente semplicità ma di valore, operò il miracolo di far cessare qualche ironico sorriso sull’opportunità e sui benefici delle teorie, altrove già trionfanti, e per le quali la buona e colta giovane combatte con la forza e con la fede di un apostolo” (Don Chisciotte di Roma, 1899). Babini e Lama parlano anche di uno scambio epistolare tra Montessori e il Ministro della Pubblica Istruzione e anche con il Duca di Fiano in cui lei si dichiarava a favore dell’istituzione di classi per deficienti all’interno degli asili e nelle créches (attuali asili nido), anche nei piccoli paesi dove sono invece presenti interi asili riservati ai deficienti, come avrebbe voluto il Duca, che però reputa come superflui. Questa posizione verrà successivamente riportata al Convegno Pedagogico di Napoli del 1901 in cui verrà proposta una classificazione nosodiagnostica che distinguendo “gravissimi, ineducabili, parzialmente educabili, gravi educabili e parzialmente validi, tardivi e lievemente sub-normali” diede vita agli Istituti Medico Pedagogici, scuole speciali esterne, classi aggiunte a quelle normali; dunque un’organizzazione istituzionale che in Italia è rimasto inalterato fino alla metà degli anni ’70 del ‘900. La Montessori pubblicò diversi articoli in cui sottolineava il ruolo dell’educazione morale per il recupero dei frenastenici, si impegnava in molte conferenze per l’Italia a divulgare le idee e raccogliere fondi. Questo gli offrì l’occasione per visitare istituti e ospedali dove sottolineava la necessità di sostituire la precedente concezione della carità con la prevenzione e la fondazione di istituti pubblici di ricerca, cura e educazione. Nel 1900 aprì con Montesano la prima SCUOLA MAGISTRALE ORTOFRENICA in Italia al quale era annesso anche un piccolo asilo-scuola in cui gli insegnanti avevano modo di svolgere il tirocinio: Sergi, Bonfigli e Sciamanna furono fondamentali per questa scuola e assieme riuscirono a preparare i maestri di Roma all’uso dei metodi speciali di osservazione e educazione dei fanciulli frenastenici. Lei lavorerà anche a Londra e a Parigi dove insegnò direttamente ai bambini e orientò le educatrici dei frenastenici dell’istituto. Quest’esperienza le servì per capire che i metodi usati per insegnare agli idioti contenevano più principi razionali rispetto a quelli usati nella scuola pubblica e dopo aver constatato che i risultati ottenuti da alcuni dei suoi allievi agli esami della scuola pubblica erano migliori rispetto a quelli degli allievi normali, decide di dedicarsi a questi ultimi. Diede vita ad una forte polemica nei confronti della pedagogia scientifica del tempo perché fondata sull’antropometria e la psicometria, e sottolineò l’importanza del valore preventivo dell’educazione modificatrice rispetto a quella misuratrice presente all’interno dell’educazione pubblica che anziché incoraggiare e stimolare gli allievi, finiva per inibirli e soffocarli: tutto ciò la portò a ridurre il suo interesse nei confronti dei disabili mentali (nonostante deciderà di aprire la Casa Dei Bambini) e ad occuparsi dell’insegnamento universitario e dell’impegno nei confronti dell’infanzia. Il sistema educativo delle CASE DEI BAMBINI nasce da diverse esperienze fatte sui bambini anormali. L’esperienza della Casa dei Bambini nonostante fosse rivolta a una tipologia precisa di allievi (quelli maggiormente deprivati dal punto di vista sociale e culturale) si diffuse rapidamente oltre i confini italiani e rappresentarono a livello mondiale un modello educativo valido tutt’oggi a livello internazionale. * La casa dei bambini nascono nel quartiere di San Lorenzi a Roma, ovvero una parte della città organizzata senza elementi razionali di urbanizzazione adeguati in cui i bambini affollano le strade: questa è la base del degrado sociale. In via dei Marsi nel 1907 nasce la Casa dei bambini in cui si danno idonee opportunità educative e si rieducano anche le stesse famiglie per far sì che siano più attente rispetto ai bisogni dell’infanzia. * Montessori diventò “cittadina del mondo” e dopo aver viaggiato per l’Europa, l’America e l’India. Morì a 82 anni in Olanda. 4. L’educazione come libertà Gli studi condotti su Itard e Seguin portarono la Montessori a pensare che Itard possa essere considerato come il vero fondatore della pedagogia scientifica e sperimentale perché basata su un metodo capace di modificare la personalità degli allievi e che Seguin avesse invece il merito di aver portato a compimento un vero sistema educativo per i fanciulli deficienti. Durante la vista a Londra e a Parigi per osservare personalmente i materiali didattici elaborati dai due e anche per capire come fosse applicato il metodo di Seguin attraverso l’osservazione degli insegnanti di Bicètre, capì che questo metodo era stato in realtà “meccanizzato”. Il metodo di Seguin era stato infatti sottovalutato dalla pedagogia perché rivolto ai bambini idioti e frainteso dagli stessi educatori: secondo la Montessori “non solo poteva migliorare i deficienti, ma anche i normali!”. Sperimentò infatti questo metodo con i suoi allievi riprendendo però quella spiritualità con cui Seguin l’aveva costruito e che invece si era persa. Secondo lei, i maestri prima ancora di affidarsi alle indicazioni dei metodi e dei materiali dovevano apprendere bene come relazionarsi con gli allievi destando in loro “l’uomo che vi sta assopito” attraverso: l’incoraggiamento, il conforto, l’amore e il rispetto che costituiscono la chiave segreta che serve per aprire l’anima umana. Senza questa chiave, qualsiasi stimolo risulta essere inutile. Montessori riprende alcuni aspetti del metodo di Seguin, come la “lezione dei tre tempi” proponendola in un ambiente su misura di bambino assieme ad un materiale didattico vario che viene rielaborato personalmente partendo da quello di Seguin e che considera funzionale per lo sviluppo sensoriale tanto da attribuirgli valore auto-correttivo. L’insegnante deve usare lo spirito da scienziato per osservare l’umanità e unire le esigenze del bambino all’ambiente che deve essere predisposto per la sua attività. La pedagogia di Montessori ha come obiettivo l’AUTONOMIA e la LIBERTA’ dell’allievo e (a differenza della inazione antropometria pedagogica e della psicologia sperimentale del tempo) condivide con Itard e Seguin l’idea che attraverso l’educazione sensoriale si compia un’azione modificatrice che agisce sulla coscienza per risvegliarla e attivare i rapporti con l’ambiente esterno, mettendo in armonia intelletto e realtà esterna. Lei prende però le distanze dai due studiosi per alcune loro proposte che non sono funzionali; fa, infatti, l’esempio dell’apprendimento della scrittura in cui loro compirono due grossi errori. La concezione educativa proposta dalla Montessori è molto più raffinata per le conoscenze neuro- psicobiologiche e psico-pedagogiche e questo la rende consapevole di quanto l’educazione possa diventare soffocamento e condizionamento anziché libertà e spinta verso l’autonomia, ovvero emancipazione. Lei intuisce la presenza di un profondo psichismo dell’infanzia che la avvicina alla pedagogia di indirizzo psicanalitico e si occupa di predisporre un PROGETTO PEDAGOGICO che abbia come obiettivo principale quello di eliminare tutto ciò che ostacola il normale sviluppo della personalità del bambino in modo che il bambino, che ha già dentro di sé tutte le condizioni necessarie per svilupparsi nel modo migliore possibile, possa farlo attraverso l’educazione. Il metodo, l’ambiente, i materiali e la vigilanza, attiva ma discreta, delle maestre possano aiutare il bambino a fare da solo. I principi fondamentali sono: 1) La libertà del bambino: il maestro osserva l’espletarsi dei fenomeni per individuare gli stimoli necessari che promuovano determinati fenomeni. Pinel fu il primo ad osservare il bambino. Itard è il punto di riferimento per la Montessori rispetto all’osservazione dell’individuo e Seguin diventa il punto di riferimento necessario per la realizzazione di un metodo che consente lo sviluppo intellettivo della persona. Per fare questo bisogna pensare ad ogni materiale come che questo consenta ogni tipo di sviluppo del bambino e di diverse funzioni e abilità. Montessori rivendica la diversità del bambino dall’adulto, la libertà di sviluppo, la condizione e scopo, rispetto dei ritmi e dell’identità psicologica. 2) L’ autonomia del bambino: “aiutami a fare da solo” con i miei metodi la maestra insegna poco, osserva molto e ha la funzione di dirigere le attività psichiche del bambino. chi non comprende che insegnare ad un bambino a mangiare è più difficile che imboccarlo. Il primo è lavoro dell’educatore, il secondo dell’ambiente. È convinta che il bambino sia in grado di fare da solo se c’è una maestra e dei materiali che lo spronino ad impegnarsi e a crescere. Orienta l’attività del bambino ma non vi si sovrappone. È il materiale che indica al bambino come gestirli: il bambino capisce da solo che deve mettere un cubo più piccolo sopra quello più grande per costruire una torre che sia stabile. Chi non comprende che l’educatore non deve sostituirsi al bambino non può fare l’educatore. Molte volte in famiglia ci si sovrappone al bambino in termini di accudimento non lasciando lo spazio di autonomia che il bambino richiede. 3) AMBIENTE: Accessibilità, incoraggiamento e materiali. * Lei ha dato FIDUCIA all’infanzia proprio a partire da quei soggetti che per cause biologiche e socio- culturali mostravano meno capacità e possibilità di crescita e maturazione. Ha prestato ATTENZIONE all’infanzia e ai suoi periodi come “luogo di soggiorno” e non solo di “transito” rivolgendo loro cura educativa e pedagogica. * I BAMBINI sono la speranza del mondo ma le loro esigenze non sono comprese dagli adulti nel giusto modo (adultizzazione precoce che gli impedisce di vivere l’infanzia, investendoli di preoccupazioni e squilibri psicologici per i quali non hanno le risorse per reagire ma neppure la libertà di farlo a differenza degli adulti; i bambini sono obbligati a stare con particolari persone e contesti). Gli adulti considerano i bambini come “non ancora adulto” e Calcagna usa la metafora dell’anticamera dell’adultità: un luogo di disimpegno, di passaggio da un luogo all’altro ma senza avere uno statuto suo, che ha valore solo in base al luogo che consente di raggiungere. Anche il MALATO non viene compreso eppure lui è un essere che sente più degli altri ma egli ha perduto la sua dignità (“Non si deve chiedere al malato come sta se non si ascolta il suo grido di dolore”: i sintomi non sono gli elementi che caratterizzano la persona): la sua personalità umana non esiste quasi più. Montessori dice “io credo che alla medicina si schiuderà un grande avvenire se si penserà a curare lo spirito dell’ammalato oltre che il suo corpo”. * Secondo Gelati questi provvedimenti erano importanti ma rappresentavano solo un punto di partenza dell’istruzione perché ancora la scuola non si faceva effettivamente carico degli alunni in situazione di disabilità o di altri alunni con difficoltà. Per quanto riguarda, ad esempio, i ciechi e dei sordi che “non presentavano altre anormalità” si aggiungeva che, nel caso in cui il maestro avesse il dubbio che potessero avere delle anormalità psichiche, egli poteva rivolgersi all’ufficiale sanitario per un parere e proporre l’allontanamento dello studente per inserirlo nelle classi differenziali del comune di appartenenza, oppure, in accordo con le famiglie, poteva essere ricoverato in istituti per l’educazione dei corrigendi. Le CLASSI DIFFERENZIALI erano di tipo “sperimentale” e sorsero nel 1908 per iniziativa di Montesano. Queste accoglievano alunni con lievi deficit psichici che, a seguito di un periodo di frequenza in cui avrebbero dovuto maturare (attraverso la semplificazione dei programmi, insegnamenti individualizzati e metodologie proprie della didattica speciale) competenze necessarie per rientrare nelle classi normali. Le cose però andarono diversamente: le classi differenziali erano finanziate dai comuni, non dallo Stato, e si diffusero in alcune italiane zone piuttosto che in altre. Inoltre, all’interno di una stessa classe differenziata si ritrovavano alunni con situazioni molto differenti tra di loro: dalla deprivazione socioculturale o linguistica fino a gravi condizioni di deficit organico e psicologico. Non vi era dunque la volontà orientata verso l’integrazione ma prevaleva una linea segregazionista che sulla base di un pensiero neopositivista e medico-sanitario, più che educativo, collocato all’interno di una cornice neoidealista aveva istituito un PERCORSO DI FORMAZIONE PARALLELO per i disabili, definendo indicazioni e percorsi specifici solo per alcune tipologie di deficit. Questo percorso prevedeva: le classi differenziali, le classi speciali che accoglievano gravi casi di deficit psichico e gli istituti speciali per non udenti e non vedenti. Il trattamento educativo e riabilitativo, spesso solo contenitivo, nei confronti dei gravi deficit psichici era in realtà svolto anche negli istituti medico-pedagogici che erano presente nei Paesi in cui non erano ancora state aperte le classi differenziali e speciali. Questa situazione, come afferma Zelioli si protrae fino alla metà degli anni ’70 senza nessuna modifica legislativa, ad eccezione di alcune leggi dei primi anni ’50 relative alla statalizzazione degli istituti per ciechi e sordi e alla modifica del loro assetto organizzativo e revisione dei programmi. I SERVIZI MEDICO-PSICO-PEDAGOGICI vennero attivati nel 1961 nelle realtà locali in cui i ragazzi venivano assegnati all’interno delle scuole differenziali e speciali in modo del tutto arbitrario. Vennero perciò effettuate delle selezioni, su base scientifica, degli alunni con disabilità nel momento in cui facevano il loro primo ingresso a scuola ma questo rafforzò l’idea medicalizzante della disabilità che negli anni ’70 determinò un aumento del numero di quelle stesse classi. Successivamente la formazione degli insegnanti specializzati veniva considerata qualitativamente e quantitativamente insufficiente e fu affidata dal Ministero della Pubblica Istruzione (con l’Ord. Min. n° 315/63) a vari Enti formativi territoriali che in molti casi rilasciarono attestati di specializzazione che non corrispondevano, però, all’effettiva competenza dei docenti. Vi era un diffuso disinteresse sociale e politico-culturale nei confronti della qualità del servizio scolastico rivolto agli alunni disabili tant’è che nel 1948 la Carta Costituzionale fa delle proposte legate all’egualitarismo, alla democrazia e alla partecipazione, nutrendo deboli speranze. Nell’Art. 3 della Costituzione si afferma “la pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge” e che è la Repubblica che ha il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’uguaglianza, impedendo il pieno sviluppo dei cittadini-persone umane. Questo dà sostegno al processo di emersione della tematica educativa legata ai bisogni dei bambini in condizione di disabilità. Si cerca di rimuovere gli ostacoli perché sono proprio questi a far sì che le differenze diventino handicap. Questo aspetto riemerge anche nell’Art.4 in cui si afferma che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e si impegna a promuovere le condizioni che garantiscano questo diritto. L’Art. 34 afferma che la Scuola deve essere aperta a tutti. L’istruzione inferiore deve essere impartita per almeno 8 anni, ed è obbligatoria e gratuita. L’Art. 38 afferma che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. I vari articoli della Costituzione sono orientati verso la piena promozione della persona ma le indicazioni relative agli individui in situazione di disabilità non sono realizzate per gli anni successivi al momento in cui vengono varate. La classe politica italiana, divisa tra i sostenitori della Democrazia Cristiana e i sostenitori del Partito Comunista, non riesce a trovare delle soluzioni che siano condivise rispetto alla ricostruzione strutturale ed economica del Paese e per i problemi relativi alla scuola, specie per i contenuti programmatici e la riduzione dei tassi di analfabetismo, non si riesce ad impegnarsi efficacemente per qualificare l’insegnamento e la formazione delle persone disabili. 2. Il mondo cambia: spinte emancipatrici e mutamenti politico-sociali Nella Seconda metà degli anni ’50 e fino alla metà degli anni ’60 vi sono stati una serie di fattori e attori che hanno portato avanti dei processi di integrazione culturale e sociale che hanno coinvolto le persone con disabilità. Vi furono una serie di iniziative che, unite alle più recenti teorie delle complessità, hanno prodotto un nuovo ordine sociale e culturale che ha dato vita, attraverso la LEGGE n°517/77, ad una politica innovativa a livello internazionale, ovvero l’INTEGRAZIONE DI TUTTI GLI ALUNNI NELLE CLASSI COMUNI, a prescindere dalla tipologia del deficit e del suo livello di complessità (non si parla più di minorati ma di alunni portatori di handicaps). A metà degli anni ’50, le persone disabili erano definite minorate ed erano inserite in un clima costituto da forti pregiudizi sociali e culturali, sia nei loro confronti che delle famiglie. A questi pregiudizi si aggiungeva una forte mancanza d’interesse e di interventi da parte degli organi pubblici del paese e le istituzioni, considerate utili e corrette, non portavano altro che all’isolamento sociale. I principali PUNTI DI SVOLTA sono:  Le associazioni dei disabili e le loro famiglie denunciano e rivendicano i diritti e gli interventi educativi e riabilitanti a partire dalla seconda metà degli anni ’50. Le associazioni riscattavano l’identità delle persone disabili, promuovendo il senso di competenza e di autonomia, sensibilizzando la società e il dibattito politico e pubblico rispetto alle politiche del welfare. *Ci sono state diverse manifestazioni da quelle persone in condizione di disabilità che venivano totalmente ignorate dalla politica e dallo Stato in generale (“la Marcia della morte”). *  La Costituzione, con la promozione delle istanze di democratizzazione della cultura, determina l’istituzione della Scuola medica unica nel 1962 e della Scuola materna statale nel 1968. Per quanto riguarda i disabili, e dunque l’attivazione delle classi d’aggiornamento per la Scuola media e delle classi differenziali per la Scuola materna, il legislatore aveva ancora un’idea di scuola normale per i soggetti normali e una separata per chi manifestava diversità. Questo portava alla stigmatizzazione da parte dei coetanei, dei familiari e dei docenti, e non al recupero dei ragazzi.  Le politiche riformatrici della scuola avviate nei primi anni ’60 deludono le aspettative rispetto ai processi di partecipazione e democratizzazione della cultura con cui erano state annunciate. La scuola, nei suoi diversi ordini e gradi, si mostra incapace di reggere le richieste di massa e diventa selettiva, meritocratica ed efficientistica. Nasce un movimento di contestazione che mette in discussione l’intera organizzazione scolastica, denunciando il carattere classista e l’incapacità di rispettare e valorizzare qualunque diversità: si anticipa il clima pungente e sarcastico rappresentato dai ragazzi di Mugello che, assieme a Don Milani, scrivono “Lettera a una professoressa” nel 1967.  Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, si crea un movimento riformista che si occupa dei diversi ambiti della cultura e della società civile. La Pedagogia Speciale, riconosciuta come disciplina accademica, promuove le tematiche relative al disadattamento, la neuropsichiatria infantile attiva dei percorsi riabilitativi che mirano anche al recupero sociale. La distinzione tra recuperabili e irrecuperabili inizia a farsi più debole e anche il giornalismo inizia ad interessarsi del problema psichiatrico: il fotografo D’Alessandro nel 1965 avvia un reportage fotografico durato tre anni che mette in luce le condizioni degradanti e disumane in cui vivevano i ricoverati del manicomio “Meterdomini” di Nocera Inferiore. Questo viene reso noto all’opinione pubblica attraverso la pubblicazione, nel 1969, del libro “Gli esclusi” in cui compare la denuncia politica, sociale e umana. Sempre negli stessi anni anche altri fotografi si interessano a questo tema e offrono materiali legati alle condizioni di vita all’interno dei manicomi: Gardin e Carla Cerati. Anche l’interesse scientifico si occupa della diversità che è causata dal deficit e si procede con la pubblicazione delle discussioni sulle politiche scolastiche e formative. Anche i pedagogisti prestano attenzione al tema specifico della disabilità: Frabboni, Zavalloni, Eynard, Canevaro e altri.  In ambito internazionale si affermano delle politiche di apertura e incontro che, secondo Canevaro, si spostano dalla “logica del controllo” caratterizzata dal contenimento e la negazione dei diritti, alla “logica della negoziazione” in cui il controllo non sparisce ma si accompagna al riconoscimento. Vi sono eventi fondamentali che rappresentano queste politiche: il Concilio Vaticano II e le politiche di Kruscev e di Kennedy che agevolano il passaggio dalle politiche di segregazione a quelle d’integrazione. Le ripercussioni si hanno sia a livello internazionale che locale: in Italia vi sono posizioni differenti sia nella classe politica che nell’opinione pubblica e si avvia una discussione riguardante questioni come: il movimento femminista, le politiche dell’aborto, la somministrazione controllata delle sostanze stupefacenti, la chiusura dei manicomi e la modifica degli ospedali psichiatrici. Per quanto riguarda la disabilità, in ambito internazionale, nasce un dibattito che testimonia la maturazione civile ed etica: il 20 dicembre del 1971 l’Assemblea Generale dell’Onu promulga la Dichiarazione dei diritti delle persone con ritardo mentale riconoscendo la loro stessa dignità e diritti di tutti gli esseri umani.  La classe politica italiana a seguito delle numerose richieste di riconoscimento dei diritti provenienti dalle associazioni, dalle relazioni delle Commissioni parlamentari (come la Commissione parlamentare di indagine che era stata istituita per verificare lo stato e lo sviluppo della pubblica istruzione che sottolinea l’insufficienza e la disorganicità della legislazione e dell’organizzazione legata all’accoglienza dei ragazzi irregolari e al funzionamento delle classi differenziali e speciali. Rispetto agli insegnanti mette in luce l’insufficienza delle competenze e indica la necessità di ristrutturare i corsi di specializzazione, suggerendo una formazione biennale da affidare alle Facoltà di Magistero, di Medicina e degli Enti locali. Indica, inoltre, la necessità di affrontare questioni relative all’istruzione e alla formazione dei disabili attraverso la collaborazione tra insegnanti e altre figure professionali come medici, psicologi e assistenti sociali) e dal dibattito pubblico e istituzionale (sono state 5 le proposte di legge presentate dai diversi schieramenti durante la 4° legislatura e che avevano come oggetto l’assistenza in ambito psicopatologico. Tutte le proposte riguardano la necessità di ripensare le strutture di ricovero per disabili e malati psichici che, anziché far leva sulle potenzialità individuali e sul reinserimento sociale, separavano e isolavano i pazienti dalla comunità), risponde con la promulgazione della LEGGE 118 del Marzo 1971. Si tratta di un provvedimento significativo che rappresenta il primo passo verso l’affermazione del principio d’integrazione: molti autori la considerano infatti come l’atto di nascita ufficiale della storia dell’integrazione. Si tratta di una legge costituita da 34 articoli che, per la prima volta in Italia, definiscono chi sono i cittadini che possono essere considerati mutilati e invalidi civili (art.2), affronta i temi dell’assistenza sanitaria, dei centri riabilitativi, della ricerca e della prevenzione (art.3 e 4), regola l’istituzione dei corsi di formazione per gli operatori educativi e sociali (art.5), concede pensioni e assegni d’invalidità (art. 12 e 13), attiva corsi di addestramento e qualificazione professionale (art.23), elimina le barriere architettoniche e facilita l’accesso ai trasporti pubblici (art.27), prevede l’accompagnamento gratuito dall’abitazione alla scuola e l’assistenza scolastica per i più che devono comunque rispettare l’obbligo scolastico nelle classi comuni, salvo per soggetti con gravi insufficienze fisiche o psichiche. Art. 28: viene assicurato il trasporto, l’accesso alla scuola e assistenza durante gli orari scolastici. L’istruzione obbligatoria deve avvenire nelle scuole normali, salve gravi menomazioni fisiche o psichiche. Si inizia a paventare l’idea idi una scuola comune per tutti.  In ambito scolastico viene promulgata la LEGGE 820/1971 sul Tempo pieno che agisce sulla didattica, allargando il curricolo e il concetto stesso di alfabetizzazione attraverso l’utilizzo di linguaggi espressivi e comunicativi inesplorati fino a quel momento. Dal punto di vista didattico si diffonde l’idea di programmazione educativa e di lavoro per classi aperte e gruppi eterogenei. Sul piano politico, invece, la legge veicola l’innovazione e la qualificazione del servizio scolastico finalizzata ad eliminare le condizioni di discriminazione e di emarginazione vissute da molti alunni. Questi aspetti vengono rinforzati dalla LEGGE DELEGA 477/1973 che sottolinea l’importanza di una gestione democratica della scuola e del rinnovamento educativo attraverso l’istituzione degli organi collegiali e la sperimentazione didattica. Questi provvedimenti influenzano la Relazione finale della Commissione di studio presieduta dalla Senatrice Franca Falcucci che viene incaricata dal Ministro Malfatti ad individuare delle strategie che gli consentano la piena integrazione scolastica degli alunni handicappati. La relazione mette in luce una cultura pedagogica e istituzionale che dichiara non più derogabile l’integrazione di tutti gli alunni disabili, ad eccezione dei gravi, nella scuola ordinaria (cosa che si realizzerà da lì a 2 anni con la LEGGE 517/1977). Tale relazione supera la logica burocratico-amministrativa e fa delle considerazioni interessanti dal punto di vista pedagogico. Mette in luce l’importanza del protagonismo e della dai bisogni della persona, mostrano i principi e gli strumenti che la supportano in direzione dello sviluppo delle potenzialità individuali e della piena integrazione comunitaria. *La LEGGE 104*prevede che il percorso d’integrazione dell’alunno attraverso la diagnosi funzionale, un profilo dinamico funzionale e la redazione del PEI. L’equipe medico-sanitaria stila la diagnosi funzionale e sulla base di questa si reda il profilo dinamico funzionale, sempre a carico dell’equipe di valutazione interdisciplinare costituito da un medico della neuropsichiatria infantile, medico pediatra, eventualmente dagli assistenti sociosanitari, specialisti della riabilitazione e in collaborazione con la famiglia e le figure professionali della scuola che il bambino frequenta. Dovrebbe esserci una redazione congiunta e condivisa. Si rischia però di avere una rappresentazione caratterizzata dal punto di vista medico e non rappresentativa delle facoltà di apprendimento del bambino. La legge 104 è stata superata perché intervenuta la LEGGE 107 (decreto 66) della Buona scuola in cui il Governo delega a legiferare in materia di riforma scolastica su alcuni argomenti: la valutazione delle competenze, lo sviluppo e la valorizzazione delle materie umanistiche, l’istituzione e la realizzazione di un sistema integrato (0-6 anni) e in materia di inclusione scolastica. Questi temi hanno generato una serie di decreti legislativi, ovvero gli atti con cui il Governo assume la delega data dal Parlamento e legifera. Dunque, alcuni aspetti della legge 104 (13, 14, 15 vengono ristrutturati): la diagnosi e il profilo dinamico funzionale non dovranno più esistere perché dovrà essere redatto un profilo di funzionamento, redatto su base ICF, non più sul DSM IV o DSM V. Questo profilo di funzionamento è la base per la costruzione del PEI e anche questo deve essere redatto su base ICF. Il modello di PEI è stato studiato e si è concretizzato ed è stato emanato con un decreto 182 del 2020 che poi è stato abbattuto, così come il modello di PEI. Quel modello di PEI era in grado di garantire, sollecitare e sviluppare un certo grado di condivisione tra i docenti in classe per condividere gli obiettivi di programma, e quindi di strutturare la condivisione nella progettazione. La condivisione e co-progettazione avrebbe dovuto essere condivisa all’interno di tutto il corpo docente. Non è stato bocciato per il decreto 66 che però è stato revisionato 2 anni dopo e oggi si parla di decreto 96 (2019) ma la struttura è la stessa.* Agli inizi degli anni ’90 si sviluppa una concezione più ricca e complessa grazie a più stabili politiche di welfare istituzionale e a responsabilità civiche, pubbliche e private, sempre più condivise così come a sperimentazioni scolastiche che affinavano nuovi strumenti e organizzazioni. Il lavoro di team, la programmazione didattica, la progettazione del Pei, il passaggio dalla lezione frontale all’uso di una pluralità di linguaggi e metodi d’insegnamento, le nuove tecnologie, l’individuazione di contenuti, le verifiche in itinere e la valutazione formativa innalzano i livelli di conoscenza e competenza metodologica di tutto il corpo docente, favorendo il processo d’integrazione e qualificando l’offerta formativa scolastica. Le interazioni tra docenti e genitori, docenti di classe e specializzati, operatori scolastici e di altri servizi del territorio fanno maturare consapevolezze importanti da un punto di vista organizzativo e strutturale, utili a comprender l’importanza della macro-progettazione (il Progetto d’Istituto, l’attuale PTOF) e della micro- progettazione (le pratiche d’aula). A partire dalla seconda metà degli anni ’80, anche il DOCENTE SPECIALIZZATO che era percepito come “tecnico del deficit” e della “riabilitazione didattica” viene riconosciuto e valorizzato come un attivatore e modulatore delle risorse individuali e collettive che agisce come specialista dell’integrazione all’interno di un sistema più ampio della sola comunità scolastica. In quegli anni si sviluppa un processo di crescita di CONSAPEVOLEZZE rispetto ad alcune tematiche importanti per la qualificazione del percorso integrativo: qualificazione dei contenuti d’insegnamento- apprendimento, la valorizzazione di tutte le dimensioni dello sviluppo delle competenze e della personalità degli allievi, l’uso appropriato degli strumenti normativi d’integrazione, la documentazione e la ricerca interna alle scuole etc.). Questo determina l’affermarsi di una scuola e di una società più consapevoli che l’integrazione, oltre alle competenze specialistiche, richieda sensibilità e conoscenze diffuse da parte di tutti i professionisti della scuola, della cura, dell’aiuto e dalla cultura, e dei singoli cittadini. Alcuni FATTORI DI DEBOLEZZA che hanno rallentato questo percorso sarebbero: la tardiva definizione del ruolo dell’insegnante specializzato, la dubbia qualità dei corsi di formazione, le modalità di reclutamento dei docenti, la mancata formazione dei dirigenti, la non conoscenza della continuità didattica e l’aver considerato la presenza dell’alunno disabile come una possibilità e non come una costante. L’intervento scolastico era si fondamentale ma rappresentava solo un aspetto di un movimento molto più ampio che, come sostiene Canevaro “ha attraversato tutto il Paese” e ha posto in primo piano le famiglie e le associazioni dei familiari, ma si è alimentato anche del contributo dei singoli educatori, parroci, cooperative, volontari, forze sindacali e amministratori appassionati. Il processo d’integrazione all’interno della scuola si è realizzato passo dopo passo e, come sottolineano le “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” che sono state varate dal Ministero della Pubblica istruzione nel 2009 e che sono presentate agli insegnati per poter migliorare il processo d’integrazione degli alunni con disabilità per evitare che si definisca come un punto fermo della tradizione pedagogica italiana. Bisogna continuamente alimentare il processo d’integrazione, sulla base della normativa vigente e della documentazione internazionale (ICF dell’OMS del 2001 o la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Legge n° 18 del 3 marzo 2009). Rispetto al passato oggi si afferma una SFIDA molto più ambiziosa: realizzare una società pienamente inclusiva dove la persona che manifesta un bisogno educativo speciale abbia, alla pari di ogni altra persona, la possibilità di elaborare e realizzare il proprio PROGETTO DI VITA e di fare cittadinanza attiva. Questo è il nuovo obiettivo su cui la comunità scolastica e territoriale, reciprocamente impegnate, si stanno confrontando. CAPITOLO 6: NUOVI MODELLI CONCETTUALI E CULTURALI PER PENSARE E REALIZZARE L’INTEGRAZIONE (PAG. 79-101) 1. Una nuova prospettiva per guardare alla disabilità: dall’ICDH all’ICF Le azioni individuali e collettive consentono di promuovere e realizzare dei processi di integrazione che consentono di costruire una società pienamente inclusiva; questo consente all’uomo di qualificare in senso culturale, relazionale, sociale e materiale il suo carattere di umanità e civiltà. La disabilità costringe l’uomo a confrontarsi con i propri limiti e le proprie paure ma anche di scoprire le sue infinite possibilità d’essere. In un determinato periodo storico è stato segnato un traguardo epocale grazie alle azioni di Seguin, Itard o Montessori o ancora l’integrazione scolastica; si tratta però, in realtà, di un punto di snodo di un percorso molto più lungo che l’essere umano è costantemente chiamato a percorrere. Un punto importante di questo percorso è segnato dalla necessità di chiarire meglio i CONCETTI e i LINGUAGGI attraverso cui comprendere e definire la disabilità, sia all’interno dell’ambito di ricerca e del discorso scientifico sia per i non specialisti. Il concetto di HANDICAP è stato introdotto nei primi anni ’70 del secolo scorso e ha portato ad un grosso cambiamento culturale e sociale che ha modificato il modo di rapportarsi alla disabilità e alle persone disabili che, fin ad all’ora, venivano considerate come “uomini o donne mancati/e” o con termini dispregiativi come: storpio, folle, mostro, minorato. Inizialmente il termine handicap fa riferimento ad una limitazione specifica e questo significato viene diffuso anche grazie ad uno studio pubblicato dall’UNESCO nel 1974 che classificata la disabilità in 7 tipologie di handicap: della vista, udito, intelligenza, fisici-muscolari-motori, del comportamento sociale e relazionale, della parola e della scrittura. Si fa dunque riferimento ad un modo di intendere la persona in situazione di disabilità in riferimento non alla globalità della sua persona ma alla parzialità del deficit. Siamo dunque all’interno dell’ambito delle definizioni e dunque del linguaggio ma che ha comunque la stessa importanza degli altri ambiti; Canevaro, infatti, sottolinea come i problemi di integrazione non possano essere slegati dalla questione terminologica. Lui fa riferimento al nesso tra la funzione semantica e la dimensione pragmatica del linguaggio, il quale assume un significato concreto nel momento in cui l’handicap viene visto in rapporto con una certa realtà sociale e culturale. La parola handicap è stata resa ancora più chiara quando viene pubblicato dall’OMS, nel 1980, l’ICIDH (International Classification of Imparirments, Disabilities and Handicaps) che rappresentava uno strumento di riferimento per classificare, a livello internazionale, le menomazioni, le disabilità e gli handicap. Questo nasce dal lavoro svolto da una commissione, presieduta da Philip Wood, che tentò di omogeneizzare a livello internazionale concetti e definizioni che mostrano quali siano i passaggi che determinano la nascita e lo sviluppo di un processo invalidante. Nel documento si propone un modello causale unidirezionale che riguarda le conseguenze delle MALATTIE (DISEAS) da cui si può guarire ma lasciano menomazioni oppure non guarire perché la malattia si cronicizza. La malattia, dunque, veniva considerato come stato patologico che generava limitazioni o menomazioni. A partire dalla MENOMAZIONE (IMPARIMENT), ovvero dalla “perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica” che determina una DISABILITA’ (DISABILITY) ovvero “qualsiasi limitazione o perdita, conseguente ad una menomazione, della capacità di svolgere un’attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano”. Questo genera a sua volta un HANDICAP ovvero la condizione di svantaggio vissuta da una persona in conseguenza ad una menomazione o disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire un ruolo normale per l’individuo in base all’età, al sesso, ai fattori culturali e sociali. Si è cercato di applicare questo documento negli ambiti sanitari (Bollea, Moretti) ed educativi (Canevaro, Zavalloni o associazioni come AIAS, ANFASS) in cui sono state svolte una serie di sperimentazioni, specie nei pasi più avanzati. Dall’altra parte nasceva però un DIBATTITO durato circa 15 anni sul fatto che il modello lineare proposto, tra i tre fattori individuati (menomazione, disabilità, handicap) in realtà non tenesse conto di una realtà ben complessa: i fattori personali e i fattori ambientali non possono essere considerati neutri ma influiscono nell’evoluzione e nella determinazione dei livelli di complessità delle singole situazioni di disabilità, tant’è che risulta difficile comparare le varie situazioni a livello nazionale e internazionale. Esempio: una menomazione, che può essere la mancanza di un braccio, non causa necessariamente una disabilità perché la limitazione che deriva da questa menomazione potrebbe essere quella di scrivere ma questa necessità dipende dall’ambiente; all’interno di una società in cui la lingua scritta non è importante ma prevale quella orale, l’individuo privo di un braccio non viene considerato in situazione di disabilità. L’interpretazione dell’ICIDH viene fatta in chiave esclusivamente BIO-STRUTTURALE, legata quindi ad un modello essenzialmente medicalizzante nei confronti della disabilità, sia in ambito professionale che nel senso comune. Oggi il termine handicap risulta invece inadeguato sia sul piano scientifico che cultuale e ancora di più l’accezione “handicappato” che è sbagliata sia perché viene usata spesso per offendere qualcuno ma anche dal punto di vista grammaticale perché si tratta di un participio passato (è sbagliato anche l’uso di Idiota, un termine che nell’800 non aveva un’accezione spregevole, ma definiva una persona con una condizione patologica, come sofferenza o malattia mentale). Sicuramente l’introduzione del termine handicap ha portato ha una rottura epistemologica e culturale importante rispetto alla tradizione precedente, il suo LIMITE è però legato non tanto alla concettualizzazione ma all’applicazione perché nel momento in cui si cerca di applicare questo modello si prende consapevolezza che l’handicap è legato ad una menomazione o disabilità solo ed esclusivamente in un dato contesto e quindi la classificazione non presenta gli strumenti adeguati per leggere la complessità. Nel 2001 si ha un’altra rottura epistemologica, maturata lentamente nel corso di un quinquennio, perché l’OMS pubblica l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) che nasce da un lungo dibattito tra esperti multidisciplinari, persone con disabilità ed esperienze sul campo e rappresenta uno strumento di classificazione del funzionamento della disabilità e della salute. È un libro tradotto in tante lingue che consente di guardare alla disabilità in maniera scientificamente e linguisticamente chiara e condivisa della comunità scientifica globale: nell’introduzione vi è infatti scritto che l’ICF ha lo scopo di fornire un linguaggio standard e unificato per riferirsi alla condizione di salute e agli stati ad essa collegati. *La versione ICF-CY (2007) è rivolta a bambini e adolescenti*. Questo documento riprende la concezione di SALUTE dell’OMS che non è più assenza di malattia o infermità ma come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” riconducendolo dunque ad un modello di benessere BIO-PSICO SOCIALE e di piena realizzazione del potenziale umano in tutti i contesti. Rispetto all’ICIDH, l’ICF pone alla base del suo modello antropologico una concezione più matura della salute che rispetto l’unicità e la complessità dell’essere umano all’interno di un intreccio tra le varie componenti: biologiche, mentali e sociali. La salute, dunque, non viene considerata in base ad un funzionamento o malfunzionamento fisiologico, ma in base al benessere esistenziale e alla qualità di vita presentandosi dunque come una condizione personale che viene però influenzata dal contesto socio- politico-economico-culturale in cui la persona si trova e all’insieme di valori di chi è chiamato a comprendere e spiegare questa condizione. La disabilità non è più un tratto caratteristico della persona ma è una condizione: il modello non è più lineare ma circolare. Come sostiene Bateson, il CONTESTO diventa “matrice per la comprensione dei significati” e il SOGGETTO interagisce dinamicamente e dialetticamente con esso e con le altre componenti fino a stabilire un intreccio che si modifica ed evolve in base alle relazioni e connessioni che si creano tra tutte le componenti. la persona alla dipendenza dallo specialista. Se l’insegnante è esperto in didattica non serve lo specialista per spiegargli cosa fare per la didattica, lo deve sapere lui cosa fare, anche in caso di persone con disabilità. L’emancipazione delle persone disabili: la grande idea del movimento delle persone con disabilità contro l’assunto che queste persone siano dipendenti da professionisti del campo medico per ogni tipo di apporto terapeutico e sociale oppure come cittadini di seconda classe. I Disability Studies sono un filone di ricerca che si sono affiancati ai Gender Studies e si sono integrati in un filone di Disability Gender Studies legati ad esempio alle discriminazioni delle donne che sono anche in una condizione di disabilità. Questi tendono però a rappresentare la disabilità secondo un MODELLO SOCIALE quindi considerandolo solo un problema sociale (è solo la società e l’ambiente a renderti disabile) ma la disabilità non può nemmeno ridursi solo ed esclusivamente al modello sociale. MODELLO MEDICO VS MODELLO SOCIALE Problema personale Problema Sociale Cura medica Integrazione sociale Trattamento individuale Azione sociale Aiuto professionale Responsabilità individuale e collettiva Intervento sulla persona Modificazione ambientale Comportamento Atteggiamento Prendersi cura Diritti umani Politica sanitaria Politiche Adattamento individuale Cambiamento sociale Il modello sociale ha sostituito il modello medico tenendo conto, non solo delle cure mediche e del trattamento individuale, ma inserendo la disabilità all’interno di un’ottica legata all’integrazione sociale e alla modificazione dell’ambiente rendendolo, dunque, accessibile. Con l’ICF si passa dal modello medico al MODELLO BIO-PSICOSOCIALE. Come si è passati dall’ICIDH all’ICF? È stato condotto un grosso studio sull’ICIDH mettendo in dubbio la sua struttura lineare per cui è stato realizzato un nuovo schema da alcuni ricercatori canadesi: PPH. Quando l’OMS porta a compimento l’ICF i ricercatori lo guardano con sospetto e continuano a modificare il PPH: nello sviluppo dell’ICF però è importante anche questo gruppo di ricercatori. Il PPF, rispetto all’ICF, presenta un riquadro più ampio dei fattori personali ma anche in questo caso non vi è niente di analitico. Per quanto riguarda la cultura francese nei confronti dell’ICF vi è una certa insoddisfazione e alcuni studiosi (in particolare un sociologo) credono che le persone con disabilità considerate dall’ICF secondo un carattere unicamente comportamentista, possano portare al rischio che gli individui vengano concepiti come persone prive di desideri, paure, odio perversioni, in sintesi come se fossero senza psichismo, senza dubbio computabili o standardizzati. Nonostante i francesi contestino questo modello, in realtà non propongono un’alternativa valida alle mancanze che loro stessi sottolineano. Nell’ambito sportivo: da una parte si parla di attività motorie integrate (matrice pedagogica che pensano alla possibilità di ristrutturare lo sport secondo un obiettivo di inclusione inteso come un problema più ampio che consente la partecipazione e l’inclusione) e attività fisiche adatte riproducendo la fattispecie del modello medico. Lo sport viene separato e rivolto ad atleti che si trovano in condizione di disabilità: per mettere assieme diversi livelli di abilità ci sono sport che vanno oltre ciò che è noto facendo giocare persone normodotate con persone in condizione di disabilità. Non si deve far riferimento a tutti gli sport in maniera uniforme ma vi sono sport che consentono un certo accomodamento delle persone con disabilità. (ICF versione breve*): I fattori personali sono rappresentati da una pagina bianca a causa di un problema. I fattori personali (nell’ICF) sono il background personale della vita di un individuo e rappresentano le caratteristiche che non fanno parte della condizione di salute: razza, età, forma fisica, istruzione, educazione, lo stile di vita, capacità di adattamento (quest’ultima consente alla persona di pensare pienamente a sé stessa). Questi aspetti possono giocare un certo ruolo nella disabilità a qualsiasi livello. I fattori personali sono comunque stati inseriti all’interno dello schema dell’ICF: i vari aspetti sono elementi che sono intenzionalmente lasciati in una pagina bianca perché non possono essere intesi in senso analitico. A volte però si parla della salute come una condizione globale e in altri momenti come qualcosa di specifico: contraddizione. L’ICF è costituito anche da allegati: in uno viene scritto che i fattori personali e contestuali che non sono classificati nell’ICF ma possono essere inseriti per influenzare la classificazione. L’ICF è fondamentale per costruire il PEI, ma il PEI deve considerare anche i fattori personali, altrimenti si sta realizzando una didattica per l’alunno ideale. Gli insegnanti sono quei professionisti che con il loro sforzo lavorativo possono “scrivere la pagina bianca”. Spesso si pensa al PEI come orientato a rispondere ai bisogni formativi della persona. Funzioni correlate all’apparato digerente (b510-b539) Vi sono una serie di funzioni di ingestione, digestione, assimilazione etc. Tutte queste funzioni vengono qualificate per andare a osservare che tipo di menomazione vi sia, (lieve, media, grave, completa); legato al dove e quindi le strutture corporee (parti anatomiche e le loro componenti); la natura etc. Attività (esecuzione di un compito o un’azione) e partecipazione (coinvolgimento in una situazione di vita). Gravità: la menomazione può essere grave mentre la disabilità grave esiste? Il ritardo mentale, ovvero il ritardo intellettivo, nello schema dell’ICF si colloca all’interno delle funzioni (mentali). Vi è dunque una menomazione di una funzione che può essere grave. La disabilità non può invece essere grave perché dipende dai vari fattori: si può avere anche una menomazione grave ma che non va contro i fattori ambientali (sordità in un contesto muto, ad esempio). Quindi, in base ai fattori può diventare più o meno complessa. Disabilità come insieme degli elementi complessi della vita in cui vi è ovviamente una diagnosi ma per senso comune la disabilità è legata a una sindrome o un trauma che ha delle conseguenze. La disabilità non è solo sindrome e disabilità motorie, sensoriali etc. un esempio può essere legato ad un fattore personale, l’imbarazzo di uno studente che non riesce a chiedere aiuto a nessuno e di conseguenza non va a scuola: di conseguenza viene meno alle attività e alla partecipazione. Il concetto di invalidità è un concetto “amministrativo” e agli inizi del ‘900 abbiamo iniziato ad usarlo specie per categorizzare le persone: invalidi civili di guerra, menomazioni dei lavoratori in contesti occupazionali. Dal punto di vista sociale (“Invalidi per il lavoro”) si è iniziato a lottare per le invalidità all’interno dei contesti di lavoro e che quindi è nato in un contesto che cercasse di rimarcare una situazione di trauma in cui una persona aveva subito una condizione di invalidità. Quindi per rivolgersi a persone che non sono valide, che non riescono a provvedere a sé stesse attraverso il lavoro. Questo termine è stato sostituito nella normativa e quindi, a partire dagli anni ’70, si iniziò a parlare di invalidi. Oggi l’ICF rappresenta una rivoluzione nel guardare la disabilità e anche il termine handicap ha subito una rivoluzione e invalido, allo stesso modo, è stato sostituito o comunque è usato in campo amministrativo: pensione di invalidità (ma questo è il campo in cui è giusto usarlo però devono confluire nella condizione di persona globalmente intesta, come nell’ICF, e non limitata alla condizione di invalidità). ATTIVITA’ E PARTECIPAZIONE: i qualificatori sono la performance (quello che un individuo fa nel suo ambiente attuale) mentre la capacità (intrinseca abilità dell’individuo a prescindere dalle facilitazioni o barriere del contesto). FATTORI AMBIENTALI: … 2. Dalla Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità mentale alla “Dichiarazione di Salamanca” Negli anni ’70 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite vara una serie di norme e decreti che conferiscono una nuova identità alle persone in situazione di disabilità facendo maturare una serie di nuove consapevolezze culturali, etiche e organizzative, rispetto al passato. Il primo importante documento è la DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELLE PERSONE CON RITARDO MENTALE varata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1971; questa riprende la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) e la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo (1959) e richiede, per la prima volta, una un’azione nazionale e internazionale congiunta per stabilire una base di riferimento comune per la protezione dei diritti delle persone con ritardo mentale.  Nell’articolo 1 si dichiara che le persone con ritardo mentale hanno, nella massima misura possibile gli stessi diritti di tutti gli altri esseri umani come a sottolineare che anche queste persone appartengono alla condizione umana nonostante in passato non venisse riconosciuto. Oggi pare una banalità ma basti pensare che in quegli anni nel nord Europa e negli Stati Uniti d’America le persone interessate da deficit mentale venivano sterilizzate per motivi eugenetici (evitare che si riproduca una determinata “razza”), altre venivano segregate in istituti per tutta la loro esistenza e altre ancora vivevano in un clima di totale ghettizzazione e compatimento. Dunque, fu un documento innovativo per il tempo.  Negli articoli successivi vengono sanciti di diritti alle cure mediche, all’educazione, formazione, riabilitazione anche alle persone con deficit mentale affinché anche loro potessero sviluppare le proprie abilità e il massimo potenziale (articolo 3). In questo articolo vengono riprese, a distanza di quasi un secolo e mezzo, le parole enunciate da Séguin rispetto al fatto che le persone con deficit mentale hanno diritto a realizzarsi attraverso il lavoro e che necessitano di essere educate precocemente e in famiglia. Quindi, l’articolo 3 si sofferma anche sul diritto ad avere un lavoro produttivo o ad occuparsi di qualsiasi altra attività per poter estendere le proprie capacità. Nell’articolo 4 si sottolinea il fatto che questi devono vivere con la propria famiglia e partecipare alle varie forme di vita collettiva. Nel medesimo articolo viene però ripresa una concezione del passato rispetto al fatto che se le cure in istituto dovessero divenire necessarie, questo dovrebbe trovarsi nelle vicinanze e in condizioni il più possibile simili a quelle della vita normale. Da un lato si cerca perciò di umanizzare la permanenza negli istituiti ma non vi sono ancora tempi abbastanza maturi affinché possa realizzarsi una radicale trasformazione. Alla fine degli anni ’70, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite vara a New York, a dicembre del 1975, la DICHIARAZIONE SUI DIRITTI DELLE PERSONE DISABILI che propone dei contenuti e delle prospettive più ampie: le persone in situazioni di disabilità hanno gli stessi diritti politici delle altre persone. Nel preambolo si fa riferimento alla necessità di prevenire tutte le disabilità fisiche e mentali e di assistere le persone disabili per sviluppare le loro capacità in svariati ambiti dell’attività umana, mettendo in atto, da parte degli Stati, azioni idonee che consentano la loro massima integrazione nella vita normale.  L'articolo 1 definisce cosa si debba intendere per disabile ovvero una persona incapace di assicurare a sé stessa, in modo totale o parziale, quanto necessiti per una vita normale e individuale e/o sociale a causa di una riduzione, congenita e non, delle proprie capacità fisiche e mentali.  Nei successivi 12 articoli si richiede la garanzia e il rispetto dei diritti delle persone disabili per consentirgli di condurre una vita dignitosa a prescindere dall’origine, natura o gravità del deficit (art. 3) e al di là di ogni razza, colore, sesso, lingua, opinione politica, nazionalità, condizione sociale e di salute (art.4).  Negli articoli 5 e 6 si indicano tutti gli strumenti che consentano loro di diventare più autosufficienti: trattamenti medici, psicologici, funzionali mediane protesi e ausili; servizi di riabilitazione medica e sociale; servi e interventi educativi, addestramento professionale, di consulenza, assistenza domiciliare a altri strumenti che sono orientati verso il massimo sviluppo della persona e dei processi di integrazione e reintegrazione sociale.  Nell’articolo 7 si richiama al diritto al lavoro, sicurezza economica e sociale e nell’articolo 8 alla vita Familiare e alla partecipazione ad attività sociali, culturali e ricreative: anche in questo caso è contemplata la possibilità di risiede in istituti specializzati nel caso in cui sia indispensabile.  L’articolo 12 riconosce invece le organizzazioni dei disabili che devono essere consultate per ciò che riguarda i loro diritti sottolineando, nell’articolo 13, che i vari protagonisti della vita sociale (disabili, famiglie e la comunità) siano informate dei diritti della Dichiarazione in modo appropriato e completo. I vari movimenti delle stese persone disabili, le organizzazioni e le associazioni, oltre il dibattito politico, portarono ad una serie di pressioni culturali e politiche che intorno alla fine degli anni ’60 erano esercitate dall’INDIPENDENT LIVING MOVEMENT (Movimento per la vita indipendente) che era un movimento nato presso l’Università di Berkeley (California) ad opera di un gruppo di studenti interessati da disabilità che reclamavano l’accessibilità agli studi universitari e ai servizi che la società metteva a disposizione degli altri cittadini. Il movimento creò una rete organizzativa che si radicò anche in Europa, soprattutto in Svezia, e che reclamava la possibilità e il diritto di scegliere e autodeterminarsi delle persone in situazione di disabilità alla pari degli altri individui. 2004, quando ancora la Convenzione era in preparazione, più del 56% dei bambini con disabilità frequentava classi o scuole speciali in 25 Paesi dell’UE e 500.000 persone viveva in circa 2.500 mega-istituti. La Convenzione opera una rottura drastica con il passato e rinnova, da un punto di vista culturale e legislativo, il modo di intendere la disabilità. Gli Stati e le Comunità sono invitati a superare ogni pregiudizio e stereotipo che stigmatizzi e ipertrofizzi l’identità e la condizione delle persone in situazioni di disabilità e anche a rimuovere gli ostacoli, le discriminazioni e la mancanza di opportunità che impediscono la piena integrazione e realizzazione individuale e sociale. * L’ACCESSIBILITA’ è citata circa 47 volte all’interno della convenzione e va oltre l’aspetto architettonico ma viene inteso nella sua accezione pedagogica.*  L’articolo 1, comma 1 riprende l’ICF del 2001 per il suo paradigma bio-psico-sociale che mostra le persone in situazione di disabilità come “coloro che presentano duratore menomazioni fisiche, mentali, intellettuali e sensoriali che, nell’interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla società sulla base dell’uguaglianza con gli altri”. La Convenzione, dunque, abbandona ogni concezione medicalizzante e assistenziale “promuovendo e garantendo il pieno godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone disabili, promuovendo il rispetto per la loro dignità intrinseca”. La Convenzione si basa sul paradigma dei diritti umani e riconosce a ciascuna persona la piena dignità umana e la titolarità di diritti e doveri per consentire la completa INCLUSIONE SOCIALE; questo consente di superare concezioni del passato facendo diventare la disabilità come una possibilità ordinaria della condizione umana.  Sia nell’articolo 4 che nel Preambolo si scrive che gli obblighi degli Stati e di ogni cittadino debbano essere orientati verso la promozione di tutti i diritti e le libertà fondamentali mostrando che la comunità sociale debba basarsi sui principi di eguaglianza, equità, giustizia e responsabilità solidale. Queste sono le condizioni affinché il riconoscimento dei legami sociali avvenga attraverso il principio della responsabilità soggettiva e collettiva e di un processo d’inclusione che sia partecipato e consapevole. Moliterni specifica il concetto di INCLUSIONE che consiste nel passaggio dal semplice inserimento come diritto ad esserci e avere un posto per poi farsi da sé, come semplice accesso, alla creazione di condizioni che permettano la partecipazione e il successo per ciascuno, nessuno escluso, facendo emergere le potenzialità di cui ciascuno è portatore.  Nell’articolo 3 si parla dei contesti inclusivi i quali devono consentire l’esercizio dei diritti e doveri della cittadinanza e la partecipazione alla vita pubblica e privata, nella consapevolezza, però, che la disabilità sia un concetto in evoluzione e necessita di una co-evoluzione di ogni elemento del contesto.  Nell’articolo 8 si parla della necessità di rimuovere gli ostacoli e promuovere la cittadinanza attiva attraverso l’accrescimento delle responsabilità e delle consapevolezze pubbliche e private.  L’articolo 9 sottolinea l’importanza di creare delle reali possibilità di accesso all’ambiente, all’educazione, ai trasporti, alla comunicazione e alle informazioni in ogni ambito di vita. Quasi tutti gli articoli della Convenzione propongono un MODELLO ANTROPOLOGICO che tutela il diritto alla vita (art. 10) di uomini, donne e bambini (artt. 5, 6, 7) e consideri ogni possibile condizione di difficoltà e sperequazione (artt. 11, 13, 14, 16) garantendo uguale riconoscimento difronte alla legge (art. 12) e protezione dell’integrità della persona (art.17). Dunque, si riconosce il diritto di ciascuno, a prescindere dalla sua condizione, di sentirsi cittadino del mondo con piena libertà di movimento (artt. 18 e 20) e di vita indipendente (art.19) con il rispetto della vita privata e familiare (artt. 22 e 23) e della possibilità di accedere alle informazioni e di esprimere le proprie opinioni (art.21). Inoltre, si promuove la possibilità di realizzarsi attraverso il lavoro (art. 27) e di partecipare alla vita politica pubblica (art. 29) o a quella culturale, ricreativa e/o sportiva.  L’articolo 24, comma 1: Gli Stati Parti garantiscono un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita finalizzati: al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima e del rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana; allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, fino alle loro massime potenzialità; a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente ad una società libera. L’Articolo, quindi, fa riferimento al diritto all’emancipazione attraverso l’educazione. Gli Stati devono, infatti, garantire un sistema d’istruzione inclusivo a tutti i livelli e condizioni di apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita. Si tratta di un obiettivo complesso che si basa sulla concezione dell’istruzione come finalizzata al pieno sviluppo del potenziale umano, all’acquisizione del senso di dignità e dell’autostima, del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e al rispetto delle diversità e valorizzazione dei talenti e delle abilità che derivano da differenti condizioni esistenziali. Queste concezioni vengono riprese dalla letteratura scientifica dell’ultimo 30ennio: J. Delors che mostra come l’educazione sia il mezzo più idoneo per rimuovere le condizioni di povertà, oppressione e di esclusione sociale degli individui e delle nazioni. Oppure Morin che mostra come l’istruzione e l’educazione siano utili per la costruzione di una cittadinanza terrestre e di una nuova antropoetica planetaria.  I commi 2 e 3 dell’articolo 24 forniscono delle indicazioni rispetto alla diffusione e generalizzazione dei sistemi d’istruzione sia per una riflessione sia per la loro organizzazione: l’attivazione di sistemi scolastici inclusivi, la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione, le garanzie di accesso alla scolarizzazione primaria e secondaria, l’accomodamento in base ai bisogni individuali, il sostegno professionale al percorso scolastico e il sostegno personalizzato in ambienti che promuovono i processi di integrazione, le misure per agevolare l’apprendimento di codici e linguaggi speciali (Braille, Malossi, Lingua dei segni), la qualità dell’istruzione. Queste questioni ribadiscono il ruolo e la missione della SCUOLA come luogo di generazione della cittadinanza e dell’emancipazione individuale e collettiva ed è per questo motivo che a nessuno, anche se con una disabilità complessa, può essere negato il diritto di accesso e frequenza. Il diritto all’educazione non è però così semplice se si pensa all’estensione planetaria della Convenzione. Griffo, ad esempio, ricorda che l’articolo 4 valorizza il modello totalmente inclusivo del nostro Paese e supera le resistenze sia di alcune associazioni (ciechi e sordi) che di molti Paesi. De Anna scrive, infatti, che negli altri Paesi vi è un lento passaggio dai centri speciali educativi, agli istituti medico-educativi, alle scuole speciali fino ad arrivare alle scuole ordinarie, ma purtroppo quest’ultimo obiettivo è raggiunto di rado. La prospettiva inclusiva della Convenzione, legandosi a quella dei diritti umani e a quella della giustizia propone una prospettiva emancipativa senza precedenti che viene interpretata come proposta sociale ampia da realizzare in tutti i contesti dell’esistenza, garante dell’ambiente e dell’ecosistema globale. Questa può essere considerata come un’UTOPIA CONCRETA da realizzare che necessita di tutti e di ciascuno, ma i risultati potranno essere valutati solo nell’arco dei prossimi decenni. CAPITOLO 7: IL CONTRIBUTO DELLA PEDAGOGIA E DELLA DIDATTICA SPECIALE (PAG. 102-129) 1. Finalità e temi della Pedagogia Speciale La pedagogia speciale nasce in un determinato periodo storico come disciplina accademica solo negli anni ’60 ma prima di diventare una vera e propria disciplina, lavoro attraverso l’opera di educatori, insegnanti e intellettuali attraverso le azioni della società e degli istituti speciali (cura e sostegno degli individui in situazioni di disabilità). La Pedagogia quindi si coltiva attraverso l’azione pratica che è orientata verso l’emancipazione degli individui. Si tratta quindi di una disciplina finalizzata all’accrescimento dei principi di integrazione e inclusione che ha contribuito alla crescita della CONSAPEVOLEZZA rispetto alla disabilità e i suoi processi di emancipazione; man mano che crescevano le consapevolezze cresceva anche la Pedagogia. Epistemologia: “un pensiero separato dall’itinerario intellettuale che conduce ad esso è un’astrazione del peggior significato delle parole, ed è, perciò stesso, intellegibile” - Ortega. È importante comprendere la storia e il processo di fondazione della pedagogia speciale e la sua evoluzione in relazione al suo campo d’intervento, struttura epistemica e oggetto di interesse (accoglienza, accompagnamento e educazione del soggetto interessato da disabilità in rapporto con il mutare delle epoche e dei contesti: una disciplina in continua evoluzione) per cogliere come, nell’ultimo 40ennio, la disciplina si sia sviluppata tenendo conto degli elementi che ne hanno allargato l’orizzonte epistemologico e operativo. L’oggetto di riferimento è complesso così come è complesso il suo campo d’intervento: non è una L’oggetto di riferimento è complesso così com’è complesso il suo campo d’intervento: non è una disciplina medica ma può intervenire nei processi di cura medica; non è una disciplina scolastica ma aiuta a strutturare i percorsi scolastici degli individui; non è una disciplina sociologica ma entra in dialogo con la sociologia per comprendere le varie dinamiche sociale; non è filosofia ma interroga la filosofia per tematiche differenti come quella dell’identità. La struttura epistemica è dunque complessa per i vari soggetti e campi soggetti cui si riferisce; anche lo stesso discorso epistemologico è complesso. Da una parte ha elaborato una teoria dell’educazione, come sottolinea D’Alonzo, e si è dunque impegnata a dialogare con le altre scienze dell’educazione. In particolare, con la Pedagogia Generale che si occupa dei vari aspetti e bisogni dell’educabilità umana, svincolandosi per dalla scienza medica per definirsi in maniera sempre più autonoma e specifica. Dall’altra parte, la sua elaborazione scientifica attraverso il rapporto diretto con i soggetti, i contesti e le pressa in cui la teoria e la prassi si sono unite contribuendo a dilatare e ridefinire gli orizzonti e i confini della disciplina. Nell’Ambiente accademico italiano Zavalloni è il primo studioso italiano che nel 1964 viene incaricato di tenere una lezione di Pedagogia Speciale presso l’Università della Sapienza di Roma. Negli anni ’60, periodo in cui non vi è ancora l’integrazione scolastica, afferma che “la Pedagogia Speciale è la scienza delle difficoltà psichiche, dei ritardi, delle turbe di ogni sorta di sviluppo bio-psico-sociale del fanciullo e del giovane, considerandoli in prospettiva educativa e didattica” (un insieme di problematiche bio-psico-sociali del fanciullo: è dunque uno studioso che pensa già allo sviluppo della persona come globale e non solo cognitivo-intellettivo ma un insieme di fattori che costituiscono la sua condizione globale. Oltretutto guarda secondo una prospettiva educativa e didattica e non più medica). L’oggetto della pedagogia speciale è il DISADATTATO che vien inteso in relazione al disadattamento ambientale, personale e familiare: dunque secondo un punto di vista educativo e pedagogico, l’educazione viene considerata in grado di sostenere lo sviluppo bio-psico-sociale del fanciullo anche in condizioni di disabilità, sviluppando le risorse necessarie per far fronte a queste difficoltà. Si tratta di una definizione in cui la definizione dell’oggetto d’indagine è ampia e riconducibile a difficoltà di natura differente e si rivolge in direzione dei bisogni che si generano nell’ambito dell’educazione e della didattica. L’eziologia medica non è prevaricatrice e il termine disadattamento fa riferimento a 2 fattori: un’eventuale patologia del soggetto e le carenze formative del mondo socioculturale in cui esso si sviluppa. Come fa notare Pavone la definizione è comunque influenzata dal passato perché, nonostante in quel tempo l’UNESCO faceva già riferimento alla Pedagogia Speciale come rivolta all’educazione generale per tutti, Zavalloni si rivolge invece solo all’età scolare in un’epoca in cui l’educazione delle persone interessate da disabilità avveniva all’interno delle classi speciale e negli istituti. Approfondendo il discorso metodologico, quindi la distinzione tra mezzi clinici, pedagogici e educativi, Zavalloni mostra la sua volontà scientifica di dare una struttura epistemologica organica al pensiero e al metodo pedagogico speciale, senza dunque aprirsi al dibattito interdisciplinare che stava nascendo. La Pedagogia Speciale è una disciplina “sfuggente” e non può essere limitata a chi, nel passato, ha voluto costruire gli istituti speciali perché la scuola non era in grado di prendersi cura degli alunni con difficoltà. Nonostante la complessità del suo oggetto d’indagine, presta attenzione all’ESISTENZA UMANA andando oltre alla non corretta comprensione delle sofferenze e dei sintomi. Tra le sue caratteristiche, chiarisce Montuschi è quella di cogliere il problema quando questo può sfuggire all’attenzione comune (spesso accade quando si confonde l’origine e la natura di un disagio) interpretandolo attraverso una certa dinamica correttamente così da poter costruire ipotesi d’intervento attraverso azioni d’aiuto significative per consentire alla persona di riprendere, nella maniera umanamente più ricca possibile, la propria esperienza di esistenza, il proprio “fare” significativo e il proprio “essere” motivato. L’azione d’aiuto viene portata avanti dall’educatore o pedagogista all’interno dell’ambito operativo e consente di offrire all’individuo la possibilità di interagire con il mondo, considerando il comportamento disadattivo per poter costruire un comportamento di crescita: se ad esempio un bambino con difficoltà va a fare la spesa con i genitori mette in atto un serie di comportamenti disadattivi (scappa, si arrampica etc.) si deve intervenire nel modo giusto e non allontanandolo dal supermercato. Il bambino con le sue azioni cerca di esprimere un proprio bisogno, e perciò, bisogna metterlo nelle condizioni di esprimere i propri bisogni e dargli la possibilità di realizzarli in una prospettiva di crescita. L’intervento d’aiuto non consiste nel sostituirsi all’altro in quanto la Pedagogia Speciale non è la stampella pedagogica e l’intervento non si sostituisce non serve per compensare ma per spingere la persona alla sua crescita, per potersi definire a livello di identità e stabilirsi all’interno di un particolare contesto; avendo quindi dei comportamenti che siano conformi a quel particolare contesto. * La crescita della disciplina assieme alla crescita della dignità della persona (Gaspari pag. 27): Montuschi. La pedagogia speciale si caratterizza per dare una risposta qualificata e non dettata solo dall’emergenza o dal qualunquismo. Il pietismo non fa parte dello stato epistemico della pedagogia speciale, ma non bisogna confondere il pietismo con la sensibilità (qualificata, non sensibilità d’animo) che identificazione, riconoscimento, sviluppo, progetto di vita. Può diventare anche uno stigma (“quel bambino che non sta mai fermo” per rivolgersi ad un bambino con ADHD) che la persona si porterà dietro per tutta la vita e inizierà perfino a pesare, fino ad abituarsi ad avere una certa etichetta e la prende come se costituisse la sua identità. Lo stigma, quindi, impedisce di mettere a frutto le proprie risorse. Dai primi passi degli anni ’70 (Legge Quadro) si propongono una serie di interventi a favore della persona handicappata e poi nel 2015 la Scuola di Renzi propone al governo la necessità di legiferare in materia di ambito scolastico e anche riguardo della disabilità. Il decreto 66 del 2017 si apre con una chiara rappresentazione dell’inclusione, una rappresentazione ampia e matura di questo processo. Si è poi scoperto che dopo aver presentato questo scenario ampio e maturo, è stato però fatto un passo indietro perché si è parlato di inclusione si parla solo dei bambini in condizione di disabilità, la quale è riconosciuta da una diagnosi clinica. Un processo dunque ancorato ad una rappresentazione medicalizzante della disabilità e quindi i vari vincoli legati ad una non chiara rappresentazione della disabilità. Elaborare modelli che anche nella consapevolezza dei vincoli esistenti in riferimento alla persona in condizioni di disabilità affinché tutti possano promuovere conoscenza e creare condizioni di sviluppo per tutta la società intera sia i “gravemente normodotati che le persone in situazioni di disabilità”. Se noi possiamo pensare alla differenza come risorsa è perché abbiamo costruito dei modelli conoscitivi che hanno consentito di prenderla in considerazione come tale e questi modelli sono stati diffusi in tutta la società, non solo tra le persone interessate da condizioni di disabilità*. La pedagogia speciale ha iniziato ad occuparsi di soggetti di cui non ci si era mai occupati dal punto di vista educativo che ci si è occupati di questi in contesti separati. Nel corso del tempo si sono però costruite delle consapevolezze valide per tutta la società legate al legame tra le diverse discipline. Le situazioni in cui la disabilità si manifesta possono essere complesse e si possono affrontare con prospettive ermeneutiche ed ecologico-sistemiche capaci di interpretare e rielaborare l’unicità-diversità delle situazioni. Essere una persona con disabilità essere una persona in una particolare condizione di vita, unica. Anche una particolare menomazione, ad esempio, potrebbe rappresentare esperienza esistenziale differente che può variare da una persona all’altra. Bisogna considerare la persona dandogli la possibilità di esprimersi. Secondo Vico il riconoscimento della singolarità non consiste solo nella conoscenza del soggetto ma anche nella capacità di accompagnare ed emancipare in senso antropologico la persona in situazione di disabilità e, assieme ad essa, i valori fondanti dell’intera umanità. L’emancipazione della persona disabile consente di far resuscitare i valori, i valori della vita umana in generale. La pedagogia speciale va oltre il prendersi cura della persona disabile e secondo Mura: La Pedagogia Speciale è una disciplina teorico-pratica finalizzata ad elaborare e costruire una teoria dell’educazione individuale e sociale finalizzata e ridurre/azzerare la disabilità e ha la responsabilità di ricercare, prospettare e promuovere forme sempre più umane e umanizzanti di relazione e di emancipazione antropologica, culturale e sociale. La società deve dunque essere capace di accogliere, sostenere e promuovere l’emancipazione della persona disabile; infatti, una società/città mostra la sua maturazione in base alla possibilità di offrire a tutte le persone di fruire di tutti i suoi ambienti. *Un’educazione individuale e sociale, che non riguarda solo l’individuo ma l’intera umanità e che ha come scopo la riduzione e l’eliminazione della disabilità come condizione di difficoltà imposta da molteplici fattori; quindi, attraversi anche la modificazione e configurazione dei contesti. Si ha dunque la responsabilità di pensare e concepire forme sempre più umane che ci consentano di conoscere l’umano. Emancipazione a tutti i livelli: antropologica, culturale e sociale. L’azione pedagogico-speciale ha considerato lo sviluppo della persona con disabilità che è poi diventato anche sviluppo di tutta la società*. Si tratta di una prospettiva che attribuisce alla Pedagogia Speciale il compito di attivarsi presso TUTTI in quanto le responsabilità educative, civiche e inclusive devono intrecciarsi dando vita a nuove forme di partecipazione sociale che sono capaci di costruire una società globale giusta, equa e solidale. La Pedagogia Speciale è dunque chiamata a promuovere e organizzare il cambiamento vigilando su di esso e indirizzandolo senza farsi influenzare negativamente dai segni del tempo che invece riportando verso tendenze individualistiche. Da qui nasce una sua DUPLICE RESPONSABILITA’: sul versante teorico vi è la necessità che la ricerca scientifica qualifichi sempre di più la sua capacità di identificare, interpretare e orientare rispetto alla complessità dei bisogni speciali e delle possibili risposte. Sul versante operativo, invece, vi è la necessità di coinvolgere tutti gli attori culturali e sociali nella progettazione e strutturazione di percorsi e ambienti di formazione, lavoro e vita sociale capaci di promuovere e realizzare situazioni concrete di piena inclusione per tutti i cittadini. Tanti studiosi italiani si sono impegnati nella formulazione di teorie e modelli d’intervento per la risoluzione di problematiche legate alla disabilità. Un riconoscimento va ai soci della SIPeS (Società Italiana di Pedagogia Speciale) che è attualmente presieduta dal prof. D’Alonzo e si è costruita nel 2008 a Bologna, raggruppanti docenti universitari italiani ed esterni, operatori scolastici e sociali, impegnati in attività di studio e di ricerca nel campo della Pedagogia Speciale. I soci si sono dunque impegnati nella in merito alla ricerca e all’operatività per far sì che le competenze pedagogico speciali diventassero patrimonio di tutti gli educatori affinché possa essere realizzata una proposta educativa, sociale e riabilitativa fondata scientificamente. Questo non significa che il modello italiano dell’integrazione (che coinvolge tutti) non vada bene ma è necessario lavorare con più impegno in quanto i risultati raggiunti fino ad adesso hanno migliorato le condizioni delle persone interessate da disabilità ma hanno permesso anche di costruire una visione della realtà più coerente agli interessi anche degli altri cittadini. Se in passato la presenza della persona disabile veniva vista di cattivo occhio e si pensava che i processi inclusivi dovessero coinvolgere solo le persone con disabilità, è maturata rivelata una versa RISORSA PREZIOSA per lo sviluppo e la crescita del patrimonio culturale, civile e materiale di tutta la società intera. Un grosso contributo offerto dalla Pedagogia Speciale è stato quello rivolto al mondo della SCUOLA perché si è riusciti ad orientarla nel rinnovamento dell’organizzazione, dei contenuti e dei metodi d’insegnamento e tutto ciò proprio a partire dalla presenza dell’alunno disabile. Una serie di temi (accoglienza, progettazione e organizzazione scolastica, legame tra programmazione individuale e di classe, l’alleanza tra scuola ed extra-scuola, la pluralità dei linguaggi, l’uso di tecnologie assistive, la documentazione, la qualità dell’integrazione, la formazione prima degli insegnanti specializzati e poi di tutti gli insegnanti) hanno riguardato prima la scuola dell’obbligo, poi la scuola superiore fino ad arrivare all’Università (in cui i fenomeni di dispersione universitaria sono stati arginati) e hanno modernizzato il sistema formativo intero. Questi elementi hanno incrementato il carattere inclusivo e hanno consentito l’apertura ad ogni genere di diversità e hanno portato all’idea secondo cui tutti gli studenti abbiano il diritto di essere posti in condizione di conseguire il più ampio successo formativo possibile. In AMBITO EXTRA-SCUOLASTICO in cui le varie problematiche venivano considerate come di esclusivo interesse per la popolazione in situazione di disabilità, si sono invece rivelate fondamentali per tutti i cittadini. I temi dell’accessibilità, dell’abbattimento delle barriere architettoniche e le tecnologie legate alla mobilità sono state considerate, negli anni ’70, come troppo dispendiose rispetto alle esigenze di un gruppo minoritario mentre oggi sono gli indicatori del livello di civiltà dei popoli e quindi oggi si pensa più al modo in cui debbano essere realizzati, preventivamente, ambienti, prodotti, sistemi comunicativi che siano fruibili e utilizzabili da tutti. Se prima i problemi venivano considerati di natura “tecnica” oggi invece si scava più infondo fino ad arrivare ad un’idea legata all’idea di uomo e di società che si intende costruire e dunque in termini di coscienza culturale e civile. Dal punto di vista degli SCARDINAMENTI SOCIOCULTURALI si devono considerare i risultati ottenuti nel riconoscimento e nella valorizzazione delle famiglie delle persone interessate da disabilità. Tali famiglie sono state infatti considerate, per lungo tempo, come vittime del disinteresse sociale, imprigionate in rappresentazioni stigmatizzate e ipertrofizzate della loro identità e, intorno al Novecento sono state vittime di vari studi di matrice psicanalitica che le hanno fatte sentire psicologicamente responsabili della condizione dei figli anziché, come vengono intese oggi, come luoghi fondamentali e significativi per la crescita dei figli. Nel corso dell’ultimo ventennio le famiglie sono state considerate non più come “soggetti da assistere” o “soggetti patologici” ma come risorse da attivare oppure come detentrici di risorse e con specifica expertise. I vari studi della Pedagogia Speciale hanno permesso di riconoscere le competenze di resilienza e di coping presenti al loro interno, nonché le capacità di organizzarsi e di gestire tramite Associazioni le problematiche relative alla crescita e allo sviluppo dei loro figli. Sono state decisive per il riconoscimento dei diritti, dell’identità e dell’autonomia di tutte le persone in situazione di disabilità, producendo pressioni culturali, sociali e politiche per riorientare le consapevolezze individuali e istituzionali per arrivare alla costruzione di una società eticamente rispettosa e responsabile dei suoi cittadini. Secondo Caldin è importante valorizzare anche le NARRAZIONI degli stessi protagonisti della disabilità perché in questo modo il sapere viene de-centrato e condiviso direttamente con i testimoni/interpreti della situazione problematica. La narrazione consente di unire la cultura e strutturare la vita individuale per potersi orientare verso sé stessi, gli altri e verso le cose del mondo. Secondo Gaspari la narrazione è oggetto di studio ricorrente nei diversi ambiti e saperi ed è capace di utilizzare diversi linguaggi e settori di conoscenza. Il fatto che ai principali protagonisti venga data la possibilità di raccontare la propria esperienza di disabilità o quella di altri e che poi questo potesse diventare momento di riscontro/confronto per gli studiosi non era così scontato. Eppure, lo studio e la vicinanza di coloro che vivono in prima persona la disabilità, assieme ad una necessaria sensibilità, permette di comprendere che qualunque esistenza, a prescindere dalle modalità con cui si esprime, presenta ricchezze e problematiche che si devono legare assiema, anche attraverso la scrittura e l’arte. Anche nelle situazioni più difficili vi è il DESIDERIO DI ESISTERE che è più forte della volontà di cancellarsi e di scomparire nel nulla (Giusti). Le varie opere scritte da persone disabili o dai familiari fanno emergere il valore terapeutico, trasformativo e formativo delle narrazioni in quanto Narrare di sé vuol dire interrogarsi sulla propria identità e su ciò che ci contraddistingue; vuol dire comunicare a noi stessi, e agli altri, chi siamo; vuol dire trasformare il monologo interiore con l’alterità e, significa anche scandire e regolare le emozioni attraverso la rappresentazione degli eventi della vita. La narrazione è cura di sé, è autoterapia che fa emergere le luci e le ombre del proprio conflitto interiore e che, però, consente di costruire la propria identità personale, consentendoci di nascere due volte, di scoprirsi e riscoprirsi per riprogettare la propria esistenza. Secondo Dettori, “questo è sempre possibile, anche quando la disabilità compare inaspettata e improvvisa: dalla sensazione iniziale del perdersi, dopo un percorso introspettivo (spesso doloroso) segue la possibilità di ritrovarsi anche se, spesso, molto diversi sia nel corpo che nell’anima”. L’interesse della Pedagogia Speciale nei confronti delle storie di vita delle persone in condizioni di disabilità e dei loro familiari sono accolte e interpretate in chiave ermeneutica e fenomenologica per poter riscrivere e ricostruire la propria identità storico-civile e personale, reindirizzando, inoltre, i progetti di coloro che a livello professionale si occupano della disciplina. In conclusione, se la finalità della disciplina è quella di consentire una totale e piena inclusione sociale delle persone interessate da disabilità l’itinerario da percorrere è molto lungo e per questo la Pedagogia Speciale deve impegnarsi per diffondere idee e contenuti che orientino le altre persone e discipline. Il dialogo con le altre scienze e l’uso dei vari dispositivi metodologici consente di ripensare, rivedere, integrare e implementare i concetti e i temi che la caratterizzano, confrontandosi allo stesso tempo con nuove ed emergenti problematiche. La direzione è quella del dialogo-confronto con le nuove soggettività istituzionali e sociali che a livello internazionale, nazionale e locale assumono un peso sempre più grande nelle politiche dei processi inclusivi e contribuiscono alla progettazione e realizzazione di sistemi integrati d’intervento sociale, sanitario e d’istruzione. A partire dagli organismi sovrantazionali fino ad arrivare agli Enti Locali, dalle associazioni culturali, sportive e di tempo libero che si interessano di disabilità alle cooperative sociali, ai volontari e ai professionisti che si occupano delle relazioni d’aiuto: sono questi che nell’immediato, e nel futuro, possono essere considerati come gli interlocutori privilegiati del discorso pedagogico speciale che devono confrontarsi su temi ancora poco esplorati (rapporto tra disabilità e cittadinanza attiva, politiche di Welfare, costruzione di reti comunitarie, tecnologie, servizi, lavoro e vita indipendente, flussi migratori e politiche inclusive, viaggi, tempo libero e sport). È necessario modificare le idee, i bisogni, i comportamenti, le politiche e le consapevolezze culturali e sociali fino ad arrivare alla coscienza pubblica e privata che porteranno alla trasformazione dei valori costruiti per affermarne di nuovi. 2. Una didattica per l’inclusione La didattica inclusiva per tutti gli alunni supera l’idea che la diversità debba essere considerata come emergenza o come eccezionalità e va a stabilire un continuum tra educazione e didattica in termini di ricerca teorica, pratiche organizzative e forme di insegnamento integratrici di cui si fa esperienza nella quotidianità del “fare scuola”. La Pedagogia Speciale, la Didattica Speciale e la Didattica Generale possono unitamente contribuire nella ricerca di soluzioni didattiche inclusive, sia a scuola che nell’extra-scuola. Nonostante queste difficoltà, vi è la necessità del DIALOGO di più conoscenze, dei diversi sistemi e ducativi e la ricerca della trasversalità: questo dialogo può essere sviluppato attraverso i processi di negoziazione ermeneutica che sono finalizzati al miglioramento delle pratiche di educazione e didattica inclusiva, sulla base dei risultati interculturali, professionali e organizzativi che sono condivisi, anche se sono ibridi e diversi per le componenti di cui si costituiscono. Nell’ultimo ventennio vi fu il susseguirsi dei più noti programmi culturali europei di mobilità dei docenti e degli studenti tra cui: Helios, Horizon, Erasmus, Socrates e Comenius. Questo riconferma, a livello internazionale, il ruolo politico e sociale che viene attribuito alla SCUOLA che viene considerato come il luogo per eccellenza della formazione e dell’emancipazione umana, ed è basata sulla reciprocità, la coappartenenza e la solidarietà. La scuola in alcuni casi rappresenta l’unica possibilità di alfabetizzazione per milioni di persone ma è anche la sede di garanzia per promuovere e rispettare i suoi valori, ma anche per elaborarne di nuovi. La scuola viene intesa come istituzione sociale aperta, attiva e propositiva che, sulla base del suo carattere democratico, è il luogo in cui TUTTI, nessuno escluso, sia singolarmente che collettivamente, fanno esperienza di orientamento e formazione. In Italia, nelle INDICAZIONI NAZIONALI PER IL CURRICULO si afferma che “La scuola realizza la propria funzione pubblica impegnandosi con una particolare attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, disabilità o svantaggio”: mettere al centro del progetto educativo scolastico internazionale l’idea dell’INCLUSIVE EDUCATION (nata in relazione alle disabilità sensoriali e psichiche, ma comprensiva oggi di ogni genere di diversità e forme di marginalità), rappresenta un modo per verificare e per promuovere l’effettiva capacità democratica ed emancipatoria dell’educazione scolastica. L’educazione inclusiva mette a nudo le debolezze del sistema scolastico, aprendo a nuove possibilità e orientando verso giuste direzioni. Oggi i BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI fanno riferimento in misura minore alle difficoltà sensoriali, alle disabilità intellettivi o a situazioni di plurideficit (questo non vuol dire che non rappresentino un problema da affrontare) e in misura maggiore ai disturbi del comportamento, della sfera sociale ed emotiva e alle differenze presenti nei gruppi classe: le diversità possono essere etiche, culturali, sociali, religiose o legate alla disabilità dal punto di vista dialettico e non possono essere considerate come emergenze o eccezioni ma, come sostiene Diego Ianes, come “speciale normalità”. Secondo D’Alonzo la preoccupazione odierna degli insegnanti non è quella dell’integrazione ma delle integrazioni; in questo senso la pluralità delle metodologie, gli stili d’insegnamento e strategie didattiche devono funzionare per gli alunni in situazione di disabilità ma anche per tutti gli altri alunni: questo è l’obiettivo generale che richiama alla necessità di ricercare e utilizzare stili e strategie d’insegnamento integrati per poter superare la precarietà delle risposte d’emergenza e strutturare, invece, una cultura pedagogica e didattica capace di offrire a tutti risposte mirate per la costruzione di un progetto di formazione e di vita che si originale e unico. La NORMALITA’ si lascia uniformare, standardizzare e omologare rendendo patologico il rapporto con il proprio sé; Quando diciamo che siamo normali tendiamo a traviare noi stessi e a rinunciare alle specificità del nostro essere. I normodotati perdono l’occasione che viene data alla diversità attiva la didattica; la normalità non ci ha permesso di coltivare il proprio sé e la propria specificità. (La dispersione scolastica, ad esempio, non riguarda solo alunni con difficoltà ma anche gli alunni che non vengono adeguatamente stimolati). La DIVERSITA’ provoca la didattica e l’educazione perché non accetta compromessi in quanto enfatizza l’esserci nella sua originalità e l’essere nella sua universalità, smascherando la mediocrità delle soluzioni preconfezionate e valide per tutti. la diversità non cerca di personalizzare o aggiustare l’intervento didattico-educativo in base alla conoscenza dell’alunno ma richiede un approccio olistico e sistemico che consideri e valorizzi tutti gli elementi del contesto che sono utili a costruire una rete modulata e coordinata di risorse e sostegni. Da qui nasce l’esigenza di una DIDATTICA INCLUSIVA che funzioni per tutti e che non sia legata solo ed esclusivamente all’istruzione ma sia impegnata nel versante più ampio, teorico-pratico, dell’identificazione dei bisogni educativi-speciali di tutti gli alunni e delle possibili risposte. Per fare questo deve coinvolgere in maniera proattiva tutti gli attori scolastici nella progettazione, realizzazione e valutazione delle esperienze educative e formative. * Mura: una didattica inclusiva è una didattica che funziona per tutti. È impegnata nel settore teorico e pratico pensando alla didattica come rispondente ai bisogni di tutti gli alunni. Una scienza di ricerca come continua identificazione dei bisogni e quindi una continua ricerca di condizioni che costituiscono un ostacolo per l’apprendimento e la crescita. Questa ricerca deve coinvolgere tutti i soggetti dell’ambiente scolastico, dal personale ATA al dirigente scolastico.* La comunità scolastica deve predisporre il PIANO DEL’OFFERTA FORMATIVA che deve essere condiviso e cogestito con le altre realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche del territorio, attraverso i vari incontri, collaborazioni, consorzi, contratti e convenzioni. L’integrazione non si può infatti realizzare con i singoli interventi ma richiede sinergie e interconnessioni positive tra i vari ambienti di vita e di relazione di cui il soggetto è partecipe. A livello micro e quindi nell’aula, la qualità delle relazioni con i compagni di classe e le competenze didattiche dei docenti giocano un ruolo importante nel processo d’integrazione. Per quanto riguarda gli insegnanti è stata condotta una ricerca comparativa su 15 realtà nazionali dalla EUROPEAN AGENCY FOR DEVELOPEMENT IN SPECIAL NEEDS EDUCATION che individua alcune chiavi del processo d’integrazione: le attitudini degli insegnanti nelle relazioni con gli alunni disabili, la loro capacità di creare relazioni sociali, il modo in cui considerano le differenze presenti in classe e la loro volontà di affrontarle in maniera efficace. Questo vuol dire che gli insegnanti devono avere un vasto repertorio di competenze, conoscenze, metodi didattici, strategie, materiali e tempo per accettare veramente la diversità nei gruppi classe. Ciò che accade in aula dipende ovviamente anche dalle relazioni multiprofessionale a livello più ampio e “macro” perché l’educazione integratrice non può essere interpretata e ricondotta al processo di insegnamento o alla relazione esclusiva tra insegnante di sostegno e alunno. Accanto alla competenza specialistica e continuamente aggiornata dell’insegnante di sostegno (il Decreto Ministeriale del 10 settembre 2010, n°249 definisce i requisiti e le modalità della formazione iniziale dei docenti delle scuola di ogni ordine e grado stabilendo l’obbligatorietà, almeno per i docenti della scuola dell’infanzia e primaria, di un numero consistente di crediti formativi universitari sulle tematiche della Pedagogia Speciale e della Didattica Speciale, sia nelle attività di base che in quelle caratterizzanti. È però insufficiente la scelta del legislatore per quanto riguarda i crediti previsi per la scuola secondaria di primo e secondo grado) vi deve essere, da parte di tutti i docenti, una competenza educativa e didattica base sui temi della disabilità affinché si possa lavorare in maniera qualificata. Sulla base delle competenze professionali, e della disponibilità umana, si può infatti ottenere una vera collaborazione e/o interazione dialettica tra docenti e altre figure professionali. Si rileva molto spesso un insufficiente sapere tecnico costituito su regole generali e ipotesi deduttive ma possedere competenze metodologiche non base se queste non possono essere usate in maniera flessibile e dinamica, quindi modificabile e che si possano combinare e ricombinare in base alle variabili soggettive e di contesto che si presentano di volta in volta. Non è l’aderenza tra modello teorico e organizzazione dell’insegnamento (orari, quadri, numero insegnati, spazi) che garantisce l’adozione delle migliori condizioni di esercizio della didattica ma è invece necessaria l’attivazione di una didattica problematica e riflessiva che impegna i docenti ad una costruzione in itinere delle differenti opzioni organizzative e metodologiche e che si definisce in base ad un circolo ermeneutico che nasce e si sviluppa nell’interazione tra conoscenze, insegnamenti, allievi e contesti. Si deve, quindi, assumere l’ACTION-REASEARCH e il PENSIERO RIFLESSIVO alla base dell’esercizio professionale per la ricerca e l’integrazione degli stili e delle strategie di insegnamento che rispondano ai bisogni di ciascuno e di tutti. Le varie strategie inclusive riguardano tematiche ancora aperte come: la trasversalità tra contenuti disciplinari, la negoziazione con le incertezze della quotidianità, l’utilizzo combinato delle differenti metodologie d’insegnamento, l’uso di tutti gli alfabeti comunicativi ed espressivi, l’attenzione alle emozioni e agli affetti, la cura delle relazioni e delle abilità sociali, la sollecitazione del pensiero metacognitivo, creativo e pratico. La possibilità di sperimentare la pluralità delle combinazioni, in relazione alle varie esigenze e diversità, promuove negli alunni il piacere euristico della scoperta, della personalizzazione del proprio percorso, dello stare insieme per sostenersi, nella negoziazione di significati che a volte possono essere condivisi altre volte si farà fatica ad accettare, parziali, incerti, aperti o “pronti al superamento della smentita” (Popper). La Pedagogia e la Didattica Speciale sono impegnate costantemente nell’innovazione della qualità teorica e operativa della ricerca sull’inclusive education secondo alcune tematizzazioni: centralità delle componenti affettivo-relazionali nei processi di insegnamento-apprendimento; l’epistemologia; la formazione degli insegnanti e degli operatori; l’interazione didattica; le difficoltà sensoriali; le difficoltà specifica, le difficoltà complesse e i bisogni educativi speciali; la progettualità e le metodologie didattiche; le tecnologie assistive e dell’apprendimento; i rapporti tra scuola, famiglia ed extra-scuola; la qualità dell’integrazione scolastica; gli studi e le pratiche inclusive a livello internazionale; l’accoglienza e la didattica universitaria; le attività motorie e sportive nella scuola e nell’extra-scuola; l’immigrazione, la disabilità e le questioni educative. La sfida dell’inclusive education impegna i docenti da un lato a garantire a ciascun allievo l’identità, la coscienza e la conoscenza affinché si sviluppi il senso della comprensione, della reciprocità e della comune appartenenza alla diversità. Dall’altra, invece, li impegna assieme ai ricercatori ad essere protagonisti non solo attraverso la progettazione, le metodologie, la gestione della classe, la valutazione o la documentazione, ma anche attraverso lo studio, la ricerca e la riflessione su di essi affinché possano far emergere i criteri orientatori dell’azione didattica. Si può essere fiduciosi in questo e come sostiene Canevaro “i buoni esempi non mancano, si tratta di vagliarli e di discuterli per far sì che possano divenire delle buone prassi”. Appunti: “In situazione di disabilità” (o “interessata da disabilità”): è una locuzione non usale perché nel quotidiano sentiamo spesso parlare di disabile definendo quindi prima la categoria all’interno della quale la persona è inserita piuttosto che parlare prima della persona. Ma soprattutto perché è una locuzione ideata dal Prof. Mura e quindi viene usata solo all’interno della scuola di pedagogia speciale di Cagliari. La definizione propria di Mura e quindi del discorso scientifico di Cagliari è legato alla persona interessata da disabilità, la quale è il risultato di una serie di elementi che si mettono in relazione tra di loro, in maniera temporanea o per sempre. La disabilità, dunque, non è più una caratteristica ma una condizione in cui la persona può trovarsi. Erano poche le possibilità di istruzione per i bambini in situazioni di disabilità e l’ANFASS si è mossa per ampliare il numero degli istituti capaci di gestire le classi differenziali. Bisognava pensare non solo ai bambini ma anche ai ragazzi e giovani adulti affinché potessero spendere gran parte della loro giornata, crescere a livello di competenze sociali nella comunità e in famiglia, proporre laboratori per andar fuori della famiglia ed entrare a far parte della società. In alcuni territori non vi erano scuole e quindi i bambini dovevano spesso fare lunghi viaggi ma vi era la necessità di sostenere le famiglie per queste spese (‘anni 50). Poi ci si è resi conto che gli aiuti servivano per tutte le persone in condizioni di disabilità e di questo lo fecero presente le famiglie e associazioni di persone disabili. Nel 1970 nasce il sistema sanitario nazionale ma sono state le varie associazioni (AIAS) a pensare percorsi di riabilitazione per bambini con sindrome spastica; le famiglie si sono rifiutate di portare i bambini in costosi centri e lontani e allora hanno iniziato a pensare alla riabilitazione dei propri figli nelle proprie case facendo capire allo stato che vi era invece bisogni. Si sono movimentate le marce della sofferenza intorno agli anni ’60 di persone disabili che chiedono un sostegno economico allo Stato perché la mancanza di fondi economici ostacolava la realizzazione del loro progetto di vita. Non era una situazione dignitosa e numerosi furono i frangenti dei servizi alla persona che hanno visto le associazioni come primi promotori di servizi a cui lo stato non aveva ancora pensato. La scuola era cambiata accogliendo i bambini con disabilità e si aveva riqualificato l’offerta formativa. Le indicazioni che consentono il processo di apprendimento a tutti i bambini oggi sono scontate e non esiste didattica se non riesce a rispondere a tutti i bisogni e necessità. Chi lavorava nelle scuole speciali? Ci lavoravano delle insegnanti specializzate, non come oggi. Nel 1971: inserimento selvaggio (senza risorse) Nel 1977: necessità di un insegnante specializzato e da allora iniziano le scuole statali per la formazione dell’insegnante specializzato. Vi sarà una continua riforma dell’insegnante specializzato. Prima invece vi erano insegnanti che si formavano alla scuola magistrale ortofrenica (la prima era stata fondata dalla Montessori) e che lavoravano sia nelle classi differenziali che negli istituiti medico-pedagogici. La Montessori ha richiesto allo Stato di costruire le classi differenziali e gli istituiti medico-pedagogici in cui l’educazione era individualizzata nei confronti dei vari alunni e qui si pongono le basi per la pedagogia speciale. Da questa didattica matura una cultura didattico-speciale alla quali siamo oggi debitori. Vi sono una serie di ASSOCIAZIONI DI FAMILIARI che hanno costruito una situazione di welfare. All’interno di una logica democratica, equa e solidale è necessario mettere in atto delle azioni all’interno di un sistema integrato e condiviso di interventi. In Italia si potrebbero mettere in atto alcuni interventi e scelte che possono realizzare un progetto di questa portata e, quindi, agevolare i processi culturali:  Guardare la disabilità come condizione universale e umanamente complessa all’interno dell’ambito dei ditti umani e civili, il che porterebbe ad un benessere generale della comunità. Vi è dunque la necessità di smettere di considerare la disabilità solo in riferimento alla salute psico- sociale a cui fornire risposte burocratiche-istituzionali o clinico-riabilitative e assistenziali.  Abbandonare le posizioni liberali (che non si preoccupano delle posizioni del singolo ma pensano alla persona ideale; tant’è che nell’ICF-CY del 2007 sono state prese in considerazione le condizioni di bambini e adolescenti che prima non venivano considerate nel particolare), individualiste e separatiste effettuando invece scelte orientate verso politiche comunitarie che prendano in considerazione le persone a 360°, politiche umano-sociali di solidarietà, riconoscimento e coinvolgimento dei cittadini che, nell’ambito dell’associazionismo, disabilità e Terzo Settore si sono avviate negli anni ’90 per realizzare maggiore consapevolezza e sintonia tra le esigenze dello Stato istituzione-comunità e dei cittadini.  Razionalizzare e potenziare il sistema integrato degli interventi e dei servizi educativi e sociali rivolti alla persona interessata da disabilità attraverso la revisione della legislazione esistente e la collocazione di questi nelle normative rivolta alla generalità dei cittadini senza dover necessariamente prendere provvedimenti ad hoc che implicitamente rinforzano l’idea di separazione e “categoria speciale”.  Curare la formazione di base e specialistica dei diversi operatori della cura e dell’aiuto sui temi dell’inclusione e dei bisogni ad essa legati a prescindere che essi siano professionisti sanitari, sociali, educatori o futuri manager organizzativi e gestionali dei servizi cosicché la contaminazione tra le specializzazioni possa generare un ambiente accogliente di cui disabili, e non, necessitano. Un esempio può essere quello di un medico che deve possedere particolari consapevolezze rispetto alla disabilità per poter maturare quel livello di sensibilità e conoscenza necessario per potersi rivolgere e relazionarsi anche con questi individui o con i loro genitori (es: comunicare una patologia).  Investire sulla cultura della progettazione integrata tra enti, servizi e operatori delle istituzioni e del privato sociale per superare le difficoltà di comunicazione tra professionisti dell’aiuto e anche per poter operare assieme tra i differenti sistemi decisionali e organizzativi; inoltre, questo è utile anche per condividere le responsabilità secondo logiche di dialogo che privilegino la complementarità e l’interdisciplinarietà di competenze e interventi.  Realizzare, all’interno di una cultura della progettazione universale, ambienti, prodotti, strumenti, mezzi di trasporto, sistemi comunicativi e tecnologici che siano fruibili e utilizzabili da tutti, superando la logica odierna che è discriminatoria e legato allo stigma dell’adattamento a posteriori.  Richiedere ad attori politici e ai professionisti dell’informazione una conoscenza adeguata delle problematiche della disabilità per far sì che nelle comunicazioni pubbliche si utilizzi un linguaggio appropriato e responsabile e non uno improprio e confusivo come spesso accade che non fa altro che perpetuare stereotipi e false credenze o rappresentare le situazioni e i fatti in maniera sbagliata, anziché sostenere e promuovere logiche di cambiamento.  Creare condizioni di accessibilità e sostenibilità ambientale nei vari contesti di vita per poter godere del benessere individuale e sociale affinché ciascun uomo, disabile o meno, possa realizzare il desiderio di un autonomo progetto di vita. Dunque, la creazione di un SISTEMA INTEGRATO DI INTERVENTI crea delle condizioni inclusive per tutti e non deve essere portato avanti solo da particolari professionisti o settori specialistici ma è frutto di comportamenti, scelte e interventi che coinvolgono semplici cittadini, professionisti e decisori politici. 2. Vivere il mondo: dal PEI al Progetto di Vita Levinas sosteneva che l’altro si impone alla presenza dell’Io rendendo, quest’ultimo, responsabile dell’altro. Da qui nasce un’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ individuale e collettiva che rappresenta un fondamento necessario per la realizzazione di una società inclusiva. Tuttavia, se l’altro viene considerato solo ed esclusivamente come soggetto destinatario e non, al pari degli altri io, in condizione di uguaglianza e reciprocità, dunque co-protagonista della relazione con l’altro allora viene meno la sua espressione di soggettività che invece dovrebbe essere alla base del processo di inclusione. In caso contrario si realizzano delle relazioni unilaterali, secondo un approccio funzionalistico e aggettivamente (non come soggetto ma oggetto della relazione). Il primo passo verso l’INCLUSIONE è invece l’accoglienza che comincia con l’attenzione rivolta non al soggetto e alle sue caratteristiche ma prima di tutto alla persona che viene al mondo (quindi di un bambino che nasce non un bambino che nasce con dei problemi). Questa attenzione deve essere rivolta anche verso la scelta delle parole consone per poter comunicare una diagnosi di un neonato, a prescindere dalla sua forma e/o condizione. Quindi, un’attenzione da volgere ancor prima della nascita e che, nel caso di soggetti in condizione di disabilità, che presentano deficit a livello di strutture o funzioni corporee, parole che consentano una comprensione chiara delle informazioni da parte della famiglia in modo tale che quest’ultima possa accompagnare il figlio in maniera sicura e pronta, potendosi sentir libera di riferirsi ad ambiti multiprofessionali ed ecologico-sociali senza nessun impedimento o paura. L’accompagnamento genitoriale deve caratterizzarsi dall’amore per la vita e il riconoscimento del valore e del senso in ogni sua manifestazione; solo in questo modo i genitori possono indirizzare il bambino in situazione di disabilità in un processo, alla pari ogni altro individuo, che lo porti ad un orientamento personale fondato su capacità decisionali autonome, nei limiti del possibile. Si tratta di un lavoro pedagogico lungo e delicato, spesso complicato per una serie di variabili, ma che deve necessariamente passare attraverso l’ESPERIENZA che si fa di sé stessi, dei propri successi e insuccessi, nelle relazioni con gli altri e con il mondo. Per poter costruire la propria AUTONOMIA e IDENTITA’ l’individuo deve “fare da solo”, affrontare i problemi, fare i conti con le regole e frequentare nuovi luoghi e gruppi di persone. Questo non è spesso semplice per i genitori che tendono a non accettare la situazione di disabilità in cui si trova il figlio, il che innesca una serie di dinamiche che possono influenzare negativamente la relazione con il figlio: spesso sono portati a iper-proteggere i propri figli ma devono essere in grado di trovare la giusta misura tra protezione e accoglienza, lasciando quindi lo spazio necessario al bambino per poter sperimentare sia la libertà che la frustrazione. I genitori iperprotettivi tendono a sostituirsi ai figli nel fare le cose ma ogni genitore si deve rendere conto che il suo compito è quello di protegger il figlio ma anche consentirli di aprirsi alle esperienze. In passato si parlava molto di madre sufficientemente buona la quale accoglie il bambino nelle sue braccia MA il bambino, primo o poi, tende ad allontanarsi perché fino a quel momento è rimasto attaccato alla madre, quasi in simbiosi, ma poi viene attirato dai vari oggetti che ci sono attorno tendendo perciò a scappare, o meglio, ad esplorare e giocare. Questo è quello che fa un bambino che sperimenta un legame sicuro con la madre mentre un bambino insicuro cresce con una madre che non lo reputa abbastanza pronto, non abbastanza in grado etc. (sindrome del bambino vulnerabile). Quindi, il contesto è importante per andare a rafforzare, o meno, le nostre potenzialità: l’incoraggiamento e il rinforzo amorevole dei genitori consente di rielaborare delle esperienze ed emozioni vissute, fortificando il senso dell’autostima che, a sua volta, incoraggia ed incrementa la motivazione, la disponibilità, la voglia di conoscere e di esplorare, dunque, la LIBERTA’. I genitori sono i primi orientatori dei figli e dei loro comportamenti, impliciti ed espliciti, portando alla costruzione della loro futura personalità. I genitori però non devono essere sovraccaricati di responsabilità perché, come già detto, si deve creare un sistema ecologico di relazioni e supporti in cui sono essenziali anche le relazioni extra-familiari e gli ambienti che devono avere una funzione di complementarità orientativa. A partire, infatti, dal sostegno della famiglia e della comunità intera, il bambino in situazione di disabilità può realizzare le prime forme di orientamento formativo fin dalla più tenera età attraverso iniziali forme di ETERO-ORIENTAMENTO VERSO fino a realizzare forme di AUTO-ORIENTAMENTO, legate quindi alla consapevolezza e alla libera autonomia delle scelte. Queste premesse servono per far capire come il processo di SCOLARIZZAZIONE possa, in questo modo, avviarsi e decollare più agevolmente all’interno di relazioni in cui interagiscono molte figure che, con competenze diverse, prendono delle decisioni significative riguardo l’integrazione scolastica e sociale. Nelle Indicazioni per il curricolo si legge: “La scuola persegue una doppia linea formativa: verticale e orizzontale”. La linea verticale riguarda l’esigenza di impostare una formazione che possa poi continuare lungo l’arco di vita; la linea orizzontale indica invece la necessità della collaborazione fra scuola e attori extrascolastici. La scuola è il luogo in cui avvengo le relazioni tra il microcosmo personale e il macrocosmo dell’umanità: da un lato, infatti, ciò che accade nel mondo influenza la vita di ogni persona ma, dall’altra, ogni persona ha in mano la responsabilità nei confronti del futuro dell’umanità. La scuola è un contesto sociale interattivo all’interno del quale socializzare, negoziare significati, sperimentare i conflitti socio-cognitivi e socioaffettivi e anche maturare, attraverso percorsi di istruzione ed educazione, apprendimenti che rendono l’individuo consapevole di sé stesso e delle relazioni con gli altri e con il mondo; in sintesi: costruisce la sua identità, sviluppa conoscenze e acquisisce autonomia. Questi elementi rappresentano, dunque, le basi per l’esercizio di una cittadinanza autonoma, partecipe e responsabile. La scuola, dunque, interpreta e realizza gli obiettivi generali del processo di orientamento e formazione del FUTURO CITTADINO proponendo percorsi, strumenti, mezzi e risorse per conseguirli. Nel caso dello studente in situazione di disabilità devono essere usate tutte le conoscenze culturali e scientifiche della DIDATTICA DELL’INCLUSIONE, valorizzando anche i vari strumenti che sono messi a disposizione dalla normativa per l’integrazione scolastica. La didattica speciale ha infatti dimostrato come l’apprendimento è sempre possibile, sia in situazioni di bisogno educativo speciale più lieve sia in condizioni di disabilità più complesse. Tra gli strumenti è importante soffermarsi sul PEI che nasce a seguito di:  DIAGNOSI FUNZIONALE che deriva dall’acquisizione di elementi clinici e psico-sociali che riguardano il soggetto e la famiglia da parte dell’unità multidisciplinare della ASL. Molti autori, per la presenza dell’ICF e di una scuola capace di rispondere ai vari BES, credono che sia necessario modificarla affinché sia più aderente ai bisogni del soggetto in tutti ambiti di vita e anche più funzionale dal punto di vista didattico. Alcuni sostengono anche che possa essere eliminata perché inutile per il riconoscimento dei bisogni educativi d’apprendimento e al processo d’integrazione.  PROFILO DINAMICO FUNZIONALE che è realizzato da un gruppo misto composto dall’unità multidisciplinare (ASL), dai docenti curricolari e di sostegno e dai genitori dell’alunno. Questo serve per cercare di prevedere il livello di sviluppo dell’alunno in tempo brevi (6 mesi) e medi (2 anni) e si propone come uno strumento di autoregolazione del processo formativo, degli interventi e delle corresponsabilità di professionisti e genitori. Assume, dunque, una grande importanza per la progettazione, ri-progettazione e bilancio degli interventi. Infine, il PEI o PROGETTO EDUCATIVO INDIVIDUALIZZATO nasce dal lavoro coordinato degli insegnanti curricolari e specializzati, dei professionisti della ASL, degli operatori degli enti locali in collaborazione con le famiglie e infine, se nella scuola superiore, lo stesso studente interessato da disabilità. Nel PEI vengono descritti gli interventi integrati predisposti per l’alunno in situazione di handicap, in un determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del diritto all’educazione e all’istruzione. Per fare questo si deve tener conto dei progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione individualizzati nonché le forme di integrazione tra attività scolastiche ed extrascolastiche in modo da giungere alla redazione conclusiva di un piano educativo che tenga conto delle sue difficoltà ma anche alle potenzialità. In questa definizione emergono dei segni del tempo legati alla normativa e alla necessità di riformulare un linguaggio pedagogico più consono e collocandola all’interno di un contesto più generale della normativa scolastica, senza la necessità di provvedimenti ad hoc. Nonostante questo, il PEI, per il suo carattere dinamico ed evolutivo, costituisce uno strumento importante attorno al quale si deve costruire e sviluppare, all’interno di un contesto collaborativo di corresponsabilità professionali ed educative, l’organizzazione didattica dei processi di orientamento e di formazione ai quali si è fatto riferimento. Si tratta di una consapevolezza che deve essere diffusa tra docenti, professionisti socio-sanitari e genitori per evitare che venga trasformato in uno strumento di mero adempimento burocratico di inizio anno. Il PEI consente, invece, di integrare le potenzialità intime e soggettive della persona con le relazioni e le esperienze che l’alunno condivide con gli altri attori (compagni di classe, professionisti della scuola e dell’extra-scuola, genitori e altre relazioni che stabilisce nei contesti di vita). L’alunno ha dunque la possibilità di vivere gli ambienti di apprendimento in modo personalizzato ma anche fortemente legato all’esperienza comunitaria, svolgendo così percorsi formativi che gli consentono di scoprire capacità e interessi ma anche conoscenze disciplinari: può fare “esercizio protetto” nella scuola e, piuttosto che subire e i contesti e le relazioni, può invece viverli. Il PEI è dunque, uno strumento molto potente che consente lo sviluppo e l’orientamento per la maturazione di conoscenze e abilità necessarie per realizzare il proprio Progetto di Vita sentendosi dunque anche la consapevolezza del fatto che, anche se i risultati non potranno essere conseguiti in tempi brevi, è comunque l’uomo che, con le sue scelte, individuali e collettive, stabilisce la cifra della propria umanità. FINE APPUNTI DEI VARI CAPITOLI: -La distinzione tra formazione e informazione è legata alle specializzazioni di educatore e insegnante. Gli educatori si devono occupare della formazione, non solo altrui ma anche propria: devono cambiare e prendere forma, il che implica un notevole sforzo personale e un lavoro di elaborazione e rielaborazione della propria identità di educatore. È necessario guardare l’altro nei suoi bisogni o necessità e il modo di guardare è differente nel caso in cui si tratti di un educatore o di un genitore. L’educatore, infatti, guarda in base alle proprie conoscenze e competenze e l’altro viene visto come colui che ha bisogno dell’identità dell’educatore per poter affermare la propria. *(INTRODUZIONE:) Dobbiamo rifarci alla storia, l’epistemologia e gli scopi anche politici della Pedagogia speciale (perché l’uomo è un animale politico), quindi diversità, disabilità e differenze ci devono portare ad uno sguardo pedagogico (conoscenza tassonomica: non accontentarsi dello stato delle cose), alla realtà situazionale (dover essere esistenziale: poter essere in una determinata situazione), relazione d’aiuto (prospettiva salvifica), promozione della salute (terapia). *La pedagogia speciale deve portare avanti una trasformazione, attraverso una relazione d’aiuto, in senso di emancipazione (*) e di crescita. Patrizia Gaspari è colei che più di tutti si è impegnata per definire i limiti di una relazione d’aiuto autentica. La cura inautentica si configura come il nascondere i sintomi senza effettivamente risolverli oppure aiutare una persona solo per aiutare sé stesso oppure fare qualcosa “al posto di” quando non si consente all’altro di essere sé stesso e non gli si permette di sbagliare. La cura autentica consente invece all’altro di essere sé stesso, anche attraverso gli altri, orientandosi verso la crescita e l’emancipazione. E questo lo si può fare anche con la didattica, sia scolastica che extra- scolastica, stando alla larga dalle possibili conclusioni della terapia: noi educatori non dobbiamo curare nessuno ma consentire all’individuo di accogliere pienamente la propria condizione di salute, anche la più complessa. Ci stiamo occupando di curare quella persona ma senza terapia: non cure ma di care. *La pedagogia speciale non si occupa solo di un problema “particolare” o speciale, ma è un problema che riguarda tutte le persone e tutto il contesto sociale: tenendo conto della povertà educativa, ad esempio, questa riguarda porzioni di persone sempre più ampie e pur essendo una condizione di carattere sociale può determinare delle condizioni di disabilità legate, per esempio, a problemi di apprendimento. Oppure una qualche malattia fisica che può comportare dei problemi per tutto il resto della vita di una persona oppure ancora la senilità per cui l’anziano non è più autonomo, né dal punto di vista fisico, né economico- finanziario, né anche a livello di scelte che può fare per sé stesso: anche in questo caso parliamo di disabilità. Una condizione di disabilità può essere anche temporanea e, attraverso le cure, possiamo ristabilire il nostro aspetto fisico. La pedagogia speciale non risponde quindi ad una problematica speciale ma è una disciplina che si occupa dei vari processi di emancipazione (*) dell’uomo tenendo conto di condizioni particolari che possono essere anche complesse. *La pedagogia speciale non si occupa del singolo ma della comunità e di come questa debba costruire una cultura collettivamente orientata all’inclusione e alla consapevolezza rispetto alla disabilità, in ogni suo aspetto. L’abbattimento delle barriere architettoniche, ad esempio, è uno degli aspetti che qualifica una società come evoluta. *La DIVERSITA’ viene spesso considerata come “ciò che è diverso dal normale”. Normale: “le unità di un certo tipo sono in maggioranza ma sono come dovrebbero essere, giuste e appropriate; quelle che difettano dall’attributo in questione sono come non dovrebbero essere, sbagliate e inappropriate”: stabilire quanto le persone nel mondo siano interessate da una particolare condizione di salute non vuol dire stabile ciò che è normale da ciò che non è normale. In una dimensione statistica si ha sempre questo giudizio di valutazione e la minoranza viene definita come anormalità. “Il passaggio dalla maggioranza statistica (enunciazione di fatto) alla normalità (giudizio di valutazione) e dalla minoranza statistica alla anormalità, attribuisce una differenza di qualità alla differenza nei numeri: essere in minoranza significa anche essere inferiori” (Bauman). Non è una sola questione sociologica ma riguarda il mondo in cui noi, ogni giorno, ci rappresentiamo le cose: sentiamo “handicap” alla televisione oppure i medici che rappresentano la sindrome del figlio di una coppia di genitori come se fosse un rischio o un pericolo, ovvero una situazione che porta con sé tutta una serie di conseguenze negative (è dunque tutto un discorso legato all’immaginario e al senso comune). *TRE CONCETTI CHIAVE: IDENTITA’, DISABILITA’ E SALUTE Cosa si deve intendere con l’idea di identità? Per quale motivo ci si occupa della disabilità? Chi/cosa e quali luoghi sono considerati rilevanti nei processi di cura? Che cos’è l’inclusione? La visione inclusiva prova la capacità di contaminarsi, di degenerare ovvero di svolgere una stessa funzione e produrre uno stesso risultato ma con elementi strutturalmente diversi (Canevaro). STEREOTIPI, IDENTITA’ NEGATA, IPERTROFIA IDENTITARIA Strutture concettuali e linguistiche storicamente determinate (Canevaro). Cos’è la disabilità? Un’esistenza dimezzata? Una condizione esistenziale che richiama un’azione supportiva per l’emancipazione individuale e sociale della persona considera l’infinita tensione dialettica tra ciò che si è e ciò che non si è ancora. Cos’è l’identità? Un attributo immediato? Il risultato di un processo di maturazione di un complesso di dimensione dinamico e flessibile. L’identità non dipende solo da sé stessi, ma un’influenza importante deriva dagli altri dall’ambiente in cui viviamo e dalle relazioni che costruiamo. Anche il concetto di disabilità è importante ed è un concetto costruito nella storia. Canevaro parla di ipertrofia identitaria: è la necessità di inserire una persona in una categoria (*), che in questo caso si tratta di una categoria di carattere medico-sanitaria, tesa a definire una patologia: non ci si interessa al suo nome, ai suoi interessi etc. ma solo alla disabilità. Spiegazione ed esempi: quando vediamo una persona con una disabilità evidente ci chiediamo subito che tipo di disabilità abbia, se invece vediamo un’altra persona, senza evidenti sintomi di disabilità, invece, non ci chiediamo quale sia il suo stato di salute ma, ad esempio, che tipo di personalità ha o come si chiama. Quando arriveremo a chiederci di fronte ad una persona con una disabilità evidente che tipo di personalità ha allora saremo arrivati ad un buon punto. *DALLA FRATTURA CARTESIANA IN POI: Si sviluppa l’iper-sublimazione del pensiero autocosciente e si perde di vista il problema dell’esperienza e dell’esistenza emozionale dell’individuo. Per quanto riguarda l’IDENTITA’ (capitolo 2?) noi facciamo riferimento a noi stessi da qui nasce l’autonomia, autocoscienza (capacità di pensare a sé stesso): tutti concetti importanti perché l’uomo si è reso conto che non poteva indagare sono i fenomeni del mondo fisico ma anche sé stesso. Questo però ha portato l’uomo a concentrarsi solo su sé stesso come oggetto di indagine. Vi sono tante condizioni di disabilità che impediscono di pensare a sé stessi, come l’anzianità o il Parkinson, l’incapacità anche di riconoscere sé stessi dal punto di vista motorio. Si può ancora parlare di Io, Soggetto e identità? Cosa diviene questo uomo? Intenzione, attesa, sorpresa, pericolo, minaccia, sicurezza, arbitrio e libertà, decisione e limitazione. Non sono nozioni psicologiche ma esprimono tutte insieme la situazione del vivente, la maniera d’esistere che noi ora riassumiamo come il patico. Per evitare ogni possibile confusione dell’Io noi estraiamo dall’ancora troppo immaginario concetto dell’io, il suo principio che ne consente il confronto con la Umwelt e lo chiamiamo soggetto. Noi costruiamo il concetto in maniera non inclusiva: pedagogia speciale si occupa di questioni che non riguardano solo una parte limitata di popolazione, anche se questa parte di popolazione ci ha permesso di assumere uno sguardo più ampio. *Ci interessiamo della disabilità o della persona disabile? La pedagogia speciale è una disciplina che si occupa di far chiarezza rispetto a quelle che sono le sfide aperte, i nodi problematici da sciogliere e le contraddizioni da eliminare. Queste contraddizioni esistono e nascono dal modo in cui la società mette in relazione i prodotti del mondo scientifico e quelli del mondo sociale per poter costruire dei CONCETTI (*=” dalla frattura cartesiana in poi”) utili a rappresentare e interpretare la realtà in maniera più semplice. I concetti non sono però neutri ed è per questo che sono rischiosi perché potrebbero impedirci di vedere oltre questi. Noi esseri umani pensiamo e percepiamo la realtà attraverso le CATEGORIE ma non dobbiamo far sì che queste si cristallizzino e ci propongano una visione distorta della realtà, facendoci dimenticare della persona che vi è dietro queste. La persona deve essere presa in considerazione per la sua particolarità e non per la categoria fissa all’interno della quale viene stata inserita. Anche noi considerati “normali” (che è un modo sbagliato di pensare) abbiamo delle particolarità che sono tenute in considerazione. Anche nel caso della persona in situazione di disabilità, dunque, dobbiamo tener conto delle sue particolarità, soffermandoci non sulle mancanze ma su quelle che sono le abilità e le caratteristiche che possono essere potenziate il più possibile. Questo è dunque un modo di pensare in maniera EMANCIPATIVA e non categorizzante e individualizzante (che ci si sostituisce alla persona che non è in grado di fare). *Perché ci occupiamo della disabilità? Spesso ci si occupa della disilità per pietismo o per disporsi in una posizione morale più elevata (aiutare l’altro solo per sentirsi in pace con sé stesso). Una sfida che dobbiamo affrontare è quella di guarda la condizione umana in maniera chiara e nel rispetto della dignità di tutti, senza sfumature di pietismo (provare compassione nei loro confronti) o di superomismo (perché la persona viene trasformata in un super-uomo). Alex Zanardi (para-ciclista, senza arti inferiori) ha acquisito una disabilità a seguito di un incidente: la sua figura è fondale perché offre un grande esempio di forza, però comunque non ci si deve dimenticare delle altre migliaia di persone che si trovano in situazione di disabilità. Il riconoscimento dell’altro non passa attraverso il pietismo o il superomismo ma consiste nel riconoscere l’umanità in tutte le persone, il diritto e la dignità proprie che sono anche il diritto e la dignità anche dell’altro. Ci stiamo occupando di persone e dunque di una collettività a cui apparteniamo: questo permette di riconoscerci sia come collettività che come persone umane. *L’INCLUSIONE è la possibilità di integrare la diversità, rendendola parte integrante. La diversità è integrata nelle regole di funzionamento della società umana e non si può concepire l’inclusione come una serie di azioni che i “buoni” intraprendono per gli altri. una condizione fondamentale per un simile modello sociale è uno sforzo, intellettuale e relazionale, verso la non facile integrazione delle scienze dell’uomo e il superamento della conseguente frammentazione dell’uomo. Il processo di inclusione deve essere concepito come costruzione di un comune “luogo” sociale, accessibile e accettante, orientato alla promozione al supporto dei molteplici itinerari di piena emancipazione e partecipazione umana della persona, quale che siano le sue condizioni di salute. *Film “Mio fratello rincorre i dinosauri”: una parte rilevante del film è il modo in cui è stata comunicata la diagnosi alla famiglia che li ha portati ad avere paura. La prima comunicazione può dunque essere un evento impattante non solo nella famiglia, ma per riflesso anche dello stesso individuo in situazione di disabilità perché rischia di costruire un progetto di vita limitato, limitando la piena realizzazione di sé. Nella genitorialità si ha una lesione di quelle che sono le aspettative rispetto al figlio, perciò, il modo in cui viene comunicato: vi è una situazione di lutto che deve essere rielaborata e risignificata. Nel film si nota anche l’iper-protezione della madre nei confronti del figlio e quindi gli “nega” la sua autonomia perché il genitore sente magari la necessità di lasciare il figlio per farlo crescere ma anche la necessità di proteggerlo e spesso si rischia di eccedere con questa protezione anche perché i genitori vengono formati dal contesto: in un contesto che non esprime fiducia è più complesso, se invece ci si fidasse di più del contesto la famiglia verrebbe aiutata nel dare più spazio di autonomia ai figli. La sindrome di Down viene vista dal fratello, dunque quando ancora era un bambino, come un superpotere: superomismo. Quando Jack scopre che non è un supereroe allora declina il loro rapporto e questo perché guardava al fratello non come persona ma prima di tutto come supereroe. Il film è dunque una storia legata alla crescita non di Giò, con sindrome di down, ma di Jack, il fratello. Alla fine, però Jack riesce a guardare anche dentro sé stesso e anche grazie al rapporto che ha con Giò.
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