Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto del libro per il corso monografico sulla lotta per le investiture, Sintesi del corso di Storia della Chiesa

Riassunto del libro per il corso monografico sulla lotta per le investiture

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 10/05/2022

martina-andriani
martina-andriani 🇮🇹

4

(1)

5 documenti

1 / 11

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto del libro per il corso monografico sulla lotta per le investiture e più Sintesi del corso in PDF di Storia della Chiesa solo su Docsity! 1: LE PREMESSE DELLA RIVOLUZIONE L’impero era il punto d’unione tra il clero e la comunità laica, siamo in un contesto di centralizzazione della figura e del potere pontificio. Il rapporto di tipo istituzionale tra impero e vescovi prende forma durante l’età carolingia e poi durante l’età ottoniana, in cui i vescovi vengono integrati all’interno dell’apparato regio. Questa dimensione più ampia del potere religioso trovava terreno fertile anche grazie alla fondazione di monasteri che potevano essere un valido supporto per eventuali riforme/progetti sia politici che religiosi. Fondare un monastero era chiaramente un modo per evitare la dispersione del patrimonio ecclesiastico (res Ecclesiae). Questo tema interseca infatti quello della riforma dell’XI secolo, in cui un ruolo fondamentale l’ha svolto la lotta alla simonia e al nicolaismo, maturate durante il regno di Enrico III. L’attacco si tradusse non in una totale esclusione delle autorità laiche dalla gestione della Chiesa ma una restaurazione dell’ordine che reggeva durante l’età carolingia. In questo Enrico III, come sottolinea Pier Damiani, si discostava dai suoi predecessori, anche se (forse) non ne era del tutto consapevole o non facesse nulla per sottolineare questo stacco con la tradizione precedente. Nel sinodo di Sutri del 1046 Enrico III intervenne per porre fine alle lotte all’interno dell’aristocrazia romana relative all’elezione del nuovo pontefice. Il precedentemente eletto papa Benedetto IX fu costretto a fuggire e al suo posto venne nominato Silvestro III, deposto dopo solo un mese. Benedetto IX, anziché riprendere il posto, lo cedette dietro pagamento a Gregorio VI. Quando Enrico III scese in Italia per farsi incoronare, convocò un sinodo a Pavia in cui condannò la pratica simoniaca. Convocò i tre pontefici, di cui si presentò solo Gregorio VI, che venne scomunicato in quanto simoniaco, invece Silvestro e Benedetto non si presentarono e quindi scomunicati. Al che Enrico fece eleggere come papa Clemente II, appoggiato anche dall’aristocrazia romana. Quando Pier Damiani incontrò Enrico III ne restò colpito e pensò che il potere politico potesse essere uno strumento per rigenerare la cristianità. Pier Damiani resta tuttavia una figura ambigua, eremita ma allo stesso tempo interessato alle questioni del suo tempo tanto da essere annoverati tra i principali fautori della riforma dell’XI secolo. Proprio prendendo in considerazione la figura di Pier Damiani possiamo cercare di cogliere le relazioni tra riforma e monachesimo cluniacense. Sappiamo infatti che Cluny intratteneva strette relazioni coi laici, ma è proprio durante questo periodo che emergono le crepe all’interno del panorama monastico. In particolare, Pier Damiani venne osteggiato dai vallombrosiani, che pure appoggiavano il suo punto di vista in fatto di simonia. 2: LE NUOVE REGOLE DEL GIOCO: DA LEONE IX AD ALESSANDRO II Leone IX è integrato nel sistema della Reichskirche, infatti venne scelto direttamente da Enrico III. Ildebrando di Soana gli suggerì di farsi eleggere anche dal clero e dal popolo romano ed effettivamente lui seguì il consiglio, come se l’essere stato nominato direttamente dall’imperatore non fosse sufficiente. È da qui che si pensa sia cominciata la vera e propria riforma, che infatti sotto Leone IX assunse sempre di più i caratteri di una imperializzazione del papato. L’inguidicabilità del papato trovò anche terreno fertile grazie alla diffusione delle decretali pseudoisidoriane, base dell’indipendenza tra sacerdotium e regnum. Uno degli elementi che lascia trasparire una imperializzazione del papato è l’itineranza della curia, che riprendeva un uso della corte imperiale. Questo implicava che anche se il papa non era presente a Roma, comunque essa era presieduta da persone di sua fiducia, probabilmente il papa voleva avere un controllo più forte sulle zone periferiche della cristianità. Quindi da un lato il papato vuole distaccarsi dall’impero ma dall’altro ne prende esempio per quanto riguarda il suo funzionamento e organizzazione. Quindi Leone IX costruisce una curia piena di gente incline alla riforma ma sicuramente non anti- imperiali. Nonostante condividessero, all’interno della curia, lo stesso orientamento, non mancarono le tensioni, in particolare quando si trattò di condannare l’omosessualità degli ecclesiastici e definire cosa effettivamente fosse da definire simoniaco. Sull’omosessualità, Pier Damiani si dimostrò inflessibile, invece Leone IX pur accusando anche lui la pratica, attenuò la punizione, quindi nella curia c’era chi sosteneva Pier Damiani e chi invece si dimostrava più moderato. Simonia: Pier Damiani e Umberto di Silva Candida Simonia prende il nome da Simon Mago, colui che cercò di comprare lo Spirito Santo. All’inizio la disputa su cosa ritenere simoniaco o meno fu aspra e crebbe velocemente, per poi conoscere una battuta d’arresto, o quantomeno di ridimensionamento, in seguito alla regolarizzazione delle procedure di elezione di cardinali, vescovi, abati, papi ovviamente, etc. Pier Damiani, nel Liber Gratissimus, analizza la qestione anche perché lui era coinvolto dal momento era stato ordinato dall’arcivescovo di Ravenna, considerato simoniaco. Pier Damiani ha una visione “moderata”: la pratica di comprare/vendere cariche ecclesiastiche era un fatto normale, considerato anche la fitta rete giurisdizionale e patrimoniale attorno a chiese e monasteri in un contesto in cui regnum e sacerdotium non erano scissi e quindi questo consentiva alle istituzioni laiche di entrare nel merito di questione religiose. Secondo Pier Damiani c’erano diversi gradi di punibilità e responsabilità, inoltre il sacerdote è solo un ministro di Cristo, è lui che in realtà opera, quindi ufficio e persona sono da considerarsi separati. Umberto di Silva Candida invece era molto più radicale: le ordinazioni impartite dai simoniaci non erano da considerarsi valide dal momento che i simoniaci, in quanto eretici, non potevano amministrare i sacramenti. Non avendo i simoniaci ricevuto lo Spirito Santo non potevano trasmetterlo Chiesa di Cristo vs Chiesa dell’Anticristo. Inoltre l’ufficio non poteva essere scisso dalla persona. La nozione di simonia sconfina dal piano disciplinare a quello dottrinale. Si cercò una sorta di compromesso tra le due posizioni, infatti venne stabilito che le ordinazioni fatte gratuitamente da simoniaci sarebbero state considerate prive di validità. Due cappellani simoniaci della corte di Toscana di Goffredo il Barbuto, Giovanni e Teudechino, risposero che bisognava distinguere tra funzione sacerdotale, che non poteva essere né venduta né comprata, e le proprietà della Chiesa per cui invece si poteva versare denaro. Secondo Pier Damiani questo era inaccettabile, quindi richiama proprio le Decretali sul dibattito della relazione tra consacratio e res Ecclasiae. a rientrare a Roma e nel sinodo quaresimale del 1062 condanna definitivamente Cadalo e si confermò la linea rinnovatrice già inaugurata da Niccolò II, condannando quindi pratiche della simonia e del concubinato e agli ecclesiastici fu comunque vietato di cumulare benefici e accettare investiture dei laici senza prima aver ottenuto il consenso di vescovo o metropolita. Questo scisma aveva dimostrato che l’impero era solo un intralcio e non era necessario o utile per l’azione riformatrice. Da qui quindi il ruolo dell’imperatore ne usciva ridimensionato in fatto di questioni ecclesiastiche. La pataria milanese Enrico III nominò vescovo di Milano Guido da Velate, esponente della nobiltà del contado milanese, in questo modo i capitanei vennero estromessi dal controllo della vita religiosa, politica e amministrativa. Tuttavia i membri dell’alto clero si rifiutarono di riconoscerlo e lo accusarono davanti a papa Leone IX di simonia, ma ovviamente lui era dalla parte di Enrico e lo assolse. I primi segni del movimento della pataria si ebbero nel contado, dove Arialdo, un diacono, incitava gli ecclesiastici alla castità e alla povertà per potere essere una vera guida autentica per i fedeli, quindi per Arialdo era importante che distinguessero il loro stile vita da quello dei laici. Insieme a Landolfo fece di tutto per promulgare un editto che imponeva la castità, tant’è che si recarono a Roma. La pataria milanese è uno degli esempi più violenti ed estremi della lotta alla simonia e al nicolaismo, soprattutto per la capacità di mobilitare gli abitanti delle città e delle campagne. Ovviamente i patarini non erano anticlericali, solo auspicavano ad un clero degno di condurre i fedeli alla salvezza. Anche i pontefici successivi capirono il potenziale di questo movimento per attuare le direttive dei sinodi quaresimali in particolar modo. Guido da Velate (e poi fece fare lo stesso a tutti gli altri vescovi) promise che non avrebbe mai effettuato procedure illecite per l’ordinazione dei vescovi, chi invece era stato ordinato versando denaro, avrebbe dovuto fare una penitenza. Guido era appoggiato sia da Pier Damiani che Anselmo da Baggio (Alessandro II). Ai patarini venne inoltre consegnato il vexillum Sancti Petri, perché simonia e nicolaismo dovevano essere combattute “sotto le insegne delle Chiesa romana, secondo le procedure tradizionali del diritto canonico”. Tuttavia Pier Damiani era anche convinto del fatto che solo annullando l’ingiudicabilità dei vescovi si poteva effettivamente aprire la strada verso la riforma. Anche i laici potevano appellarsi contro il loro vescovo e quindi da questo momento i laici potevano entrare nelle fila dei riformatori, controllando il clero e denunciandolo ai metropoliti o alla sede apostolica. Il problema era che il papato voleva l’estromissione dei laici ma allo stesso tempo ne aveva bisogno per poter risolvere i suoi problemi, inoltre non si capiva da chi effettivamente i vescovi dovessero essere giudicati. Quindi vediamo che il papato prende le distanze da Guido da Velate che quindi si avvicina ai patarini. Intanto Arialdo si era recato a Roma in occasione del sinodo quaresimale per riaprire il caso ma Guido, appoggiato dai patarini, rese vano il suo tentativo. Alla morte di Guido, si insediò Attone che però non era ancora stato ordinato sacerdote e non riuscì a prendere possesso della diocesi, al che Enrico IV nominò arcivescovo Tedalo, un chierico della curia imperiale che poi avrebbe anche presenziato al sinodo di Bressanone (nomina antipapa Clemente III), ma nemmeno lui venne accolto di buon grado dai milanesi. 3: GREGORIO VII ED ENRICO IV Papa a furor di popolo Il vero problema dell’elezione di Gregorio VII fu che non venne rispettato il Decretum di Niccolò II (ricordiamo il bordello che era successo con l’elezione di Anselmo da Baggio e lo scisma di Cadalo). Durante un sinodo convocato nel 607 da Bonifacio III era stato stabilito che dovessero passare almeno tre giorni per dare avvio alle procedure di elezione del nuovo papa. Almeno questo nell’elezione di Gregorio VII viene rispettato, a parte il fatto che il popolo romano impazzì e nominò Ildebrando papa, quindi senza notificare l’elezione all’imperatore. Per lavarsi la faccia, mandano Desiderio, l’abate di Montecassino, dall’imperatrice Agnese. Ildebrando sceglie come nome quello di Gregorio non solo per il povero Gregorio VI ma perché aveva come modello Gregorio Magno, un papa “forte” che (coincidenza!) era stato eletto dal clero e dal popolo romano. Prime schermaglie Gregorio VII partiva dall’assunto secondo cui il re o l’imperatore non poteva essere il vertice della cristianità, al massimo poteva essere il capo dei laici che però aveva doveri simili ai loro. Gregorio VII inoltre non odiava Enrico IV, ma bisognava mettere in chiaro le cose per mantenere la concordia. Quindi il papa decise che egli doveva decidere come e quando dovesse avvenire l’elezione imperiale e il re doveva sottomettersi alla Chiesa, al papa spettava decidere le condizioni necessarie per mantenere l’ordine. Enrico IV Enrico IV si dimostrò molto conciliante nei confronti di Gregorio VII ma semplicemente perché stava attraversando un momento di difficoltà. Solo il papa poteva incoronarlo, quindi da Gregorio VII dipendeva la sua legittimazione e che in questo momento di debolezza per lui era assolutamente necessaria. Cosa stava succedendo? Facciamo marcia indietro. Durante l’età carolingia potere politico e potere religioso erano strettamente legati, si veda l’istituzione della carica die missi dominici, che però non ebbe fortuna né con gli Ottoni né con i Salii, perché la struttura policentrica dell’impero non lo permetteva. Durante il tardo periodo salico si ha la costruzione di una sorta di Autoritäten-Pluralismus, infatti nelle fonti troviamo costanti richiami all’obbedienza alle gerarchie. All’interno del regno tedesco ora quasi ci si opponeva alla figura del sovrano perché non aveva rispettato i suoi compiti/doveri, Enrico era quasi visto come un tiranno. Dall’altro lato lo si riteneva nel giusto perché appartenente alla dinastia regia. Chi osteggiava Enrico auspicava il ritorno ad un modello di cristianità simile a quello del regno di Enrico III, cioè che al centro avevano l’impero tedesco ma avevano come punto di riferimento la Chiesa. Ciò che gli aristocratici tedeschi non accettavano era la coscienza dinastica dei Salii, una novità in quanto essi non avevano un capostipite leggendario ma un antenato “vero”, cioè Corrado II: è la prima volta che in Occidente il concetto di dinastia è legittimante per la regalità. La creazione di questo “nuovo” Stato da parte di Enrico IV aveva tre punti fondamentali: 1. Concentrare l’alta giustizia (proprietà fondiaria, reati gravi e libertà personale) nelle mani del re; 2. Legislazione di pace; 3. Organizzare i beni fiscali su base signorile. In Italia centro-settentrionale cercò, come anche i suoi predecessori, di togliere aree al controllo dell’aristocrazia e anche poteri attorno all’area di Canossa, consapevole del fatto che ormai il potere aveva subito una forte localizzazione. Tuttavia la riforma attuata da Enrico non andò a buon fine, lo si nota dal fatto che la stabilità a cui l’impero giunse nell’XI secolo dipese dal ruolo ora più forte dei principi all’interno del potere regio, in quanto essi avevano rivendicato il diritto di partecipare alla gestione del regno e all’assegnazione di cariche civili ed ecclesiastiche. Durante l’età salica assistiamo ad un crescente attrito tra re e aristocrazia, tant’è che il regno era simboleggiato da principi vs sovrano. Questa trasformazione dei rapporti era stata anche favorita dalla minorità di Enrico IV, in un periodo di instabilità i principi avevano preso il controllo delle risorse economiche imperiali. Ovviamente il re provò a raddrizzare il tiro ma vi era una divergenza di interessi tra re e principi. I principali nemici erano i Sassoni, presso di loro questo processo era stato molto più repentino, un territori che i Salii avevano ereditato dagli Ottoni. Lì erano presenti molte fortezze militari che davano efficacia al controllo del territorio da parte di Enrico limitando di fatto l’aristocrazia sassone. Quindi questo portò i Sassoni a ribellarsi, distrussero alcuni castelli e costrinsero Enrico IV a fuggire. Riuscì a sottometterli nuovamente nel 1057, ma questo mise in difficoltà l’aristocrazia del regno di Germania perché cominciò a sentirsi minacciata dalla politica del re. Dictatus papae e la prima scomunica di Enrico IV Quindi abbiamo detto che è per questo delicato scenario politico che Enrico IV tiene particolarmente al rapporto con Gregorio VII. Nel frattempo il papa aveva approfittato dei sinodi quaresimali per ribadire le misure da adottare in materia di simonia e concubinato già pronunciate da Niccolò II. La svolta si ebbe durante il sinodo quaresimale del 1057, durante il quale scomunicò Roberto il Guiscardo perché ritenuto invasore delle terre della Chiesa, oltre che diversi consiglieri e vescovi del re, quindi una minaccia per Enrico, ma qui il papa ancora non parla di divieto delle investiture. I vescovi accusarono Gregorio VII di aver agito da solo e non con un sinodo alle spalle, pretendono da loro sono obbedienza incondizionata. I Dictatus papae sono il manifesto di questa riforma/rivoluzione gregoriana, 27 proposizioni in cui è condensato tutto il pensiero di Gregorio VII. Non hanno datazione, sono inseriti tra una lettera indirizzata al vescovo di Lodi del 3 marzo 1075 ed una del 4 all’arcivescovo di Reims, ma non è importante, sappiamo che viene raccolto nel Registro insieme ad altri documenti che servivano al papa per giustificare il proprio operato. Con questi punti il papa rifiuta ogni mediazione, non si pensa fossero destinate alla pubblicazione, forse semplicemente sono delle massime abbastanza enfatiche e soprattutto radicali. Forse questa radicalità viene dal fatto che Gregorio VII dubitava dell’attuabilità di questo progetto, quindi questo fa dei Dictatus un’arma politica. Il primo punto riguarda la Chiesa romana che è “fondata solo da Dio”, per sottolineare la sua eccezionalità rispetto alle altre Chiese che invece basavano la loro autorità sulla fondazione apostolica, invece quella di Roma era stata fondata da Pietro; “la Chiesa non può sbagliare né mai ha sbagliato” è una giustificazione che fa da presupposto a “chi non concorda con essa non è cattolico”. Quindi il vero protagonista del Dictatus è il papa, ci sono 22 proposizioni su di lui, una figura eccezionale da un punto di vista istituzionale, a lui solo spetta l’uso delle insegne imperiali e il bacio del piede, il suo nome deve essere nominato in tutte le chiese. Quindi l’innovazione sta anche in questo: per la prima volta si passa da un’ imitazione dei funzionamenti all’ appropriazione degli elementi della tradizione imperiale . Inoltre sancivano la superiorità del potere papale rispetto all’imperatore, dal momento che aveva il potere di deporlo e anche sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà qualora il sovrano si sarebbe rivelato incapace. Il congregazioni monastiche più inclini ad attuare i principi riformatori. Urbano II si servì del principio dell’interpretatio, secondo cui il papa giudicava di volta in volta valide o meno le leggi emanate dai predecessori, e grazie a questo strumento si potevano risolvere i problemi legati all’elezione o alla nomina dei chierici, anche se i vescovi ordinati irregolarmente in questo modo vennero reintegrati. Lo scopo di Urbano era quello di rinsaldare il divario che si era creato nel fronte riformatore e avvicinare questi ai sostenitori di Enrico e Clemente III. Le istanze riformatrici vennero esportate anche in Francia ed Inghilterra attraverso dei legati. Tuttavia, su Roma venne esercitata una forte pressione da parte dell’imperatore, tant’è che Urbano II fu costretto a rifugiarsi mentre Clemente III riuscì a rientrare a Roma, addirittura Enrico IV chiese supporto a Matilde ma con la minchia che quello lo aiutò ed era sostenuta da una lega formata da Milano, Lodi, Cremona e Piacenza e riuscì a riportare Urbano II a Roma, quindi ancora una volta Enrico IV era stato sconfitto. In tutto ciò, una delle conseguenze della riforma si pensa sia stata la nascita dei Comuni, indipendenti dalle dinamiche del mondo ecclesiastico ma in realtà la riforma aveva risvegliato la religiosità dei laici, infatti vediamo che spesso i laici, ancora prima di monaci e chierici, intervennero nella lotta alla simonia e al concubinato. Pasquale II Nel 1099 morì Urbano II e l’elezione di Pasquale II fu uno spartiacque fondamentale. Enrico IV abdicò nel 1105 e già da tempo era stato emarginato da Enrico V. Pasquale II riuscì a tenere il controllo stabile della città di Roma e quindi questo, rispetto ai predecessori, gli dava molta più sicurezza, il che gli permise di assentarsi per molto tempo e portando il papato anche nelle zone più periferiche. Enrico V continuava a nominare i suoi papi e gli oppose Silvestro IV, anche se il re inviò un’ambasceria a Pasquale II per progettare una pacificazione tra la corte tedesca e il papato. Inoltre dopo Clemente III nessun antipapa aveva goduto della stessa credibilità perché agli altri principalmente mancava il consenso effettivo dell’imperatore. Lo scisma era passato in secondo piano, aprendo una nuova fase della riforma che vedeva al centro la componente politica. Il problema di Pasquale non era tanto combattere la lotta per le investiture ma uscirne e in questa ottica si aprì un dialogo con l’imperatore. Ormai il dibattito sulla simonia si era ridimensionato, i vescovi erano staccati sia dalla Reichskirche che dall’ottica gregoriana, quindi non sapevano quale sponda del papato appoggiare, quindi i vescovi non si accontentavano più di essere il punto di unione tra papato e periferie. I vescovi venivano dall’aristocrazia, quindi era con loro che dovevano confrontarsi per avere credibilità. Importanti in quest’ottica sono i rapporti tra vescovi e istituzioni ecclesiastiche nelle quali si raccoglievano i vertici cittadini. Era quindi come se papa e re stessero cercando un compromesso alle spalle dei vescovi, senza coinvolgerli. Il pravilegium di Sutri Nel 1111 venne promulgato/pubblicato il concordato di Sutri, un documento complesso che dimostra quanto sia stato difficile arrivare ad un compromesso. In una prima versione il papa sottolineava che era assolutamente vietato che i sacerdoti fossero impegnati in attività mondane, invece nell’impero ciò era normale, ovvero che vescovi e abati partecipassero alla vita giudiziaria e anche a quella militare. Questa era una chiara immagine del coinvolgimento dei vescovi all’interno del sistema della Reichskirche e quindi dei loro poteri civili. Pasquale II avverte il cambiamento, infatti sancì che i vescovi non avrebbero più potuto accettare i “regalia”, cioè i diritti pubblici di pertinenza regia che detenevano fin dai tempi di Carlo Magno, non potevano impossessarsene illegalmente ma accettarli solo se il re glieli concedeva (??) [p.187]. Enrico V invece avrebbe dovuto rinunciare a tutte le chiese e patrimoni che non erano di pertinenza regia, quindi Pasquale non voleva una Chiesa povera, anzi i vescovi dovevano usufruire del patrimonio ecclesiastico per gestire al meglio i loro compiti pastorali. Tuttavia c’erano un po’ di contraddizioni: se i compiti civili non erano compatibili con quelli ecclesiastici, dato che prevedevano omicidi, spergiuri, etc., cosa sarebbe successo se fosse stato il re a dare loro questi poteri? Pasquale II non teneva in considerazione un principio fondamentale, cioè fare in modo che l’imperatore non nominasse abati e vescovi, che però con questo documento veniva autorizzato a farlo. Nella seconda versione non ci sono né richiami alla simonia né all’inconciliabilità tra regalia e carica episcopale. È come se il papa volesse ricominciare da zero prendendo coscienza della realtà politica. Ciò implicava che dopo l’investitura sarebbero stati consacrati dall’arcivescovo di loro pertinenza e se qualcuno fosse stato eletto dal popolo e dal clero senza l’approvazione del re, non poteva essere consacrato tranne se il papa o gli arcivescovi lo avrebbero appoggiato direttamente. In questo modo cadeva la riflessione gregoriana e riformatrice che impediva l’investitura da parte dei laici, rendendo invece potere spirituale e temporale inscindibili. Ovviamente Pasquale II venne accusato di aver ceduto con facilità alle richieste di Enrico V, ma in realtà egli era in una posizione difficile perché Enrico V stava esercitando notevoli pressioni su Roma. In realtà non si resero conto che Pasquale II aveva agito proprio nell’interesse dei vescovi. Tuttavia vescovi e cardinali ebbero una reazione violenta, tale che l’accordo di Sutri venne invalidato. Enrico V venne incoronato e fece ritorno in Germania, Pasquale denunciò di essere stato costretto ad accettare le clausole perché Enrico V minacciava di prendere provvedimenti che sarebbero ricaduti su Roma. Per questo ebbe la necessitò di promulgare un privilegio che negasse ciò che avevano deliberato i precedenti pontefici. Pasquale II ebbe la meglio sui riformatori gregoriani emarginandoli progressivamente. Il concordato di Worms I rapporti tra Pasquale II ed Enrico V conobbero un progressivo deterioramento, ma senza Sutri non si sarebbe mai giunti al concordato di Worms, in quanto il primo rese chiaro che bisognasse superare la linea gregoriana per dare spazio a persone più flessibili, cioè i vescovi vicini a Pasquale II. Il suo successore, Callisto II, convocò un sinodo a Worms nel 1122 durante il quale vene stipulato un concordato che segnò effettivamente la fine della lotta per le investiture, eliminando decenni di dibattiti. Enrico V avrebbe potuto esercitare anche una funzione di semplice controllo, nel concordato si parla di assenso in merito alla componente clericale. Non era quindi più negato al re di intromettersi in quelle questioni, cioè in materia di elezioni episcopali e abbaziali, cosa in cui invece speravano i riformatori. Gli uffici ecclesiastici continuavano ad essere considerati nell’ordinamento pubblico, quindi l’imperatore poteva cedere i regalia. Anche se c’è da notare che del documento emanato a Worms ci sono due versioni, quella di Callisto era leggermente diversa: l’imperatore rinunciava a tutte le investiture con anello e pastorale e concedeva che in tutto l’impero le elezioni di vescovi e abati fossero libere.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved