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Riassunto del libro Raccontare di Alessandro Perissinotto, Sintesi del corso di Comunicazione Audiovisiva

Riassunto del libro Raccontare di Alessandro Perissinotto per il corso di Elementi di Storytelling

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunto del libro Raccontare di Alessandro Perissinotto e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Audiovisiva solo su Docsity! Raccontare Parte prima. Definizioni e basi teoriche. 1. Definire lo storytelling e liberarlo dal pregiudizio 1.1 Una deriva del senso Termine storytelling. Da parola ricercata a termine ombrello che copre una galassia di fenomeni legati alla narrazione. Novella, piece teatrale, canzone, autobiografia, documentario, raccontare e scrivere storie. Lunga serie di azioni legate al narrare. Lo storytelling è un narrare professionale. Si potrebbe fare una distinzione tra lo storytelling ‘classico’ e quello aziendale, legato al marketing e alla comunicazione di un’azienda o alla politica. Christian Salmon confonde questi due concetti nel suo testo, dove definisce lo storytelling oscillando tra la persuasione occulta e la spudorata propaganda. 1.2 Storie o narrazioni? La deriva del termine storytelling nasce dall’uso impreciso che ne è stato fatto negli ultimi anni, ma forse le colpe vanno ricercate nell’imprecisione del concetto di ‘story’. Dobbiamo innanzitutto distinguere tra narrazione e resoconto, e la differenza tra i due è la presenza di personaggi che abbiano una parte attiva nella vicenda. Vediamo una definizione di ‘story’ con queste caratteristiche nell’oxford Dictionary, ma essa si conclude con un ‘for entertainment’ che crea un altro problema. Infatti non tutte le narrazioni nascono per intrattenere, e se ci limitassimo a questa condizione, il mondo delle storie sarebbe molto povero. Lo storytelling è l’atto di trasmettere, per fini diversi e attraverso qualsiasi linguaggio, delle narrazioni (tratte dalla realtà o inventate). Perché vi sia narrazione ci deve essere almeno un personaggio che orienta la sua azione verso il superamento di almeno un ostacolo che lo separa dal suo obiettivo. Esempio di uno storytelling di prodotto su Instagram, dove vediamo delle scritte in sovrimpressione (diegesi) e un filmato (mimesi). Prodotto: tshirt che cura il mal di schiena. Il racconto sceglie di partire dall’ostacolo, l’obiettivo è il superamento del mal di schiena. Nel racconto vediamo l’Azione suddivisa in una serie di sotto-azioni. L’obiettivo viene raggiunto e si dà appuntamento alla prossima puntata. Ogni sotto-azione è volta al superamento di un sotto- ostacolo e al raggiungimento di un sotto-obiettivo. 1.3 Realtà invenzione e menzogna Una ‘story’ può essere reale o inventata. Sulla base di questa distinzione possiamo dividere lo storytelling in (1) fiction storytelling, (2) non-fiction storytelling, (3) para-fiction storytelling. Il fiction st è quello di fiabe romanzi e simili, dove nel rapporto tra invenzione e realtà prepondera la prima. Per definire il para-fiction st partiamo dall’intestazione del film Fargo, dove si dice che gli eventi narrati sono accaduti realmente. Ma questo è falso e fa parte di un topos narrativo consolidato. Un altro esempio di para-fiction è Il cacciatore di aquiloni di Hosseini. I lettori si sono chiesti quanto sia vera la storia narrata, ma il fatto è che si tratta della storia di un’amicizia, sia che fosse ambientata in USA sia a Kabul. Il fatto è che è inutile separare il testo dal contesto perché è il testo a contaminare il contesto. Nel separarli c’è un certo grado di ipocrisia. Il cortocircuito sul cacciatore di aquiloni nasce dalla biografia di Hosseini, dal fatto che il suo punto di vista veniva scambiato da realtà assoluta dai suoi lettori. Non ci troviamo più di fronte a un racconto ma a una narrative: un racconto ‘di parte’, tendenzioso, una ‘mistificazione narrativa della realtà’. Il para-fiction storytelling è il vasto insieme di narrazioni che usano elementi del reale come cavallo di troia per far passare per veri elementi di finzione, per dare una parvenza di inoppugnabilità a ciò che è soggettivo e opinabile. Un altro esempio di parafiction st sono le leggende metropolitane. Smorti a riguardo ci dice che il problema delle storie e della loro credibilità investe non solo la vita sociale e politica di un popolo, ma anche il funzionamento stesso del pensiero. Quindi nelle leggende metropolitane vengono usati elementi realistici per abbattere le indifferenze verso un evento inverosimile. Quindi il contesto reale fa sì che l’incredulità del lettore sia sospesa. Più sono gli elementi verificabili, più l’ascoltatore dà per veri anche quelli non verificabili. Il para fiction st è distinguibile dal non fiction st solo dopo un rigoroso fact-checking. Altro esempio di para fiction storytelling (e forse anche para-social) sono le fake news. Qua risiedono i timore di Salmon: le storie sono insuperabili nel contrabbandare l’invenzione per realtà. Una storia funziona come un frame di un continuum. L’ascoltatore non si chiede cosa ci sia prima o cosa succeda dopo, perché la storia è costruita in modo tale che l’attenzione si concentri su ciò che sta dentro di essa, non fuori. Altro esempio di fake news: Brexit, 2016. Storytelling sui bus in cui si diceva che lo UK dava 350 mln di sterline all’UE alla settimana. Nessuno si era chiesto perché o come venissero usati quei soldi, in più la cifra era errata (120 mln). Il para-social storytelling è il lato oscuro dello storytelling. 1.4 Raccontare il vero significa informare? sì. Raccontare il falso ammantato di vero (para fiction st) significa disinformare. Ci sono informazioni non narrative: quelle basate sui dati numerici, considerate però più obiettive. Questi dati sono in grado di coinvolgere le funzioni razionali ma a scapito dell’emotività, scoraggiano la risposta umanitaria. Esempio. Storytelling promozionale degli hotel Shangri-La. Video pubblicitario: ragazzo con i lupi. To embrace a stranger as one’s own. It’s in our nature. Poi sul sito vediamo i dati delle stanze. La prima attività promozionale innesca una risposta emotiva. La seconda razionale. Immedesimazione ed emozione sono possibili perché nel primo racconto ci sono le persone, queste rappresentano la forza del racconto. 1.5. Qualche considerazione sull’efficacia dello storytelling. Il racconto deve la sua forza alla capacità di coinvolgere il destinatario, di rendere concreto ciò che è astratto, di farsi ricordare nel tempo. Gli strumenti che ci servono per leggere e comprendere una storia sono degli strumenti meta- testuali che noi abbiamo già acquisito nel corso della nostra vita. Il codice narrativo che serve per raccontare è compreso da tutti. Un racconto è anche in grado di coinvolgere il destinatario. Questo accade perché si instaura un livello di empatia con il personaggio principale. La narrazione suscita curiosità, mantiene viva la nostra attenzione e ci fa ‘preoccupare’ per i personaggi coinvolti. Stando accanto ai personaggi capiamo quali sono i valori che li spingono ad agire. Questi valori possono essere di ordine materiale (es. soldi) ma anche astratto (amicizia). Ma nelle storie non c’è amicizia allo stato puro, ci sono due amici. Il testo narrativo dà concretezza all’astrazione del valore trasformandolo in qualcosa di concreto, in un obiettivo definito e circoscritto, tangibile. La narrazione rende più chiari e accessibili dei valori astratti e inoltre facilita la memorizzazione. Gli aneddoti che raccontiamo sono dei punti memorabili nella continuità della nostra esperienza, e sono dei riferimento per le azioni future. 1.6. Tradizionalmente i linguaggi dello storytelling sono state le parole (scritte o orali) e le immagini. Poi con l’avvento del digitale i modi di fare sotrytelling, come anche le possibilità e i dispositivi, sono diventati di massa. Tutti sono diventati degli storytellers. Le storie che ‘crediamo’ essere vere sono molto più numerose di quelle che ‘sappiamo’ essere vere. Il nostro approccio alla non-fiction è, dal pdv semiotico e cognitivo, identico a quello che adottiamo di fronte alla fiction: in narratologia si chiama ‘sospensione dell’incredulità’. La differenza sta nella durata: non-f e para-f hanno una sospensione permanente (o meglio fino a prova contraria), nella fiction è una sospensione momentanea, fino alla fine del racconto. Cosa ci fa sospendere l’incredulità? È il ‘contratto di veridizione’ o ‘patto finzionale’. L’accordo che si stabilisce tra chi racconta e chi ascolta per definire cosa è credibile e cosa non lo è, cioè cosa è verosimile. Nella fiction, verosimile significa coerente. Questa coerenza crea quello che Barthes definisce ‘effetto di realtà’, qualcosa che fornisce un’informazione precostruita e che serve ad autenticare la realtà del referente, a radicare l’invenzione nella realtà. Gli effetti della realtà dilatano i confini del verosimile, li spostano oltre i limiti del testo e ci fanno dire che ciò che avviene dentro la storia non è diverso da ciò che accade nel mondo reale. Il verosimile deve garantire coerenza all’interno della storia e anche coerenza tra le regole all’interno della narrazione. La para-fiction, ad esempio le fake news, fa ampio uso di effetti di realtà (luoghi e istituzioni realmente presenti). I dettagli diventano ‘effetti di realtà’ così efficaci che la narrazione diventa difficile da smentire. Del non-fiction sentiamo spesso dire: ‘la realtà è più incredibile della fantasia’. Questo significa che i racconti del reale sono più incredibili di quelli inventati perché quando inventiamo facciamo di tutto per far sembrare vera la nostra storia, ma quando raccontiamo fatti reali non ci impegniamo per renderli credibili, perché il loro statuto di verità viene immediatamente accolto. Ogni volta che ci accingiamo a raccontare una storia vera dobbiamo ricordarci di utilizzare le medesime strategie di veridizione che impiegheremmo se quella vicenda fosse nata dalla nostra fantasia. 3. Lo storytelling tra cognitivismo e scienze sociali 3.1. Narrazione, comprensione, ragionamento Importanza del raccontare in quanto dà forma al nostro pensiero, al nostro essere umani e ci permette di aggregarci. Rapporto tra narrazioni e ragionamento quotidiano. Violazione delle aspettative, quando ci viene detto qualcosa che non ci aspettiamo. Rimaniamo stupiti perché di fronte a una qualsiasi frase di senso compiuto la nostra mente tende a portarsi avanti con il lavoro, a formulare ragionamenti sulla base di ipotesi che magari poco dopo si rivelano sbagliate. Però questo meccanismo era utile ai nostri antenati, che quando sentivano un ruggito dietro a un cespuglio scappavano. Uno dei più noti modelli di rappresentazione si chiama FRAME, elaborato da Minsky. la teoria del frame dice che quando ci si trova di fronte a una situazione nuova si seleziona dalla memoria un frame, ovvero un quadro di riferimento memorizzato che va adattato alla realtà cambiando i particolari fin dove è necessario. Un frame è una struttura di dati per rappresentare una situazione stereotipata. Alla base della teoria del frame c’è l’intuizione per cui i concetti che fanno parte del nostro bagaglio di conoscenza non vengono immagazzinati in forma isolata ma sono memorizzati a grappoli. Questa aggregazione dei concetti ci permette di essere veloci quando prendiamo delle decisioni, perché quando ci troviamo di fronte a un elemento del frame questo è in grado di richiamare una serie di altri elementi. utili. Può capitare che la situazione non corrisponda esattamente al frame, in questo caso la procedura di adattamento che dobbiamo compiere è lo ’stupore’ di fronte alla situazione. Il frame deve quindi essere flessibile per adattarsi alle situa che presentano delle novità rispetto a quanto già immagazzinato. un frame è un formato di rappresentazione, un modo escogitato per rappresentare adeguatamente il modo in cui si collegano le informazioni. Il frame è una struttura formale con le seguenti proprietà: - costituita da caselle variabili al cui interno troviamo delle informazioni - Flessibilità gerarchica - Non è isolata ma può includere o essere inclusa in altre strutture - Rappresenta le conoscenze dirette È una struttura formale sensibile al contesto. Noi comprendiamo in base alle nostre aspettative: la conferma o la smentita delle aspettative è il motore che permette ai frame di collegarsi, trasformarsi o fallire nel tentativo. La teoria del frame presenta però alcuni limiti, infatti è più utile per l’archiviazione che per il comportamento. Una parte delle nostre conoscenze però non riguarda situazioni statiche ma processi dinamici, dove il tempo è un fattore molto importante. La struttura ad albero del frame è inadeguata a rappresentare la temporalità. Va quindi sostituito con un altro formato di rappresentazione della conoscenza, lo SCRIPT. lo script è una struttura che descrive una successione di eventi in un contesto particolare. È costituito da caselle e requisiti su cosa può riempire queste caselle. Nella sua struttura tutto è interconnesso. Trattano situazioni quotidiane stereotipate. Uno script è una successione, stereotipata e predeterminata, di azioni che definiscono una situazione ben nota. È una breve storia molto noiosa. Quindi il nostro bagaglio di conoscenze è un repertorio di racconti. Ciò che noi facciamo diventa per la nostra mente un racconto da custodire e riutilizzare. Noi facciamo nostre anche le storie che abbiamo ascoltato o cui abbiamo assistito. La memoria del racconto funge da esperienza anche quando non lo è. 3.2. Narrazione, memoria individuale, costruzione del sé La memoria è coinvolta nel processo di acquisizione delle conoscenze. Distinzione tra memoria episodica, quella che ci permette di ricordare certi eventi e la relazione tra di essi, e la memoria semantica, la conoscenza organizzata che hanno le persone su parole, simboli, concetti e regole, oltre alle conoscenze per produrre e comprendere il linguaggio. Calabrese dice che i bambini dall’età di tre anni attuano strategie di storytelling in cui sono sia narratore sia destinatario della narrazione, lo scopo è la classificazione mentale e la memorizzazione delle situazioni in cui si trovano. Questa memorizzazione distribuisce i dati tra la memoria episodica (dove vengono collocatigli elementi specifici e irripetibili di ogni evento) e quella semantica (astrazioni, modi di interpretare le situazioni future). La memoria semantica salva sotto forma di script delle informazioni più generali. La memoria episodica contribuisce alla costruzione del Sé, dando forma alla storia della nostra vita. Possiamo quindi parlare anche di memoria autobiografica. Gallagher e Zahavi dicono che il Sé non è una cosa, un dato, ma è un risultato. Lo si ottiene gradualmente. Quando guardiamo alle nostre esperienze passate sotto forma di ricordi, noi costruiamo sui ricordi la storia della nostra vita, dando a ogni singolo evento un significato che travalica i confini dell’episodio stesso e si inserisce in una fabula, una sequenza di causa ed effetto. La correlazione la diamo noi a posteriori. Quindi la memoria autobiografica produce delle storie che noi in primis raccontiamo a noi stessi. Quando le raccontiamo agli altri dobbiamo essere sicuri di spiegarci con chiarezza e utilizzare un linguaggio che rispetti i codici condivisi. Così noi passiamo dalla memoria autobiografica alla narrazione autobiografica. Quest’ultima ci consente di portare le nostre storie di vita fuori da noi stessi e renderle accessibili agli altri. La condivisione non avviene solo nella direzione Io>Altri, ma anche in direzione inversa. La capacità di raccontare le nostre storie agli altri ha contribuito all’evoluzione del genere umano. Una tappa della comprensione dei meccanismi attraverso i quali gli esseri umani ottimizzano i loro comportamenti sulla base dello storytelling altrui è la scoperta dei neuroni a specchio, alla base dei comportamenti imitativi. Si è scoperto che negli esseri umani l’imitazione non si limita alla sfera motoria ma coinvolge anche la sfera dell’astratto, è quindi alla base dell’empatia. Il nostro Sé non si nutre solo delle auto-narrazioni che attingiamo dalla nostra memoria, ma si compone anche delle narrazioni che gli altri ci forniscono. Noi siamo un complesso sistema di narrazioni. 3.3. Narrazione, memoria collettiva, costruzione sociale È praticamente impossibile distinguere i comportamenti narrativi che si riferiscono solo all’individuo e quello che riguardano la collettività. Jedlowski dice: la narrazione è la pratica sociale in cui due o più persone mettono in comune una storia. La narrazione è una pratica sociale. Questo concetto vien studiato da Berger e Luckmann in La realtà come costruzione sociale, (1969) in cui parlano di una ‘conoscenza’ alla base della costruzione sociale della realtà, essa non è solo l’erudizione ma il senso comune, la conoscenza che ci permette di svolgere le nostre routines. Dieci anni dopo Shank pubblica la sua teoria sugli script, e allora capiamo che quelle routine sono le storie noiose, quindi le narrazioni costituiscono il sé individuale, e sono anche ciò che costituisce la realtà. Moscovici parla di teoria delle rappresentazioni sociali, nel senso di rappresentazioni collettive che si riferiscono a un modo di comprendere e comunicare, un modo che crea la realtà così come il senso comune. Lo scopo di tutte le rappresentazioni è quello di rendere qualcosa di inconsueto familiare. La memoria prevale sulla deduzione (??????RILGGI QUESTO PASSAGGIO) Come i cognitivisti creano un legame tra narrazione individuale e memoria, Berger e Luckmann ne istituiscono uno tra conoscenza socialmente condivisa e memoria collettiva. L’universo simbolico colloca tutti gli avvenimenti collettivi in un’unità coerente che include passato,presente e futuro. Nei confronti del passato instaura una memoria condivisa da tutti gli individui, per il futuro stabilisce una struttura comune di riferimento. Quindi l’universo simbolico lega gli uomini ai loro predecessori e ai loro successori. La narrazione autobiografica dava linearità e consequenzialità alla memoria biografica, l’insieme delle narrazioni che costituiscono l’universo simbolico con lui l’umanità identifica il reale conferiscono linearità e consequenzialità alla memoria collettiva. Cos’è la memoria collettiva? Contatto tra coscienza e memoria. Durkheim definisce coscienza collettiva come l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società. È indipendente dalle condizioni particolari in cui gli individui si trovano a essere posti; essi passano e la coscienza collettiva resta. Non muta di generazione, ma collega le generazioni passate a quelle future. Tutto ciò che passa di gen in gen è o genetico o culturale. Con culturale si intendono quindi le opere di una cultura. Quindi in questa accezione culturale della coscienza collettiva possiamo capire il ruolo della memoria collettiva. Ogni individuo della comunità genera al di fuori di sé un archivio fatto di testi ai quali affida la conservazione delle proprie esperienze per renderle riutilizzabili, delle istruzioni. La memoria non è quindi solo interna ma proietta anche all’esterno, diviene collettiva perché condivisa. Qualsiasi operazione di storytelling è una parte della memoria collettiva. Halbwachs dice: la memoria collettiva trae la sua forza e la sua durata dal fatto che è supportata da un insieme di uomini. Il rapporto individuale-collettivo per quanto riguarda la memoria è fatto di complementarietà dialettica, di un equilibrio sempre imperfetto. Un tormentone dell’estate viene affidato alla memoria collettiva, ma quando lo rievochiamo facciamo leva sulla memoria individuale, sulla nostalgia. Gettiamo quindi un ponte tra il mondo collettivo (dove questi testi si inscrivono sotto forma di archivio) e il mondo individuale, dove assumono il sapore di un ricordo unico. In questo senso è rilevante la Flashbulb memory theory di Brown e Kulik. I due studiosi vedono come alcuni eventi di cronaca di grande rilevanza hanno il potere di fissare nella nostra memoria individuale non solo l’evento in sé, ma soprattutto il momento in cui ne siamo venuti a conoscenza. Il racconto continuo dei ricordi individuali crea una memoria collettiva di secondo grado, in cui un gruppo o una generazione si riconosce tanto nell’evento quanto nella somma delle singole memorie individuali. Parte Seconda: Esempi e Strategie 4. Storytelling nelle organizzazioni 4.1. Il Bisogno di rappresentazione sociale Insegna del negozio Gallo. Vediamo da Amilcare gallo a Gallo Eredi dal 1935. Nell’insegna il commerciante cerca uno strumento per localizzare la sua impresa ma anche per avere una rappresentazione sociale. L’insegna del negozio costituiva un racconto sufficientemente dettagliato. L’insegna di una grande organizzazione (es. INPS) svolge la funzione di logo. Ma una grande org non ha solo bisogno di un logo, ma anche di racconti, perché i racconti sono garanzia del suo esistere sociale e del suo perdurare nel tempo. La org deve riuscire a non ignorare, in questo processo di auto-rappresentazione, le proprie parti meno visibili o meno legate alla mission e/o al core business. L’auto-rappresentazione istituzionale deve tener conto di tutti gli elementi che compongono l’organizzazione. Il sindaco decide quindi di opporre a una narrazione che viene da fuori una che sia prodotta dall’interno della città, dai suoi abitanti. Questa narrazione deve parlare di redenzione, ripopolamento e l’economia che riparte. Nel 2017 viene nominato ‘chief storyteller’ di Detroit Aaron Foley. Il giornalista apre il suo ‘department of storytelling’ della città, composto da due scrittori, un fotografo e un videomaker. Foley capisce che ci sono due narrazioni della città: quella del crimine e quella del ritorno dei giovani e del quartiere glamour. Il problema è che Detroit non è solo questo, ma una realtà molto più complessa che non viene rappresentata. Quindi crea una piattaforma, the Neighborhoods (The spirit of Detroit) dove vediamo lo spirito dell’urban storytelling. Le città non sono fatte di strutture ma sono il frutto di una continua narrazione che ne costituisce il patrimonio immateriale. Questo patrimonio va reso fruibile e tangibile attraverso questo sito. Le storie dei cittadini iniziano a svolgere il loro lavoro di salvaguardie del territorio e si trasformano in uno strumento di costruzione identitaria, dando forma allo spirito del luogo. 5.2. Riqualificazione territoriale e storytelling Anche Torino ha adottato nel 2011 delle strategie Di urban storytelling per la riqualificazione urbana. Alberto Robiati ha portato avanti il progetto ‘La storia continua’ in cui 20 scrittori torinesi facevano incursioni nel quartiere ‘barriera di Milano’ dove stavano gli immigrati. Vediamo quindi un urban storytelling letterario, i cui punti di forza sono una visione più prospettica e una capacità di lettura del paesaggio non condizionata dal viverci. Un concetto fondamentale per l’urban storytelling è la lettura del paesaggio: prima di produrre storie su di esso occorre imparare a leggerlo e interpretarlo. L’immaterialità del paesaggio si rivela attraverso il racconto, attraverso la narrazione. Il paesaggio diventa testo attraverso la percezione e l’interpretazione. Il paesaggio è l’immagine da noi percepita di un tratto della superficie terrestre. L’azione del percepire introduce nel contesto paesaggistico un elemento soggettivo: il fattore umano. La percezione e l’interpretazione del paesaggio sono processi di umanizzazione di esso, quindi i segni del paesaggio e suoi elementi costitutivi sono le rappresentazione che ogni cultura dà dello spazio medesimo: dalle culture rupestri agli edifici. Il paesaggio è realmente un testo. Abbiamo una componente funzionale, che rende conto di motivazioni pratiche (costruire una chiesa per raccogliere i fedeli) e una componente simbolica, legata alla consapevolezza degli effetti spaziali che quel segno produrrà. Le due componenti muteranno di importanza da segno a segno ma anche di epoca in epoca. 5.3. Storytelling e valorizzazione culturale e turistica: Torino 2006, Milano 2015, Matera 2019 Il concetto di paesaggio come componente immateriale fa parte della costruzione narrativa del cultural landscape. Molte aree del pianeta hanno tratto benefici dalla loro valorizzazione come cultural landscape: benefici economici che hanno poi portato all’inclusione nei World Heritage Cultural Landscapes dell’UNESCO. Ci sono state città che sono riuscite a uscire da una dimensione di sottosviluppo, oppure a superare crisi economiche. La rivalutazione del cultural landscape determina sempre: 1. Aumento dei flussi turistici 2. Miglioramento della percezione collettiva della qualità del territorio e dei suoi prodotti 3. Aumento della visibilità mediatica (attrarre eventi) 4. Salvaguardia del patrimonio culturale Gli effetti positivi ricadono sul tasso di occupazione, la crescita del prodotto, l’integrazione internazionale. Quando a essere rivalutate sono le periferie urbane vediamo che a fare il grosso del lavoro è il patrimonio immateriale: la vera ricchezza dei quartieri popolari sono le storie di interazione tra uomo e territorio. Una rivalutazione del Cultural Landscape è stata mossa dal Torino nel 2006 per le Olimpiadi Invernali e Milano nel 2015 per l’EXPO. Il racconto della città è un modo per portare avanti un city brnad in occasione dei grandi eventi. Ma può essere anche essenziale per aggiudicarsi questi eventi. Ad esempio la capitale europea della cultura, scelta dall’unione europea, è un titolo che porta a finanziamenti, investimenti, e grandi flussi turistici. Capitale della cultura del 2019 è stata Matera, che ha iniziato un progetto chiamato Matera 2019 Storytelling in cui è stato creato un database di storie di cittadini e turisti per rendere protagonista ogni soggetto che osserva o interagisce e partecipa alle attività culturali. Viene scelto un luogo di cui si vogliono mostrare e valorizzare i tesori nascosti. 5.4. Storytelling funzionale come future Studies Torino si è affidata a un gruppo di scrittori per prefigurare cosa sarebbe stato della città. Raccontare il territorio in prospettiva può significare, ad esempio, mettere in atto un processo di educazione ambientale. Il primo passo è la proiezione verso un futuro, non quello dell’individuo ma quello della società intera. In questo senso la letteratura distopica lo sta già facendo. Dall’apocalisse di Giovanni fino a The Matrix l’umanità ha sempre avuto bisogno di regolare il proprio comportamento in case alla prefigurazione narrativa di un mondo distrutto dal male. Si tratta di una necessità antropologica che va considerata quando si fanno dei piani di riqualificazione urbana. La fiction distopica dice con molta chiarezza come sarà il mondo di domani se non modifichiamo oggi i nostri comportamenti ambientali. Un serio urban storytelling ha il solo compito di mostrare in forma narrativa le bellezze dei territori da valorizzare, ma anche quello di dare consistenza all’orrore delle terre da salvare. 6. Storytelling e cronaca nera: da Gide a ‘Crimes’ 6.1. Raccontare la cronaca nera: una storia attuale e antica Raccontare le vicende giudiziarie e i casi di cronaca nera ha da sempre un grande successo presso il pubblico. Non-fiction storytelling. Vediamo che in tv spopolano i true crime show e I crime docu-fiction. In Francia riscontriamo il maggior numero di trasmissioni di questo genere. Esempi letterari illustri: - Andre Gide. Nel 1930 fonda una collana editoriale ‘Non Giudicate’ in cui domanda ai suoi lettori di giudicare in maniera avveduta e documentata dei casi di cronaca nera. La forma prediletta è quella del racconto lungo. Gide sa che il coinvolgimento emozionale e la suspense che si generano in un testo che ha le forme dei romanzo e i contenuti del documento sono un antidoto contro la superficialità del giudizio. Due episodi più celebri sono l’Affare Redureau, caso di cronaca del 1913. E il sequestro di Poitiers, avvenuto nel 1901. Qui vediamo che la narrazione si fa carico del dovere sociale di cui si occupa principalmente la non-fiction, quello della memoria. - l’Avversario, Carrere. Carrere mantiene inalterata la realtà degli accadimenti ma ci aggiunge con libertà romanzesca dialoghi e particolari di contorno. Ciò fa sì che la storia non sia un resoconto ma abbia una dimensione autenticamente letteraria. - A sangue Freddo, Truman Capote. Sottotitolo: resoconto veridico di un omicidio multiplo e delle sue conseguenze. 6.2. True Crime in televisione. Il caso francese. Valenza spettacolare dei processi, dalla letteratura alla tv. Le prime irruzioni del reale quotidiano in televisione si hanno negli anni 60 con le Candid Camera. Poi nel 1979 la NBC rilascia Real people, e spopola il format del video domestico che poi diventerà YouTube. Il pubblico è sempre più attratto dalle storie vere. Soprattutto da quelle a sfondo criminale. In francia i true crime show spopolano. Stessi ingredienti: breve presentazione dei casi, filmati girati ex novo dei luoghi, filmati d’archivio, foto, interviste ai superstiti, ricostruzioni visive degli accadimenti. Il crime show trasforma un cittadino qualunque in un detective e giudice. Seltzer affronta il problema del fatto che la sovraesposizione a questo tipo di programmi provoca l’effetto nello spettatore dell’assedio criminale, ovvero sembra che il mondo sia popolato da pericolosi assassini. Su questa linea marcia il programma Crimes, le cui scene iniziali vogliono proprio far pensare che in qualsiasi luogo, in qualsiasi situazione anche le più comuni, il crimine sta colpendo qualcuno e un giorno potrebbe colpire te. Altro elemento che rimanda all’accumulazione di crimini è l’abolizione delle barriere temporali: dai crimini del dopoguerra al giorno d’oggi, sembra che siano tutti contemporanei. Vediamo quindi uno storytelling ipertrofico e monotematico che rischia di alterare la percezione della realtà. L’unico merito di questi programmi è quello di aver ridato parola alle vittime (cosa che la sociologia della devianza non aveva fatto), e di estendere il concetto di vittimizzazione di secondo livello, in quando l’immedesimazione di chi assiste al racconto crea una solidarietà con la vittima (questo non ho capito se è positivo). 6.3. La spettacolarizzazione del non-fiction storytelling Partendo dai true crime possiamo analizzare come funziona il non-fiction storytelling. La domanda è: come si fa a rendere interessante una vicenda già conclusa? Occorre innanzitutto padroneggiare gli strumenti dell’invenzione letteraria, quindi creare suspense. Bisogna saper creare un’emozione forte anche quando la parola fine è già stata scritta e a noi mancano gli elementi. Calabrese definisce tre tipi di suspense: suspence del cosa (cosa accadrà?) Suspense del chi (chi è il colpevole?) E suspense del come e del perché. Quest’ultima è tipica del non-fiction storytelling. Per creare la suspense del come e del perché è indispensabile agire sull’organizzazione dei contenuti della storia. Quindi non intervenire sulla fabula (è impossibile) ma sull’intreccio. Ad aiutarci in tv sono anche le pause pubblicitarie, prima delle quali possiamo mettere dei cliffhanger che creeranno tensione nello spettatore. La spettacolarità è quindi anche appannaggio nel non-fiction storytelling. Laddove dovesse mancare una scenografia ad effetto, la spettacolarità sarebbe comunque garantita dalle ricostruzioni del crimine. Ci sembra di assistere in diretta al fatto. Appoggiandoci alla strumentazione della fiction, il non-f st si mostra molto più potente, più persuasivo (manipolativo) della semplice cronaca e del resoconto dei fatti. 7. Storytelling e teatro 7.1. Il racconto del Vajont e l’epifania del teatro di narrazione 1997, Raidue. Vajont, storia di una tragedia annunciata. Si tratta di una rappresentazione teatrale, di teatro di narrazione. Fece un record di ascolti, nonostante il pubblico inizialmente fosse abbastanza disorientato. Non era uno spettacolo teatrale con costumi e scenografie. Era semplicemente Marco Paolini come voce e corpo, messo al servizio di una storia da raccontare. Un teatro che racconta una storia senza metterla in scena, l’unica azione è quella di parlare. 7.2. Marco Baliani: come tutto è cominciato Nascita del teatro di narrazione in Italia. Vediamo che nel Novecento il teatro italiano si distacca dalle forme più tradizionali fino all’arrivo di Mistero Buffo di Dario Fo. Fuori dai circuiti ristretti degli addetti ai lavori, vediamo che non c’è più la distinzione tra attore e spettatore. Da mistero buffo Marco Baliani capisce che la narrazione ha a che fare con la vita di tutti i giorni, il narratore è impastato della stessa materia dello spettatore, non è qualcuno che è più in alto. Baliani intuisce che il teatro può intervenire nel sociale. Il teatro di narrazione nasce dalla fiaba tradizionale. Il problema è come trasportare il racconto orale fuori dal contesto familiare. Il problema principale è come ottenere e mantenere l’attenzione. A questo proposito Baliani svela che la parte più importante sono l’espressività del corpo e poi della voce. Altro elemento importante è il silenzio 7.3. Daniele Biacchessi: il teatro civile Teatro civile e narrazione vanno a braccetto. Grande protagonista del teatro civile è Daniele Biacchessi, giornalista d’inchiesta. Dice che uno degli ingredienti del teatro civile è la fedeltà al reale (non fiction storytelling). Il secondo è che quello che viene raccontato deve essere problematico, scomodo, celato. Il teatro sfugge per natura ai circuiti istituzionali (mediatici) e ha una vocazione democratica. La narrazione è perfetta per svolgere un’azione civile perché ha il teatro di narrazione è un teatro povero, essenziale, che rinuncia a ogni finzione in nome di un impegno per la verità.
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