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Riassunto del libro Psicologia della comunicazione (Alessandro Toni), Sintesi del corso di Psicologia della Comunicazione

Riassunto completo del libro "Psicologia della comunicazione. Tra informazione persuasione, e cambiamento" del professore Alessandro Toni.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 17/01/2023

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Scarica Riassunto del libro Psicologia della comunicazione (Alessandro Toni) e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia della Comunicazione solo su Docsity! PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE – tra informazione, persuasione e cambiamento CAPITOLO 1 - LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO 1. LE ORIGINI EVOLUZIONISTICHE DEL LINGUAGGIO Il linguaggio contraddistingue la nostra specie. La comunicazione, attraverso livelli differenti di complessità, è presente in tutto il mondo animale. Tuttavia, se negli animali rappresenta principalmente un modo per rispondere a stimoli provenienti dal mondo esterno, per l’essere umano, che ha sviluppato il linguaggio verbale, comporta la possibilità di esprimere volontariamente informazioni e messaggi reciproci. Secondo l’approccio evoluzionistico, il linguaggio è un’attitudine specifica della nostra specie, è esito di un processo adattivo che ha reso possibile il differenziarsi dei nostri progenitori dai primati non umani. La comunicazione verbale ha registrato uno sviluppo straordinario che ha favorito una gestione ottimale delle dinamiche sociali, costituendo, ai primordi della nostra specie, un fattore essenziale per l’accelerazione del processo evolutivo. Un tema assai delicato riguarda la sua origine. Il linguaggio non ha un carattere materiale e non vi sono reperti ce gli studiosi possono analizzare. Lo studio dei fossili ha consentito di ritenere che l’homo habilis sia stato il primo ominide a sviluppare caratteristiche anatomiche per supportare abilità proto-linguistiche. Gli studiosi, comunque, convengono sulla correlazione esistente tra sviluppo del linguaggio e origine della cultura. Secondo l’ottica epigenetica, il linguaggio va considerato come uno dei fattori fondamentali per la nascita e il progredire della cultura umana. Secondo tale approccio, infatti, la cultura non compare improvvisamente lungo il percorso evolutivo, ma costituisce il risultato di successivi e progressivi mutamenti. Le tappe fondamentali del progresso evolutivo sono: o stazione eretta: la conquista della posizione eretta e il conseguente bipedismo sono considerati il primo passo per la nascita del linguaggio  “Radiator Theory”: il bipedismo ha modificato il flusso sanguigno della circolazione encefalica, sviluppando un ‘radiatore’ in grado di raffreddare il cervello (il calore impediva al cervello di evolversi); o incremento del quoziente di encefalizzazione: il quoziente di encefalizzazione, che rappresenta il rapporto tra le dimensioni del cervello umano e quello di una scimmia di egual peso, nel corso dei millenni è andato aumentando progressivamente; o apparato vocale: lo sviluppo del linguaggio è stato permesso dallo sviluppo dell’apparato vocale  l’evolversi dell’apparato vocale ha consentito l’emissione di suoni compatibili con la gamma sonora delle vocali e delle consonanti; o avvento dell’agricoltura: ha consentito agli uomini di modificare abitudini e comportamenti  questo cambiamento ha segnato una tappa importantissima per lo sviluppo della cultura, poiché ha determinato un aumento della densità dei gruppi sociali che presuppone l’esistenza di sistemi comunicativi evoluti favorendo la socializzazione all’interno del gruppo stesso. 2. LE FUNZIONI EVOLUZIONISTICHE DEL LINGUAGGIO Diverse sono le teorie che hanno tentato di chiarire in che modo il linguaggio sia apparso:  Chomsky: rifiutando parzialmente la prospettiva evoluzionistica, propone che il linguaggio sia comparso all’improvviso e in modo istantaneo grazie a mutazioni genetiche casuali. La comparsa del linguaggio è dovuta a una discontinuità dello sviluppo filogenetico. Secondo l’autore, il linguaggio sarebbe amministrato e coordinato da una struttura cerebrale preposta, detta grammatica universale.  Pinker (allievo di Chomsky): il linguaggio rappresenta un istinto specie-specifico e, come tale, presente nei nostri progenitori anche quando ancora non erano in grado di articolare suoni e parole. Il suo intento è stato conciliare il costrutto della grammatica universale (Chomsky) con i meccanismi evolutivi della selezione naturale (Darwin).  Dunbar: il comportamento linguistico si sarebbe selezionato per permettere a gruppi numerosi di ominidi di interagire fra loro, garantendo la stabilità di importanti legami interindividuali e mantenendo bassi i livelli di aggressività sociale. Facendo un paragone con i primati non umani, la comunicazione verbale svolgerebbe tra gli altri esseri umani una funzione coesiva all’interno del gruppo, analoga a quella che, tra le scimmie, è svolta dal “grooming” = serie di comportamenti delle scimmie finalizzate a cercare zecche e pidocchi nel pelo degli altri animali e a rimuoverli che creavano unità e limitavano l’aggressività. I vantaggi evolutivi correlati allo sviluppo di un sistema così complesso come la comunicazione umana, secondo l’ottica evoluzionistica, possono essere ricondotti a 2 funzioni indispensabili per il progresso dei primi ominidi: 1) una relativa alla programmazione delle attività e degli spostamenti nell’ambiente circostante; 2) l’altra di tipo sociale implicata nella gestione delle interazioni infragruppo e intergruppo. Recentemente, Falk ha avanzato una tesi innovativa e controversa: il linguaggio parlato è da ricondursi alle attitudini femminili relative all’accudimento della prole, non alle competenze maschili connesse alle strategie di caccia. Le origini del linguaggio vanno ricercate nelle conseguenze evolutive che l’acquisizione della postura eretta ha determinato nei primi ominidi. Le ripercussioni anatomiche che la stazione eretta determinato nella riproduzione umana, modificando sia i tempi sia le condizioni del parto, hanno fatto sì che la selezione naturale affinasse le capacità delle madri nel prendersi cura dei propri piccoli che nascevano fisicamente indifesi. Falk individua il punto di svolta per l’acquisizione del linguaggio nel rapporto madre- bambino e nell’impossibilità dei piccoli di aggrapparsi alla madre per mantenere alto il livello di sicurezza di protezione (cosa che invece avviene normalmente tra i cuccioli di primati). Questa condizione avrebbe innescato il processo evolutivo di ricerca di strategie comportamentali capaci di garantire e mantenere il contatto con la figura di accudimento, che sarebbe sfociato nello sviluppo di una particolare modalità linguistica chiamata “motherese”, basato su suoni semplificati e ripetuti, per esprimere la vicinanza con i piccoli e comunicare loro i pericoli. Questo scambio comunicativo ha consentito la comparsa di vere e proprie parole. 3. I FONDAMENTI BIOLOGICI DEL LINGUAGGIO L’estrema complessità del sistema linguistico presuppone una maturazione contemporanea e progressiva di una serie di strutture composite che regolano e coordinano le funzioni linguistiche; tra queste, le più importanti sono quelle: fono-articolatorie  implicate nella produzione vera e propria del linguaggio orale, che comprendono la lingua, le labbra, la laringe, il diaframma; senso-percettive  coinvolte nei processi di comprensione e di controllo del linguaggio orale, che includono tutte le componenti dell’apparato uditivo; neuro-encefalitiche  impegnate nella ricezione, nell’elaborazione, nella comprensione e nella produzione del linguaggio. La conoscenza dell’architettura cerebrale e delle relative funzioni ha confermato l’esistenza di 2 aree cerebrali deputate specificamente alla produzione e alla comprensione del linguaggio: o Area di Broca: localizzata alla base della circonvoluzione frontale ascendente dell’emisfero dominante, unità distintiva riconoscibili all’interno delle parole nelle quali ricorrono. Il fonema non ha né un valore semantico, né funzioni grammaticali. In una lingua, pertanto, due fonemi si considerano diversi se il loro scambio genera un cambiamento di significato nelle parole. Ad esempio, in italiano, i suoni /v/ e /t/ sono considerati fonemi diversi poiché, se sostituiti, generano parole distinte: velo - telo; • morfologia: studia come le parole vengono formate, ovvero la relazione e la dipendenza tra unità minime dotate di significato. I fonemi esaminati separatamente non possiedono alcun significato; la loro combinazione permette di avere singole unità di significato definite “morfemi”. La morfologia si occupa delle regole che gestiscono la composizione e la strutturazione delle parole nelle loro diverse forme e declinazioni. Ad esempio, la parola “cani” è formata da due morfemi, ognuno dei quali aggiunge un elemento di significato: il primo (can) definisce il tipo di animale, il secondo (i) evidenzia che gli animali presi in esame sono più di uno; • sintassi: studia i modi in cui le parole vengono combinate e associate per formulare preposizioni e i modi in cui le proposizioni si uniscono per formare un periodo. Le capacità sintattiche permettono agli individui che parlano una determinata lingua di formulare e comprendere infinite frasi grammaticalmente corrette. La struttura in cui si dispongono i significati all’interno dell’enunciato è chiamata “catena sintattica”. L’unità minima di questa catena è il sintagma: essa è data dalla combinazione di due o più elementi linguistici e costituisce l’unità dotata di una specifica funzione nella struttura della frase; per comprendere un enunciato è necessario attribuire un determinato ruolo grammaticale a ciascuno degli elementi presenti nella frase; • semantica: analizza e studia il linguaggio dal punto di vista del significato. Studia cosa sia il significato, le relazioni fra i significati delle parole, in che modo significato si organizza all’interno di una parola, e si trasforma nel corso del tempo; • pragmatica: studia gli aspetti extraverbali del linguaggio, cioè i rapporti fra il linguaggio e chi lo usa, in relazione a scopi, bisogni, ruoli e intenzioni di chi prende parte alla conversazione. Si occupa inoltre della capacità fondamentale di intendere un enunciato oltre il suo significato letterale. 6. LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO NEL BAMBINO Il processo di acquisizione del linguaggio si fonda su basi biologicamente determinate che fanno sì che, sin dall’infanzia, e in tempi relativamente rapidi, progressivamente si impari a parlare correntemente e a utilizzare con competenza la lingua cui si è stati esposti. Tale capacità si sviluppa secondo una sequenza ordinata di fasi che può conoscere variazioni, che possono dipendere dalle capacità neurocognitive innate, dagli stimoli ambientali o dall’integrità delle strutture che regolano e coordinano le funzioni linguistiche. Lo sviluppo del linguaggio viene suddiviso in 2 fasi: 1) fase prelinguistica; 2) fase linguistica. 1) FASE PRELINGUISTICA Definisce il periodo compreso fra la nascita e i primi 10 -12 mesi di vita (termine orientativo che può variare da bambino a bambino).  Da 0 a 2 mesi. Il neonato presenta un particolare interesse per la voce umana, in particolare è attratto maggiormente da quella della madre. Inoltre, ha la capacità di distinguere e localizzare nello spazio specifici suoni, indirizzando il volto verso la fonte sonora. Sebbene sia in grado di distinguere i fonemi, non possiede ancora le capacità per pronunciarli. I primi suoni che vengono emessi sono o di tipo vegetativo (es: gridolini, gorgheggi, ruttini ecc…) o connessi al pianto, in quest’ultimo caso si diversificano a seconda della condizione fisica o emotiva che vuole comunicare.  Da 2 a 6 mesi. Le vocalizzazioni non sono più associate al pianto, ma iniziano a diversificarsi e arricchirsi. Intorno al terzo mese i bambini cominciano a emettere i primi suoni vocali (/a/, /e/, /o/). Tra i 4 e i 5 mesi aumenta la varietà dei suoni che il bambino riesce ad emettere e insieme ai suoni vocalici vengono emessi anche quelli consonantici (/gh/, /k/, /m/, /p/ ecc..).  Da 6 a 8 mesi. Tra i 6 e i 7 mesi si assiste alla fase della lallazione canonica: i bambini emettono spontaneamente una specie di balbettio, combinando suoni vocali e consonantici ai quali non è associato nessun significato (ma- ma-ma, pa-pa-pa). Tali vocalizzazioni assomiglieranno frequentemente, dal punto di vista fonetico, alla lingua parlata dagli adulti. Ogni bambino, raggiunti i 6 mesi, emette dei vocalizzi quando si trova in uno stato di benessere: questa circostanza segna il raggiungimento di un grado di sviluppo adeguato del cervello e dell’apparato vocale. Il manifestarsi della lallazione in modo indifferenziato fa ritenere che la sua origine sia a base innata (non frutto di apprendimento): ipotesi confermata dal fatto che anche i bambini sordi dalla nascita, incapaci di udire la propria voce o quella degli altri e non in grado di riprodurre suoni, intorno ai 6 mesi si esprimono attraverso vocalizzi assai simili a quelli prodotti dagli altri bambini. Nei bambini sordi, tuttavia, nell’arco di circa due mesi dalla comparsa della lallazione, si assiste a una sua rapida riduzione, fino alla sua estinzione. Si può dedurre, pertanto, che per proseguire a esprimersi attraverso vocalizzi, i bambini, devono poter tanto ascoltarsi mentre li eseguono quanto udire i suoni con cui le altre persone rispondono ai vocalizzi da essi prodotti.  Da 8 a 12 mesi. Intorno al nono mese il bambino inizia a produrre combinazioni di suoni più elaborati, costituite da sequenze di sillabe complesse. Contemporaneamente, comincia a strutturare forme più evolute di comunicazione attraverso i gesti (cercando di attirare l’attenzione, punta il dito indice in direzione degli oggetti). È con l’utilizzo dei gesti che ha inizio la vera comunicazione intenzionale, che si avvale di gesti (detti “deittici”) che hanno lo scopo di richiedere sostegno o di catturare l’attenzione per poi condividerla su aspetti dell’ambiente circostante. Il gesto deittico esprime esclusivamente l’intenzione comunicativa del bambino, ma non chiarisce a quale elemento sia riferito e non può essere compreso se non collegandolo al contesto. Fra i 10 e i 12 mesi, il bambino entra nell’ultima fase dello sviluppo preverbale, in cui compare la lallazione variata ed in cui la ricchezza della produzione vocale accresce e viene condizionata dall’ambiente circostante. L’infante emette sequenze di sillabe in cui possono variare alternativamente o simultaneamente i due foni, consonante e vocale (da-ba-da, du-da-du). In questa fase, il bambino dimostra di aver sviluppato un “gergo espressivo”, costituito da sequenze di pseudoparole senza senso. La fase prelinguistica si conclude normalmente intorno al dodicesimo mese quando il bambino, grazie alla stimolazione di un adulto, oppure autonomamente, pronuncia generalmente la prima parola di senso compiuto. 2) FASE LINGUISTICA Definisce un periodo prolungato e poliedrico, che ha inizio intorno ai 12 mesi e prosegue per tutto l’arco di vita.  Dai 12 ai 17 mesi. Intorno ai 12 mesi compaiono le prime parole dotate di significato, pronunciate in circostanze molto specifiche come all’interno di giochi ritualizzati o legate a contesti specifici. Si tratta di un evento assai atteso dai familiari e normalmente accolto con entusiasmo. Gli adulti, in questa fase di sviluppo, al fine di promuovere e agevolare la produzione linguistica del bambino, sostituiscono con lui i termini complessi con sinonimi più semplici o con neologismi onomatopeici (es: treno = “ciuff ciuff” + cane = “bau bau”); per questo motivo, spesso il significato delle prime parole viene compreso esclusivamente dalle persone che si prendono cura del bambino. Inoltre, intorno ai 12 mesi, compaiono anche i gesti referenziali con i quali il bambino, attraverso l’uso del corpo e con l’intento di comunicare, raffigura una qualche azione. Si tratta di gesti referenziali di natura convenzionale appresi per imitazione (es: portarsi l’indice alla bocca in segno di silenzio) che veicolano anche messaggi comunicativi il cui significato è indipendente dal contesto circostante: a differenza dei gesti deittici, simulano azioni che in realtà non stanno accadendo in quel momento. I bambini acquisiscono più rapidamente le competenze necessarie per comprendere vocaboli e termini nuovi rispetto a quelle implicate nella produzione degli stessi: comprendono frasi e locuzioni che non sono ancora capaci di pronunciare autonomamente. Inizialmente, il repertorio lessicale è assai limitato e comprende 3 tipologie di parole:  1ª tipologia: composta dai nomi e dai predicati che il bambino è abituato a sentire spesso all’interno dell’ambiente familiare. I nomi indicano persone e oggetti, i predicati si riferiscono alle azioni che quotidianamente vengono svolte;  2ª tipologia: comprende parole che vengono utilizzate normalmente per gestire e regolare le interazioni sociali (es: “no, ciao, vieni” ecc…);  3ª tipologia: proposta da Gopnik, è stata messa in relazione con il concetto di permanenza dell’oggetto proposto da Piaget, secondo cui il bambino, durante il suo sviluppo cognitivo, raggiunge lo stadio nel quale apprende che un oggetto continua a esistere anche quando non è in grado di identificarlo percettivamente. Queste parole sono utilizzate dal bambino per accogliere festosamente la ricomparsa di un oggetto o per manifestare la gioia scaturita dal successo di ricercare e recuperare l’oggetto scomparso. In questo periodo, si assiste al fenomeno delle olofrasi, espressioni con le quali il bambino, con l’ausilio di gesti, pronuncia una singola parola con il fine di comunicare un concetto articolato che richiederebbe l’utilizzo di una frase più completa (es: parola “palla” per indicare “voglio la palla”).  Da 18 a 24 mesi. Dai 18 mesi in poi si assiste a un’accelerazione del processo evolutivo e ad un incremento esponenziale dell’ampiezza del vocabolario  esplosione del vocabolario. I bambini mostrano di poter apprendere più rapidamente nuove parole e le combinano organizzandole in frasi. Nelle fasi dai 12 ai 15 mesi lo sviluppo lessicale del bambino procede a un ritmo di circa 5 parole nuove al mese, mentre dai 18 ai 21 mesi, il ritmo diviene di circa 5 parole nuove a settimana, mentre tra i 21 e i 26 mesi, i bambini possono acquistare fino a 50 parole nuove ogni mese. Verso i 24 mesi i bambini generalmente sono in grado di pronunciare oltre 300 parole. Quando il vocabolario oltrepassa le 100 parole, i bambini sembrano rielaborare le loro informazioni lessicali in una struttura sempre più conforme a quella utilizzata dagli adulti. Parallelamente all’espansione del vocabolario, il ricorso ai gesti comunicativi diminuisce velocemente: il bambino preferisce utilizzare più frequentemente le parole piuttosto che servirsi dei gesti. Intorno ai 3 anni, il bambino utilizza strutture linguistiche sempre più complesse e corrette morfologicamente, ma l’acquisizione del linguaggio può dirsi totalmente conclusa, sul piano fonologico e sintattico, intorno agli 11 anni, anche se le modalità cognitive e l’espansione del vocabolario proseguono per tutta la vita. 7. STILI DI ATTACCAMENTO E CAPACITÀ COMUNICATIVE LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO Per spiegare il significato del legame profondo che s’instaura fra il bambino e chi si prende cura di lui, John Bowlby si è basato sui principi della selezione naturale e dell’evoluzione della nostra specie. Egli ha In conclusione, l’unico metodo per ottimizzare la comunicazione è l’ampliamento della ridondanza del segnale. Dopo la sua realizzazione, il modello matematico-informazionale, fu applicato alla comunicazione umana. 4. LA TEORIA IPODERMICA: IL MODELLO DI LASSWELL Negli anni ‘30 e ‘40, in America, nasce la teoria ipodermica, che esamina la comunicazione di massa muovendo da una considerazione del messaggio mediatico come asimmetrico, invadente e unidirezionale, capace di ricavare risposte automatiche in fruitori del tutto passivi. In un contesto storico a cavallo tra due guerre, in cui i principali mezzi di comunicazione erano la stampa, la radio e il cinema, la teoria ipodermica approfondiva i meccanismi alla base dell’efficacia della propaganda. I sostenitori di questa teoria mostravano quali fossero gli effetti e le conseguenze dirette che il messaggio veicolato dai regimi totalitari provocava sul bersaglio rappresentato dal pubblico. Alla base della teoria ipodermica è rintracciabile la concettualizzazione della società di massa come un insieme di individui solitari, anonimi e atomizzati, esposti a messaggi che vanno al di là della loro esperienza e che ne condizionano inevitabilmente le scelte. I messaggi dei media sono persuasivi e si introducono nei soggetti come un “ago ipodermico”, da cui il nome della teoria. Un’altra efficace immagine utilizzata da questi studiosi è quella del proiettile invisibile: il messaggio propagandistico colpisce il singolo individuo della massa, che non può difendersi. Successivamente, Lasswell mette a punto un modello lineare della comunicazione in cui perfeziona la teoria ipodermica. Questa procedura ha avuto il pregio di poter essere applicata ed estesa a qualunque contesto comunicativo, sia esso informativo, di propaganda o di indagine. Limite: colui che avvia l’azione comunicativa già si prefigura l’effetto che questa genererà nel destinatario. 5. LE TEORIA DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA SUCCESSIVE ALL’APPROCCIO IPODERMICO La teoria ipodermica ebbe fortuna per breve tempo, poiché era frutto della fase originaria dei mezzi di comunicazione, tra i quali la radio era il privilegiato che aveva effetti influenti sull’opinione pubblica. Inoltre, la massa era considerata come un soggetto a sé stante, non un’aggregazione di individui. Dopo Lasswell si evidenziò che l’individuo è relazionato ad altri individui, ha un bagaglio culturale, quindi reagisce in maniera personale allo stesso messaggio. Celebre a proposito lo studio condotto da Allport e Postman: venivano presentate delle immagini di un bianco che, con un coltello in mano, minacciava un uomo di colore, coloro che videro la rappresentazione trasformarono la situazione, distorcendola, cogliendovi il tentativo del nero di uccidere il bianco, a tal punto falsando le immagini da dichiarare di aver visto il nero con il coltello in mano. Tutto questo significa che la reazione, l’interpretazione e addirittura la visualizzazione del soggetto, la memorizzazione selettiva non hanno carattere ipodermico (di semplice ricezione passiva), ma vengono alterate dal soggetto ricevente. Come critica indiretta alla teoria ipodermica va considerato anche l’effetto boomerang: si invia un messaggio da cui ci si propone un effetto vantaggioso e invece esso provoca un effetto dannoso rispetto a quello che ci si proponeva. Sempre rispetto a risultati non unilaterali e non immediati si è formulata la teoria dello sleeper effect: dopo un primo momento, in cui il messaggio sembra non avere alcuna capacità persuasiva, quest’ultima viene acquisita a distanza di tempo. Tutti questi studi hanno dimostrato che la teoria ipodermica non può essere esclusa, ma non è l’unica teoria né quella che dà la più esauriente interpretazione del fenomeno della comunicazione di massa. Le teorie che sorsero dopo ed ebbero maggiore rilevanza furono: o teoria degli effetti limitati: considera che il messaggio viene ricevuto da un individuo che normalmente fa parte di un gruppo (≠ teoria ipodermica che isolava il ricevente unificandolo alla massa e rendendolo passivo rispetto al messaggio). Le comunicazioni interne al gruppo interferiscono e delimitano l’efficacia del messaggio: ogni gruppo lo decodifica e assimila a modo suo, non esistono messaggi con effetti generalizzabili  l’interpretazione del gruppo è più decisiva del messaggio  l’influenza dei messaggi dei media non è diretta e immediata, ma influenzata dalle relazioni sociali  gli individui hanno ruoli differenti nella sfera della comunicazione. Dunque, se nella teoria ipodermica il messaggio aveva efficacia sulla massa da solo, per la teoria degli effetti limitati esso è elaborato, interpretato, trasmesso relazionalmente, da uomo a uomo o dai leader di opinione: gli effetti di tali relazioni sono maggiori di quelli del messaggio; o teoria funzionalista: è la maggiore espressione della sociologia statunitense, l’ideatore americano del funzionalismo è Talcoltt Parsons. Nel funzionalismo, che ha avuto notevole rilievo nel campo della comunicazione, la società è un insieme di parti connesse per cui il mutamento di una parte squilibra le altre : risulta necessario che la società mantenga o ristabilisca questo equilibrio. Secondo Parsons, nella società si formano istituzioni tese a risolvere problemi e bisogni essenziali della comunità, che non esisterebbero se non esistessero i bisogni che tentano di soddisfare. Nella società bisogna che vi siano anche canali di sfogo e valori condivisi per eliminare la tensione interna: ad esempio, i mezzi di comunicazione offrono narrazione di facile fruizione per contribuire ad attenuare la tensione accumulata durante la giornata lavorativa. Inoltre, è determinante il controllo delle informazioni in modo da evidenziare essenzialmente quelle che trasmettono i valori del passato, dai vecchi ai giovani, o su coloro che devono integrarsi nella società. Infine,  con i mezzi di comunicazione di massa si ha il rafforzamento delle norme sociali allorché tali mezzi rendono pubblici, condannandoli, i comportamenti devianti: i mezzi di comunicazione di massa devono essere usati per un’integrazione assoluta; o teoria degli usi e gratificazioni: deriva dal funzionalismo in cui la comunicazione svolge compiti divagativi e di rimedio o di diminuzione della tensione. La teoria degli usi e gratificazioni accentua lo scopo divagativo: in contrasto con la teoria ipodermica, valorizza la scelta individuale del messaggio. In una società dove l’offerta dei media è ampia e varia, il fruitore si volge a quella che lo gratifica maggiormente. Il messaggio deve quindi tenere conto dei gusti e della personalità del fruitore, che sceglie tra i messaggi disponibili. Dunque, il ricevente non è massificato, non esiste un unico messaggio che soddisfi tutti, né una sola fonte che unifichi i riceventi; ciascuno è soddisfatto da ciò a cui tende come suo desiderio. Queste teorie hanno complicato enormemente il problema della comunicazione: non si può ritenere di potersi affidare ad un messaggio certo del suo esito. In sostanza, non ci si trova più di fronte a uno strumento di comunicazione di massa con effetto univoco, conseguenze precisabili e che possa generare un assoggettamento del pubblico: l’individuo risponde al suo ambiente, al suo background culturale, al colloquio con gli altri e soprattutto ai suoi interessi. 6. IL MODELLO DELLE FUNZIONI COMUNICATIVE DI JAKOBSON Il modello matematico-informazionale di Shannon si era diffuso rapidamente, ma, poiché, era stato sviluppato in ambito ingegneristico, sembrava non dare pienamente conto dei processi comunicativi in cui erano implicati gli esseri umani. Per questo, partendo da quel modello, il linguista Roman Jakobson giunge ad elaborare una delle più importanti teorie sulla comunicazione, che si fonda sull’idea che i processi comunicativi si basano principalmente su un codice condiviso (la lingua) e che tali processi vengano modificati e influenzati dal contesto all’interno del quale sono generati. Il modello delle funzioni comunicative si prefigge di individuare i fattori costitutivi di ogni processo linguistico (es: poesia, conversazione per strada, slogan), identificando le componenti essenziali del processo comunicativo e le funzioni che ciascuno di questi elementi assolve. Vengono individuati 6 elementi delle componenti principali del processo comunicativo: 1) mittente: colui che costruisce, organizza e invia il messaggio; 2) codice: ciò che permette la comunicazione fra mittente e destinatario, il loro linguaggio comune; 3) messaggio: rappresentato dal contenuto comunicativo che dal mittente deve essere trasferito al destinatario; 4) contesto: realtà in cui si è immersi e di cui si parla; 5) contatto: canale attraverso il quale avviene il trasferimento del messaggio; 6) destinatario: colui che riceve il messaggio e ha il compito di decodificarlo. Ciascuno di questi elementi dà origine ad una funzione specifica del linguaggio: ai 6 fattori corrispondono 6 funzioni: 1) funzione emotiva (o espressiva): è incentrata sul mittente e definisce la sua capacità di esprimere sentimenti, emozioni, stati d’animo  la propria individualità (es: “Sono contento che…”). Nell’espressione vocale, è possibile caratterizzare le differenti sfumature emozionali dall’intonazione. A livello grammaticale è connessa alla presenza del pronome “io”; può essere inoltre connessa a manifestazioni come le lacrime o il rossore; 2) funzione conativa (o imperativa): è relativa al destinatario, o meglio, alla ricerca di effetti sul destinatario, ed è caratteristica dei comandi (es: “Coraggio!”). È intensificata nelle situazioni in cui il mittente desidera esercitare un’azione sul destinatario ed è dominante nelle forme del discorso politico, propagandistico, religioso; 3) funzione referenziale: è focalizzata sul contesto, consente al messaggio di rapportarsi al mondo. Tende a costruire significato dalla relazione tra mittente e destinatario, presentando il linguaggio come semplice e trasparente (es: linguaggio scientifico, che deve essere puntuale e preciso); 4) funzione poetica: è la funzione associata al messaggio, riguarda la forma e il ritmo in cui viene organizzato. Si tratta di una funzione dominante in vari ambiti, come la poesia e la pubblicità: si realizza in tutti quei casi in cui l’accento è posto non già sui contenuti, ma sulle espressioni, l’attenzione viene indirizzata verso la forma stessa del linguaggio; 5) funzione fàtica: concerne il lavoro volto a mantenere il contatto tra gli interlocutori (es: “Pronto? Sei ancora lì?” oppure “Mi ascoltate?” di una professoressa alla classe). Questa funzione è dominante nei casi in cui si intende attivare, riattivare o intensificare un canale intersoggettivo che appare affievolito; 6) funzione metalinguistica: è associata al codice e si realizza quando gli interlocutori definiscono il codice in uso. Questa funzione è attiva ogni volta che si precisa quale senso debba attribuirsi a un’espressione. 7. IL MODELLO COMUNICATIVO DI SCHRAMM L’innovazione del modello di Wilburn Schramm consiste nell’attribuire notevole importanza ai soggetti umani e al contesto sociale in cui si realizza la comunicazione e nell’introduzione di ulteriori elementi che prendono parte alla trasmissione del messaggio (non considerati nel modello di Shannon). Il modello si sviluppa in 3 fasi distinte attraverso un’evoluzione graduale che tiene conto progressivamente delle variabili introdotte: • il destinatario, non si limita a tradurre il messaggio richiamandosi a un codice da lui posseduto in comune con la fonte: attribuisce un senso al messaggio; • il messaggio, dopo essere stato trasdotto attraverso il canale, giunge al destinatario, che, inizialmente, gli attribuisce il valore di significante; • successivamente, a seguito dei processi di codifica e decodifica, il messaggio-significante viene interpretato attraverso codici e sottocodici. In questo modello, il messaggio, all’interno del processo comunicativo, perde la sua valenza unitaria, ma diviene un elemento soggetto a continue trasformazioni considerate dagli autori indispensabili e necessarie per l’attribuzione del significato: tra il messaggio codificato dalla fonte e quello ricevuto e interpretato dal destinatario possono esserci notevoli differenze. Inoltre, se il destinatario del messaggio non è in grado di comprendere i codici e i sottocodici utilizzati dalla fonte durante la fase di codifica del messaggio, si possono produrre degli effetti sistematici di distorsione della comunicazione. Quando le intenzioni comunicative dell’emittente non corrispondono a ciò che il destinatario ha effettivamente compreso, si parla di decodifica aberrante  4 principali possibili circostante di incomprensione definiscono altrettanti casi di decodifica aberrante: a. incomprensione o rifiuto del messaggio per carenza o assenza di codice: il messaggio arriva come segnale fisico non decodificabile e pertanto viene considerato esclusivamente come elemento di fastidio o rumore (es: testo scritto in giapponese presentato ad un occidentale); b. incomprensione per disparità dei codici: il codice dell’emittente non è ben conosciuto dal destinatario, che traduce le informazioni attribuendo ad esse significati diversi rispetto all’intenzione della fonte (es: ignorare il significato di una parola); c. incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali: il destinatario interpreta il messaggio secondo le modalità desiderate dall’emittente; tuttavia, l’interpretazione risulta imprecisa perché modellata sul proprio orizzonte di attesa; d. rifiuto del messaggio per interferenze dell’emittente: il senso del messaggio viene inteso, ma stravolto dal destinatario per motivi legati al suo sistema di credenze. Nel caso delle comunicazioni di massa, che non prevedono le repliche all’emittente da parte del ricevente né una negoziazione dei significati, le forme di decodifica aberrante non possono essere eliminate e costituiscono una parte integrante del processo comunicativo. NB: secondo il modello semiotico-informazionale, eventuali ostacoli che limitino la linearità dell’informazione rappresentano elementi costitutivi della comunicazione  il significato ultimo del messaggio deriva dal convergere di diversi fattori. 10. LA PRAGMATICA E LA TEORIA DEGLI ATTI LINGUISTICI L’uso odierno del termine “pragmatica” può essere attribuito al filosofo Charles Morris, che la identifica, insieme alla sintassi e alla semantica, come una delle 3 discipline che si occupano dello studio dei segni: 1) sintassi: analizza la relazione reciproca tra i segni e ne studia i modi in cui possono essere combinati. Facendo riferimento alle espressioni linguistiche, si può affermare che tale funzione è svolta dalla grammatica che, non tenendo conto del significato delle singole parole componenti le frasi, stabilisce se queste ultime sono formalmente ben costituite oppure no (es: sintatticamente è possibile dire “C’è un gatto sul mio tetto”, ma non si può dire “Ci sono un gatto sul mio tetti”; ma paradossalmente si può affermare “Il mio tetto ha un gatto” e “ Il mio gatto ha un tetto”); 2) semantica: esamina la relazione intercorrente tra i segni e gli oggetti designati, ovvero studia l’attribuzione di significato ai segni. Stabilisce se una frase è, o meno, ben composta rispetto al significato (es: semanticamente verrebbe esclusa un’affermazione come “C’è un tetto nel mio gatto”); 3) pragmatica: approfondisce il legame che si instaura fra i segni e coloro che comunicano (= tra il linguaggio e i soggetti che lo utilizzano). Analizza dunque le modalità per mezzo delle quali le espressioni linguistiche vengono impiegati nelle situazioni concrete. Inoltre, investiga i processi sottesi alla comunicazione e volti a inferire dal contesto ciò che il testo intende affermare, anche quando tale corrispondenza non è ravvisabile chiaramente (es: “Oggi ho preso la cintura nera, evviva!”   questa frase può essere interpretata solo collegandola alla situazione in cui è stata detta: significati diversi se all’interno di una palestra di arti marziali o al ritorno dallo shopping). Un interesse sistematico verso la pragmatica si è avuto a partire dalle riflessioni dei filosofi del linguaggio John Langshaw Austin e John Searle, che hanno studiato la componente del linguaggio legata all’azione e l’intenzionalità degli individui coinvolti nella comunicazione. Per Austin la comunicazione corrisponde a un’azione intrapresa tra più soggetti che, come altre azioni umane, può avere fini e produrre effetti. La considerazione da cui muove è che alcuni enunciati o frasi, per il semplice fatto di essere pronunciati, hanno conseguenze tangibili e reali. Ad esempio, affermazioni come “Vi dichiaro marito e moglie” o “La dichiaro in arresto!”, non sono vere o false, non descrivono un aspetto della realtà e non hanno scopo informativo, ma, una volta proferite, creano fatti nuovi modificando la realtà stessa. Austin denomina questi enunciati, che hanno lo scopo di compiere atti agendo direttamente sull’ambiente circostante, performativi e li distingue da quelli constativi, utilizzati frequentemente per descrivere, rappresentare e raccontare aspetti del mondo.  In seguito, afferma che ogni qualvolta si produce un enunciato linguistico si compiono contemporaneamente e inevitabilmente 3 atti: 1) atto locutorio: rappresenta l’azione di dire qualcosa  consiste nel costruire una espressione rispettando la struttura del sistema linguistico, sia a livello sintattico, sia a livello semantico; 2) atto illocutorio: si compie mentre viene detto qualcosa  costituisce l’intenzione con cui l’enunciato viene concepito ed espresso; 3) atto perlocutorio: costituisce ciò che si compie attraverso l’azione del dire qualcosa  rappresenta quale risultato e quale esito tangibile l’enunciato produce nell’interlocutore. Successivamente alle teorizzazioni di Austin, Searle riformula la nozione di atto linguistico illocutorio individuandone 5 sottocategorie di atti: 1) rappresentativi: atti linguistici utilizzati per delineare la nostra rappresentazione del mondo; 2) dichiarativi: atti linguistici capaci di trasformare le condizioni, le situazioni, gli equilibri e gli stati del mondo e quelli istituzionali (l’atto di battezzare, sposare, licenziare); 3) espressivi: atti per mezzo dei quali il parlante è in grado di comunicare i propri sentimenti, pensieri ed emozioni (l’atto di salutare, ringraziare o perdonare); 4) direttivi: tutti quegli atti linguistici che tendono a persuadere o convincere gli antri individui a mettere, o a non mettere, in atto un determinato comportamento (convincere, ordinare, vietare); 5) commissivi: atti linguistici che il parlante utilizza per garantire lo svolgimento, o il mancato compimento, di determinate azioni future (promettere, impegnarsi, scommettere). 11. LA COMUNICAZIONE COOPERATIVA La buona riuscita di una conversazione è l’esito di un’azione coordinata e cooperativa fondata sul riconoscimento di alcuni principi regolatori da parte dei singoli partecipanti. Un contributo tra i più rilevanti allo studio delle regole che governano l’interazione comunicativa è stato fornito dal filosofo del linguaggio Paul Grice, che ritiene che in ogni scambio comunicativo il parlante si impegni attivamente affinché il senso del suo messaggio venga compreso da colui che ascolta. Grice individua dunque come scopo condiviso da tutti gli interlocutori impegnati in conversazioni il principio di cooperazione, che costituisce una sorta di accordo tacito tra gli interlocutori,   secondo   il   quale  ogni individuo deve fornire il proprio contributo alla conversazione e che si articola in alcune regole, o massime convenzionali, utilizzate dai partecipanti per orientare e interpretare l’interazione comunicativa in corso:  massima della quantità: un interlocutore è tenuto a fornire tutte le informazioni essenziali e richieste;  massima della qualità: gli interlocutori debbono avere la sicurezza che la probabilità che quanto viene detto sia vero superi la probabilità che ciò che si dice sia falso;  massima della relazione: la comunicazione deve essere pertinente e appropriata al contesto, è desiderabile non allontanarsi dal tema della discussione e presentare le argomentazioni in modo tale da collegarle le une con le altre;  massima di modo: si devono utilizzare espressioni che non risultino né oscure, né ambigue. Inoltre, si deve scegliere una forma espressiva ordinata e breve. Secondo Grice, le massime sono apprese attraverso l’esperienza mediante gli stessi processi culturali che permettono l’acquisizione e la comprensione della lingua parlata. Egli afferma che non rappresentano strumenti arbitrari, ma mezzi funzionali per la conduzione di interazioni comunicative, cooperative e reciproche. Inoltre, l’adesione a tali regole non è rigida, né imposta. Lo scarto che si viene a creare fra ciò che si dice e il significato che si intende trasmettere può essere colmato facendo ricorso a un’elaborazione cognitiva detta implicatura conversazionale. Tale processo consente di andare oltre al significato letterale del messaggio per capire opportunamente l’intenzione comunicativa del parlante. Le implicature conversazionali possiedono 4 proprietà: • cancellabilità: un’affermazione equivocabile e ambigua può essere chiarita se alle affermazioni iniziali vengono aggiunte alcune premesse comprensibili; • non-distaccabilità: le implicature conversazionali sono associate all’aspetto semantico dell’esposizione e non alla sua forma linguistica; • calcolabilità: le implicature sono prevedibili, in quanto, risulta abbastanza semplice prefigurarsi una situazione tipica nella quale il soggetto che ascolta un’affermazione sia in grado di interpretarla correttamente, mediante l’inferenza opportuna; • non-convenzionabilità: le implicature sono non-convenzionali, poiché non rientrano nella sfera del significato convenzionale e condiviso delle comunicazioni nella sfera del significato convenzionale e condiviso delle comunicazioni linguistiche, ma rappresentano l’esito di una continua negoziazione di senso che si adatta al contesto circostante. 12. LA SCUOLA DI PALO ALTO E GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE Lo studio della comunicazione improntato all’approccio della pragmatica è stato radicalmente influenzato dal contributo delle ricerche condotte in California dalla scuola di Palo Alto negli anni ‘60, che hanno minato la plausibilità che i rapporti comunicativi interpersonali fra individui siano regolati principalmente dalla comunicazione esplicita, verbale e intenzionale. Adottando una visione prettamente relazionale, secondo cui la comunicazione rappresenta un processo bidirezionale, le ricerche sono giunte a considerare come comunicativo qualsiasi evento o atto che avviene in presenza di un’altra persona. Ciò che viene oltrepassato è il concetto di intenzionalità manifesta della comunicazione, non viene operata né la distinzione tra comunicazione volontaria e involontaria, né tra consapevole e inconsapevole: si considera la comunicazione come un processo che si concretizza attraverso la reciprocità degli interlocutori, la relazione che lega le circostanze nelle quali tale processo si genera. Il saggio che ha suscitato più interesse è “Pragmatica della comunicazione umana”, in cui gli autori, adottano un approccio radicalmente pragmatico, esaminano la struttura dell’atto comunicativo valutandone le implicazioni comportamentali. Inoltre, espongono le proprietà (dette assiomi) della comunicazione: Primo assioma. Non si può non comunicare. B. Arbitrario / Motivato. Il concetto di “arbitrarietà” non deve far supporre che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante: il linguaggio umano è un codice condiviso e convenzionale (arbitrario) che si basa su un sistema di segni sostenuto e giustificato unicamente da un accordo sociale. La comunicazione non verbale si compone di elementi sia arbitrari sia motivati e iconici. Fra il concetto che si intende veicolare e la forma non verbale per questo utilizzata, può stabilirsi sia una relazione di tipo naturale e motivata, che ne sottolinea la similitudine (es: indicare con la mano la posizione), sia una valenza arbitraria e immotivata, basata su accordi culturalmente condivisi (es: segno di “OK” con la mano). C. Digitale / Analogico. Il sistema linguistico è considerato digitale in quanto si fonda sui fonemi, elementi che fra loro si distinguono e oppongono. Il valore analogico della componente non verbale della comunicazione è dato viceversa dalla connessione, che essa presenta, fra ciò che si intende esprimere e la forma della comunicazione. Secondo questa dicotomia, gli aspetti non verbali mantengono una caratteristica di spontaneità e naturalezza rispetto agli aspetti verbali, maggiormente sottoposti al controllo della coscienza. La comunicazione non verbale è prodotta in maniera automatica e inconsapevole. La concezione integrata fra gli aspetti verbali e non verbali nella genesi del significato di un atto comunicativo costituisce il relativo superamento della prospettiva dicotomica. Secondo questa concezione, i diversi sistemi di segnalazione e significazione – verbali e non verbali – concorrono in un processo di integrazione, pur mantenendo una certa autonomia, a definire insieme significato dei singoli atti comunicativi. 3. LE FINALITÀ DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE La comunicazione non verbale non può adempiere a compiti informatici data la sua indeterminatezza semantica; non può, cioè, trasferire da sola contenuti astratti, ed è inadeguata per rappresentare concetti teorici o indefiniti. Per tali fini rimane assolutamente primario il ruolo del linguaggio verbale. La comunicazione non verbale svolge funzioni che contribuiscono in modo imprescindibile, durante le interazioni comunicative, alla costruzione e all’elaborazione del significato di ogni atto linguistico. A tal riguardo, molti autori hanno tentato di formulare una classificazione univoca che tenesse conto delle sue funzioni principali senza però riuscirvi, considerata l’inevitabile sovrapposizione dei costrutti ad essa associata. Classificazione proposta da Bonaiuto e Maricchiolo:  Caratterizzazione della relazione. I comportamenti non verbali hanno lo scopo di veicolare la componente relazionale della comunicazione: La comunicazione non verbale svolge un ruolo fondamentale anche nel mantenere e rinnovare una relazione, nonché nel segnalare il suo cambiamento e la sua estinzione.  Presentazione di sé. La comunicazione non verbale possiede la capacità di inviare agli interlocutori elementi essenziali per comprendere la personalità del parlante e per inquadrare le sue attitudini, le sue disposizioni e le inclinazioni, nonché le sue inibizioni. Nel corso delle interazioni è capace, quindi, di orientare e supportare la conoscenza reciproca.  Persuasione, dominanza, potere e status. Un altro ambito in cui la comunicazione non verbale interviene è quello che attiene ai rapporti di potere finalizzati alla persuasione. Assume, inoltre, una valenza primaria ai fini di delineare, ma anche conservare e preservare rapporti di dominanza. Un altro importante segno non verbale di potere è poi rappresentato dalla qualità e dalla quantità dell’occupazione dello spazio sociale, in quanto chi ha potere utilizza e amministra lo spazio per segnalare la propria posizione di dominanza.  Differenziazione d’identità. La comunicazione non verbale consente di cogliere diversi elementi distintivi, come il grado di espressività. La sua analisi può fornire molte informazioni sullo stato emotivo degli individui. Inoltre, l’utilizzo del linguaggio corporeo risulta funzionale per comprendere e affermare la propria e l’altrui identità di genere.  Espressione e riconoscimento delle emozioni. Il linguaggio non verbale svolgere un’importante funzione di supporto a quello verbale nella costruzione dei significati, modulandoli secondo diverse sfumature che possono dare conto della varietà di emozioni dell’essere umano. La comunicazione non verbale, pertanto, sia nella fase di produzione sia in quella di riconoscimento, attraverso diversi canali (voce, mimica, sguardo, postura ecc…)  concorre, insieme agli aspetti linguistici, a manifestare una data esperienza emotiva influenzando la qualità della relazione che si instaura tra i comunicanti.  Comunicazione degli atteggiamenti interpersonali. Gli atteggiamenti interpersonali sono interpretabili allo stesso modo delle emozioni giacché implicano i medesimi sistemi di segnalazione e significazione. Ad esempio, componenti vocali, come il tono della voce, sonorità, velocità e fluidità verbale, possono esprimere sia stati motivi, come la rabbia, sia atteggiamenti interpersonali, come l’essere ostili e maldisposti.  Comunicazione non verbale nel linguaggio verbale. La comunicazione non verbale è oggi considerata come dipendente e interconnessa al linguaggio parlato. Il parlante, infatti, coordina i movimenti del proprio corpo e la mimica facciale in funzione del contenuto del proprio discorso. La comunicazione non verbale può anche svolgere un ruolo referenziale: aggiungere elementi che arricchiscono la descrizione della discussione. Il gesto non verbale può talvolta addirittura sostituire completamente il parlato (fare segno di fare silenzio). Il linguaggio corporeo esercita anche la funzione metacognitiva: veicola le informazioni riguardanti il modo con cui il messaggio viene inviato e deve, quindi, essere interpretato. La comunicazione non verbale assume anche il ruolo centrale nella valutazione dell’inganno: gli indici non verbali sono difficili da di stimolare e se non c’è corrispondenza tra i messaggi trasmessi verbalmente e il relativo comportamento non verbale è sempre il secondo ad essere considerato più veritiero. 4. I SISTEMI COMUNICATIVI Gli essere umani possono esprimersi attraverso una molteplicità di sistemi non verbali di significazione e segnalazione. Classificazione proposta da Anolli dei vari sistemi della comunicazione non verbale: o SISTEMA VOCALE o SISTEMA CINESICO o SISTEMA PROSSEMICO E APTICO o SISTEMA CRONEMICO o SISTEMA VOCALE Nella comunicazione non verbale rientrano anche quegli aspetti vocali che non si riferiscono direttamente a ciò che viene detto, ma che denotano il modo in cui si dice una cosa. Il sistema vocale prende in considerazione nell’eloquio gli aspetti prosodici, come ad esempio il tono, l’intensità della voce, il ritmo, il volume, le esitazioni e i silenzi  aspetti connessi al messaggio pronunciato verbalmente che ne arricchiscono il significato  aspetti attraverso i quali vengono veicolati gli stati d’animo e gli atteggiamenti. A volte, per comprendere l’umore del nostro interlocutore, non importa ciò che ci viene detto: la struttura sonora con cui il messaggio verbale ci arriva ci rivela molto di più su chi parla e sui suoi sentimenti. Il linguista Trager è stato il primo a ritenere che lo studio della lingua parlata non possa prescindere dall’analisi delle componenti prosodiche che ha denominato paralinguistiche: gli aspetti paralinguistici si riferiscono alle vocalizzazioni che non sono strutturate come nel linguaggio, ma sono costituite per lo più da una gamma sfumata di suoni multiformi.  Le componenti vocali che non hanno una struttura propriamente linguistica sono state distinte da Trager in 2 categorie: fanno parte della 1ª, che definisce la qualità della voce, tutte le caratteristiche individuali fisiologiche e fisiche legate alla peculiarità dei suoni prodotti (aspetti legati al sesso, all’età e alla provenienza) e quelle relative all’intonazione, come il controllo delle labbra e del ritmo; la 2ª categoria comprende le vocalizzazioni vere e proprie, ulteriormente suddivise in 3 sottocategorie: • caratterizzatori vocali: contraddistinguono l’ambito emotivo (piangere, ridere, sussurrare, gemere); • qualificatori vocali: identificano le variazioni enfatiche di un singolo elemento della frase (variazioni di timbro, intonazione, intensità ecc…); • segregati vocali: includono tutti quei suoni interposti tra le parole come i grugniti, lo schioccare della lingua e gli intercalari sonori (es: “uhm”, “ah”, “eh”). Laver afferma che il linguaggio parlato può trasmettere informazioni tra parlante e ascoltatore attraverso 3 livelli: 1) linguistico: concerne l’enunciato che viene espresso quando si parla; 2) paralinguistico: trasmette lo stato emotivo e affettivo del parlante e i suoi atteggiamenti; 3) affidato agli aspetti extralinguistici: che identificano gli elementi specifici della voce del parlante e che sono per lo più riconducibili alle conformazioni anatomiche legate al sesso, all’età e alle caratteristiche fisiche e fisiologiche coinvolte nella produzione del linguaggio. Anolli propone la distinzione tra: • segnali vocali non verbali (extralinguistici); • segnali vocali verbali (paralinguistici): hanno un carattere momentaneo, sono connessi all’esposizione linguistica e all’ambiente circostante e sono determinati da 3 fattori: tono, intensità e tempo. 1) tono: determina il profilo dell’interazione ed è costituito dalla frequenza della voce; 2) intensità: si riferisce al volume con il quale si pronunciano le frasi e 3) tempo: è dato dalla velocità di successione delle singole parole e dalla durata delle pause inserite nel discorso. La modulazione e la combinazione di questi 3 fattori comunicano anche componenti emotive e gli atteggiamenti del parlante. L’insieme delle componenti vocali non verbali, ossia delle caratteristiche extralinguistiche, determina la qualità della voce della persona e permette di distinguere in modo appropriato un individuo da un altro. Anolli sostiene che la qualità della voce è influenzata da 4 tipologie di fattori vocali non verbali: 1) fattori biologici, concernono le differenze di età o di genere (es: gli uomini hanno voce più grave rispetto alle donne); 2) fattori sociali, hanno a che fare con la cultura, la provenienza geografica (inflessioni dialettali), l’estrazione e la posizione sociale; 3) fattori di personalità, hanno relazione con tratti psicologici relativamente stabili (es: temperamento); 4) fattori psicologici transitori, connessi con gli stati d’animo, con le esperienze emotive, con gli stati congitivi o con fenomeni come la seduzione, la menzogna e l’ironia. La voce, meglio di altri canali non verbali, può fornire informazioni riguardo agli aspetti emotivi e agli atteggiamenti delle persone. LE PAUSE PIENE E LE PAUSE VUOTE Nell’ambito dell’interazione comunicativa, le pause assumono una valenza non verbale di tipo strategico, il loro significato varia con le situazioni e la cultura di riferimento. Goldman e Eisler sono stati tra i primi a condurre esperimenti per misurare la correlazione tra la pianificazione mentale del discorso e la lunghezza delle pause. I risultati hanno messo in evidenza che le IL SORRISO Il sorriso rappresenta certamente l’espressione con valenza comunicativa più esplicita ed interpretabile. Nella nostra specie segnala felicità, piacere, soddisfazione … Nelle scimmie, invece, corrisponde all’esibizione dei denti finalizzata alla rassicurazione, si può ipotizzare che il messaggio che viene inviato agli altri è: “Non userò i denti per aggredirti”. Nella comunicazione non verbale, svolge l’importante compito di promuovere, agevolare e preservare le interazioni relazionali all’interno del gruppo. LO SGUARDO Tra i diversi aspetti della comunicazione non verbale, lo sguardo svolge un ruolo di fondamentale importanza nelle dinamiche relazionali con gli altri e soprattutto nelle interazioni faccia a faccia . Qualsiasi tipo di relazione è di norma associato al contatto oculare, sia nella fase iniziale della relazione sia nei suoi sviluppi: una conversazione in cui gli sguardi siano assenti è per definizione una comunicazione priva di un elemento costitutivo. Vi è la tendenza a posare lo sguardo perlopiù sulle persone che suscitano simpatia, interesse o da cui si è attratti. Essere guardati da uno sconosciuto in modo intenso e prolungato può generare notevoli disagio e imbarazzo, poiché può essere percepito come un segno di invadenza, se non di minaccia. Innanzitutto, lo sguardo può segnalare la volontà di instaurare un canale per lo scambio comunicativo e di prendere la parola; inoltre, indica che vi è un interesse per la persona guardata e la volontà di chi guarda di interagire. Durante la comunicazione verbale, poi, lo sguardo è funzionale alla regolazione dell’alternanza dei turni, fondamentale per la sincronizzazione degli interlocutori, per controllare l’andamento del colloquio ecc… Lo sguardo è anche un mezzo per veicolare l’immagine di sé che si intende proporre, in quanto chi guarda viene percepito come leale e sicuro di sé e come maggiormente attento è interessato all’altro, al contrario di chi, avendo la tendenza a sfuggire lo sguardo altrui, suscita emozioni negative e viene percepito come poco affidabile. Altri studi hanno evidenziato che le persone reagiscono alla presentazione di oggetti o persone attraenti, piacevoli o rassicuranti con una dilatazione pupillare; si è notato che le pupille si dilatano anche in situazioni in cui vi è un’attivazione di tipo sessuale. Sulla base di alcune ricerche sembrerebbe che gli esseri umani abbiano la capacità inconsapevole di cogliere la dimensione delle pupille degli altri individui e di interpretarne le modificazioni osservabili come segnale di atteggiamento positivo o negativo. I GESTI Con il termine “gestualità” si indicano azioni motorie circoscritte e coordinate, intenzionali o involontarie, per lo più compiute dalle mani, con la finalità di comunicare un significato con riferimento ad uno scopo. I gesti possono accompagnare il discorso per renderlo più comprensibile all’interlocutore o possono essere messi in atto durante la conversazione, in modo inconsapevole e spontaneo, senza essere correlati all’argomento di squisito.  Numerose ricerche si sono focalizzate sullo studio della gestualità cercando di individuare i significati specifici dei singoli gesti; questi studi, però, non hanno portato ad una classificazione unitaria. Ekman e Friesen distinguono 5 tipologie di gesti: 1) gesti emblematici: azioni messe in atto volontariamente aventi un significato specifico altamente convenzionale e codificato, che sono comprensibili per la maggior parte dei membri di una determinata cultura (es: pollice in alto per richiedere un passaggio in automobile). Possono accompagnare o sostituire il linguaggio, specialmente quando la comunicazione verbale risulta impossibile a causa delle condizioni ambientali; 2) gesti illustratori (o simbolici): utilizzati con consapevolezza e intenzionalità, accompagnano e scandiscono il discorso mentre viene pronunciato (es: riprodurre attraverso l’uso delle mani la grandezza dell’oggetto di cui si sta parlando); 3) gesti regolatori: azioni non verbali che sono utilizzate per esercitare un controllo reciproco sul flusso e sullo scambio conversazionale, gestendo la sincronizzazione degli interventi. I gesti regolatori sono utilizzati con un basso livello di consapevolezza e intenzionalità (es: cambiamento brusco e repentino di postura durante una conversazione può manifestare noia); 4) gesti di adattamento: tutti quei movimenti inconsapevoli che si eseguono per soddisfare alcuni bisogni personali o aumentare il livello di benessere autopercepito e che non sono finalizzati a trasmettere un messaggio specifico. Sono appresi nei primi anni dell’infanzia ed entrano a far parte dei pattern comportamentale dell’individuo adulto. Se ne individuano 3 tipi: 1) i gesti autoadattatori: toccamenti, sfioramenti o manipolazioni rivolti verso il proprio corpo (es: mangiarsi le unghie o grattarsi per alleviare un prurito; 2) i gesti eteroadattatori: movimenti che coinvolgono la persona con cui si sta parlando (es: battere sulla spalla dell’interlocutore); 3) i gesti diretti verso oggetti: rivolti verso gli elementi inanimati (es: scarabocchiare o giocherellare con una penna); 5) gesti che esprimono le emozioni: rappresentati in larga parte dai movimenti non verbali e inconsapevoli della mimica facciale, ma anche dai movimenti delle mani e del corpo in generale. Hanno la capacità di trasmettere gli stati d’animo e di esprimere le emozioni provate (es: sorridere, stringere i pungi). Gli stessi Ekman e Friesen hanno riconosciuto che questa classificazione non è del tutto esaustiva. McNeill ha proposto una classificazione basata sulla stretta interdipendenza fra la comunicazione verbale e la produzione gestuale: ha categorizzato i gesti in relazione al ruolo che svolgono all’interno del discorso, ritenendo che non sia possibile analizzare in modo disgiunto la produzione gestuale e quella verbale. McNeill distingue i gesti, eseguiti con mani e braccia, in 2 macrocategorie: 1) gesti caratterizzanti l’attività discorsiva, ovvero strettamente connessi con la dinamica dell’interazione. Comprendono i: • gesti beats: semplici movimenti ritmici, ripetitivi e inconsapevoli delle mani. Di solito svolgono la funzione di sottolineare che una parola o una è frase importante per il suo contributo che svolge nel corso della narrazione; • gesti coesivi: movimenti ripetitivi delle mani eseguiti dal parlante per accompagnare il discorso, fornendo continuità, coerenza e coesione. Non si riferiscono al contenuto del discorso, sono collegati alla sua struttura narrativa; 2) gesti appartenenti al processo di ideazione, cioè legati alla rappresentazione mentale del referente. Comprendono tutti quei gesti che riproducono referenti linguistici e sono suddivisi in: • gesti iconici: necessariamente accompagnati dall’azione del parlare e sono in stretta relazione con quanto si dice (creare la forma di un oggetto attraverso il movimento delle mani); • gesti metaforici: veicolano nozioni o concetti astratti attraverso forme concrete; rappresentano un messaggio metaforico attraverso i movimenti delle mani; • gesti deittici: movimenti di puntamento, normalmente compiuti con l’indice che hanno lo scopo di indirizzare l’attenzione verso un determinato oggetto, persona o direzione nell’ambiente circostante. Concretamente servono a indicare gli oggetti effettivamente presenti di cui si parla (si può additare la bottiglia sul tavolo) o in modo astratto entità che esistono nell’immaginario di chi compie il gesto (puntare all’indietro con il pollice per far riferimento a un tempo passato). o SISTEMA PROSSEMICO E APTICO LA PROSSEMICA La prossemica è quella branca della psicologia che indaga gli aspetti non verbali relativi al modo in cui gli individui collocano, distanziano e orientano i propri corpi nello spazio, e come percepiscono quello degli altri nell’ambiente. Tali scelte non avvengono consapevolmente, ma in modo automatico e incontrollato. I bisogni opposti di contatto con gli altri e di difesa della propria sfera privata sono manifestati dalle persone nella gestione del proprio spazio fisico. Hall, muovendo da ricerche condotte su animali sulla territorialità, ha gettato le basi per lo studio nell’ambito umano dello spazio fisico associato al concetto di territorio. Differenzia la zona privata dell’individuo, rappresentata dal territorio domestico, da quella condivisa all’interno del gruppo sociale, definita territorio pubblico, in cui si può pretendere una determinata parte di spazio come propria, identificandola con specifiche segnalazioni. Questa rivendicazione deve però limitarsi a un lasso temporale definito e implica l’accettazione di regole convenzionalmente condivise. Nel territorio domestico la libertà dell’individuo costituisce la norma, non ha limiti temporali e se ne percepisce pienamente il controllo; possiede, inoltre, confini ben definiti in cui si sperimenta costantemente un senso di benessere e di sicurezza. Hall ha considerato la regolazione della distanza interpersonale (spazio fisico che divide due individui) come un indicatore della lontananza comunicativa fra le persone e come indice psicosociale. Egli evidenzia che, per l’essere umano, dal punto di vista psicologico, il confine del proprio corpo sembra non corrispondere a quello fisico costituito dalla pelle o dagli indumenti; l’uomo si considera avvolto da una sorta di bolla che, a seconda del contesto in cui si trova, delimita lo spazio personale psicologico modificando il proprio raggio. La penetrazione di questa ipotetica bolla da parte di un individuo estraneo viene percepita come intrusiva e genera una sensazione di fastidio. Hall descrive 4 tipologie di distanza interpersonale: 1) distanza intima (da 0 a 50 cm): tipica dei rapporti stretti e intimi, permette di toccarsi in modo prolungato e di percepire l’odore, il respiro e le emozioni dell’altro. Un individuo permette a un’altra persona di accedere all’interno della proroga zona intima, solo se la considera familiare, affidabile e fidata; 2) distanza personale (da 50 a 120 cm): caratteristica delle relazioni amicali, fondate su rapporti caratterizzati da familiarità e benevolenza; 3) distanza sociale (da 1 a 4 m): propria delle relazioni meno personali di tipo formale, il contatto fisico è perlopiù escluso e qualora avvenga casualmente è vissuto come sgradevole; 4) distanza pubblica (oltre i 4 m): tipica delle situazioni pubbliche in cui generalmente non si conoscono le altre persone e implica un’accentuazione dei movimenti e un aumento del volume vocale. La regolazione e la gestione dello spazio conoscono eccezioni, essendo largamente influenzate dal contesto ambientale in cui hanno luogo (es: ascensore in cui ci si trova a una distanza che di norma si tiene avere solo con persone con cui si sé in intimità oppure luogo semideserto come una spiaggia in cui una persona che si viene a stendere a distanza di 5 m verrebbe comunque percepita come sgradita). La prossemica conosce importanti differenze culturali: vi sono culture in cui la distanza impersonale è di norma maggiore (Nord Europa) e culture della vicinanza (arabe o latine) nelle quali la distanza è considerata indice di freddezza. In generale, esiste la tendenza a posizionarsi vicino a persone ritenute gradevoli e lontano da persone considerate spiacevoli. La violazione non autorizzata dei confini del proprio spazio è percepita regolarmente come invasione, minaccia, offesa, e genera pertanto reazioni di difesa o di attacco. L’APTICA L’aptica riguarda le azioni di contatto fisico verso le altre persone. Il contatto fisico rappresenta la forma più primitiva di comunicazione sociale sia per gli uomini che per gli animali. Negli umani, il contatto corporeo è fondamentale nell’infanzia e soprattutto nel periodo neonatale: la sua ricerca costituisce un’esigenza innata, legata non solo alla soddisfazione di bisogni fisiologici ma soprattutto di instaurare un rapporto affettivo e sociale che garantisce protezione. Esso può essere attivo o passivo ed è una necessità per ogni individuo di ogni età. È possibile stabilire un contatto fisico con un’altra persona in modi diversi: stringendo la mano, tenendo sottobraccio, abbracciando... Ciascuna di queste modalità testimonia il tipo di legame che si è instaurato tra le persone assumendo significati e finalità diversi in funzione del contesto, pubblico o privato. Le sequenze di contatto reciproco vengono distinte dai contatti individuali, poiché costituite da serie di azioni di contatto reciproco in successione, sono parti di una stessa interazione, in un rapporto fra pari, e uno stato di forte tensione generato dal sapere che si sta affermando il falso può determinare nel mentitore la dilatazione delle pupille, l’accelerazione dell’ammiccamento delle palpebre o la tentazione di volgere lo sguardo altrove per non incrociare quello dell’interlocutore. Tuttavia, poiché è notoriamente risaputo che lo sguardo sfuggente è indice di menzogna chi mente cercherà di sostenere lo sguardo dell’altro oppure indirizzerà gli occhi su qualsiasi altro oggetto. Per concludere, è importante sottolineare che è rischioso basarsi unicamente sugli indici comportamentali descritti, in quanto nessuno di questi è attendibile in assoluto e valido per tutti: è necessario comparare sistematicamente le situazioni in cui le singole persone sono a loro agio e in tranquillità con le circostanze in cui si sospetta che mentano, per valutarne le differenze. Inoltre, è fondamentale basarsi sull’interazione di una molteplicità di indici e non fare affidamento ad uno solo di questi, che potrebbe unicamente portare alla formulazione di un giudizio di non assoluta certezza. CAPITOLO 4 - LA COMUNICAZIONE PERSUASIVA Man mano che si cresce, la natura e l’entità dei bisogni diventano sempre più complessi e di conseguenza variano anche le modalità per esprimerli: le capacità comunicative si perfezionano divenendo sempre più affinate e strategicamente orientate agli obiettivi prefissati. La comunicazione non è sempre esplicita e diretta e può vantare uno straordinario effetto persuasivo quando i messaggi che vengono veicolati inducono, senza costrizione né violenze, cambiamenti e riorganizzazioni negli atteggiamenti e nei comportamenti degli individui cui sono rivolti (es: campagne di propaganda politica o di marketing). 1. LA PERSUASIONE: TRA ATTEGGIAMENTO E COMPORTAMENTO Secondo il senso comune potrebbe esistere una relazione diretta tra atteggiamento e comportamento (es: se mi dichiaro paladina degli animali non dovrei comprarmi una pelliccia). Tale relazione non è però immediata. Richard LaPiere in una sua ricerca ha dimostrato l’esistenza di una discrepanza notevole tra l’atteggiamento esplicito delle persone e il loro comportamento: non è possibile prevedere il comportamento che verrà effettivamente messo in atto da un individuo sulla base del suo atteggiamento dichiarato. Anche Wicker ha evidenziato che l’associazione tra le due variabili risulta statisticamente debole. In conseguenza di tali risultati, gli studiosi hanno iniziato ad avanzare perplessità in merito al costrutto dell’atteggiamento e alla sua efficacia; la loro attenzione si concentrò allora sui contesti, le modalità e le condizioni che rendevano possibile il recupero dell’idea di atteggiamento come predittore del comportamento. Secondo un modello “tripartito”, gli atteggiamenti sono valutazioni generali su un oggetto, su una persona e su un evento, che hanno alla loro base componenti affettive, cognitive e comportamentali. La componente affettiva si riferisce ai sentimenti o emozioni associati a un oggetto, la componente cognitiva riguarda informazioni, credenze e pensieri che un individuo possiede in merito ad un particolare oggetto, la componente comportamentale si riferisce ai comportamenti passati nei confronti dell’oggetto di atteggiamento. 2. LA TEORIA DELL’ASPETTATIVA-VALORE Nel paradigma aspettativa-valore elaborato da Fishbein e Ajzen la centralità delle credenze è essenziale per comprendere in che modo e secondo quali modalità avviene l’elaborazione delle valutazioni implicate negli atteggiamenti. Dunque, il significato valutativo di un atteggiamento affiori inevitabilmente durante il processo cognitivo di formazione delle credenze su un determinato oggetto. L’atteggiamento è la sintesi delle credenze che un individuo possiede rispetto ad un certo oggetto: concetto legato ad un modo di sentire costante verso un oggetto, persona, situazione. Le credenze rappresentano le informazioni che un individuo possiede in merito a un determinato oggetto o a una certa persona o situazione: sono le informazioni che la mente elabora. Le credenze possono essere considerate come l’unione imprescindibile di 2 fattori: • aspettativa: la probabilità percepita, e quindi soggettiva, che un certo oggetto abbia determinati attributi o che un determinato evento riguardante l’oggetto in esame si verifichi. La valutazione di questa probabilità può essere espressa con punteggi che variano da 0 (impossibile) a 1 (sicuro).  Esempio: se l’oggetto è spostarsi in bicicletta in città, il relativo atteggiamento potrà dipendere da aspettative come: muoversi agevolmente nel traffico cittadino, fare moto e attività sportiva, inalare grandi quantità di smog, esporsi al pericolo di incidenti stradali; • valore: la valutazione di desiderabilità che l’individuo fa degli attributi o delle caratteristiche dell’oggetto in esame. La valutazione può essere positiva o negativa e pertanto il valore può essere espresso con un punteggio che va da un minimo di -3 ad un massimo di +3.  La probabilità che un individuo metterà in atto uno specifico comportamento è data dalla somma dei prodotti “aspettativa x valore”, per ciascuna credenza. 3. LA TEORIA DELL’AZIONE RAGIONATA Fishbein e Ajzen elaborano la teoria dell’azione ragionata, basata sul modello dell’aspettativa-valore (che Ajzen perfezionerà poi nel modello del comportamento pianificato, in cui, accoglie le istanze provenienti dalle ricerche intorno al controllo dell’azione). Con questa teoria definiscono che l’idea di una relazione fra atteggiamento e comportamento può essere recuperata se si perfezionano i parametri utilizzati nella ricerca e si prescinde dalla questione, eccessivamente ampia, relativa all’esistenza di una relazione diretta tra atteggiamento e comportamento. Solo con una correzione del metodo sarà possibile riconoscere una rispondenza tra atteggiamento e comportamento, tra aspetti cognitivi e azioni. Un aspetto importante concerne la differenziazione tra oggetto e azione: si deve studiare l’atteggiamento in quanto esso è indirizzato non già verso un oggetto considerato in generale, ma verso un’azione. L’elemento innovativo del modello consiste nel considerare i processi intenzionali fondamentali nel dar conto dell’associazione tra atteggiamento e comportamento: infatti, il comportamento degli individui ha carattere di razionalità e si fonda su degli effetti che dai comportamenti possono derivare (es: reazioni di altri individui). L’intenzione soggettiva determina il comportamento delle persone, che deriva dall’intenzione a metterlo in atto: gli individui agiscono basandosi sulle proprie intenzioni e, pertanto, per comprendere il loro atteggiamento verso determinato oggetto, sarebbe sufficiente chiedere loro cosa intendono fare in merito. Il comportamento programmato risulta necessariamente associato con le intenzioni ed è probabile che, chi è orientato ad avere un certo comportamento, lo adotterà effettivamente. Se il comportamento è funzione dell’intenzione, essa, a sua volta, è determinata dall’atteggiamento verso il comportamento, cioè la valutazione soggettiva del comportamento, e dalle norme soggettive, intese come le credenze personali circa modalità in cui ti ritiene che altri possono giudicare il comportamento.  Il fattore atteggiamento si riferisce al modo in cui l’individuo si pone nei confronti del comportamento. L’atteggiamento verso il comportamento è determinato dalle credenze sulla probabilità degli esiti del comportamento stesso: ha una relazione diretta sia con l’aspettativa che il comportamento produca un effetto desiderato, sia con il valore associato a questa conseguenza. Le norme soggettive rappresentano le percezioni dell’individuo circa le aspettative che ritiene siano presenti negli altri significativi (parenti, familiari, amici) riguardo l’attuazione del comportamento. Questo modello spiega i processi di formazione degli atteggiamenti secondo una prospettiva essenzialmente razionale, ma, ciò nonostante, è stato oggetto di critiche: non sembrava poter essere utilizzato per spiegare i comportamenti intrapresi in modo irrazionale. 4. LA TEORIA DEL COMPORTAMENTO PIANIFICATO L’agire degli individui, secondo la teoria dell’azione ragionata, presuppone che le persone siano capaci di analizzare razionalmente le informazioni assumendo decisioni consapevoli. Nella realtà possono esserci comportamenti poco o per niente ragionate e controllabili, come per esempio i comportamenti automatici legati all’abitudine (guidare o mangiare), quelli connessi a forme di dipendenza (alcolismo) o collegati alle emozioni (arrossire in volto, sudorazione delle mani).  Ajzen, per rispondere alle critiche e dare conto dei comportamenti fuori dal controllo diretto, concepisce un nuovo modello del comportamento pianificato, che prevede che l’intenzione ad agire sia influenzata da 3 fattori: 1) atteggiamento verso il comportamento, 2) norme soggettive 3) controllo comportamentale percepito. I primi 2 fattori coincidono con quelli previsti dal modello dell’azione ragionata. L’elemento di originalità introdotto è il terzo fattore, riguardante il controllo comportamentale percepito dell’agire, una dimensione bipolare concepita come un continuum: ad un estremo sono collocati gli atti sui quali il soggetto esercita un controllo totale (es: acquistare un vestito), all’altro quelli su quali il controllo è pari a zero (es: abbassamento temperatura corporea quando si ha la febbre).  Il controllo comportamentale non deriva solo dal controllo oggettivo riguardo all’azione, ma anche dalle cosiddette credenze di controllo: percezioni soggettive, legate a fattori personali o situazionali, intorno alla capacità di controllare ogni specifico comportamento, che sono influenzate da molteplici aspetti e dipendono da quanto l’individuo ha esperito nel passato, dalla sua valutazione di impedimenti e di risorse e dalle opinioni delle altre persone. 2 modalità attraverso le quali il controllo comportamentale influisce sul comportamento:  indiretta: il comportamento influenza l’intenzione di un individuo di agire, in quanto chi progetta una determinata azione si basa sulla fiduciosa convinzione che le proprie risorse, abilità e capacità gli consentiranno di metterla in atto;  diretta: il controllo comportamentale percepito ha delle conseguenze dirette sul comportamento; il reale controllo dell’azione condiziona inevitabilmente il comportamento stesso. Fishbein e Ajzen hanno messo in luce degli aspetti connessi con la comunicazione persuasiva. Il comportamento, non risulta derivare direttamente dagli atteggiamenti, ma è l’esito della interazione di una molteplicità di altri fattori. Per potersi dire efficaci, i messaggi persuasivi dovrebbero pertanto tener conto di questa complessa varietà di elementi interconnessi e basarsi su contenuti capaci di influenzare le intenzioni dei destinatari sia sul piano cognitivo (atteggiamenti), sia sul piano comportamentale. 5. PRIMI STUDI SUI PROCESSI PERSUASIVI Intorno alla metà del Novecento, l’indagine sulla comunicazione persuasiva si è potuta avvalere di nuovi strumenti metodologici la cui elaborazione ha coinciso con lo sviluppo della psicologia sociale. Da quel momento in poi, i processi persuasivi sono divenuti oggetto di studi sistematici basati su paradigmi sperimentali  post-decisionale: avviene in situazioni di libera scelta quando si decide tra due alternative. Allo scopo di attenuare l’effetto di questo tipo di dissonanza, l’individuo, a posteriori, seleziona informazioni, notizie e motivazioni a sostegno della scelta compiuta e, analogamente, scredita l’alternativa scartata;  prodotta da comportamenti contro-attitudinali: esempio classico del tabagismo  coloro che fumano (comportamento messo in atto) sono consapevoli (aspetto cognitivo) che tale condotta nuoce gravemente alla loro salute. Per ridurre l’effetto spiacevole derivante dalla dissonanza si può scegliere tra le seguenti opzioni: • produrre un cambiamento nell’ambiente circostante nel tentativo di modificare la relazione esistente tra comportamento e atteggiamento. Un cambiamento di questo tipo di risulta la maggior parte delle volte impossibile attuare (fare in modo che il fumo non danneggi più la salute modificando i principi attivi presenti nel tabacco pur mantenendo inalterato il sapore); • produrre un cambiamento nel proprio comportamento (smettendo di fumare si ristabilirebbe immediatamente lo stato di consonanza); • produrre un cambiamento al livello cognitivo relativo alle opinioni e agli atteggiamenti che risultano in dissonanza con i comportamenti (per continuare a fumare senza percepire costantemente il fastidio prodotto della dissonanza cognitiva, selezionare memorizzare tutte quelle informazioni a sostegno del fumo, sfuggendo tutte quelle notizie che invece ne sottolineano la pericolosità). Per Festinger, solo se l’individuo è convinto di aver liberamente messo in atto il comportamento dissonante con le sue opinioni e credenze sarà motivato a mutarlo. La teoria della reattanza, formulata da Brehm, illustra gli effetti della limitazione della libertà di scelta e di azione sugli individui. Proibire a una persona di agire in un determinato modo, causerebbe la reattanza, cioè una spinta motivazionale forte a ristabilire il senso di libertà: il comportamento sanzionato viene considerato più desiderabile e di conseguenza agito con maggiore frequenza. Tornando all’esempio del tabagismo, secondo la teoria, sarebbe assolutamente da evitare una linea proibizionista nei riguardi del fumo: ci si potrebbe aspettare non solo un incremento la parte dei fumatori del loro comportamento, ma anche che l’attività stessa di fumare appaia maggiormente appetibile e attraente. Secondo la teoria della reattanza, in termini persuasivi risulta più efficace un messaggio indiretto, ovvero indirizzato ad altri, piuttosto che uno diretto indirizzato a noi personalmente: quando è diretto ad altri, non percependo il senso di reattanza, possiamo valutare con distacco il contenuto del messaggio. 8. LA TEORIA DELLA RISPOSTA COGNITIVA Secondo la teoria della risposta cognitiva di Greenwald, la formazione ed il cambiamento degli atteggiamenti sono riconducibili alle elaborazioni cognitive compiute dall’individuo in relazione agli stessi atteggiamenti: discendono dalle soggettive valutazioni razionali degli elementi positivi e degli elementi negativi in un determinato atteggiamento. Con i loro argomenti, i messaggi persuasivi sono capaci di produrre un cambiamento di atteggiamento, in quanto provocano nell’individuo delle reazioni che lo inducono ad aderire alla visione ritenuta più vantaggiosa. Quando si è esposti ad una comunicazione e si riceve un messaggio, si associa quanto viene comunicato a quanto già si sa; ai diversi argomenti che compongono il messaggio si reagisce con una serie di pensieri a favore o contro. L’esito di questo processo fa sì che gli elementi cognitivi in gioco, relativi alla valutazione, l’elaborazione e l’associazione delle informazioni risulta in gran lunga maggiore rispetto alla somma degli interventi più contenute nel messaggio. Il cambiamento di atteggiamento discende da tali processi mentali che l’individuo autonomamente avvia e non è determinato direttamente dall’entità delle informazioni ricevute. La capacità persuasiva del messaggio è maggiore se il suo contenuto richiama alla mente pensieri favorevoli. Il cambiamento di atteggiamento non è funzione della minore o maggiore ricezione degli argomenti, ma è influenzato dalla quantità e dalla qualità dei pensieri evocati dalle informazioni contenute nel messaggio persuasivo.  Nel loro studio della persuasione, i ricercatori dell’Ohio State University hanno sperimentato un elenco dei pensieri, un metodo grazie al quale fosse possibile misurare le risposte cognitive, ritenute alla base dei mutamenti di opinione. Hanno dimostrato che esiste una correlazione tra il grado di accordo dei pensieri (favorevoli o contrari) con gli argomenti presentati nel messaggio e l’entità del cambiamento di atteggiamento. Gli studiosi estesero, quindi, la nozione di risposta cognitiva rispetto a precedenti concettualizzazioni: grazie a questo affinamento del modello della risposta cognitiva, l’assenza di una relazione diretta fra il ricordo degli argomenti e mutamento degli atteggiamenti trovò una spiegazione. Infatti, non è la ricezione delle informazioni a produrre il cambiamento degli atteggiamenti, ma le risposte cognitive, ossia i pensieri, che le informazioni evocano nel ricevente. I pensieri che si presentano come reazioni al contenuto del messaggio, e sono tali da poter influenzare l’atteggiamento, sono classificabili in 3 categorie: • contro-argomentazioni : pensieri in cui è espresso un disaccordo rispetto al testo; • argomentazioni di supporto: pensieri che esprimono l’accordo); • discredito della fonte: pensieri con i quali la fonte del testo viene discreditata. 9. I MODELLI DUALI DELLA PERSUASIONE Intorno agli anni Ottanta, sono state condotte importanti ricerche che hanno portato alla creazione di 2 modelli teorici che si proponevano di poter dare conto di come la comunicazione persuasiva potesse avvenire attraverso percorsi differenti: 1) il modello della probabilità di elaborazione; 2) il modello euristico sistematico. 1) IL MODELLO DELLA PROBABILITÀ DI ELABORAZIONE (ELM) La persona che riceve un messaggio comunicativo deve compiere una scelta, accogliendo o meno il punto di vista in esso contenuto. Secondo il modello della probabilità di elaborazione (ELM), nel tentativo di formulare un proprio giudizio, le persone possono impiegare 2 differenti e alternativi processi di elaborazione:  percorso centrale: il processo prevede che le informazioni e le argomentazioni siano attentamente elaborate ed esaminate: gli individui considerano ed esplorano il contenuto del messaggio persuasivo, valutano criticamente e in maniera sistemica il messaggio, provano a richiamare alla memoria le loro precedenti conoscenze intorno all’argomento, collegano le loro conoscenze alle nuove informazioni e ne traggono valutazioni. È basato su un’elaborazione consapevole delle informazioni e genera duraturi cambiamenti dell’atteggiamento e del comportamento;  percorso periferico: questo processo non implica un’elaborazione sistematica, il giudizio delle persone viene formato sulla base di indici situazionali e informazioni contestuali, rappresentate dalla credibilità, dall’attendibilità della fonte, dal coinvolgimento emotivo indotto dalle immagini ecc …  Questo percorso è caratterizzato da un’elaborazione segnata da uno sforzo cognitivo limitato: gli elementi per esso rilevanti non hanno rapporto diretto con l’argomento, costituiscono piuttosto informazioni di sfondo.  Il termine “elaborazione”, utilizzato da Petty e Cacioppo, pone l’accento sull’aspetto di riflessione intorno alle informazioni da parte di chi riceve il messaggio. gli autori pongono i due percorsi ai due estremi di un continuum che si estende da strategie ragionate a strategie non ragionate: da una parte quindi le argomentazioni proposte vengono ponderate, dall’altra si considerano gli indici periferici del messaggio. I due modelli tendono ad escludersi reciprocamente: caso per caso gli individui scelgono di adottare questo o l’altro.  Nel determinare la probabilità che un individuo analizzi modo critico e accurato le argomentazioni espresse da un messaggio, hanno proposto 2 ordini di fattori: 1) la motivazione all’elaborazione, 2) le abilità cognitive. I messaggi che hanno per l’individuo una notevole importanza sono quelli ai quali, con maggiore probabilità, tenderà a rivolgere l’attenzione. Se si è poco motivati a comprendere il contenuto di un messaggio, si può scegliere di risparmiare risorse, adottando il percorso periferico (e viceversa). Ma essere motivati non è sufficiente: l’individuo deve anche possedere l’abilità cognitiva per l’elaborazione del messaggio: sono necessarie diverse risorse cognitive come prestare attenzione, comprendere ecc … Tuttavia, le abilità cognitive riguardano anche condizioni contingenti che, in un determinato momento, influiscono sulla qualità dello sforzo cognitivo nel quale gli individui hanno la capacità di impegnarsi.  Gli autori hanno elaborato, inoltre, una scala atta a calcolare il bisogno di cognizione: di fronte ad un messaggio persuasivo, gli individui con un alto bisogno di cognizione percorrono di preferenza la via centrale della persuasione impegnandosi in un esame della validità delle argomentazioni proposte. Al contrario, gli individui con un basso bisogno di cognizione si arrestano agli indici periferici del messaggio e ai suoi elementi superficiali, giungendo a una valutazione finale con un risparmio notevole di energia mentale (percorso intrapreso anche quando il messaggio non è comprensibile o se si dispone di poco tempo!). Un ulteriore fattore che può condizionare la scelta del percorso è costituito dall’umore: esso può influenzare tanto le capacità cognitive quanto le motivazioni. Un umore positivo inibisce la capacità di elaborazione propria del percorso centrale e predispone gli individui a prendere in considerazione prevalentemente i fattori periferici; viceversa, un umore neutro permette un’elaborazione delle informazioni attraverso il percorso centrale, attenuando quelli del percorso periferico. 2) IL MODELLO EURISTICO-SISTEMATICO (HSM) Quasi contemporaneamente al modello della probabilità di elaborazione, Shelly Chaiken elaborava un approccio esplicativo del processo di persuasione, il modello euristico-sistematico (HSM). Anche la prospettiva euristico-sistematica è un modello duale, prefigura cioè l’impiego di 2 processi con i quali l’individuo giunge a esprimere un giudizio intorno alla validità di un messaggio finalizzato a modificare l’atteggiamento. Questo modello prevede però la possibilità della compresenza delle 2 modalità di elaborazione.  Analogamente al percorso centrale dell’ELM, il primo processo implica un’apertura mentale verso lo sforzo cognitivo e prevede l’elaborazione sistematica delle informazioni contenute nel messaggio: gli argomenti vengono analizzati e si riflette con cura sulle conclusioni. Nell’elaborazione sistematica, le conclusioni di un messaggio vengono accettate o rifiutate, dopo che sono state accettate o rifiutate le argomentazioni che supportano tali conclusioni.  L’altra modalità di elaborazione è costituita da informazioni alle quali l’individuo può accedere agevolmente: senza investire direttamente il contenuto del messaggio, tali informazioni si configurano quali regole di decisione, o euristiche (scorciatoie cognitive che facilitano la decisione in quanto abbreviano la durata dell’elaborazione delle informazioni). L’elaborazione euristica può eliminare la mediazione dell’esame delle argomentazioni: si può arrivare a un giudizio semplicemente confrontando senza mediazioni le conclusioni e la regola a disposizione di chi riceve il messaggio. Anche nel modello euristico-sistematico, capacità cognitive dell’individuo e motivazione costituiscono fattori decisivi. Quando l’esigenza di avere giudizi accurati supera l’esigenza di risparmio di risorse cognitive, si ha la prevalenza del percorso sistematico contro quello euristico; questa esigenza procede all’aumento del convincimento indotto dall’importanza degli esiti per la propria persona. L’utilizzo delle regole euristiche è vincolato ad alcune condizioni basilari: l’individuo nel passato deve aver appreso e immagazzinato nella memoria la regola da utilizzare (disponibilità), questa deve poi essere richiamata nella situazione appropriata (accessibilità). Una regola disponibile accessibile deve essere percepita come affidabile (applicabile), ossia come in qualche modo rilevante nel caso particolare di cui si tratta (percezione di affidabilità). Quando non ci sono tutte le condizioni (abilità cognitiva, motivazione, accessibilità e disponibilità euristiche e percezione di affidabilità), è possibile che il proprio giudizio sia raggiunto contemporaneamente attraverso due percorsi. gli effetti congiunti che derivano da un simile modo di procedere possono essere di vario genere. Gli effetti esercitati dalle due modalità di elaborazione possono essere fra loro indipendenti o (per atteggiamento, classe sociale, stili di vita) agiscono quindi come fattore deresponsabilizzante. Esiste anche la versione patologica del principio della riprova sociale: a seguito di numerosi casi di suicidi che avevano avuto una maggiore risonanza sui mezzi di comunicazione negli Stati Uniti si sono verificati aumenti di suicidi. Il potere del principio di riprova sociale è utilizzato in molti altri ambiti della vita sociale e spesso si basa su principi incoraggianti: in campo televisivo ad esempio per invogliare a ridere al momento giusto di utilizza l’incisione di risate finte su un filmato. Oppure, se viene richiesto di fare una donazione e si rende nota la lista dei precedenti donatori, questo faciliterà l’adesione alla donazione. Anche dal punto di vista commerciale e pubblicitario, le tecniche basate sul principio di riprova sociale hanno un grande potere: far credere che un prodotto abbia un grande successo è il modo migliore per venderlo  se piace agli altri, oltre ad essere una garanzia, è un incitamento a comportarsi allo stesso modo. Il principio è stato utilizzato anche a fini terapeutici: negli anni ‘60 fu applicato la cura delle fobie nei bambini dimostrando che i bambini che avevano terrore dei cani superavano in soli quattro giorni nei loro fobie osservando il loro coetaneo che giocava felicemente con un cane. 4) SIMPATIA Il principio della simpatia afferma che delle persone che ci piacciono, o che sono simili a noi, ci possiamo fidare e pertanto siamo disposti ad accettare una loro richiesta o consiglio. Queste persone riusciranno più facilmente delle altre a convincere, ad essere persuasive. Vi sono particolari elementi che suscitano un effetto simpatia, tra questi vi è la bellezza (alla persona fisicamente attraente vengono conferite altre prerogative positive come il talento, la gentilezza e l’intelligenza). Un ulteriore elemento da tener presente è dato dalla somiglianza: mostrare di condividere i modi di sentire e di pensare del prossimo produce una reazione di simpatia. Perfino l’abbigliamento può essere un elemento discriminante. Anche i complimenti sono molto efficaci per indurre simpatia: ci piacciono le persone alle quali supponiamo di piacere. Altri elementi atti a suscitare un effetto di simpatia sono il contatto e la cooperazione: le persone con cui abbiamo più contatti sono quelle a cui più volentieri ricordiamo il nostro favore, il nostro atteggiamento verso una cosa è influenzato dal numero di volte che vi siamo stati esposti in passato. I principi del condizionamento e dell’associazione sono fondamentali nel creare simpatia. Persone e cose percepite come fra loro collegate tendono a generare le risposte automatiche determinate dall’associazione.  Per ciò che concerne il cibo, è stato dimostrato che i soggetti sono più favorevoli a cose e a persone presentate loro mentre stanno mangiando (associazione con il cibo ampiamente sfruttata in ambito politico). 5) AUTORITÀ L’obbedienza all’autorità è un fattore indispensabile per la sopravvivenza e lo sviluppo della società. Siamo educati fin dalla nascita pensare che obbedire alle autorità legittima è giusto, disobbedire sbagliato. L’autorità è un importante fattore di persuasione. Le persone hanno un radicato senso di deferenza verso le autorità che considerano legittima e tendono a seguire gli esempi da questa impartiti, anche quando palesemente contrari alle norme socialmente condivise.  Secondo il principio dell’autorità, le persone tendono ad affidarsi a esperti ritenendo che le risorse e le informazioni da essi possedute siano sufficienti per giustificare comportamenti di obbedienza o di emulazione. Inoltre, l’affidarsi a esperti è ritenuto vantaggioso nel momento in cui si devono prendere decisioni e, in situazioni in cui le informazioni a disposizione sono poche e confuse, agisce da vera e propria euristica. Titoli, abiti e ornamenti rappresentano i simboli e i segni esteriori del potere e dell’autorità. 6) SCARSITÀ Molte ricerche nel campo della psicologia sociale hanno confermato che le persone, quanto meno possono entrare in possesso di un qualcosa perché raro e poco accessibile o quando per ottenerlo devono entrare in competizione con altri, tanto più lo desiderano e il timore di restarne privi prevale sull’idea di ricavare un effettivo vantaggio nell’ottenerlo (es: i collezionisti sono disposti a pagare qualsiasi cifra pur di accaparrarsi oggetti razionalmente senza valore, è la loro unicità a renderli speciali). In ambito commerciale e pubblicitario si utilizza la tattica del numero limitato o dell’offerta valida per pochi giorni, con la quale si sollecita il pubblico a cogliere quell’opportunità prima che finisca.  Questo comportamento diffuso trae forza da 2 fattori: • inclinazione degli individui ad intraprendere una scorciatoia cognitiva sapendo che le cose difficili da possedere sono di norma migliori di quelle facilmente accessibili: si è portati a credere che ci sia una proporzionalità diretta tra rarità e qualità; • fenomeno della reattanza psicologica, in base al quale quando si ritiene che la libertà di comportamento sia limitata o minacciata, si reagisce volendo a tutti i costi godere di quella libertà; così, quanto più un oggetto è presentato come caratterizzato da disponibilità limitata tanto maggiore sarà il gradimento che incontrerà.  11. COMUNICAZIONE E MARKETING Le analisi di marketing individuano quali prodotti e servizi interessano ai clienti o utilizzatori e studiano le strategie di vendita e di comunicazione. Una decisione di marketing implica una certa tipologia di destinatario, per questo destinatario la comunicazione dovrà essere pensata e immaginata; in tal senso, le strategie di marketing condizionano le strategie di comunicazione. Secondo l’economista James Deusenberry, l’atteggiamento delle persone è influenzato fortemente da fattori psicosociali: l’imitazione del comportamento di altri appartenenti alla stessa cultura ne è un esempio. Inoltre, sebbene di nessuna utilità, esistono beni investiti in una speciale valenza (psicologica, culturale, sociale), la cui acquisizione può essere vitale all’acquisizione di prestigio o il mantenimento dell’autostima. Nel periodo fra le due guerre mondiali, allo sviluppo industriale corrisponde un notevole ampliamento dell’offerta di prodotti che non riguarda più solamente beni di prima necessità: la grande varietà di beni e servizi rende progressivamente sempre più difficoltoso ricondurre le decisioni a una gamma ristretta di tipologie di consumatori individuati in base a criteri sociologici e culturali dai quali potersi aspettare comportamenti di acquisto stabili e prevedibili ai quali indirizzare specifiche strategie di comunicazione. Gli atteggiamenti costituiscono una modalità importante attraverso cui le persone esprimono valori, priorità, desideri. Sempre più il consumatore tende ad associare la scelta di un prodotto a un insieme di valori. Parallelamente, si assiste anche a un cambiamento nel modo di concepire la comunicazione, che, anziché focalizzarsi sul consumatore, sempre più si concentra sul prodotto. Al prodotto è associata una serie di benefit (es: bellezza, successo) che si ha la sensazione di acquisire acquistando il prodotto, diventando più belli, più sani, più giovani ecc... La comunicazione inizia a fare leva sulle promesse che un determinato prodotto è in grado di offrire. Le principali funzioni svolte dalla comunicazione di marketing sono: • attirare attenzione: l’incremento esponenziale delle informazioni degli ultimi anni ha generato un eccesso di informazioni di fronte al quale il possibile consumatore rischia di non potersi orientare, di fronte a questo sovraccarico, l’economia dell’attenzione è utilizzata nelle applicazioni di internet, in cui è finalizzata alla gestione ottimale del flusso di informazioni: se all’utente di un’applicazione che sta cercando un’informazione, viene richiesta una quantità di tempo che giudica eccessiva, tenderà a indirizzarsi verso un’altra applicazione. Di qui la necessità di elaborare filtri e accorgimenti in grado di assicurare che i primi contenuti visualizzati corrispondano ai contenuti che l’utente verosimilmente riterrà per lui maggiormente significativi; • informare: la funzione relativa all’informazione concerne il compito tradizionale della comunicazione, quello cioè di fornire al potenziale consumatore i dati oggettivi sulla base dei quali dovrà compiere le proprie scelte; • essere ricordata: la comunicazione deve poter essere ricordata: non solo le caratteristiche dei prodotti devono poter essere richiamate alla memoria, ma anche i nomi, i marchi, e tutto ciò che circonda e definisce i prodotti; • persuadere: capacità connessa solo parzialmente ai dati obiettivi trasmessi nell’informazione: affinché una comunicazione sia, non solo oggetto di attenzione, compresa e ricordata, ma anche in grado di persuadere, è necessario che essa assolva a una serie di condizioni. Il pubblico deve percepire la fonte della comunicazione come autorevole e deve associare al messaggio elementi positivi, cognitivi ed emozionali. 2 modalità, che possono combinarsi, con cui la comunicazione si rapporta al comune al consumatore:  tradizionale: è caratterizzata dalla focalizzazione sul momento dell’informazione e caratteristica di una fase della produzione precedente alla comunicazione di massa. Prevede che l’esposizione del messaggio da parte dell’azienda avvenga nello stesso punto vendita attraverso la una figura che assolve la doppia funzione di venditore e consulente che si incarica di informare il cliente sulle caratteristiche prodotto. La comunicazione è essenzialmente di tipo informativo;  caratteristica della società dei consumi di massa: è caratterizzata dall’orientamento alla persuasione piuttosto che all’informazione. Il contatto comunicativo tra l’azienda e il cliente oltrepassa la distribuzione e il punto vendita (contattati dal cliente solo in seguito al messaggio comunicativo) utilizzando come canali i mass media. La modalità è immaginata per un pubblico ampio.  La distinzione tra le due modalità corrisponde alla distinzione tra percorso centrale e percorso periferico nel modello della probabilità di elaborazione di Petty e Cacioppo. Le strategie di comunicazione sono condizionate dalle strategie di marketing, nella sua classica analisi, Maslow individua 5 livelli di bisogni dei potenziali acquirenti: 1) fisiologici (fame, sete); 2) di sicurezza (elementare della persona); 3) sociali (appartenenza, affetto); 4) di stima (status, autostima); 5) di autorealizzazione (realizzazione di aspirazioni intime e individuali). La struttura prevede un’organizzazione gerarchica: non è possibile accedere al soddisfacimento di un bisogno se prima non se ne è soddisfatto uno situato a un grado inferiore della scala gerarchica. La gerarchia di Maslow è stata criticata per un eccesso di schematicità, in quanto non considera il fattore dell’intensità dei bisogni e la variabilità culturale delle gerarchie. I bisogni sono fattori dinamici: il loro soddisfacimento non vale per sempre, ma è ristretto a periodi di tempo limitati; inoltre, il soddisfacimento di uno di essi ne genera immediatamente altri, oppure li porta in primo piano. Il processo di decisione, ossia la scelta di un determinato prodotto, è condizionata all’individuazione, da parte del consumatore, dell’esistenza di un problema costituito dalla percezione di uno scarto fra lo stato attuale e stato ideale. Indurre a immaginare un nuovo stato ideale o produrre insoddisfazione nei confronti dello stato attuale sono compiti della comunicazione commerciale, che deve però anche proporre il bene oggetto della comunicazione come l’unico capace di risolvere il conflitto determinato dallo scarto fra i due stati. Nella pubblicità subliminale, la persuasione viene ottenuta attraverso la presentazione a un individuo, nel corso di una proiezione, di parole-stimolo per una frazione di tempo limitata, cosicché il soggetto, senza averne la consapevolezza, è in grado di registrare la valenza semantica dello stimolo ricevuto. La pubblicità può dirsi efficace quando riesce a determinare nel consumatore, in seguito all’esposizione a una comunicazione strategicamente orientata alla persuasione, scelte di acquisto consapevoli che riguardano specifiche marche e prodotti. Secondo Patty e Cacioppo il grado di coinvolgimento non dipende tanto dai singoli prodotti presentati nel messaggio quanto piuttosto dalla specifica individualità dei consumatori. 12. LA PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA atteggiamento falsamente accogliente; 2) considerazione positiva incondizionata: fornire un supporto e un’accettazione dell’utente/cliente indipendentemente da ciò che dice e che fa. Aspetti di positività durante l’interazione: comprensione, interessamento, partecipazione, coinvolgimento. L’operatore dovrebbe considerare il cliente/utente degno di riguardo e considerazione, in quanto persona, e non in funzione del suo comportamento, difficoltà o specifiche circostanze. L’atteggiamento positivo che l’operatore deve assumere è paragonabile al modo di porsi di una madre sicura, che stima, apprezza ed esalta il proprio figlio. Questa propensione non implica minimamente che l’operatore debba essere passivamente neutrale e insensibile ad aspetti etici e morali che il cliente/utente può affrontare, l’operatore deve poter creare le condizioni in cui sia possibile attuare una sospensione del giudizio, ovvero una sorta di messa tra parentesi dei pregiudizi comuni e delle conoscenze riconducibili ai vari costrutti teorici, al fine di cogliere la dimensione in cui fenomeni e l’esperienza si manifestano. In questa situazione, il cliente/utente non sentendosi giudicato puoi esprimere aspetti problematici e dolorosi del proprio Sé, altrimenti non mostrati, di cui inevitabilmente prenderà coscienza; 3) empatia: l’operatore riesce, seguendo un processo volontario e consapevole, a immedesimarsi nei panni del cliente/utente, a cogliere il suo stato d’animo, la tonalità del suo umore, le sue emozioni e i suoi sentimenti, non tenendo conto esclusivamente del suo eloquio, ma considerando anche i suoi aspetti non verbali. L’operatore, durante questo processo, non deve mai perdere il contatto con sé stesso, con le proprie percezioni e con la propria identità personale, che non deve confondere in nessun modo con quella del cliente/utente. L’empatia, favorendo un contesto relazione positivo, permette di entrare in un contatto emotivo intimo con il cliente/utente, che sperimenta un effettivo atteggiamento empatico da parte dell’operatore percepisce i benefici immediati dovuti alla comprensione profonda dei suoi stati emotivi e consolida il suo rapporto di fiducia e può intraprendere costruttivamente il percorso di cambiamento. 3. I COMPITI DELL’OPERATORE NELLA RELAZIONE D’AIUTO La teoria dell’attaccamento elaborata da Bowlby costituisce una cornice concettuale particolarmente ricca e utile negli interventi basati sulla relazione d’aiuto, in particolare in ambito psicologico. La relazione che si instaura tra l’operatore e la persona, secondo la teoria dell’attaccamento, è il primo e più importante strumento capace di promuovere il cambiamento. È proprio grazie alla relazione che elementi come empatia, ascolto attivo e promozione dell’autonomia risultano efficaci (senza l’instaurarsi di una buona relazione, rischiano di rimanere meri espedienti tecnici). Una relazione positiva rappresenta il prerequisito fondamentale affinché il cliente/utente possa intraprendere un percorso di cambiamento. Gli operatori che intendono gestire al meglio la relazione dovrebbero rifarsi a quelli che Bowlby ha individuato come i compiti terapeutici più importanti:  porsi per il cliente/utente come base sicura da cui partire per esplorare sé stesso e l’ambiente circostante: al pari della madre, quindi, l’operatore, assumendo il ruolo di base sicura per il cliente/utente, deve offrire disponibilità, supporto, conforto emotivo per consentirgli di sperimentare, in condizione di sicurezza, il mondo esterno, la propria interiorità, le proprie relazioni con gli altri e le circostanze della vita che lo hanno portato a chiedere aiuto. Porsi come base sicura è essenziale, quindi, per creare il clima di fiducia necessario a mettere il cliente/utente in condizione di affidarsi all’operatore, instaurando una relazione affidabile, stabile e duratura che gli consenta di modificare il proprio assetto mentale e la propria prospettiva su di sé e sul mondo;  favorire il processo di esplorazione del cliente/utente: incoraggiandolo e sostenendolo nell’analizzare in che modo nella sua vita solitamente consolida rapporti con le persone significative;  stimolare il cliente/utente a considerare la particolare relazione che si instaura tra di loro: prendere in considerazione le dinamiche relazionali nel qui e ora della consulenza d’aiuto per consentire al cliente/utente di comprenderle e iniziare a modificarle all’interno della relazione protetta con l’operatore;  obiettivo come diretta conseguenza del terzo: l’operatore, dopo aver focalizzato l’attenzione del cliente/utente sulla relazione che si è instaurata tra di loro, incoraggia il cliente/utente a mettere a fuoco come i suoi comportamenti e atteggiamenti siano l’esito delle esperienze vissute nell’infanzia con le figure di attaccamento. Si innescherà un lungo processo durante il quale il cliente/utente dapprima comprenderà i comportamenti genitoriali che lo hanno portato a provare il suo disagio; successivamente, rendendosi conto di quali circostanze e situazioni emotiva nella vita dei genitori abbiano condizionato i loro comportamenti, proverà per loro compassione; infine, proverà per loro un senso di riconciliazione e perdono;  quando il processo riflessivo del cliente/utente è a uno stato avanzato, l’operatore lo potrà incoraggiare a prendere consapevolezza che alcuni aspetti dei suoi modelli mentali di sé e del mondo, che lo inducono a comportarsi costantemente secondo le medesime modalità, sono disfunzionali. Si potrà allora iniziare a lavorare per modificare tali modalità relazionali che impediscono al cliente/utente di interagire e di comportarsi in modo adeguato. 4. ELEMENTI CHE POSSONO METTERE IN CRISI LA RELAZIONE D’AIUTO ERRORI IN CUI L’OPERATORE PUÒ INCORRERE In ambito terapeutico, esistono degli elementi che ostacolano la comunicazione reciproca; in ambito relazionale, un operatore può compiere alcuni errori che rendono impossibile l’instaurarsi di una relazione stabile. Il primo errore che si può fare è sbagliare l’approccio iniziale con il cliente/utente: ciò avviene quando il professionista si mostra anaffettivo, distanziante e poco accogliente nei primi contatti. Poiché la prima impressione che il cliente/utente si forma tende a condizionare inevitabilmente la fase di costruzione della relazione, quest’aspetto diviene veramente importante, visto che le persone hanno un’estrema difficoltà a modificare successivamente l’idea che si sono fatti su di una persona in base alle prime impressioni. Il secondo è l’errore d’interpretazione, esso è commesso quando il professionista, troppo sicuro di sé e poco attento al cliente/utente, fallisce completamente l’interpretazione del punto di vista della persona che gli chiede aiuto: la tendenza a trovare velocemente conferme alle proprie teorie e la superficialità, impediscono di comprendere profondamente l’esperienza altrui e di vedere il mondo dalla sua prospettiva. Il terzo errore riguarda il linguaggio utilizzato: a volte gli operatori non sono in grado di aggirare gli attacchi verbali che i clienti/utenti muovono loro e di replicare in modo costruttivo e l’unica soluzione che trovano è quella di non rispondere, alimentando di più il disagio o l’ostilità. Altri aspetti problematici del linguaggio sono connessi con alcune modalità scorrette di conduzione come le domande inquisitorie (poste con un atteggiamento direttivo, spesso di tipo chiuso, che minano alla lunga la relazione con il cliente/utente) e le risposte risolutive (che l’operatore inesperto fornisce al cliente/utente proponendo o suggerendo lui stesso una soluzione, una strategia o un modo di comportarsi). Il quarto errore, uno dei più gravi, è legato al giudizio: far sentire la persona che chiede aiuto giudicata piuttosto che compresa e supportata. Gli operatori, quindi, non dovrebbero mai assumere un atteggiamento paternalistico e giudicante, e non dovrebbero mai lasciarsi influenzare da pregiudizi, norme morali ed etiche davanti all’accettazione assoluta dell’altro. Il quinto errore è credersi onnipotenti: convinzione irrazionale di essere noi a determinare i comportamenti, positivi o negativi, dei propri clienti/utenti. L’ALESSITIMIA La capacità di provare emozioni, riconoscerle negli altri ed esprimerle pienamente, rappresenta il presupposto fondamentale per comunicare e intrattenere relazioni interpersonali. Nella nostra società, però, si tende sempre più spesso a sminuire il ruolo delle emozioni; attualmente, c’è la tendenza a parlare moltissimo senza comunicare nulla; sono numerosi gli individui che si mostrano incompetenti emotivamente, non essendo in grado di percepire ciò che provano e di riconoscere nelle altre persone le stesse emozioni. L’incapacità di riuscire a entrare in contatto con il proprio e l’altrui mondo emotivo costituisce una seria fonte di disagio e sofferenza psichica. Medici e psichiatri hanno evidenziato che alcune persone che mostrano deficit importanti dell’elaborazione emotiva risultano, più di altre, difficili da trattare in una relazione d’aiuto. Questi individui sono definiti “alessitimici”. Sifneos conia il termine “alessitimia”, cioè “mancanza di parole per le emozioni”: l’alessitimia può essere considerata come un disturbo inerente all’analfabetismo emotivo. CARATTERISTICHE Le caratteristiche cognitivo-affettive che contraddistinguono le persone alessitimiche sono: • difficoltà a identificare le emozioni e distinguere fra sentimenti e sensazioni corporee; • difficoltà nel descrivere le emozioni agli altri; • scarsa immaginazione accompagnata da una povertà fantastica; • stile cognitivo formale, utilitaristico e orientato verso l’esterno. Questi pazienti manifestano una grave difficoltà nella differenziazione tra le differenti emozioni e nell’individuare l’intensità; passano da momenti di estrema scarsità emotiva a espressioni emotive repentine ed intense. Inoltre, mostrano un’incapacità a riconoscere le proprie rappresentazioni interne e, di conseguenza, anche una totale incompetenza riflessiva che impedisce loro di modificare il proprio punto di vista. Le ricerche hanno mostrato la prevalenza di alessitimia in 2 tipologie di pazienti: - pazienti affetti da disturbi di tipo nevrotico (disturbi alimentari, fobie, comportamenti ossessivo- compulsivi); - pazienti affetti da patologie psichiatriche (depressione, disturbo post-traumatico da stress). Ciò che li accomuna è la difficoltà a riconoscere i propri sentimenti e la mancanza di strategie cognitive volte a regolare le emozioni. Recentemente, diversi studi hanno messo in luce che in individui con alti livelli di alessitimia è presente la tendenza a riconoscere con lentezza le parole connotate emotivamente e a non ricordare vocaboli riferiti a sentimenti. Inoltre, l’alessitimia può svilupparsi nella primissima infanzia, per poi consolidarsi nel contesto sociale. Gli individui alessitimici sono prevalentemente centrati sulle proprie sensazioni corporee e, dal punto di vista cognitivo, tendenzialmente utilizzano minori risorse per elaborare e gestire le emozioni negative. EZIOLOGIA Sulla scia delle ricerche di Sifneos, l’eziologia di tale disturbo può essere rintracciata nella relazione instaurata dal bambino con la madre, sua figura di attaccamento. Le esperienze affettive inadeguate vissute nell’infanzia con le proprie figure di accudimento gettano le basi per un disturbo affettivo, causato dalla disregolazione emotiva. Secondo la teoria dell’attaccamento di Bowlby, la qualità del legame che, già durante il primo anno di vita, si instaura fra il bambino e colui che se ne prende cura ha un grande peso sul successivo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dell’individuo: un bambino che abbia sperimentato un legame sicuro risulta più collaborativo all’interno di un gruppo di coetanei. In questo senso, l’alessitimia dovrebbe essere associata all’attaccamento insicuro. Uno studio realizzato con l’obiettivo di analizzare l’interazione fra attaccamento, alessitimia e sviluppo del linguaggio interiore, (capacità di ragionare sui propri stati interni e di esprimerli verbalmente), ha evidenziato che i bambini con attaccamento sicuro mostravano di apprendere rapidamente sia gli aspetti emotivi che cognitivi del linguaggio adatto alla regolazione affettiva; i bambini insicuri e disorganizzati, invece, mostravano o un’assenza di linguaggio interno o un ritardo nell’uso del vocabolario emotivo. Per concludere si può affermare che un legame d’attaccamento sicuro, favorirebbe in quest’ultimo la capacità di modulare, integrare, esprimere le proprie emozioni; una figura di accudimento eccessivamente rigida e per nulla attenta allo scambio emotivo offrirebbe al bambino un modello relazionale PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE – tra informazione, persuasione e cambiamento CAPITOLO 1 - LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO 1. LE ORIGINI EVOLUZIONISTICHE DEL LINGUAGGIO Il linguaggio contraddistingue la nostra specie. La comunicazione, attraverso livelli differenti di complessità, è presente in tutto il mondo animale. Tuttavia, se negli animali rappresenta principalmente un modo per rispondere a stimoli provenienti dal mondo esterno, per l’essere umano, che ha sviluppato il linguaggio verbale, comporta la possibilità di esprimere volontariamente informazioni e messaggi reciproci. Secondo l’approccio evoluzionistico, il linguaggio è un’attitudine specifica della nostra specie, è esito di un processo adattivo che ha reso possibile il differenziarsi dei nostri progenitori dai primati non umani. La comunicazione verbale ha registrato uno sviluppo straordinario che ha favorito una gestione ottimale delle dinamiche sociali, costituendo, ai primordi della nostra specie, un fattore essenziale per l’accelerazione del processo evolutivo. Un tema assai delicato riguarda la sua origine. Il linguaggio non ha un carattere materiale e non vi sono reperti ce gli studiosi possono analizzare. Lo studio dei fossili ha consentito di ritenere che l’homo habilis sia stato il primo ominide a sviluppare caratteristiche anatomiche per supportare abilità proto-linguistiche. Gli studiosi, comunque, convengono sulla correlazione esistente tra sviluppo del linguaggio e origine della cultura. Secondo l’ottica epigenetica, il linguaggio va considerato come uno dei fattori fondamentali per la nascita e il progredire della cultura umana. Secondo tale approccio, infatti, la cultura non compare improvvisamente lungo il percorso evolutivo, ma costituisce il risultato di successivi e progressivi mutamenti. Le tappe fondamentali del progresso evolutivo sono: o stazione eretta: la conquista della posizione eretta e il conseguente bipedismo sono considerati il primo passo per la nascita del linguaggio  “Radiator Theory”: il bipedismo ha modificato il flusso sanguigno della circolazione encefalica, sviluppando un ‘radiatore’ in grado di raffreddare il cervello (il calore impediva al cervello di evolversi); o incremento del quoziente di encefalizzazione: il quoziente di encefalizzazione, che rappresenta il rapporto tra le dimensioni del cervello umano e quello di una scimmia di egual peso, nel corso dei millenni è andato aumentando progressivamente; o apparato vocale: lo sviluppo del linguaggio è stato permesso dallo sviluppo dell’apparato vocale  l’evolversi dell’apparato vocale ha consentito l’emissione di suoni compatibili con la gamma sonora delle vocali e delle consonanti; o avvento dell’agricoltura: ha consentito agli uomini di modificare abitudini e comportamenti  questo cambiamento ha segnato una tappa importantissima per lo sviluppo della cultura, poiché ha determinato un aumento della densità dei gruppi sociali che presuppone l’esistenza di sistemi comunicativi evoluti favorendo la socializzazione all’interno del gruppo stesso. 2. LE FUNZIONI EVOLUZIONISTICHE DEL LINGUAGGIO Diverse sono le teorie che hanno tentato di chiarire in che modo il linguaggio sia apparso:  Chomsky: rifiutando parzialmente la prospettiva evoluzionistica, propone che il linguaggio sia comparso all’improvviso e in modo istantaneo grazie a mutazioni genetiche casuali. La comparsa del linguaggio è dovuta a una discontinuità dello sviluppo filogenetico. Secondo l’autore, il linguaggio sarebbe amministrato e coordinato da una struttura cerebrale preposta, detta grammatica universale.  Pinker (allievo di Chomsky): il linguaggio rappresenta un istinto specie-specifico e, come tale, presente nei nostri progenitori anche quando ancora non erano in grado di articolare suoni e parole. Il suo intento è stato conciliare il costrutto della grammatica universale (Chomsky) con i meccanismi evolutivi della selezione naturale (Darwin).  Dunbar: il comportamento linguistico si sarebbe selezionato per permettere a gruppi numerosi di ominidi di interagire fra loro, garantendo la stabilità di importanti legami interindividuali e mantenendo bassi i livelli di aggressività sociale. Facendo un paragone con i primati non umani, la comunicazione verbale svolgerebbe tra gli altri esseri umani una funzione coesiva all’interno del gruppo, analoga a quella che, tra le scimmie, è svolta dal “grooming” = serie di comportamenti delle scimmie finalizzate a cercare zecche e pidocchi nel pelo degli altri animali e a rimuoverli che creavano unità e limitavano l’aggressività. I vantaggi evolutivi correlati allo sviluppo di un sistema così complesso come la comunicazione umana, secondo l’ottica evoluzionistica, possono essere ricondotti a 2 funzioni indispensabili per il progresso dei primi ominidi: 1) una relativa alla programmazione delle attività e degli spostamenti nell’ambiente circostante; 2) l’altra di tipo sociale implicata nella gestione delle interazioni infragruppo e intergruppo. Recentemente, Falk ha avanzato una tesi innovativa e controversa: il linguaggio parlato è da ricondursi alle attitudini femminili relative all’accudimento della prole, non alle competenze maschili connesse alle strategie di caccia. Le origini del linguaggio vanno ricercate nelle conseguenze evolutive che l’acquisizione della postura eretta ha determinato nei primi ominidi. Le ripercussioni anatomiche che la stazione eretta determinato nella riproduzione umana, modificando sia i tempi sia le condizioni del parto, hanno fatto sì che la selezione naturale affinasse le capacità delle madri nel prendersi cura dei propri piccoli che nascevano fisicamente indifesi. Falk individua il punto di svolta per l’acquisizione del linguaggio nel rapporto madre- bambino e nell’impossibilità dei piccoli di aggrapparsi alla madre per mantenere alto il livello di sicurezza di protezione (cosa che invece avviene normalmente tra i cuccioli di primati). Questa condizione avrebbe innescato il processo evolutivo di ricerca di strategie comportamentali capaci di garantire e mantenere il contatto con la figura di accudimento, che sarebbe sfociato nello sviluppo di una particolare modalità linguistica chiamata “motherese”, basato su suoni semplificati e ripetuti, per esprimere la vicinanza con i piccoli e comunicare loro i pericoli. Questo scambio comunicativo ha consentito la comparsa di vere e proprie parole. 3. I FONDAMENTI BIOLOGICI DEL LINGUAGGIO L’estrema complessità del sistema linguistico presuppone una maturazione contemporanea e progressiva di una serie di strutture composite che regolano e coordinano le funzioni linguistiche; tra queste, le più importanti sono quelle: fono-articolatorie  implicate nella produzione vera e propria del linguaggio orale, che comprendono la lingua, le labbra, la laringe, il diaframma; senso-percettive  coinvolte nei processi di comprensione e di controllo del linguaggio orale, che includono tutte le componenti dell’apparato uditivo; neuro-encefalitiche  impegnate nella ricezione, nell’elaborazione, nella comprensione e nella produzione del linguaggio. La conoscenza dell’architettura cerebrale e delle relative funzioni ha confermato l’esistenza di 2 aree cerebrali deputate specificamente alla produzione e alla comprensione del linguaggio: o Area di Broca: localizzata alla base della circonvoluzione frontale ascendente dell’emisfero dominante, unità distintiva riconoscibili all’interno delle parole nelle quali ricorrono. Il fonema non ha né un valore semantico, né funzioni grammaticali. In una lingua, pertanto, due fonemi si considerano diversi se il loro scambio genera un cambiamento di significato nelle parole. Ad esempio, in italiano, i suoni /v/ e /t/ sono considerati fonemi diversi poiché, se sostituiti, generano parole distinte: velo - telo; • morfologia: studia come le parole vengono formate, ovvero la relazione e la dipendenza tra unità minime dotate di significato. I fonemi esaminati separatamente non possiedono alcun significato; la loro combinazione permette di avere singole unità di significato definite “morfemi”. La morfologia si occupa delle regole che gestiscono la composizione e la strutturazione delle parole nelle loro diverse forme e declinazioni. Ad esempio, la parola “cani” è formata da due morfemi, ognuno dei quali aggiunge un elemento di significato: il primo (can) definisce il tipo di animale, il secondo (i) evidenzia che gli animali presi in esame sono più di uno; • sintassi: studia i modi in cui le parole vengono combinate e associate per formulare preposizioni e i modi in cui le proposizioni si uniscono per formare un periodo. Le capacità sintattiche permettono agli individui che parlano una determinata lingua di formulare e comprendere infinite frasi grammaticalmente corrette. La struttura in cui si dispongono i significati all’interno dell’enunciato è chiamata “catena sintattica”. L’unità minima di questa catena è il sintagma: essa è data dalla combinazione di due o più elementi linguistici e costituisce l’unità dotata di una specifica funzione nella struttura della frase; per comprendere un enunciato è necessario attribuire un determinato ruolo grammaticale a ciascuno degli elementi presenti nella frase; • semantica: analizza e studia il linguaggio dal punto di vista del significato. Studia cosa sia il significato, le relazioni fra i significati delle parole, in che modo significato si organizza all’interno di una parola, e si trasforma nel corso del tempo; • pragmatica: studia gli aspetti extraverbali del linguaggio, cioè i rapporti fra il linguaggio e chi lo usa, in relazione a scopi, bisogni, ruoli e intenzioni di chi prende parte alla conversazione. Si occupa inoltre della capacità fondamentale di intendere un enunciato oltre il suo significato letterale. 6. LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO NEL BAMBINO Il processo di acquisizione del linguaggio si fonda su basi biologicamente determinate che fanno sì che, sin dall’infanzia, e in tempi relativamente rapidi, progressivamente si impari a parlare correntemente e a utilizzare con competenza la lingua cui si è stati esposti. Tale capacità si sviluppa secondo una sequenza ordinata di fasi che può conoscere variazioni, che possono dipendere dalle capacità neurocognitive innate, dagli stimoli ambientali o dall’integrità delle strutture che regolano e coordinano le funzioni linguistiche. Lo sviluppo del linguaggio viene suddiviso in 2 fasi: 1) fase prelinguistica; 2) fase linguistica. 1) FASE PRELINGUISTICA Definisce il periodo compreso fra la nascita e i primi 10 -12 mesi di vita (termine orientativo che può variare da bambino a bambino).  Da 0 a 2 mesi. Il neonato presenta un particolare interesse per la voce umana, in particolare è attratto maggiormente da quella della madre. Inoltre, ha la capacità di distinguere e localizzare nello spazio specifici suoni, indirizzando il volto verso la fonte sonora. Sebbene sia in grado di distinguere i fonemi, non possiede ancora le capacità per pronunciarli. I primi suoni che vengono emessi sono o di tipo vegetativo (es: gridolini, gorgheggi, ruttini ecc…) o connessi al pianto, in quest’ultimo caso si diversificano a seconda della condizione fisica o emotiva che vuole comunicare.  Da 2 a 6 mesi. Le vocalizzazioni non sono più associate al pianto, ma iniziano a diversificarsi e arricchirsi. Intorno al terzo mese i bambini cominciano a emettere i primi suoni vocali (/a/, /e/, /o/). Tra i 4 e i 5 mesi aumenta la varietà dei suoni che il bambino riesce ad emettere e insieme ai suoni vocalici vengono emessi anche quelli consonantici (/gh/, /k/, /m/, /p/ ecc..).  Da 6 a 8 mesi. Tra i 6 e i 7 mesi si assiste alla fase della lallazione canonica: i bambini emettono spontaneamente una specie di balbettio, combinando suoni vocali e consonantici ai quali non è associato nessun significato (ma- ma-ma, pa-pa-pa). Tali vocalizzazioni assomiglieranno frequentemente, dal punto di vista fonetico, alla lingua parlata dagli adulti. Ogni bambino, raggiunti i 6 mesi, emette dei vocalizzi quando si trova in uno stato di benessere: questa circostanza segna il raggiungimento di un grado di sviluppo adeguato del cervello e dell’apparato vocale. Il manifestarsi della lallazione in modo indifferenziato fa ritenere che la sua origine sia a base innata (non frutto di apprendimento): ipotesi confermata dal fatto che anche i bambini sordi dalla nascita, incapaci di udire la propria voce o quella degli altri e non in grado di riprodurre suoni, intorno ai 6 mesi si esprimono attraverso vocalizzi assai simili a quelli prodotti dagli altri bambini. Nei bambini sordi, tuttavia, nell’arco di circa due mesi dalla comparsa della lallazione, si assiste a una sua rapida riduzione, fino alla sua estinzione. Si può dedurre, pertanto, che per proseguire a esprimersi attraverso vocalizzi, i bambini, devono poter tanto ascoltarsi mentre li eseguono quanto udire i suoni con cui le altre persone rispondono ai vocalizzi da essi prodotti.  Da 8 a 12 mesi. Intorno al nono mese il bambino inizia a produrre combinazioni di suoni più elaborati, costituite da sequenze di sillabe complesse. Contemporaneamente, comincia a strutturare forme più evolute di comunicazione attraverso i gesti (cercando di attirare l’attenzione, punta il dito indice in direzione degli oggetti). È con l’utilizzo dei gesti che ha inizio la vera comunicazione intenzionale, che si avvale di gesti (detti “deittici”) che hanno lo scopo di richiedere sostegno o di catturare l’attenzione per poi condividerla su aspetti dell’ambiente circostante. Il gesto deittico esprime esclusivamente l’intenzione comunicativa del bambino, ma non chiarisce a quale elemento sia riferito e non può essere compreso se non collegandolo al contesto. Fra i 10 e i 12 mesi, il bambino entra nell’ultima fase dello sviluppo preverbale, in cui compare la lallazione variata ed in cui la ricchezza della produzione vocale accresce e viene condizionata dall’ambiente circostante. L’infante emette sequenze di sillabe in cui possono variare alternativamente o simultaneamente i due foni, consonante e vocale (da-ba-da, du-da-du). In questa fase, il bambino dimostra di aver sviluppato un “gergo espressivo”, costituito da sequenze di pseudoparole senza senso. La fase prelinguistica si conclude normalmente intorno al dodicesimo mese quando il bambino, grazie alla stimolazione di un adulto, oppure autonomamente, pronuncia generalmente la prima parola di senso compiuto. 2) FASE LINGUISTICA Definisce un periodo prolungato e poliedrico, che ha inizio intorno ai 12 mesi e prosegue per tutto l’arco di vita.  Dai 12 ai 17 mesi. Intorno ai 12 mesi compaiono le prime parole dotate di significato, pronunciate in circostanze molto specifiche come all’interno di giochi ritualizzati o legate a contesti specifici. Si tratta di un evento assai atteso dai familiari e normalmente accolto con entusiasmo. Gli adulti, in questa fase di sviluppo, al fine di promuovere e agevolare la produzione linguistica del bambino, sostituiscono con lui i termini complessi con sinonimi più semplici o con neologismi onomatopeici (es: treno = “ciuff ciuff” + cane = “bau bau”); per questo motivo, spesso il significato delle prime parole viene compreso esclusivamente dalle persone che si prendono cura del bambino. Inoltre, intorno ai 12 mesi, compaiono anche i gesti referenziali con i quali il bambino, attraverso l’uso del corpo e con l’intento di comunicare, raffigura una qualche azione. Si tratta di gesti referenziali di natura convenzionale appresi per imitazione (es: portarsi l’indice alla bocca in segno di silenzio) che veicolano anche messaggi comunicativi il cui significato è indipendente dal contesto circostante: a differenza dei gesti deittici, simulano azioni che in realtà non stanno accadendo in quel momento. I bambini acquisiscono più rapidamente le competenze necessarie per comprendere vocaboli e termini nuovi rispetto a quelle implicate nella produzione degli stessi: comprendono frasi e locuzioni che non sono ancora capaci di pronunciare autonomamente. Inizialmente, il repertorio lessicale è assai limitato e comprende 3 tipologie di parole:  1ª tipologia: composta dai nomi e dai predicati che il bambino è abituato a sentire spesso all’interno dell’ambiente familiare. I nomi indicano persone e oggetti, i predicati si riferiscono alle azioni che quotidianamente vengono svolte;  2ª tipologia: comprende parole che vengono utilizzate normalmente per gestire e regolare le interazioni sociali (es: “no, ciao, vieni” ecc…);  3ª tipologia: proposta da Gopnik, è stata messa in relazione con il concetto di permanenza dell’oggetto proposto da Piaget, secondo cui il bambino, durante il suo sviluppo cognitivo, raggiunge lo stadio nel quale apprende che un oggetto continua a esistere anche quando non è in grado di identificarlo percettivamente. Queste parole sono utilizzate dal bambino per accogliere festosamente la ricomparsa di un oggetto o per manifestare la gioia scaturita dal successo di ricercare e recuperare l’oggetto scomparso. In questo periodo, si assiste al fenomeno delle olofrasi, espressioni con le quali il bambino, con l’ausilio di gesti, pronuncia una singola parola con il fine di comunicare un concetto articolato che richiederebbe l’utilizzo di una frase più completa (es: parola “palla” per indicare “voglio la palla”).  Da 18 a 24 mesi. Dai 18 mesi in poi si assiste a un’accelerazione del processo evolutivo e ad un incremento esponenziale dell’ampiezza del vocabolario  esplosione del vocabolario. I bambini mostrano di poter apprendere più rapidamente nuove parole e le combinano organizzandole in frasi. Nelle fasi dai 12 ai 15 mesi lo sviluppo lessicale del bambino procede a un ritmo di circa 5 parole nuove al mese, mentre dai 18 ai 21 mesi, il ritmo diviene di circa 5 parole nuove a settimana, mentre tra i 21 e i 26 mesi, i bambini possono acquistare fino a 50 parole nuove ogni mese. Verso i 24 mesi i bambini generalmente sono in grado di pronunciare oltre 300 parole. Quando il vocabolario oltrepassa le 100 parole, i bambini sembrano rielaborare le loro informazioni lessicali in una struttura sempre più conforme a quella utilizzata dagli adulti. Parallelamente all’espansione del vocabolario, il ricorso ai gesti comunicativi diminuisce velocemente: il bambino preferisce utilizzare più frequentemente le parole piuttosto che servirsi dei gesti. Intorno ai 3 anni, il bambino utilizza strutture linguistiche sempre più complesse e corrette morfologicamente, ma l’acquisizione del linguaggio può dirsi totalmente conclusa, sul piano fonologico e sintattico, intorno agli 11 anni, anche se le modalità cognitive e l’espansione del vocabolario proseguono per tutta la vita. 7. STILI DI ATTACCAMENTO E CAPACITÀ COMUNICATIVE LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO Per spiegare il significato del legame profondo che s’instaura fra il bambino e chi si prende cura di lui, John Bowlby si è basato sui principi della selezione naturale e dell’evoluzione della nostra specie. Egli ha In conclusione, l’unico metodo per ottimizzare la comunicazione è l’ampliamento della ridondanza del segnale. Dopo la sua realizzazione, il modello matematico-informazionale, fu applicato alla comunicazione umana. 4. LA TEORIA IPODERMICA: IL MODELLO DI LASSWELL Negli anni ‘30 e ‘40, in America, nasce la teoria ipodermica, che esamina la comunicazione di massa muovendo da una considerazione del messaggio mediatico come asimmetrico, invadente e unidirezionale, capace di ricavare risposte automatiche in fruitori del tutto passivi. In un contesto storico a cavallo tra due guerre, in cui i principali mezzi di comunicazione erano la stampa, la radio e il cinema, la teoria ipodermica approfondiva i meccanismi alla base dell’efficacia della propaganda. I sostenitori di questa teoria mostravano quali fossero gli effetti e le conseguenze dirette che il messaggio veicolato dai regimi totalitari provocava sul bersaglio rappresentato dal pubblico. Alla base della teoria ipodermica è rintracciabile la concettualizzazione della società di massa come un insieme di individui solitari, anonimi e atomizzati, esposti a messaggi che vanno al di là della loro esperienza e che ne condizionano inevitabilmente le scelte. I messaggi dei media sono persuasivi e si introducono nei soggetti come un “ago ipodermico”, da cui il nome della teoria. Un’altra efficace immagine utilizzata da questi studiosi è quella del proiettile invisibile: il messaggio propagandistico colpisce il singolo individuo della massa, che non può difendersi. Successivamente, Lasswell mette a punto un modello lineare della comunicazione in cui perfeziona la teoria ipodermica. Questa procedura ha avuto il pregio di poter essere applicata ed estesa a qualunque contesto comunicativo, sia esso informativo, di propaganda o di indagine. Limite: colui che avvia l’azione comunicativa già si prefigura l’effetto che questa genererà nel destinatario. 5. LE TEORIA DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA SUCCESSIVE ALL’APPROCCIO IPODERMICO La teoria ipodermica ebbe fortuna per breve tempo, poiché era frutto della fase originaria dei mezzi di comunicazione, tra i quali la radio era il privilegiato che aveva effetti influenti sull’opinione pubblica. Inoltre, la massa era considerata come un soggetto a sé stante, non un’aggregazione di individui. Dopo Lasswell si evidenziò che l’individuo è relazionato ad altri individui, ha un bagaglio culturale, quindi reagisce in maniera personale allo stesso messaggio. Celebre a proposito lo studio condotto da Allport e Postman: venivano presentate delle immagini di un bianco che, con un coltello in mano, minacciava un uomo di colore, coloro che videro la rappresentazione trasformarono la situazione, distorcendola, cogliendovi il tentativo del nero di uccidere il bianco, a tal punto falsando le immagini da dichiarare di aver visto il nero con il coltello in mano. Tutto questo significa che la reazione, l’interpretazione e addirittura la visualizzazione del soggetto, la memorizzazione selettiva non hanno carattere ipodermico (di semplice ricezione passiva), ma vengono alterate dal soggetto ricevente. Come critica indiretta alla teoria ipodermica va considerato anche l’effetto boomerang: si invia un messaggio da cui ci si propone un effetto vantaggioso e invece esso provoca un effetto dannoso rispetto a quello che ci si proponeva. Sempre rispetto a risultati non unilaterali e non immediati si è formulata la teoria dello sleeper effect: dopo un primo momento, in cui il messaggio sembra non avere alcuna capacità persuasiva, quest’ultima viene acquisita a distanza di tempo. Tutti questi studi hanno dimostrato che la teoria ipodermica non può essere esclusa, ma non è l’unica teoria né quella che dà la più esauriente interpretazione del fenomeno della comunicazione di massa. Le teorie che sorsero dopo ed ebbero maggiore rilevanza furono: o teoria degli effetti limitati: considera che il messaggio viene ricevuto da un individuo che normalmente fa parte di un gruppo (≠ teoria ipodermica che isolava il ricevente unificandolo alla massa e rendendolo passivo rispetto al messaggio). Le comunicazioni interne al gruppo interferiscono e delimitano l’efficacia del messaggio: ogni gruppo lo decodifica e assimila a modo suo, non esistono messaggi con effetti generalizzabili  l’interpretazione del gruppo è più decisiva del messaggio  l’influenza dei messaggi dei media non è diretta e immediata, ma influenzata dalle relazioni sociali  gli individui hanno ruoli differenti nella sfera della comunicazione. Dunque, se nella teoria ipodermica il messaggio aveva efficacia sulla massa da solo, per la teoria degli effetti limitati esso è elaborato, interpretato, trasmesso relazionalmente, da uomo a uomo o dai leader di opinione: gli effetti di tali relazioni sono maggiori di quelli del messaggio; o teoria funzionalista: è la maggiore espressione della sociologia statunitense, l’ideatore americano del funzionalismo è Talcoltt Parsons. Nel funzionalismo, che ha avuto notevole rilievo nel campo della comunicazione, la società è un insieme di parti connesse per cui il mutamento di una parte squilibra le altre : risulta necessario che la società mantenga o ristabilisca questo equilibrio. Secondo Parsons, nella società si formano istituzioni tese a risolvere problemi e bisogni essenziali della comunità, che non esisterebbero se non esistessero i bisogni che tentano di soddisfare. Nella società bisogna che vi siano anche canali di sfogo e valori condivisi per eliminare la tensione interna: ad esempio, i mezzi di comunicazione offrono narrazione di facile fruizione per contribuire ad attenuare la tensione accumulata durante la giornata lavorativa. Inoltre, è determinante il controllo delle informazioni in modo da evidenziare essenzialmente quelle che trasmettono i valori del passato, dai vecchi ai giovani, o su coloro che devono integrarsi nella società. Infine,  con i mezzi di comunicazione di massa si ha il rafforzamento delle norme sociali allorché tali mezzi rendono pubblici, condannandoli, i comportamenti devianti: i mezzi di comunicazione di massa devono essere usati per un’integrazione assoluta; o teoria degli usi e gratificazioni: deriva dal funzionalismo in cui la comunicazione svolge compiti divagativi e di rimedio o di diminuzione della tensione. La teoria degli usi e gratificazioni accentua lo scopo divagativo: in contrasto con la teoria ipodermica, valorizza la scelta individuale del messaggio. In una società dove l’offerta dei media è ampia e varia, il fruitore si volge a quella che lo gratifica maggiormente. Il messaggio deve quindi tenere conto dei gusti e della personalità del fruitore, che sceglie tra i messaggi disponibili. Dunque, il ricevente non è massificato, non esiste un unico messaggio che soddisfi tutti, né una sola fonte che unifichi i riceventi; ciascuno è soddisfatto da ciò a cui tende come suo desiderio. Queste teorie hanno complicato enormemente il problema della comunicazione: non si può ritenere di potersi affidare ad un messaggio certo del suo esito. In sostanza, non ci si trova più di fronte a uno strumento di comunicazione di massa con effetto univoco, conseguenze precisabili e che possa generare un assoggettamento del pubblico: l’individuo risponde al suo ambiente, al suo background culturale, al colloquio con gli altri e soprattutto ai suoi interessi. 6. IL MODELLO DELLE FUNZIONI COMUNICATIVE DI JAKOBSON Il modello matematico-informazionale di Shannon si era diffuso rapidamente, ma, poiché, era stato sviluppato in ambito ingegneristico, sembrava non dare pienamente conto dei processi comunicativi in cui erano implicati gli esseri umani. Per questo, partendo da quel modello, il linguista Roman Jakobson giunge ad elaborare una delle più importanti teorie sulla comunicazione, che si fonda sull’idea che i processi comunicativi si basano principalmente su un codice condiviso (la lingua) e che tali processi vengano modificati e influenzati dal contesto all’interno del quale sono generati. Il modello delle funzioni comunicative si prefigge di individuare i fattori costitutivi di ogni processo linguistico (es: poesia, conversazione per strada, slogan), identificando le componenti essenziali del processo comunicativo e le funzioni che ciascuno di questi elementi assolve. Vengono individuati 6 elementi delle componenti principali del processo comunicativo: 1) mittente: colui che costruisce, organizza e invia il messaggio; 2) codice: ciò che permette la comunicazione fra mittente e destinatario, il loro linguaggio comune; 3) messaggio: rappresentato dal contenuto comunicativo che dal mittente deve essere trasferito al destinatario; 4) contesto: realtà in cui si è immersi e di cui si parla; 5) contatto: canale attraverso il quale avviene il trasferimento del messaggio; 6) destinatario: colui che riceve il messaggio e ha il compito di decodificarlo. Ciascuno di questi elementi dà origine ad una funzione specifica del linguaggio: ai 6 fattori corrispondono 6 funzioni: 1) funzione emotiva (o espressiva): è incentrata sul mittente e definisce la sua capacità di esprimere sentimenti, emozioni, stati d’animo  la propria individualità (es: “Sono contento che…”). Nell’espressione vocale, è possibile caratterizzare le differenti sfumature emozionali dall’intonazione. A livello grammaticale è connessa alla presenza del pronome “io”; può essere inoltre connessa a manifestazioni come le lacrime o il rossore; 2) funzione conativa (o imperativa): è relativa al destinatario, o meglio, alla ricerca di effetti sul destinatario, ed è caratteristica dei comandi (es: “Coraggio!”). È intensificata nelle situazioni in cui il mittente desidera esercitare un’azione sul destinatario ed è dominante nelle forme del discorso politico, propagandistico, religioso; 3) funzione referenziale: è focalizzata sul contesto, consente al messaggio di rapportarsi al mondo. Tende a costruire significato dalla relazione tra mittente e destinatario, presentando il linguaggio come semplice e trasparente (es: linguaggio scientifico, che deve essere puntuale e preciso); 4) funzione poetica: è la funzione associata al messaggio, riguarda la forma e il ritmo in cui viene organizzato. Si tratta di una funzione dominante in vari ambiti, come la poesia e la pubblicità: si realizza in tutti quei casi in cui l’accento è posto non già sui contenuti, ma sulle espressioni, l’attenzione viene indirizzata verso la forma stessa del linguaggio; 5) funzione fàtica: concerne il lavoro volto a mantenere il contatto tra gli interlocutori (es: “Pronto? Sei ancora lì?” oppure “Mi ascoltate?” di una professoressa alla classe). Questa funzione è dominante nei casi in cui si intende attivare, riattivare o intensificare un canale intersoggettivo che appare affievolito; 6) funzione metalinguistica: è associata al codice e si realizza quando gli interlocutori definiscono il codice in uso. Questa funzione è attiva ogni volta che si precisa quale senso debba attribuirsi a un’espressione. 7. IL MODELLO COMUNICATIVO DI SCHRAMM L’innovazione del modello di Wilburn Schramm consiste nell’attribuire notevole importanza ai soggetti umani e al contesto sociale in cui si realizza la comunicazione e nell’introduzione di ulteriori elementi che prendono parte alla trasmissione del messaggio (non considerati nel modello di Shannon). Il modello si sviluppa in 3 fasi distinte attraverso un’evoluzione graduale che tiene conto progressivamente delle variabili introdotte: • il destinatario, non si limita a tradurre il messaggio richiamandosi a un codice da lui posseduto in comune con la fonte: attribuisce un senso al messaggio; • il messaggio, dopo essere stato trasdotto attraverso il canale, giunge al destinatario, che, inizialmente, gli attribuisce il valore di significante; • successivamente, a seguito dei processi di codifica e decodifica, il messaggio-significante viene interpretato attraverso codici e sottocodici. In questo modello, il messaggio, all’interno del processo comunicativo, perde la sua valenza unitaria, ma diviene un elemento soggetto a continue trasformazioni considerate dagli autori indispensabili e necessarie per l’attribuzione del significato: tra il messaggio codificato dalla fonte e quello ricevuto e interpretato dal destinatario possono esserci notevoli differenze. Inoltre, se il destinatario del messaggio non è in grado di comprendere i codici e i sottocodici utilizzati dalla fonte durante la fase di codifica del messaggio, si possono produrre degli effetti sistematici di distorsione della comunicazione. Quando le intenzioni comunicative dell’emittente non corrispondono a ciò che il destinatario ha effettivamente compreso, si parla di decodifica aberrante  4 principali possibili circostante di incomprensione definiscono altrettanti casi di decodifica aberrante: a. incomprensione o rifiuto del messaggio per carenza o assenza di codice: il messaggio arriva come segnale fisico non decodificabile e pertanto viene considerato esclusivamente come elemento di fastidio o rumore (es: testo scritto in giapponese presentato ad un occidentale); b. incomprensione per disparità dei codici: il codice dell’emittente non è ben conosciuto dal destinatario, che traduce le informazioni attribuendo ad esse significati diversi rispetto all’intenzione della fonte (es: ignorare il significato di una parola); c. incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali: il destinatario interpreta il messaggio secondo le modalità desiderate dall’emittente; tuttavia, l’interpretazione risulta imprecisa perché modellata sul proprio orizzonte di attesa; d. rifiuto del messaggio per interferenze dell’emittente: il senso del messaggio viene inteso, ma stravolto dal destinatario per motivi legati al suo sistema di credenze. Nel caso delle comunicazioni di massa, che non prevedono le repliche all’emittente da parte del ricevente né una negoziazione dei significati, le forme di decodifica aberrante non possono essere eliminate e costituiscono una parte integrante del processo comunicativo. NB: secondo il modello semiotico-informazionale, eventuali ostacoli che limitino la linearità dell’informazione rappresentano elementi costitutivi della comunicazione  il significato ultimo del messaggio deriva dal convergere di diversi fattori. 10. LA PRAGMATICA E LA TEORIA DEGLI ATTI LINGUISTICI L’uso odierno del termine “pragmatica” può essere attribuito al filosofo Charles Morris, che la identifica, insieme alla sintassi e alla semantica, come una delle 3 discipline che si occupano dello studio dei segni: 1) sintassi: analizza la relazione reciproca tra i segni e ne studia i modi in cui possono essere combinati. Facendo riferimento alle espressioni linguistiche, si può affermare che tale funzione è svolta dalla grammatica che, non tenendo conto del significato delle singole parole componenti le frasi, stabilisce se queste ultime sono formalmente ben costituite oppure no (es: sintatticamente è possibile dire “C’è un gatto sul mio tetto”, ma non si può dire “Ci sono un gatto sul mio tetti”; ma paradossalmente si può affermare “Il mio tetto ha un gatto” e “ Il mio gatto ha un tetto”); 2) semantica: esamina la relazione intercorrente tra i segni e gli oggetti designati, ovvero studia l’attribuzione di significato ai segni. Stabilisce se una frase è, o meno, ben composta rispetto al significato (es: semanticamente verrebbe esclusa un’affermazione come “C’è un tetto nel mio gatto”); 3) pragmatica: approfondisce il legame che si instaura fra i segni e coloro che comunicano (= tra il linguaggio e i soggetti che lo utilizzano). Analizza dunque le modalità per mezzo delle quali le espressioni linguistiche vengono impiegati nelle situazioni concrete. Inoltre, investiga i processi sottesi alla comunicazione e volti a inferire dal contesto ciò che il testo intende affermare, anche quando tale corrispondenza non è ravvisabile chiaramente (es: “Oggi ho preso la cintura nera, evviva!”   questa frase può essere interpretata solo collegandola alla situazione in cui è stata detta: significati diversi se all’interno di una palestra di arti marziali o al ritorno dallo shopping). Un interesse sistematico verso la pragmatica si è avuto a partire dalle riflessioni dei filosofi del linguaggio John Langshaw Austin e John Searle, che hanno studiato la componente del linguaggio legata all’azione e l’intenzionalità degli individui coinvolti nella comunicazione. Per Austin la comunicazione corrisponde a un’azione intrapresa tra più soggetti che, come altre azioni umane, può avere fini e produrre effetti. La considerazione da cui muove è che alcuni enunciati o frasi, per il semplice fatto di essere pronunciati, hanno conseguenze tangibili e reali. Ad esempio, affermazioni come “Vi dichiaro marito e moglie” o “La dichiaro in arresto!”, non sono vere o false, non descrivono un aspetto della realtà e non hanno scopo informativo, ma, una volta proferite, creano fatti nuovi modificando la realtà stessa. Austin denomina questi enunciati, che hanno lo scopo di compiere atti agendo direttamente sull’ambiente circostante, performativi e li distingue da quelli constativi, utilizzati frequentemente per descrivere, rappresentare e raccontare aspetti del mondo.  In seguito, afferma che ogni qualvolta si produce un enunciato linguistico si compiono contemporaneamente e inevitabilmente 3 atti: 1) atto locutorio: rappresenta l’azione di dire qualcosa  consiste nel costruire una espressione rispettando la struttura del sistema linguistico, sia a livello sintattico, sia a livello semantico; 2) atto illocutorio: si compie mentre viene detto qualcosa  costituisce l’intenzione con cui l’enunciato viene concepito ed espresso; 3) atto perlocutorio: costituisce ciò che si compie attraverso l’azione del dire qualcosa  rappresenta quale risultato e quale esito tangibile l’enunciato produce nell’interlocutore. Successivamente alle teorizzazioni di Austin, Searle riformula la nozione di atto linguistico illocutorio individuandone 5 sottocategorie di atti: 1) rappresentativi: atti linguistici utilizzati per delineare la nostra rappresentazione del mondo; 2) dichiarativi: atti linguistici capaci di trasformare le condizioni, le situazioni, gli equilibri e gli stati del mondo e quelli istituzionali (l’atto di battezzare, sposare, licenziare); 3) espressivi: atti per mezzo dei quali il parlante è in grado di comunicare i propri sentimenti, pensieri ed emozioni (l’atto di salutare, ringraziare o perdonare); 4) direttivi: tutti quegli atti linguistici che tendono a persuadere o convincere gli antri individui a mettere, o a non mettere, in atto un determinato comportamento (convincere, ordinare, vietare); 5) commissivi: atti linguistici che il parlante utilizza per garantire lo svolgimento, o il mancato compimento, di determinate azioni future (promettere, impegnarsi, scommettere). 11. LA COMUNICAZIONE COOPERATIVA La buona riuscita di una conversazione è l’esito di un’azione coordinata e cooperativa fondata sul riconoscimento di alcuni principi regolatori da parte dei singoli partecipanti. Un contributo tra i più rilevanti allo studio delle regole che governano l’interazione comunicativa è stato fornito dal filosofo del linguaggio Paul Grice, che ritiene che in ogni scambio comunicativo il parlante si impegni attivamente affinché il senso del suo messaggio venga compreso da colui che ascolta. Grice individua dunque come scopo condiviso da tutti gli interlocutori impegnati in conversazioni il principio di cooperazione, che costituisce una sorta di accordo tacito tra gli interlocutori,   secondo   il   quale  ogni individuo deve fornire il proprio contributo alla conversazione e che si articola in alcune regole, o massime convenzionali, utilizzate dai partecipanti per orientare e interpretare l’interazione comunicativa in corso:  massima della quantità: un interlocutore è tenuto a fornire tutte le informazioni essenziali e richieste;  massima della qualità: gli interlocutori debbono avere la sicurezza che la probabilità che quanto viene detto sia vero superi la probabilità che ciò che si dice sia falso;  massima della relazione: la comunicazione deve essere pertinente e appropriata al contesto, è desiderabile non allontanarsi dal tema della discussione e presentare le argomentazioni in modo tale da collegarle le une con le altre;  massima di modo: si devono utilizzare espressioni che non risultino né oscure, né ambigue. Inoltre, si deve scegliere una forma espressiva ordinata e breve. Secondo Grice, le massime sono apprese attraverso l’esperienza mediante gli stessi processi culturali che permettono l’acquisizione e la comprensione della lingua parlata. Egli afferma che non rappresentano strumenti arbitrari, ma mezzi funzionali per la conduzione di interazioni comunicative, cooperative e reciproche. Inoltre, l’adesione a tali regole non è rigida, né imposta. Lo scarto che si viene a creare fra ciò che si dice e il significato che si intende trasmettere può essere colmato facendo ricorso a un’elaborazione cognitiva detta implicatura conversazionale. Tale processo consente di andare oltre al significato letterale del messaggio per capire opportunamente l’intenzione comunicativa del parlante. Le implicature conversazionali possiedono 4 proprietà: • cancellabilità: un’affermazione equivocabile e ambigua può essere chiarita se alle affermazioni iniziali vengono aggiunte alcune premesse comprensibili; • non-distaccabilità: le implicature conversazionali sono associate all’aspetto semantico dell’esposizione e non alla sua forma linguistica; • calcolabilità: le implicature sono prevedibili, in quanto, risulta abbastanza semplice prefigurarsi una situazione tipica nella quale il soggetto che ascolta un’affermazione sia in grado di interpretarla correttamente, mediante l’inferenza opportuna; • non-convenzionabilità: le implicature sono non-convenzionali, poiché non rientrano nella sfera del significato convenzionale e condiviso delle comunicazioni nella sfera del significato convenzionale e condiviso delle comunicazioni linguistiche, ma rappresentano l’esito di una continua negoziazione di senso che si adatta al contesto circostante. 12. LA SCUOLA DI PALO ALTO E GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE Lo studio della comunicazione improntato all’approccio della pragmatica è stato radicalmente influenzato dal contributo delle ricerche condotte in California dalla scuola di Palo Alto negli anni ‘60, che hanno minato la plausibilità che i rapporti comunicativi interpersonali fra individui siano regolati principalmente dalla comunicazione esplicita, verbale e intenzionale. Adottando una visione prettamente relazionale, secondo cui la comunicazione rappresenta un processo bidirezionale, le ricerche sono giunte a considerare come comunicativo qualsiasi evento o atto che avviene in presenza di un’altra persona. Ciò che viene oltrepassato è il concetto di intenzionalità manifesta della comunicazione, non viene operata né la distinzione tra comunicazione volontaria e involontaria, né tra consapevole e inconsapevole: si considera la comunicazione come un processo che si concretizza attraverso la reciprocità degli interlocutori, la relazione che lega le circostanze nelle quali tale processo si genera. Il saggio che ha suscitato più interesse è “Pragmatica della comunicazione umana”, in cui gli autori, adottano un approccio radicalmente pragmatico, esaminano la struttura dell’atto comunicativo valutandone le implicazioni comportamentali. Inoltre, espongono le proprietà (dette assiomi) della comunicazione: Primo assioma. Non si può non comunicare. B. Arbitrario / Motivato. Il concetto di “arbitrarietà” non deve far supporre che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante: il linguaggio umano è un codice condiviso e convenzionale (arbitrario) che si basa su un sistema di segni sostenuto e giustificato unicamente da un accordo sociale. La comunicazione non verbale si compone di elementi sia arbitrari sia motivati e iconici. Fra il concetto che si intende veicolare e la forma non verbale per questo utilizzata, può stabilirsi sia una relazione di tipo naturale e motivata, che ne sottolinea la similitudine (es: indicare con la mano la posizione), sia una valenza arbitraria e immotivata, basata su accordi culturalmente condivisi (es: segno di “OK” con la mano). C. Digitale / Analogico. Il sistema linguistico è considerato digitale in quanto si fonda sui fonemi, elementi che fra loro si distinguono e oppongono. Il valore analogico della componente non verbale della comunicazione è dato viceversa dalla connessione, che essa presenta, fra ciò che si intende esprimere e la forma della comunicazione. Secondo questa dicotomia, gli aspetti non verbali mantengono una caratteristica di spontaneità e naturalezza rispetto agli aspetti verbali, maggiormente sottoposti al controllo della coscienza. La comunicazione non verbale è prodotta in maniera automatica e inconsapevole. La concezione integrata fra gli aspetti verbali e non verbali nella genesi del significato di un atto comunicativo costituisce il relativo superamento della prospettiva dicotomica. Secondo questa concezione, i diversi sistemi di segnalazione e significazione – verbali e non verbali – concorrono in un processo di integrazione, pur mantenendo una certa autonomia, a definire insieme significato dei singoli atti comunicativi. 3. LE FINALITÀ DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE La comunicazione non verbale non può adempiere a compiti informatici data la sua indeterminatezza semantica; non può, cioè, trasferire da sola contenuti astratti, ed è inadeguata per rappresentare concetti teorici o indefiniti. Per tali fini rimane assolutamente primario il ruolo del linguaggio verbale. La comunicazione non verbale svolge funzioni che contribuiscono in modo imprescindibile, durante le interazioni comunicative, alla costruzione e all’elaborazione del significato di ogni atto linguistico. A tal riguardo, molti autori hanno tentato di formulare una classificazione univoca che tenesse conto delle sue funzioni principali senza però riuscirvi, considerata l’inevitabile sovrapposizione dei costrutti ad essa associata. Classificazione proposta da Bonaiuto e Maricchiolo:  Caratterizzazione della relazione. I comportamenti non verbali hanno lo scopo di veicolare la componente relazionale della comunicazione: La comunicazione non verbale svolge un ruolo fondamentale anche nel mantenere e rinnovare una relazione, nonché nel segnalare il suo cambiamento e la sua estinzione.  Presentazione di sé. La comunicazione non verbale possiede la capacità di inviare agli interlocutori elementi essenziali per comprendere la personalità del parlante e per inquadrare le sue attitudini, le sue disposizioni e le inclinazioni, nonché le sue inibizioni. Nel corso delle interazioni è capace, quindi, di orientare e supportare la conoscenza reciproca.  Persuasione, dominanza, potere e status. Un altro ambito in cui la comunicazione non verbale interviene è quello che attiene ai rapporti di potere finalizzati alla persuasione. Assume, inoltre, una valenza primaria ai fini di delineare, ma anche conservare e preservare rapporti di dominanza. Un altro importante segno non verbale di potere è poi rappresentato dalla qualità e dalla quantità dell’occupazione dello spazio sociale, in quanto chi ha potere utilizza e amministra lo spazio per segnalare la propria posizione di dominanza.  Differenziazione d’identità. La comunicazione non verbale consente di cogliere diversi elementi distintivi, come il grado di espressività. La sua analisi può fornire molte informazioni sullo stato emotivo degli individui. Inoltre, l’utilizzo del linguaggio corporeo risulta funzionale per comprendere e affermare la propria e l’altrui identità di genere.  Espressione e riconoscimento delle emozioni. Il linguaggio non verbale svolgere un’importante funzione di supporto a quello verbale nella costruzione dei significati, modulandoli secondo diverse sfumature che possono dare conto della varietà di emozioni dell’essere umano. La comunicazione non verbale, pertanto, sia nella fase di produzione sia in quella di riconoscimento, attraverso diversi canali (voce, mimica, sguardo, postura ecc…)  concorre, insieme agli aspetti linguistici, a manifestare una data esperienza emotiva influenzando la qualità della relazione che si instaura tra i comunicanti.  Comunicazione degli atteggiamenti interpersonali. Gli atteggiamenti interpersonali sono interpretabili allo stesso modo delle emozioni giacché implicano i medesimi sistemi di segnalazione e significazione. Ad esempio, componenti vocali, come il tono della voce, sonorità, velocità e fluidità verbale, possono esprimere sia stati motivi, come la rabbia, sia atteggiamenti interpersonali, come l’essere ostili e maldisposti.  Comunicazione non verbale nel linguaggio verbale. La comunicazione non verbale è oggi considerata come dipendente e interconnessa al linguaggio parlato. Il parlante, infatti, coordina i movimenti del proprio corpo e la mimica facciale in funzione del contenuto del proprio discorso. La comunicazione non verbale può anche svolgere un ruolo referenziale: aggiungere elementi che arricchiscono la descrizione della discussione. Il gesto non verbale può talvolta addirittura sostituire completamente il parlato (fare segno di fare silenzio). Il linguaggio corporeo esercita anche la funzione metacognitiva: veicola le informazioni riguardanti il modo con cui il messaggio viene inviato e deve, quindi, essere interpretato. La comunicazione non verbale assume anche il ruolo centrale nella valutazione dell’inganno: gli indici non verbali sono difficili da di stimolare e se non c’è corrispondenza tra i messaggi trasmessi verbalmente e il relativo comportamento non verbale è sempre il secondo ad essere considerato più veritiero. 4. I SISTEMI COMUNICATIVI Gli essere umani possono esprimersi attraverso una molteplicità di sistemi non verbali di significazione e segnalazione. Classificazione proposta da Anolli dei vari sistemi della comunicazione non verbale: o SISTEMA VOCALE o SISTEMA CINESICO o SISTEMA PROSSEMICO E APTICO o SISTEMA CRONEMICO o SISTEMA VOCALE Nella comunicazione non verbale rientrano anche quegli aspetti vocali che non si riferiscono direttamente a ciò che viene detto, ma che denotano il modo in cui si dice una cosa. Il sistema vocale prende in considerazione nell’eloquio gli aspetti prosodici, come ad esempio il tono, l’intensità della voce, il ritmo, il volume, le esitazioni e i silenzi  aspetti connessi al messaggio pronunciato verbalmente che ne arricchiscono il significato  aspetti attraverso i quali vengono veicolati gli stati d’animo e gli atteggiamenti. A volte, per comprendere l’umore del nostro interlocutore, non importa ciò che ci viene detto: la struttura sonora con cui il messaggio verbale ci arriva ci rivela molto di più su chi parla e sui suoi sentimenti. Il linguista Trager è stato il primo a ritenere che lo studio della lingua parlata non possa prescindere dall’analisi delle componenti prosodiche che ha denominato paralinguistiche: gli aspetti paralinguistici si riferiscono alle vocalizzazioni che non sono strutturate come nel linguaggio, ma sono costituite per lo più da una gamma sfumata di suoni multiformi.  Le componenti vocali che non hanno una struttura propriamente linguistica sono state distinte da Trager in 2 categorie: fanno parte della 1ª, che definisce la qualità della voce, tutte le caratteristiche individuali fisiologiche e fisiche legate alla peculiarità dei suoni prodotti (aspetti legati al sesso, all’età e alla provenienza) e quelle relative all’intonazione, come il controllo delle labbra e del ritmo; la 2ª categoria comprende le vocalizzazioni vere e proprie, ulteriormente suddivise in 3 sottocategorie: • caratterizzatori vocali: contraddistinguono l’ambito emotivo (piangere, ridere, sussurrare, gemere); • qualificatori vocali: identificano le variazioni enfatiche di un singolo elemento della frase (variazioni di timbro, intonazione, intensità ecc…); • segregati vocali: includono tutti quei suoni interposti tra le parole come i grugniti, lo schioccare della lingua e gli intercalari sonori (es: “uhm”, “ah”, “eh”). Laver afferma che il linguaggio parlato può trasmettere informazioni tra parlante e ascoltatore attraverso 3 livelli: 1) linguistico: concerne l’enunciato che viene espresso quando si parla; 2) paralinguistico: trasmette lo stato emotivo e affettivo del parlante e i suoi atteggiamenti; 3) affidato agli aspetti extralinguistici: che identificano gli elementi specifici della voce del parlante e che sono per lo più riconducibili alle conformazioni anatomiche legate al sesso, all’età e alle caratteristiche fisiche e fisiologiche coinvolte nella produzione del linguaggio. Anolli propone la distinzione tra: • segnali vocali non verbali (extralinguistici); • segnali vocali verbali (paralinguistici): hanno un carattere momentaneo, sono connessi all’esposizione linguistica e all’ambiente circostante e sono determinati da 3 fattori: tono, intensità e tempo. 1) tono: determina il profilo dell’interazione ed è costituito dalla frequenza della voce; 2) intensità: si riferisce al volume con il quale si pronunciano le frasi e 3) tempo: è dato dalla velocità di successione delle singole parole e dalla durata delle pause inserite nel discorso. La modulazione e la combinazione di questi 3 fattori comunicano anche componenti emotive e gli atteggiamenti del parlante. L’insieme delle componenti vocali non verbali, ossia delle caratteristiche extralinguistiche, determina la qualità della voce della persona e permette di distinguere in modo appropriato un individuo da un altro. Anolli sostiene che la qualità della voce è influenzata da 4 tipologie di fattori vocali non verbali: 1) fattori biologici, concernono le differenze di età o di genere (es: gli uomini hanno voce più grave rispetto alle donne); 2) fattori sociali, hanno a che fare con la cultura, la provenienza geografica (inflessioni dialettali), l’estrazione e la posizione sociale; 3) fattori di personalità, hanno relazione con tratti psicologici relativamente stabili (es: temperamento); 4) fattori psicologici transitori, connessi con gli stati d’animo, con le esperienze emotive, con gli stati congitivi o con fenomeni come la seduzione, la menzogna e l’ironia. La voce, meglio di altri canali non verbali, può fornire informazioni riguardo agli aspetti emotivi e agli atteggiamenti delle persone. LE PAUSE PIENE E LE PAUSE VUOTE Nell’ambito dell’interazione comunicativa, le pause assumono una valenza non verbale di tipo strategico, il loro significato varia con le situazioni e la cultura di riferimento. Goldman e Eisler sono stati tra i primi a condurre esperimenti per misurare la correlazione tra la pianificazione mentale del discorso e la lunghezza delle pause. I risultati hanno messo in evidenza che le IL SORRISO Il sorriso rappresenta certamente l’espressione con valenza comunicativa più esplicita ed interpretabile. Nella nostra specie segnala felicità, piacere, soddisfazione … Nelle scimmie, invece, corrisponde all’esibizione dei denti finalizzata alla rassicurazione, si può ipotizzare che il messaggio che viene inviato agli altri è: “Non userò i denti per aggredirti”. Nella comunicazione non verbale, svolge l’importante compito di promuovere, agevolare e preservare le interazioni relazionali all’interno del gruppo. LO SGUARDO Tra i diversi aspetti della comunicazione non verbale, lo sguardo svolge un ruolo di fondamentale importanza nelle dinamiche relazionali con gli altri e soprattutto nelle interazioni faccia a faccia . Qualsiasi tipo di relazione è di norma associato al contatto oculare, sia nella fase iniziale della relazione sia nei suoi sviluppi: una conversazione in cui gli sguardi siano assenti è per definizione una comunicazione priva di un elemento costitutivo. Vi è la tendenza a posare lo sguardo perlopiù sulle persone che suscitano simpatia, interesse o da cui si è attratti. Essere guardati da uno sconosciuto in modo intenso e prolungato può generare notevoli disagio e imbarazzo, poiché può essere percepito come un segno di invadenza, se non di minaccia. Innanzitutto, lo sguardo può segnalare la volontà di instaurare un canale per lo scambio comunicativo e di prendere la parola; inoltre, indica che vi è un interesse per la persona guardata e la volontà di chi guarda di interagire. Durante la comunicazione verbale, poi, lo sguardo è funzionale alla regolazione dell’alternanza dei turni, fondamentale per la sincronizzazione degli interlocutori, per controllare l’andamento del colloquio ecc… Lo sguardo è anche un mezzo per veicolare l’immagine di sé che si intende proporre, in quanto chi guarda viene percepito come leale e sicuro di sé e come maggiormente attento è interessato all’altro, al contrario di chi, avendo la tendenza a sfuggire lo sguardo altrui, suscita emozioni negative e viene percepito come poco affidabile. Altri studi hanno evidenziato che le persone reagiscono alla presentazione di oggetti o persone attraenti, piacevoli o rassicuranti con una dilatazione pupillare; si è notato che le pupille si dilatano anche in situazioni in cui vi è un’attivazione di tipo sessuale. Sulla base di alcune ricerche sembrerebbe che gli esseri umani abbiano la capacità inconsapevole di cogliere la dimensione delle pupille degli altri individui e di interpretarne le modificazioni osservabili come segnale di atteggiamento positivo o negativo. I GESTI Con il termine “gestualità” si indicano azioni motorie circoscritte e coordinate, intenzionali o involontarie, per lo più compiute dalle mani, con la finalità di comunicare un significato con riferimento ad uno scopo. I gesti possono accompagnare il discorso per renderlo più comprensibile all’interlocutore o possono essere messi in atto durante la conversazione, in modo inconsapevole e spontaneo, senza essere correlati all’argomento di squisito.  Numerose ricerche si sono focalizzate sullo studio della gestualità cercando di individuare i significati specifici dei singoli gesti; questi studi, però, non hanno portato ad una classificazione unitaria. Ekman e Friesen distinguono 5 tipologie di gesti: 1) gesti emblematici: azioni messe in atto volontariamente aventi un significato specifico altamente convenzionale e codificato, che sono comprensibili per la maggior parte dei membri di una determinata cultura (es: pollice in alto per richiedere un passaggio in automobile). Possono accompagnare o sostituire il linguaggio, specialmente quando la comunicazione verbale risulta impossibile a causa delle condizioni ambientali; 2) gesti illustratori (o simbolici): utilizzati con consapevolezza e intenzionalità, accompagnano e scandiscono il discorso mentre viene pronunciato (es: riprodurre attraverso l’uso delle mani la grandezza dell’oggetto di cui si sta parlando); 3) gesti regolatori: azioni non verbali che sono utilizzate per esercitare un controllo reciproco sul flusso e sullo scambio conversazionale, gestendo la sincronizzazione degli interventi. I gesti regolatori sono utilizzati con un basso livello di consapevolezza e intenzionalità (es: cambiamento brusco e repentino di postura durante una conversazione può manifestare noia); 4) gesti di adattamento: tutti quei movimenti inconsapevoli che si eseguono per soddisfare alcuni bisogni personali o aumentare il livello di benessere autopercepito e che non sono finalizzati a trasmettere un messaggio specifico. Sono appresi nei primi anni dell’infanzia ed entrano a far parte dei pattern comportamentale dell’individuo adulto. Se ne individuano 3 tipi: 1) i gesti autoadattatori: toccamenti, sfioramenti o manipolazioni rivolti verso il proprio corpo (es: mangiarsi le unghie o grattarsi per alleviare un prurito; 2) i gesti eteroadattatori: movimenti che coinvolgono la persona con cui si sta parlando (es: battere sulla spalla dell’interlocutore); 3) i gesti diretti verso oggetti: rivolti verso gli elementi inanimati (es: scarabocchiare o giocherellare con una penna); 5) gesti che esprimono le emozioni: rappresentati in larga parte dai movimenti non verbali e inconsapevoli della mimica facciale, ma anche dai movimenti delle mani e del corpo in generale. Hanno la capacità di trasmettere gli stati d’animo e di esprimere le emozioni provate (es: sorridere, stringere i pungi). Gli stessi Ekman e Friesen hanno riconosciuto che questa classificazione non è del tutto esaustiva. McNeill ha proposto una classificazione basata sulla stretta interdipendenza fra la comunicazione verbale e la produzione gestuale: ha categorizzato i gesti in relazione al ruolo che svolgono all’interno del discorso, ritenendo che non sia possibile analizzare in modo disgiunto la produzione gestuale e quella verbale. McNeill distingue i gesti, eseguiti con mani e braccia, in 2 macrocategorie: 1) gesti caratterizzanti l’attività discorsiva, ovvero strettamente connessi con la dinamica dell’interazione. Comprendono i: • gesti beats: semplici movimenti ritmici, ripetitivi e inconsapevoli delle mani. Di solito svolgono la funzione di sottolineare che una parola o una è frase importante per il suo contributo che svolge nel corso della narrazione; • gesti coesivi: movimenti ripetitivi delle mani eseguiti dal parlante per accompagnare il discorso, fornendo continuità, coerenza e coesione. Non si riferiscono al contenuto del discorso, sono collegati alla sua struttura narrativa; 2) gesti appartenenti al processo di ideazione, cioè legati alla rappresentazione mentale del referente. Comprendono tutti quei gesti che riproducono referenti linguistici e sono suddivisi in: • gesti iconici: necessariamente accompagnati dall’azione del parlare e sono in stretta relazione con quanto si dice (creare la forma di un oggetto attraverso il movimento delle mani); • gesti metaforici: veicolano nozioni o concetti astratti attraverso forme concrete; rappresentano un messaggio metaforico attraverso i movimenti delle mani; • gesti deittici: movimenti di puntamento, normalmente compiuti con l’indice che hanno lo scopo di indirizzare l’attenzione verso un determinato oggetto, persona o direzione nell’ambiente circostante. Concretamente servono a indicare gli oggetti effettivamente presenti di cui si parla (si può additare la bottiglia sul tavolo) o in modo astratto entità che esistono nell’immaginario di chi compie il gesto (puntare all’indietro con il pollice per far riferimento a un tempo passato). o SISTEMA PROSSEMICO E APTICO LA PROSSEMICA La prossemica è quella branca della psicologia che indaga gli aspetti non verbali relativi al modo in cui gli individui collocano, distanziano e orientano i propri corpi nello spazio, e come percepiscono quello degli altri nell’ambiente. Tali scelte non avvengono consapevolmente, ma in modo automatico e incontrollato. I bisogni opposti di contatto con gli altri e di difesa della propria sfera privata sono manifestati dalle persone nella gestione del proprio spazio fisico. Hall, muovendo da ricerche condotte su animali sulla territorialità, ha gettato le basi per lo studio nell’ambito umano dello spazio fisico associato al concetto di territorio. Differenzia la zona privata dell’individuo, rappresentata dal territorio domestico, da quella condivisa all’interno del gruppo sociale, definita territorio pubblico, in cui si può pretendere una determinata parte di spazio come propria, identificandola con specifiche segnalazioni. Questa rivendicazione deve però limitarsi a un lasso temporale definito e implica l’accettazione di regole convenzionalmente condivise. Nel territorio domestico la libertà dell’individuo costituisce la norma, non ha limiti temporali e se ne percepisce pienamente il controllo; possiede, inoltre, confini ben definiti in cui si sperimenta costantemente un senso di benessere e di sicurezza. Hall ha considerato la regolazione della distanza interpersonale (spazio fisico che divide due individui) come un indicatore della lontananza comunicativa fra le persone e come indice psicosociale. Egli evidenzia che, per l’essere umano, dal punto di vista psicologico, il confine del proprio corpo sembra non corrispondere a quello fisico costituito dalla pelle o dagli indumenti; l’uomo si considera avvolto da una sorta di bolla che, a seconda del contesto in cui si trova, delimita lo spazio personale psicologico modificando il proprio raggio. La penetrazione di questa ipotetica bolla da parte di un individuo estraneo viene percepita come intrusiva e genera una sensazione di fastidio. Hall descrive 4 tipologie di distanza interpersonale: 1) distanza intima (da 0 a 50 cm): tipica dei rapporti stretti e intimi, permette di toccarsi in modo prolungato e di percepire l’odore, il respiro e le emozioni dell’altro. Un individuo permette a un’altra persona di accedere all’interno della proroga zona intima, solo se la considera familiare, affidabile e fidata; 2) distanza personale (da 50 a 120 cm): caratteristica delle relazioni amicali, fondate su rapporti caratterizzati da familiarità e benevolenza; 3) distanza sociale (da 1 a 4 m): propria delle relazioni meno personali di tipo formale, il contatto fisico è perlopiù escluso e qualora avvenga casualmente è vissuto come sgradevole; 4) distanza pubblica (oltre i 4 m): tipica delle situazioni pubbliche in cui generalmente non si conoscono le altre persone e implica un’accentuazione dei movimenti e un aumento del volume vocale. La regolazione e la gestione dello spazio conoscono eccezioni, essendo largamente influenzate dal contesto ambientale in cui hanno luogo (es: ascensore in cui ci si trova a una distanza che di norma si tiene avere solo con persone con cui si sé in intimità oppure luogo semideserto come una spiaggia in cui una persona che si viene a stendere a distanza di 5 m verrebbe comunque percepita come sgradita). La prossemica conosce importanti differenze culturali: vi sono culture in cui la distanza impersonale è di norma maggiore (Nord Europa) e culture della vicinanza (arabe o latine) nelle quali la distanza è considerata indice di freddezza. In generale, esiste la tendenza a posizionarsi vicino a persone ritenute gradevoli e lontano da persone considerate spiacevoli. La violazione non autorizzata dei confini del proprio spazio è percepita regolarmente come invasione, minaccia, offesa, e genera pertanto reazioni di difesa o di attacco. L’APTICA L’aptica riguarda le azioni di contatto fisico verso le altre persone. Il contatto fisico rappresenta la forma più primitiva di comunicazione sociale sia per gli uomini che per gli animali. Negli umani, il contatto corporeo è fondamentale nell’infanzia e soprattutto nel periodo neonatale: la sua ricerca costituisce un’esigenza innata, legata non solo alla soddisfazione di bisogni fisiologici ma soprattutto di instaurare un rapporto affettivo e sociale che garantisce protezione. Esso può essere attivo o passivo ed è una necessità per ogni individuo di ogni età. È possibile stabilire un contatto fisico con un’altra persona in modi diversi: stringendo la mano, tenendo sottobraccio, abbracciando... Ciascuna di queste modalità testimonia il tipo di legame che si è instaurato tra le persone assumendo significati e finalità diversi in funzione del contesto, pubblico o privato. Le sequenze di contatto reciproco vengono distinte dai contatti individuali, poiché costituite da serie di azioni di contatto reciproco in successione, sono parti di una stessa interazione, in un rapporto fra pari, e uno stato di forte tensione generato dal sapere che si sta affermando il falso può determinare nel mentitore la dilatazione delle pupille, l’accelerazione dell’ammiccamento delle palpebre o la tentazione di volgere lo sguardo altrove per non incrociare quello dell’interlocutore. Tuttavia, poiché è notoriamente risaputo che lo sguardo sfuggente è indice di menzogna chi mente cercherà di sostenere lo sguardo dell’altro oppure indirizzerà gli occhi su qualsiasi altro oggetto. Per concludere, è importante sottolineare che è rischioso basarsi unicamente sugli indici comportamentali descritti, in quanto nessuno di questi è attendibile in assoluto e valido per tutti: è necessario comparare sistematicamente le situazioni in cui le singole persone sono a loro agio e in tranquillità con le circostanze in cui si sospetta che mentano, per valutarne le differenze. Inoltre, è fondamentale basarsi sull’interazione di una molteplicità di indici e non fare affidamento ad uno solo di questi, che potrebbe unicamente portare alla formulazione di un giudizio di non assoluta certezza. CAPITOLO 4 - LA COMUNICAZIONE PERSUASIVA Man mano che si cresce, la natura e l’entità dei bisogni diventano sempre più complessi e di conseguenza variano anche le modalità per esprimerli: le capacità comunicative si perfezionano divenendo sempre più affinate e strategicamente orientate agli obiettivi prefissati. La comunicazione non è sempre esplicita e diretta e può vantare uno straordinario effetto persuasivo quando i messaggi che vengono veicolati inducono, senza costrizione né violenze, cambiamenti e riorganizzazioni negli atteggiamenti e nei comportamenti degli individui cui sono rivolti (es: campagne di propaganda politica o di marketing). 1. LA PERSUASIONE: TRA ATTEGGIAMENTO E COMPORTAMENTO Secondo il senso comune potrebbe esistere una relazione diretta tra atteggiamento e comportamento (es: se mi dichiaro paladina degli animali non dovrei comprarmi una pelliccia). Tale relazione non è però immediata. Richard LaPiere in una sua ricerca ha dimostrato l’esistenza di una discrepanza notevole tra l’atteggiamento esplicito delle persone e il loro comportamento: non è possibile prevedere il comportamento che verrà effettivamente messo in atto da un individuo sulla base del suo atteggiamento dichiarato. Anche Wicker ha evidenziato che l’associazione tra le due variabili risulta statisticamente debole. In conseguenza di tali risultati, gli studiosi hanno iniziato ad avanzare perplessità in merito al costrutto dell’atteggiamento e alla sua efficacia; la loro attenzione si concentrò allora sui contesti, le modalità e le condizioni che rendevano possibile il recupero dell’idea di atteggiamento come predittore del comportamento. Secondo un modello “tripartito”, gli atteggiamenti sono valutazioni generali su un oggetto, su una persona e su un evento, che hanno alla loro base componenti affettive, cognitive e comportamentali. La componente affettiva si riferisce ai sentimenti o emozioni associati a un oggetto, la componente cognitiva riguarda informazioni, credenze e pensieri che un individuo possiede in merito ad un particolare oggetto, la componente comportamentale si riferisce ai comportamenti passati nei confronti dell’oggetto di atteggiamento. 2. LA TEORIA DELL’ASPETTATIVA-VALORE Nel paradigma aspettativa-valore elaborato da Fishbein e Ajzen la centralità delle credenze è essenziale per comprendere in che modo e secondo quali modalità avviene l’elaborazione delle valutazioni implicate negli atteggiamenti. Dunque, il significato valutativo di un atteggiamento affiori inevitabilmente durante il processo cognitivo di formazione delle credenze su un determinato oggetto. L’atteggiamento è la sintesi delle credenze che un individuo possiede rispetto ad un certo oggetto: concetto legato ad un modo di sentire costante verso un oggetto, persona, situazione. Le credenze rappresentano le informazioni che un individuo possiede in merito a un determinato oggetto o a una certa persona o situazione: sono le informazioni che la mente elabora. Le credenze possono essere considerate come l’unione imprescindibile di 2 fattori: • aspettativa: la probabilità percepita, e quindi soggettiva, che un certo oggetto abbia determinati attributi o che un determinato evento riguardante l’oggetto in esame si verifichi. La valutazione di questa probabilità può essere espressa con punteggi che variano da 0 (impossibile) a 1 (sicuro).  Esempio: se l’oggetto è spostarsi in bicicletta in città, il relativo atteggiamento potrà dipendere da aspettative come: muoversi agevolmente nel traffico cittadino, fare moto e attività sportiva, inalare grandi quantità di smog, esporsi al pericolo di incidenti stradali; • valore: la valutazione di desiderabilità che l’individuo fa degli attributi o delle caratteristiche dell’oggetto in esame. La valutazione può essere positiva o negativa e pertanto il valore può essere espresso con un punteggio che va da un minimo di -3 ad un massimo di +3.  La probabilità che un individuo metterà in atto uno specifico comportamento è data dalla somma dei prodotti “aspettativa x valore”, per ciascuna credenza. 3. LA TEORIA DELL’AZIONE RAGIONATA Fishbein e Ajzen elaborano la teoria dell’azione ragionata, basata sul modello dell’aspettativa-valore (che Ajzen perfezionerà poi nel modello del comportamento pianificato, in cui, accoglie le istanze provenienti dalle ricerche intorno al controllo dell’azione). Con questa teoria definiscono che l’idea di una relazione fra atteggiamento e comportamento può essere recuperata se si perfezionano i parametri utilizzati nella ricerca e si prescinde dalla questione, eccessivamente ampia, relativa all’esistenza di una relazione diretta tra atteggiamento e comportamento. Solo con una correzione del metodo sarà possibile riconoscere una rispondenza tra atteggiamento e comportamento, tra aspetti cognitivi e azioni. Un aspetto importante concerne la differenziazione tra oggetto e azione: si deve studiare l’atteggiamento in quanto esso è indirizzato non già verso un oggetto considerato in generale, ma verso un’azione. L’elemento innovativo del modello consiste nel considerare i processi intenzionali fondamentali nel dar conto dell’associazione tra atteggiamento e comportamento: infatti, il comportamento degli individui ha carattere di razionalità e si fonda su degli effetti che dai comportamenti possono derivare (es: reazioni di altri individui). L’intenzione soggettiva determina il comportamento delle persone, che deriva dall’intenzione a metterlo in atto: gli individui agiscono basandosi sulle proprie intenzioni e, pertanto, per comprendere il loro atteggiamento verso determinato oggetto, sarebbe sufficiente chiedere loro cosa intendono fare in merito. Il comportamento programmato risulta necessariamente associato con le intenzioni ed è probabile che, chi è orientato ad avere un certo comportamento, lo adotterà effettivamente. Se il comportamento è funzione dell’intenzione, essa, a sua volta, è determinata dall’atteggiamento verso il comportamento, cioè la valutazione soggettiva del comportamento, e dalle norme soggettive, intese come le credenze personali circa modalità in cui ti ritiene che altri possono giudicare il comportamento.  Il fattore atteggiamento si riferisce al modo in cui l’individuo si pone nei confronti del comportamento. L’atteggiamento verso il comportamento è determinato dalle credenze sulla probabilità degli esiti del comportamento stesso: ha una relazione diretta sia con l’aspettativa che il comportamento produca un effetto desiderato, sia con il valore associato a questa conseguenza. Le norme soggettive rappresentano le percezioni dell’individuo circa le aspettative che ritiene siano presenti negli altri significativi (parenti, familiari, amici) riguardo l’attuazione del comportamento. Questo modello spiega i processi di formazione degli atteggiamenti secondo una prospettiva essenzialmente razionale, ma, ciò nonostante, è stato oggetto di critiche: non sembrava poter essere utilizzato per spiegare i comportamenti intrapresi in modo irrazionale. 4. LA TEORIA DEL COMPORTAMENTO PIANIFICATO L’agire degli individui, secondo la teoria dell’azione ragionata, presuppone che le persone siano capaci di analizzare razionalmente le informazioni assumendo decisioni consapevoli. Nella realtà possono esserci comportamenti poco o per niente ragionate e controllabili, come per esempio i comportamenti automatici legati all’abitudine (guidare o mangiare), quelli connessi a forme di dipendenza (alcolismo) o collegati alle emozioni (arrossire in volto, sudorazione delle mani).  Ajzen, per rispondere alle critiche e dare conto dei comportamenti fuori dal controllo diretto, concepisce un nuovo modello del comportamento pianificato, che prevede che l’intenzione ad agire sia influenzata da 3 fattori: 1) atteggiamento verso il comportamento, 2) norme soggettive 3) controllo comportamentale percepito. I primi 2 fattori coincidono con quelli previsti dal modello dell’azione ragionata. L’elemento di originalità introdotto è il terzo fattore, riguardante il controllo comportamentale percepito dell’agire, una dimensione bipolare concepita come un continuum: ad un estremo sono collocati gli atti sui quali il soggetto esercita un controllo totale (es: acquistare un vestito), all’altro quelli su quali il controllo è pari a zero (es: abbassamento temperatura corporea quando si ha la febbre).  Il controllo comportamentale non deriva solo dal controllo oggettivo riguardo all’azione, ma anche dalle cosiddette credenze di controllo: percezioni soggettive, legate a fattori personali o situazionali, intorno alla capacità di controllare ogni specifico comportamento, che sono influenzate da molteplici aspetti e dipendono da quanto l’individuo ha esperito nel passato, dalla sua valutazione di impedimenti e di risorse e dalle opinioni delle altre persone. 2 modalità attraverso le quali il controllo comportamentale influisce sul comportamento:  indiretta: il comportamento influenza l’intenzione di un individuo di agire, in quanto chi progetta una determinata azione si basa sulla fiduciosa convinzione che le proprie risorse, abilità e capacità gli consentiranno di metterla in atto;  diretta: il controllo comportamentale percepito ha delle conseguenze dirette sul comportamento; il reale controllo dell’azione condiziona inevitabilmente il comportamento stesso. Fishbein e Ajzen hanno messo in luce degli aspetti connessi con la comunicazione persuasiva. Il comportamento, non risulta derivare direttamente dagli atteggiamenti, ma è l’esito della interazione di una molteplicità di altri fattori. Per potersi dire efficaci, i messaggi persuasivi dovrebbero pertanto tener conto di questa complessa varietà di elementi interconnessi e basarsi su contenuti capaci di influenzare le intenzioni dei destinatari sia sul piano cognitivo (atteggiamenti), sia sul piano comportamentale. 5. PRIMI STUDI SUI PROCESSI PERSUASIVI Intorno alla metà del Novecento, l’indagine sulla comunicazione persuasiva si è potuta avvalere di nuovi strumenti metodologici la cui elaborazione ha coinciso con lo sviluppo della psicologia sociale. Da quel momento in poi, i processi persuasivi sono divenuti oggetto di studi sistematici basati su paradigmi sperimentali  post-decisionale: avviene in situazioni di libera scelta quando si decide tra due alternative. Allo scopo di attenuare l’effetto di questo tipo di dissonanza, l’individuo, a posteriori, seleziona informazioni, notizie e motivazioni a sostegno della scelta compiuta e, analogamente, scredita l’alternativa scartata;  prodotta da comportamenti contro-attitudinali: esempio classico del tabagismo  coloro che fumano (comportamento messo in atto) sono consapevoli (aspetto cognitivo) che tale condotta nuoce gravemente alla loro salute. Per ridurre l’effetto spiacevole derivante dalla dissonanza si può scegliere tra le seguenti opzioni: • produrre un cambiamento nell’ambiente circostante nel tentativo di modificare la relazione esistente tra comportamento e atteggiamento. Un cambiamento di questo tipo di risulta la maggior parte delle volte impossibile attuare (fare in modo che il fumo non danneggi più la salute modificando i principi attivi presenti nel tabacco pur mantenendo inalterato il sapore); • produrre un cambiamento nel proprio comportamento (smettendo di fumare si ristabilirebbe immediatamente lo stato di consonanza); • produrre un cambiamento al livello cognitivo relativo alle opinioni e agli atteggiamenti che risultano in dissonanza con i comportamenti (per continuare a fumare senza percepire costantemente il fastidio prodotto della dissonanza cognitiva, selezionare memorizzare tutte quelle informazioni a sostegno del fumo, sfuggendo tutte quelle notizie che invece ne sottolineano la pericolosità). Per Festinger, solo se l’individuo è convinto di aver liberamente messo in atto il comportamento dissonante con le sue opinioni e credenze sarà motivato a mutarlo. La teoria della reattanza, formulata da Brehm, illustra gli effetti della limitazione della libertà di scelta e di azione sugli individui. Proibire a una persona di agire in un determinato modo, causerebbe la reattanza, cioè una spinta motivazionale forte a ristabilire il senso di libertà: il comportamento sanzionato viene considerato più desiderabile e di conseguenza agito con maggiore frequenza. Tornando all’esempio del tabagismo, secondo la teoria, sarebbe assolutamente da evitare una linea proibizionista nei riguardi del fumo: ci si potrebbe aspettare non solo un incremento la parte dei fumatori del loro comportamento, ma anche che l’attività stessa di fumare appaia maggiormente appetibile e attraente. Secondo la teoria della reattanza, in termini persuasivi risulta più efficace un messaggio indiretto, ovvero indirizzato ad altri, piuttosto che uno diretto indirizzato a noi personalmente: quando è diretto ad altri, non percependo il senso di reattanza, possiamo valutare con distacco il contenuto del messaggio. 8. LA TEORIA DELLA RISPOSTA COGNITIVA Secondo la teoria della risposta cognitiva di Greenwald, la formazione ed il cambiamento degli atteggiamenti sono riconducibili alle elaborazioni cognitive compiute dall’individuo in relazione agli stessi atteggiamenti: discendono dalle soggettive valutazioni razionali degli elementi positivi e degli elementi negativi in un determinato atteggiamento. Con i loro argomenti, i messaggi persuasivi sono capaci di produrre un cambiamento di atteggiamento, in quanto provocano nell’individuo delle reazioni che lo inducono ad aderire alla visione ritenuta più vantaggiosa. Quando si è esposti ad una comunicazione e si riceve un messaggio, si associa quanto viene comunicato a quanto già si sa; ai diversi argomenti che compongono il messaggio si reagisce con una serie di pensieri a favore o contro. L’esito di questo processo fa sì che gli elementi cognitivi in gioco, relativi alla valutazione, l’elaborazione e l’associazione delle informazioni risulta in gran lunga maggiore rispetto alla somma degli interventi più contenute nel messaggio. Il cambiamento di atteggiamento discende da tali processi mentali che l’individuo autonomamente avvia e non è determinato direttamente dall’entità delle informazioni ricevute. La capacità persuasiva del messaggio è maggiore se il suo contenuto richiama alla mente pensieri favorevoli. Il cambiamento di atteggiamento non è funzione della minore o maggiore ricezione degli argomenti, ma è influenzato dalla quantità e dalla qualità dei pensieri evocati dalle informazioni contenute nel messaggio persuasivo.  Nel loro studio della persuasione, i ricercatori dell’Ohio State University hanno sperimentato un elenco dei pensieri, un metodo grazie al quale fosse possibile misurare le risposte cognitive, ritenute alla base dei mutamenti di opinione. Hanno dimostrato che esiste una correlazione tra il grado di accordo dei pensieri (favorevoli o contrari) con gli argomenti presentati nel messaggio e l’entità del cambiamento di atteggiamento. Gli studiosi estesero, quindi, la nozione di risposta cognitiva rispetto a precedenti concettualizzazioni: grazie a questo affinamento del modello della risposta cognitiva, l’assenza di una relazione diretta fra il ricordo degli argomenti e mutamento degli atteggiamenti trovò una spiegazione. Infatti, non è la ricezione delle informazioni a produrre il cambiamento degli atteggiamenti, ma le risposte cognitive, ossia i pensieri, che le informazioni evocano nel ricevente. I pensieri che si presentano come reazioni al contenuto del messaggio, e sono tali da poter influenzare l’atteggiamento, sono classificabili in 3 categorie: • contro-argomentazioni : pensieri in cui è espresso un disaccordo rispetto al testo; • argomentazioni di supporto: pensieri che esprimono l’accordo); • discredito della fonte: pensieri con i quali la fonte del testo viene discreditata. 9. I MODELLI DUALI DELLA PERSUASIONE Intorno agli anni Ottanta, sono state condotte importanti ricerche che hanno portato alla creazione di 2 modelli teorici che si proponevano di poter dare conto di come la comunicazione persuasiva potesse avvenire attraverso percorsi differenti: 1) il modello della probabilità di elaborazione; 2) il modello euristico sistematico. 1) IL MODELLO DELLA PROBABILITÀ DI ELABORAZIONE (ELM) La persona che riceve un messaggio comunicativo deve compiere una scelta, accogliendo o meno il punto di vista in esso contenuto. Secondo il modello della probabilità di elaborazione (ELM), nel tentativo di formulare un proprio giudizio, le persone possono impiegare 2 differenti e alternativi processi di elaborazione:  percorso centrale: il processo prevede che le informazioni e le argomentazioni siano attentamente elaborate ed esaminate: gli individui considerano ed esplorano il contenuto del messaggio persuasivo, valutano criticamente e in maniera sistemica il messaggio, provano a richiamare alla memoria le loro precedenti conoscenze intorno all’argomento, collegano le loro conoscenze alle nuove informazioni e ne traggono valutazioni. È basato su un’elaborazione consapevole delle informazioni e genera duraturi cambiamenti dell’atteggiamento e del comportamento;  percorso periferico: questo processo non implica un’elaborazione sistematica, il giudizio delle persone viene formato sulla base di indici situazionali e informazioni contestuali, rappresentate dalla credibilità, dall’attendibilità della fonte, dal coinvolgimento emotivo indotto dalle immagini ecc …  Questo percorso è caratterizzato da un’elaborazione segnata da uno sforzo cognitivo limitato: gli elementi per esso rilevanti non hanno rapporto diretto con l’argomento, costituiscono piuttosto informazioni di sfondo.  Il termine “elaborazione”, utilizzato da Petty e Cacioppo, pone l’accento sull’aspetto di riflessione intorno alle informazioni da parte di chi riceve il messaggio. gli autori pongono i due percorsi ai due estremi di un continuum che si estende da strategie ragionate a strategie non ragionate: da una parte quindi le argomentazioni proposte vengono ponderate, dall’altra si considerano gli indici periferici del messaggio. I due modelli tendono ad escludersi reciprocamente: caso per caso gli individui scelgono di adottare questo o l’altro.  Nel determinare la probabilità che un individuo analizzi modo critico e accurato le argomentazioni espresse da un messaggio, hanno proposto 2 ordini di fattori: 1) la motivazione all’elaborazione, 2) le abilità cognitive. I messaggi che hanno per l’individuo una notevole importanza sono quelli ai quali, con maggiore probabilità, tenderà a rivolgere l’attenzione. Se si è poco motivati a comprendere il contenuto di un messaggio, si può scegliere di risparmiare risorse, adottando il percorso periferico (e viceversa). Ma essere motivati non è sufficiente: l’individuo deve anche possedere l’abilità cognitiva per l’elaborazione del messaggio: sono necessarie diverse risorse cognitive come prestare attenzione, comprendere ecc … Tuttavia, le abilità cognitive riguardano anche condizioni contingenti che, in un determinato momento, influiscono sulla qualità dello sforzo cognitivo nel quale gli individui hanno la capacità di impegnarsi.  Gli autori hanno elaborato, inoltre, una scala atta a calcolare il bisogno di cognizione: di fronte ad un messaggio persuasivo, gli individui con un alto bisogno di cognizione percorrono di preferenza la via centrale della persuasione impegnandosi in un esame della validità delle argomentazioni proposte. Al contrario, gli individui con un basso bisogno di cognizione si arrestano agli indici periferici del messaggio e ai suoi elementi superficiali, giungendo a una valutazione finale con un risparmio notevole di energia mentale (percorso intrapreso anche quando il messaggio non è comprensibile o se si dispone di poco tempo!). Un ulteriore fattore che può condizionare la scelta del percorso è costituito dall’umore: esso può influenzare tanto le capacità cognitive quanto le motivazioni. Un umore positivo inibisce la capacità di elaborazione propria del percorso centrale e predispone gli individui a prendere in considerazione prevalentemente i fattori periferici; viceversa, un umore neutro permette un’elaborazione delle informazioni attraverso il percorso centrale, attenuando quelli del percorso periferico. 2) IL MODELLO EURISTICO-SISTEMATICO (HSM) Quasi contemporaneamente al modello della probabilità di elaborazione, Shelly Chaiken elaborava un approccio esplicativo del processo di persuasione, il modello euristico-sistematico (HSM). Anche la prospettiva euristico-sistematica è un modello duale, prefigura cioè l’impiego di 2 processi con i quali l’individuo giunge a esprimere un giudizio intorno alla validità di un messaggio finalizzato a modificare l’atteggiamento. Questo modello prevede però la possibilità della compresenza delle 2 modalità di elaborazione.  Analogamente al percorso centrale dell’ELM, il primo processo implica un’apertura mentale verso lo sforzo cognitivo e prevede l’elaborazione sistematica delle informazioni contenute nel messaggio: gli argomenti vengono analizzati e si riflette con cura sulle conclusioni. Nell’elaborazione sistematica, le conclusioni di un messaggio vengono accettate o rifiutate, dopo che sono state accettate o rifiutate le argomentazioni che supportano tali conclusioni.  L’altra modalità di elaborazione è costituita da informazioni alle quali l’individuo può accedere agevolmente: senza investire direttamente il contenuto del messaggio, tali informazioni si configurano quali regole di decisione, o euristiche (scorciatoie cognitive che facilitano la decisione in quanto abbreviano la durata dell’elaborazione delle informazioni). L’elaborazione euristica può eliminare la mediazione dell’esame delle argomentazioni: si può arrivare a un giudizio semplicemente confrontando senza mediazioni le conclusioni e la regola a disposizione di chi riceve il messaggio. Anche nel modello euristico-sistematico, capacità cognitive dell’individuo e motivazione costituiscono fattori decisivi. Quando l’esigenza di avere giudizi accurati supera l’esigenza di risparmio di risorse cognitive, si ha la prevalenza del percorso sistematico contro quello euristico; questa esigenza procede all’aumento del convincimento indotto dall’importanza degli esiti per la propria persona. L’utilizzo delle regole euristiche è vincolato ad alcune condizioni basilari: l’individuo nel passato deve aver appreso e immagazzinato nella memoria la regola da utilizzare (disponibilità), questa deve poi essere richiamata nella situazione appropriata (accessibilità). Una regola disponibile accessibile deve essere percepita come affidabile (applicabile), ossia come in qualche modo rilevante nel caso particolare di cui si tratta (percezione di affidabilità). Quando non ci sono tutte le condizioni (abilità cognitiva, motivazione, accessibilità e disponibilità euristiche e percezione di affidabilità), è possibile che il proprio giudizio sia raggiunto contemporaneamente attraverso due percorsi. gli effetti congiunti che derivano da un simile modo di procedere possono essere di vario genere. Gli effetti esercitati dalle due modalità di elaborazione possono essere fra loro indipendenti o (per atteggiamento, classe sociale, stili di vita) agiscono quindi come fattore deresponsabilizzante. Esiste anche la versione patologica del principio della riprova sociale: a seguito di numerosi casi di suicidi che avevano avuto una maggiore risonanza sui mezzi di comunicazione negli Stati Uniti si sono verificati aumenti di suicidi. Il potere del principio di riprova sociale è utilizzato in molti altri ambiti della vita sociale e spesso si basa su principi incoraggianti: in campo televisivo ad esempio per invogliare a ridere al momento giusto di utilizza l’incisione di risate finte su un filmato. Oppure, se viene richiesto di fare una donazione e si rende nota la lista dei precedenti donatori, questo faciliterà l’adesione alla donazione. Anche dal punto di vista commerciale e pubblicitario, le tecniche basate sul principio di riprova sociale hanno un grande potere: far credere che un prodotto abbia un grande successo è il modo migliore per venderlo  se piace agli altri, oltre ad essere una garanzia, è un incitamento a comportarsi allo stesso modo. Il principio è stato utilizzato anche a fini terapeutici: negli anni ‘60 fu applicato la cura delle fobie nei bambini dimostrando che i bambini che avevano terrore dei cani superavano in soli quattro giorni nei loro fobie osservando il loro coetaneo che giocava felicemente con un cane. 4) SIMPATIA Il principio della simpatia afferma che delle persone che ci piacciono, o che sono simili a noi, ci possiamo fidare e pertanto siamo disposti ad accettare una loro richiesta o consiglio. Queste persone riusciranno più facilmente delle altre a convincere, ad essere persuasive. Vi sono particolari elementi che suscitano un effetto simpatia, tra questi vi è la bellezza (alla persona fisicamente attraente vengono conferite altre prerogative positive come il talento, la gentilezza e l’intelligenza). Un ulteriore elemento da tener presente è dato dalla somiglianza: mostrare di condividere i modi di sentire e di pensare del prossimo produce una reazione di simpatia. Perfino l’abbigliamento può essere un elemento discriminante. Anche i complimenti sono molto efficaci per indurre simpatia: ci piacciono le persone alle quali supponiamo di piacere. Altri elementi atti a suscitare un effetto di simpatia sono il contatto e la cooperazione: le persone con cui abbiamo più contatti sono quelle a cui più volentieri ricordiamo il nostro favore, il nostro atteggiamento verso una cosa è influenzato dal numero di volte che vi siamo stati esposti in passato. I principi del condizionamento e dell’associazione sono fondamentali nel creare simpatia. Persone e cose percepite come fra loro collegate tendono a generare le risposte automatiche determinate dall’associazione.  Per ciò che concerne il cibo, è stato dimostrato che i soggetti sono più favorevoli a cose e a persone presentate loro mentre stanno mangiando (associazione con il cibo ampiamente sfruttata in ambito politico). 5) AUTORITÀ L’obbedienza all’autorità è un fattore indispensabile per la sopravvivenza e lo sviluppo della società. Siamo educati fin dalla nascita pensare che obbedire alle autorità legittima è giusto, disobbedire sbagliato. L’autorità è un importante fattore di persuasione. Le persone hanno un radicato senso di deferenza verso le autorità che considerano legittima e tendono a seguire gli esempi da questa impartiti, anche quando palesemente contrari alle norme socialmente condivise.  Secondo il principio dell’autorità, le persone tendono ad affidarsi a esperti ritenendo che le risorse e le informazioni da essi possedute siano sufficienti per giustificare comportamenti di obbedienza o di emulazione. Inoltre, l’affidarsi a esperti è ritenuto vantaggioso nel momento in cui si devono prendere decisioni e, in situazioni in cui le informazioni a disposizione sono poche e confuse, agisce da vera e propria euristica. Titoli, abiti e ornamenti rappresentano i simboli e i segni esteriori del potere e dell’autorità. 6) SCARSITÀ Molte ricerche nel campo della psicologia sociale hanno confermato che le persone, quanto meno possono entrare in possesso di un qualcosa perché raro e poco accessibile o quando per ottenerlo devono entrare in competizione con altri, tanto più lo desiderano e il timore di restarne privi prevale sull’idea di ricavare un effettivo vantaggio nell’ottenerlo (es: i collezionisti sono disposti a pagare qualsiasi cifra pur di accaparrarsi oggetti razionalmente senza valore, è la loro unicità a renderli speciali). In ambito commerciale e pubblicitario si utilizza la tattica del numero limitato o dell’offerta valida per pochi giorni, con la quale si sollecita il pubblico a cogliere quell’opportunità prima che finisca.  Questo comportamento diffuso trae forza da 2 fattori: • inclinazione degli individui ad intraprendere una scorciatoia cognitiva sapendo che le cose difficili da possedere sono di norma migliori di quelle facilmente accessibili: si è portati a credere che ci sia una proporzionalità diretta tra rarità e qualità; • fenomeno della reattanza psicologica, in base al quale quando si ritiene che la libertà di comportamento sia limitata o minacciata, si reagisce volendo a tutti i costi godere di quella libertà; così, quanto più un oggetto è presentato come caratterizzato da disponibilità limitata tanto maggiore sarà il gradimento che incontrerà.  11. COMUNICAZIONE E MARKETING Le analisi di marketing individuano quali prodotti e servizi interessano ai clienti o utilizzatori e studiano le strategie di vendita e di comunicazione. Una decisione di marketing implica una certa tipologia di destinatario, per questo destinatario la comunicazione dovrà essere pensata e immaginata; in tal senso, le strategie di marketing condizionano le strategie di comunicazione. Secondo l’economista James Deusenberry, l’atteggiamento delle persone è influenzato fortemente da fattori psicosociali: l’imitazione del comportamento di altri appartenenti alla stessa cultura ne è un esempio. Inoltre, sebbene di nessuna utilità, esistono beni investiti in una speciale valenza (psicologica, culturale, sociale), la cui acquisizione può essere vitale all’acquisizione di prestigio o il mantenimento dell’autostima. Nel periodo fra le due guerre mondiali, allo sviluppo industriale corrisponde un notevole ampliamento dell’offerta di prodotti che non riguarda più solamente beni di prima necessità: la grande varietà di beni e servizi rende progressivamente sempre più difficoltoso ricondurre le decisioni a una gamma ristretta di tipologie di consumatori individuati in base a criteri sociologici e culturali dai quali potersi aspettare comportamenti di acquisto stabili e prevedibili ai quali indirizzare specifiche strategie di comunicazione. Gli atteggiamenti costituiscono una modalità importante attraverso cui le persone esprimono valori, priorità, desideri. Sempre più il consumatore tende ad associare la scelta di un prodotto a un insieme di valori. Parallelamente, si assiste anche a un cambiamento nel modo di concepire la comunicazione, che, anziché focalizzarsi sul consumatore, sempre più si concentra sul prodotto. Al prodotto è associata una serie di benefit (es: bellezza, successo) che si ha la sensazione di acquisire acquistando il prodotto, diventando più belli, più sani, più giovani ecc... La comunicazione inizia a fare leva sulle promesse che un determinato prodotto è in grado di offrire. Le principali funzioni svolte dalla comunicazione di marketing sono: • attirare attenzione: l’incremento esponenziale delle informazioni degli ultimi anni ha generato un eccesso di informazioni di fronte al quale il possibile consumatore rischia di non potersi orientare, di fronte a questo sovraccarico, l’economia dell’attenzione è utilizzata nelle applicazioni di internet, in cui è finalizzata alla gestione ottimale del flusso di informazioni: se all’utente di un’applicazione che sta cercando un’informazione, viene richiesta una quantità di tempo che giudica eccessiva, tenderà a indirizzarsi verso un’altra applicazione. Di qui la necessità di elaborare filtri e accorgimenti in grado di assicurare che i primi contenuti visualizzati corrispondano ai contenuti che l’utente verosimilmente riterrà per lui maggiormente significativi; • informare: la funzione relativa all’informazione concerne il compito tradizionale della comunicazione, quello cioè di fornire al potenziale consumatore i dati oggettivi sulla base dei quali dovrà compiere le proprie scelte; • essere ricordata: la comunicazione deve poter essere ricordata: non solo le caratteristiche dei prodotti devono poter essere richiamate alla memoria, ma anche i nomi, i marchi, e tutto ciò che circonda e definisce i prodotti; • persuadere: capacità connessa solo parzialmente ai dati obiettivi trasmessi nell’informazione: affinché una comunicazione sia, non solo oggetto di attenzione, compresa e ricordata, ma anche in grado di persuadere, è necessario che essa assolva a una serie di condizioni. Il pubblico deve percepire la fonte della comunicazione come autorevole e deve associare al messaggio elementi positivi, cognitivi ed emozionali. 2 modalità, che possono combinarsi, con cui la comunicazione si rapporta al comune al consumatore:  tradizionale: è caratterizzata dalla focalizzazione sul momento dell’informazione e caratteristica di una fase della produzione precedente alla comunicazione di massa. Prevede che l’esposizione del messaggio da parte dell’azienda avvenga nello stesso punto vendita attraverso la una figura che assolve la doppia funzione di venditore e consulente che si incarica di informare il cliente sulle caratteristiche prodotto. La comunicazione è essenzialmente di tipo informativo;  caratteristica della società dei consumi di massa: è caratterizzata dall’orientamento alla persuasione piuttosto che all’informazione. Il contatto comunicativo tra l’azienda e il cliente oltrepassa la distribuzione e il punto vendita (contattati dal cliente solo in seguito al messaggio comunicativo) utilizzando come canali i mass media. La modalità è immaginata per un pubblico ampio.  La distinzione tra le due modalità corrisponde alla distinzione tra percorso centrale e percorso periferico nel modello della probabilità di elaborazione di Petty e Cacioppo. Le strategie di comunicazione sono condizionate dalle strategie di marketing, nella sua classica analisi, Maslow individua 5 livelli di bisogni dei potenziali acquirenti: 1) fisiologici (fame, sete); 2) di sicurezza (elementare della persona); 3) sociali (appartenenza, affetto); 4) di stima (status, autostima); 5) di autorealizzazione (realizzazione di aspirazioni intime e individuali). La struttura prevede un’organizzazione gerarchica: non è possibile accedere al soddisfacimento di un bisogno se prima non se ne è soddisfatto uno situato a un grado inferiore della scala gerarchica. La gerarchia di Maslow è stata criticata per un eccesso di schematicità, in quanto non considera il fattore dell’intensità dei bisogni e la variabilità culturale delle gerarchie. I bisogni sono fattori dinamici: il loro soddisfacimento non vale per sempre, ma è ristretto a periodi di tempo limitati; inoltre, il soddisfacimento di uno di essi ne genera immediatamente altri, oppure li porta in primo piano. Il processo di decisione, ossia la scelta di un determinato prodotto, è condizionata all’individuazione, da parte del consumatore, dell’esistenza di un problema costituito dalla percezione di uno scarto fra lo stato attuale e stato ideale. Indurre a immaginare un nuovo stato ideale o produrre insoddisfazione nei confronti dello stato attuale sono compiti della comunicazione commerciale, che deve però anche proporre il bene oggetto della comunicazione come l’unico capace di risolvere il conflitto determinato dallo scarto fra i due stati. Nella pubblicità subliminale, la persuasione viene ottenuta attraverso la presentazione a un individuo, nel corso di una proiezione, di parole-stimolo per una frazione di tempo limitata, cosicché il soggetto, senza averne la consapevolezza, è in grado di registrare la valenza semantica dello stimolo ricevuto. La pubblicità può dirsi efficace quando riesce a determinare nel consumatore, in seguito all’esposizione a una comunicazione strategicamente orientata alla persuasione, scelte di acquisto consapevoli che riguardano specifiche marche e prodotti. Secondo Patty e Cacioppo il grado di coinvolgimento non dipende tanto dai singoli prodotti presentati nel messaggio quanto piuttosto dalla specifica individualità dei consumatori. 12. LA PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA atteggiamento falsamente accogliente; 2) considerazione positiva incondizionata: fornire un supporto e un’accettazione dell’utente/cliente indipendentemente da ciò che dice e che fa. Aspetti di positività durante l’interazione: comprensione, interessamento, partecipazione, coinvolgimento. L’operatore dovrebbe considerare il cliente/utente degno di riguardo e considerazione, in quanto persona, e non in funzione del suo comportamento, difficoltà o specifiche circostanze. L’atteggiamento positivo che l’operatore deve assumere è paragonabile al modo di porsi di una madre sicura, che stima, apprezza ed esalta il proprio figlio. Questa propensione non implica minimamente che l’operatore debba essere passivamente neutrale e insensibile ad aspetti etici e morali che il cliente/utente può affrontare, l’operatore deve poter creare le condizioni in cui sia possibile attuare una sospensione del giudizio, ovvero una sorta di messa tra parentesi dei pregiudizi comuni e delle conoscenze riconducibili ai vari costrutti teorici, al fine di cogliere la dimensione in cui fenomeni e l’esperienza si manifestano. In questa situazione, il cliente/utente non sentendosi giudicato puoi esprimere aspetti problematici e dolorosi del proprio Sé, altrimenti non mostrati, di cui inevitabilmente prenderà coscienza; 3) empatia: l’operatore riesce, seguendo un processo volontario e consapevole, a immedesimarsi nei panni del cliente/utente, a cogliere il suo stato d’animo, la tonalità del suo umore, le sue emozioni e i suoi sentimenti, non tenendo conto esclusivamente del suo eloquio, ma considerando anche i suoi aspetti non verbali. L’operatore, durante questo processo, non deve mai perdere il contatto con sé stesso, con le proprie percezioni e con la propria identità personale, che non deve confondere in nessun modo con quella del cliente/utente. L’empatia, favorendo un contesto relazione positivo, permette di entrare in un contatto emotivo intimo con il cliente/utente, che sperimenta un effettivo atteggiamento empatico da parte dell’operatore percepisce i benefici immediati dovuti alla comprensione profonda dei suoi stati emotivi e consolida il suo rapporto di fiducia e può intraprendere costruttivamente il percorso di cambiamento. 3. I COMPITI DELL’OPERATORE NELLA RELAZIONE D’AIUTO La teoria dell’attaccamento elaborata da Bowlby costituisce una cornice concettuale particolarmente ricca e utile negli interventi basati sulla relazione d’aiuto, in particolare in ambito psicologico. La relazione che si instaura tra l’operatore e la persona, secondo la teoria dell’attaccamento, è il primo e più importante strumento capace di promuovere il cambiamento. È proprio grazie alla relazione che elementi come empatia, ascolto attivo e promozione dell’autonomia risultano efficaci (senza l’instaurarsi di una buona relazione, rischiano di rimanere meri espedienti tecnici). Una relazione positiva rappresenta il prerequisito fondamentale affinché il cliente/utente possa intraprendere un percorso di cambiamento. Gli operatori che intendono gestire al meglio la relazione dovrebbero rifarsi a quelli che Bowlby ha individuato come i compiti terapeutici più importanti:  porsi per il cliente/utente come base sicura da cui partire per esplorare sé stesso e l’ambiente circostante: al pari della madre, quindi, l’operatore, assumendo il ruolo di base sicura per il cliente/utente, deve offrire disponibilità, supporto, conforto emotivo per consentirgli di sperimentare, in condizione di sicurezza, il mondo esterno, la propria interiorità, le proprie relazioni con gli altri e le circostanze della vita che lo hanno portato a chiedere aiuto. Porsi come base sicura è essenziale, quindi, per creare il clima di fiducia necessario a mettere il cliente/utente in condizione di affidarsi all’operatore, instaurando una relazione affidabile, stabile e duratura che gli consenta di modificare il proprio assetto mentale e la propria prospettiva su di sé e sul mondo;  favorire il processo di esplorazione del cliente/utente: incoraggiandolo e sostenendolo nell’analizzare in che modo nella sua vita solitamente consolida rapporti con le persone significative;  stimolare il cliente/utente a considerare la particolare relazione che si instaura tra di loro: prendere in considerazione le dinamiche relazionali nel qui e ora della consulenza d’aiuto per consentire al cliente/utente di comprenderle e iniziare a modificarle all’interno della relazione protetta con l’operatore;  obiettivo come diretta conseguenza del terzo: l’operatore, dopo aver focalizzato l’attenzione del cliente/utente sulla relazione che si è instaurata tra di loro, incoraggia il cliente/utente a mettere a fuoco come i suoi comportamenti e atteggiamenti siano l’esito delle esperienze vissute nell’infanzia con le figure di attaccamento. Si innescherà un lungo processo durante il quale il cliente/utente dapprima comprenderà i comportamenti genitoriali che lo hanno portato a provare il suo disagio; successivamente, rendendosi conto di quali circostanze e situazioni emotiva nella vita dei genitori abbiano condizionato i loro comportamenti, proverà per loro compassione; infine, proverà per loro un senso di riconciliazione e perdono;  quando il processo riflessivo del cliente/utente è a uno stato avanzato, l’operatore lo potrà incoraggiare a prendere consapevolezza che alcuni aspetti dei suoi modelli mentali di sé e del mondo, che lo inducono a comportarsi costantemente secondo le medesime modalità, sono disfunzionali. Si potrà allora iniziare a lavorare per modificare tali modalità relazionali che impediscono al cliente/utente di interagire e di comportarsi in modo adeguato. 4. ELEMENTI CHE POSSONO METTERE IN CRISI LA RELAZIONE D’AIUTO ERRORI IN CUI L’OPERATORE PUÒ INCORRERE In ambito terapeutico, esistono degli elementi che ostacolano la comunicazione reciproca; in ambito relazionale, un operatore può compiere alcuni errori che rendono impossibile l’instaurarsi di una relazione stabile. Il primo errore che si può fare è sbagliare l’approccio iniziale con il cliente/utente: ciò avviene quando il professionista si mostra anaffettivo, distanziante e poco accogliente nei primi contatti. Poiché la prima impressione che il cliente/utente si forma tende a condizionare inevitabilmente la fase di costruzione della relazione, quest’aspetto diviene veramente importante, visto che le persone hanno un’estrema difficoltà a modificare successivamente l’idea che si sono fatti su di una persona in base alle prime impressioni. Il secondo è l’errore d’interpretazione, esso è commesso quando il professionista, troppo sicuro di sé e poco attento al cliente/utente, fallisce completamente l’interpretazione del punto di vista della persona che gli chiede aiuto: la tendenza a trovare velocemente conferme alle proprie teorie e la superficialità, impediscono di comprendere profondamente l’esperienza altrui e di vedere il mondo dalla sua prospettiva. Il terzo errore riguarda il linguaggio utilizzato: a volte gli operatori non sono in grado di aggirare gli attacchi verbali che i clienti/utenti muovono loro e di replicare in modo costruttivo e l’unica soluzione che trovano è quella di non rispondere, alimentando di più il disagio o l’ostilità. Altri aspetti problematici del linguaggio sono connessi con alcune modalità scorrette di conduzione come le domande inquisitorie (poste con un atteggiamento direttivo, spesso di tipo chiuso, che minano alla lunga la relazione con il cliente/utente) e le risposte risolutive (che l’operatore inesperto fornisce al cliente/utente proponendo o suggerendo lui stesso una soluzione, una strategia o un modo di comportarsi). Il quarto errore, uno dei più gravi, è legato al giudizio: far sentire la persona che chiede aiuto giudicata piuttosto che compresa e supportata. Gli operatori, quindi, non dovrebbero mai assumere un atteggiamento paternalistico e giudicante, e non dovrebbero mai lasciarsi influenzare da pregiudizi, norme morali ed etiche davanti all’accettazione assoluta dell’altro. Il quinto errore è credersi onnipotenti: convinzione irrazionale di essere noi a determinare i comportamenti, positivi o negativi, dei propri clienti/utenti. L’ALESSITIMIA La capacità di provare emozioni, riconoscerle negli altri ed esprimerle pienamente, rappresenta il presupposto fondamentale per comunicare e intrattenere relazioni interpersonali. Nella nostra società, però, si tende sempre più spesso a sminuire il ruolo delle emozioni; attualmente, c’è la tendenza a parlare moltissimo senza comunicare nulla; sono numerosi gli individui che si mostrano incompetenti emotivamente, non essendo in grado di percepire ciò che provano e di riconoscere nelle altre persone le stesse emozioni. L’incapacità di riuscire a entrare in contatto con il proprio e l’altrui mondo emotivo costituisce una seria fonte di disagio e sofferenza psichica. Medici e psichiatri hanno evidenziato che alcune persone che mostrano deficit importanti dell’elaborazione emotiva risultano, più di altre, difficili da trattare in una relazione d’aiuto. Questi individui sono definiti “alessitimici”. Sifneos conia il termine “alessitimia”, cioè “mancanza di parole per le emozioni”: l’alessitimia può essere considerata come un disturbo inerente all’analfabetismo emotivo. CARATTERISTICHE Le caratteristiche cognitivo-affettive che contraddistinguono le persone alessitimiche sono: • difficoltà a identificare le emozioni e distinguere fra sentimenti e sensazioni corporee; • difficoltà nel descrivere le emozioni agli altri; • scarsa immaginazione accompagnata da una povertà fantastica; • stile cognitivo formale, utilitaristico e orientato verso l’esterno. Questi pazienti manifestano una grave difficoltà nella differenziazione tra le differenti emozioni e nell’individuare l’intensità; passano da momenti di estrema scarsità emotiva a espressioni emotive repentine ed intense. Inoltre, mostrano un’incapacità a riconoscere le proprie rappresentazioni interne e, di conseguenza, anche una totale incompetenza riflessiva che impedisce loro di modificare il proprio punto di vista. Le ricerche hanno mostrato la prevalenza di alessitimia in 2 tipologie di pazienti: - pazienti affetti da disturbi di tipo nevrotico (disturbi alimentari, fobie, comportamenti ossessivo- compulsivi); - pazienti affetti da patologie psichiatriche (depressione, disturbo post-traumatico da stress). Ciò che li accomuna è la difficoltà a riconoscere i propri sentimenti e la mancanza di strategie cognitive volte a regolare le emozioni. Recentemente, diversi studi hanno messo in luce che in individui con alti livelli di alessitimia è presente la tendenza a riconoscere con lentezza le parole connotate emotivamente e a non ricordare vocaboli riferiti a sentimenti. Inoltre, l’alessitimia può svilupparsi nella primissima infanzia, per poi consolidarsi nel contesto sociale. Gli individui alessitimici sono prevalentemente centrati sulle proprie sensazioni corporee e, dal punto di vista cognitivo, tendenzialmente utilizzano minori risorse per elaborare e gestire le emozioni negative. EZIOLOGIA Sulla scia delle ricerche di Sifneos, l’eziologia di tale disturbo può essere rintracciata nella relazione instaurata dal bambino con la madre, sua figura di attaccamento. Le esperienze affettive inadeguate vissute nell’infanzia con le proprie figure di accudimento gettano le basi per un disturbo affettivo, causato dalla disregolazione emotiva. Secondo la teoria dell’attaccamento di Bowlby, la qualità del legame che, già durante il primo anno di vita, si instaura fra il bambino e colui che se ne prende cura ha un grande peso sul successivo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dell’individuo: un bambino che abbia sperimentato un legame sicuro risulta più collaborativo all’interno di un gruppo di coetanei. In questo senso, l’alessitimia dovrebbe essere associata all’attaccamento insicuro. Uno studio realizzato con l’obiettivo di analizzare l’interazione fra attaccamento, alessitimia e sviluppo del linguaggio interiore, (capacità di ragionare sui propri stati interni e di esprimerli verbalmente), ha evidenziato che i bambini con attaccamento sicuro mostravano di apprendere rapidamente sia gli aspetti emotivi che cognitivi del linguaggio adatto alla regolazione affettiva; i bambini insicuri e disorganizzati, invece, mostravano o un’assenza di linguaggio interno o un ritardo nell’uso del vocabolario emotivo. Per concludere si può affermare che un legame d’attaccamento sicuro, favorirebbe in quest’ultimo la capacità di modulare, integrare, esprimere le proprie emozioni; una figura di accudimento eccessivamente rigida e per nulla attenta allo scambio emotivo offrirebbe al bambino un modello relazionale durante la conversazione non deve lasciarsi coinvolgere troppo dai racconti, ma deve continuamente cogliere i nessi tra la storia raccontata e l’esperienza reale vissuta dal cliente/utente. Marianella Sclavi sostiene che, per comprendere il punto di vista degli altri, è necessario abbandonare qualsiasi riferimento al proprio. Propone 7 principi basilari per esercitare l’ascolto attivo: • non avere fretta di arrivare a delle conclusioni; • quel che vedi dipende dal tuo punto di vista; • se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere dalla sua prospettiva; • le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio (non informano su cosa vedi, ma su come guardi); • un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili; • un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale; • per divenire esperto nell’arte di ascoltare si deve adottare una metodologia umoristica; ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé. Per l’operatore, ascoltare attivamente il cliente/utente non deve significare solamente ascoltare e tentare di comprendere il punto di vista dell’altro, ma deve implicare la capacità di riprendere o riassumere periodicamente ciò che il cliente/utente racconta o esprime. LA TECNICA DELLA RIFORMULAZIONE L’ascolto attivo si basa sulla tecnica della riformulazione, che serve all’operatore per valutare quanto profondamente ha compreso il vissuto del cliente/utente: l’operatore, periodicamente, riassume con lo stesso linguaggio o con altre parole ciò che è stato precedentemente detto. Dopo aver riformulato l’enunciato, l’operatore deve attendere il suo consenso: se il cliente/utente non si ritiene soddisfatto del modo in cui il suo punto di vista è stato riformulato, l’operatore deve esporlo nuovamente. Questo processo di feedback continuo permette all’operatore di controllare in ogni momento la comunicazione e le sue implicazioni in modo empatico e supportivo.  Di Fabio ha proposto la classificazione di 3 tipologie di riformulazione, ordinate secondo livelli progressivi di complessità: o riformulazione-parafrasi: ha lo scopo di riassumere e chiarire il contenuto essenziale della comunicazione del cliente/utente per aiutarlo a comprendere meglio le implicazioni in merito al problema che vuole risolvere e per farlo sentire compreso appieno. Comprende 3 modalità: • risposta eco: tipologia più veloce e più semplice, utilizzata in situazione di stallo, quando la comunicazione risulta difficoltosa. L’operatore pronuncia le ultime parole del cliente/utente, per indurlo a proseguire nello scambio comunicativo; • riformulazione-riflesso: l’operatore riassume, con lo stesso linguaggio o con altre parole, i concetti principali del discorso e può utilizzare un grado crescente di sintesi, facendo attenzione a riformularlo in modo fedele;  • riformulazione-riassunto: simile alla precedente, è essenzialmente una parafrasi riferita all’esposizione delle argomentazioni proposte. L’operatore, nei casi in cui il cliente/utente è particolarmente prolisso, sintetizza i concetti essenziali, rimanendo fedele alla argomentazioni presentate senza modificarne la sostanza.  o riformulazione analogica: l’operatore, attento alla comunicazione non verbale del cliente/utente, utilizzando il codice analogico, riformula gli elementi salienti durante particolari passaggi della discussione; o riformulazione correttiva: ha lo scopo di esplicitare qualcosa che il cliente/ utente lascia sottinteso nel suo discorso. Essa comprende 4 tipologie: • riformulazione-sottolineatura: l’operatore ripropone, utilizzando le stesse parole, il concetto espresso, sottolineando però quelle affermazioni che ritiene più significative per favorire una comprensione approfondita; • riformulazione rovesciamento figura-sfondo: l’operatore riassume quanto detto sostanzialmente mantenendo inalterato il contenuto, ma capovolgendo l’affermazione del cliente/utente facendo emergere aspetti latenti non esplicitati (es: “Non voglio cambiare casa” = “La casa in cui vive le piace molto”); • riformulazione-critica: simile alla precedente, l’operatore, esplicitando aspetti non espressi, lo invita a verificare la validità delle sue affermazioni; • riformulazione-chiarificazione: l’operatore, cogliendo il senso profondo delle parole del cliente, glielo rimando evidenziandolo, ma pone particolare attenzione a non interpretarlo.  LE DISTORSIONI DELLA COMUNICAZIONE L’operatore, per esercitare l’ascolto attivo, oltre a utilizzare la riformulazione, deve orientare la conversazione senza permettere distorsioni della comunicazione: modalità comunicative inconsapevoli che generano confusione, ansia e frustrazione tra interlocutori.  Una prima modalità disfunzionale costituita dal paradosso, di cui esistono 3 tipologie: • antinomia logica: prevede una contraddizione di tipo formale che si presenta in ambiti logici e matematici, è costituita da asserzioni che possono essere sia vere che false all’interno del medesimo sistema di regole; • antinomia semantica: si fonda su una contraddizione logica all’interno del dominio linguistico; • antinomia pragmatica: consiste in messaggi contraddittori come le ingiunzioni ed è presente nelle interazioni umane. È dannosa all’interno della relazione in quanto possiede la capacità di condizionare il comportamento e i rapporti interpersonali in corso. L’operatore non solo non deve utilizzarla, ma non deve accettare neanche che il cliente/utente ne faccia uso. Un altro comportamento che mina la relazione che deve essere evitato dall’operatore è rappresentato dal messaggio di squalifica: una modalità comunicativa che tende a privare o sminuire il valore di un atto comunicativo avvenuto in precedenza (affermazione indiretta che gli scambi comunicativi tra interlocutori hanno scarso valore). All’interno della relazione questo comportamento è deleterio e pericoloso per la buona riuscita dell’intervento poiché compromette seriamente il rapporto di fiducia.
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