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Riassunto del libro Regie Teatrali, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto del libro Regie Teatrali del corso di Storia del Teatro moderno e contemporaneo II.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 27/01/2024

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palwan-kaur 🇮🇹

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Scarica Riassunto del libro Regie Teatrali e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Regie teatrali I. La messa in scena prima del regista La regia o mise en scène come pratica artistica riconosciuta e il regista o metteur en scène come artista responsabile dell’intera concezione dello spettacolo teatrale, si affermano in Europa intorno al 1870. La gestazione di questo processo inizia nella seconda metà del Settecento in Francia e in Germania. I primi sintomi coincidono con il momento in cui a teatro il testo letterario e la parola perdono la centralità assoluta e crescono di importanza l’attività rappresentativa e la dimensione scenica. Prima della nascita del metteur en scène, nei grandi teatri d’Europa esisteva già la figura dei règisseur, di solito un attore di esperienza, il più anziano della compagnia, responsabile dello spettacolo sul palcoscenico. Il metteur en scène compare quindi più tardi, quando muta la composizione del pubblico e con l’avvento della luce elettrica e del suo movimento interno. Si può quindi dire che la regia nasca veramente quando al règisseur si sostituisce il metteur en scène e che sia una lontana conseguenza della vittoria della battaglia romantica, in quanto si dà finalmente spazio all’individuo e all’interpretazione soggettiva, si elimina il dogma delle unità di tempo e di azione, viene moltiplicato il numero dei personaggi, si promuovono i frequenti cambi di scena e la spettacolarità del teatro. Prima di allora gli attori lavoravano secondo il sistema dei ruoli e del repertorio, ovvero ogni attore recitava un insieme di ruoli di una stessa categoria per il quale erano necessari un fisico, una voce e una gestualità particolari nel quale si specializzava. Nel ‘600 e nel ‘700 in Italia e Francia non era la versatilità bensì la specializzazione la qualità più richiesta all’attore. In Francia, nel Seicento, i generi teatrali vengono rigidamente suddivisi: la spettacolarità diventa prerogativa del teatro musicale (opèra) e viene bandita dal teatro di prosa che si svolgeva su una scena fissa, ristretta, in cui l’azione e il movimento erano ridotti al minimo in quanto ciò che contava era il testo. Vi era inoltre l’obbligo di rispettare l’unità di luogo e tempo evitando i cambi di scena tanto che fino alla metà del ‘700 in Francia la recitazione degli attori costituisce la sola forma di mise en scène dovuto anche al fatto che il pubblico era ammesso sulla scena e dunque la disposizione materiale del teatro rendeva impossibile ogni illusione teatrale. Nel corso del ‘700 però, soprattutto in Francia, troviamo sempre più spesso la presenza dell’autore alle prove. Un caso interessante di direttore teatrale ante litteram è quello di Voltaire (1694-1778), che si interessava non solo al testo ma anche a tutti gli aspetti della messa in scena, scegliendo gli attori e le opere. Le sue tragedie, infatti, contengono didascalie dettagliate, descrizioni di elementi concreti, oggetti, accessori e movimenti che dovevano venire integrati all’azione. È grazie alle sue sollecitazioni che nel 1759 gli spettatori furono costretti ad abbandonare la scena. Di due generazioni più giovane, Goethe fu a suo modo un regista ante litteram, dirigendo per lunghi anni il Teatro di Corte della cittadina di Weimar, in Sassonia. All’attore virtuoso che attirava su di sé tutta l’attenzione dello spettatore egli contrapponeva l’armonia tra le varie parti e scena e recitazione dovevano interagire come la cornice e il quadro. Per rafforzare la propria posizione e combattere contro la moda corrente della diffusione di un repertorio basso, Goethe chiamò a sé Schiller che il 3 dicembre 1799 si trasferì a Weimar e insieme intensificarono l’attenzione per le esigenze prettamente sceniche. Il 12 ottobre 1798 venne inaugurata la nuova sede del Teatro di Corte di Weimar dove Goethe diresse la rappresentazione scenica di Wallenstein Lager di Schiller, con il quale tentò per la prima volta di realizzare un disegno nel quale si sarebbero misurati, dopo di lui, tutti i primi registi moderni: l’impressione di masse in movimento. Quando si alza il sipario, infatti, allo spettatore appare la variopinta visione di un accampamento e in una tenda da campo e intorno ad essa sono radunati soldati di tutte le specie e colori. A partire da questa rappresentazione, Goethe e Schiller si impegnarono in modo particolare nell’insegnare agli attori ad interpretare i versi immedesimandosi nel personaggio, tanto che Goethe ne parò nelle sue Regole per gli attori, dettate nel 1803. Negli stessi anni, nei teatri popolari di Parigi, troviamo un altro esempio di proto-regista, Guilbert de Pixèrècourt, l’inventore del mèlodrame, nuovo genere teatrale che ebbe un enorme successo in Francia nei primi 30-40 anni dell’Ottocento. Il mèlodrame era una specie di romanzo in azione, un teatro spettacolare diretto alle masse e a un pubblico illetterato, che cercava di commuovere per la violenza e la stravaganza delle situazioni, i colpi di scena, gli incidenti, l’esagerazione dei sentimenti e le tematiche forti, che influì in modo determinante sul romanticismo teatrale in Francia. Nei teatri popolari dove si rappresentava il mèlodrame, contrariamente a quanto avveniva ancora nei teatri ufficiali, veniva data grande importanza all’aspetto visivo e alla scenografia, complicata e con frequenti cambi di scena. Il mèlodrame sceglieva le situazioni più rare ed eccentriche e le complicava all’infinito, facendo appello a tutto ciò che la tragedia aveva respinto. L’interesse dello spettatore doveva venire attratto dalla situazione. Pixèrècourt si occupava personalmente anche della parte materiale dello spettacolo, curava la scenografia, gli effetti scenici, il movimento degli attori e la parte musicale. I suoi mèlodrames abbondano di didascalie che descrivono nel dettaglio non solo come dovevano essere la scena e i movimenti fisici e psicologici dell’attore ma anche gli effetti scenici, rivelando una grande immaginazione visiva che trasformava il testo teatrale in una specie di sceneggiatura. L’idea stessa di mèlodrame implicava la fusione dei generi, l’incremento della componente visiva, l’apertura alla spettacolarità. Pixèrècourt prima di molti altri intuì l’importanza della disciplina, comprese che per riuscire a teatro era necessario imprimere ordine, gusto e severità. A differenza dei suoi contemporanei dedicava molto tempo alle prove e aveva chiaro il bisogno di unità che è alla base della mise en scène, espressione usata per la prima volta in una critica apparsa su un giornale il 16 dicembre 1821. La mise en scène si afferma prima nei teatri popolari che nei teatri colti, dove valeva il parere degli intellettuali. È un teatro visivo e spettacolare che si rivolge alla società borghese uscita dalla Rivoluzione e grazie all’estetica della nuova scuola romantica, la sensibilità per l’aspetto rappresentativo cresce progressivamente nel corso dell’Ottocento anche alla Comèdie Francaise, dove alla fine del 1837 Dumas dirige personalmente la mise en scène del suo Caligula, un testo a metà tra la tragedia neoclassica e il dramma romantico che aveva lo scopo di rinnovare la pratica della messinscena e legittimare la presenza dello spettacolo. Eliminate le quinte laterali, furono costruite sei nuove scene molto complesse, con case, finestre, porte e terrazze praticabili. In questo spazio Dumas fece muovere una folla di quasi cento comparse. Notevoli furono anche gli effetti di illuminazione. Ma è nei teatri di boulevard che si radica il lavoro di mise en scène da parte degli autori. Contemporaneamente nella seconda metà del secolo si accentua la polemica tra i fautori dello spettacolo e i fautori dell’arte. La spettacolarità viene vista da alcuni tradizionalisti come prerogativa del teatro commerciale esattamente come la letteratura era prerogativa di quello colto. Nell’ultimo quarto del secolo, comunque, si nota un considerevole incremento delle didascalie nei testi teatrali. In Italia l’attore è ancora individualista, non cura la globalità dello spettacolo che è ancora considerato non come un tutto organico ma come un puzzle. Tuttavia, un attore come Tommaso Salvini anticiperà una tendenza che sarà sviluppata più avanti: il lavoro sul personaggio e la relazione psicologica tra i personaggi. Altri esempi di anticipazione del lavoro registico li troviamo:  In Inghilterra con il lavoro di Henry Irving, primattore e direttore del Lyceum Theatre di Londra. Egli si occupava personalmente della preparazione degli spettacoli curandone tutti i dettagli, utilizzando in particolare gli effetti di luce.  A Wagner si deve il contributo più esplicito al riconoscimento della regia come arte. Egli anticipa l’idea di regia perché ha chiara l’idea di unità della messinscena, teorizza esplicitamente il teatro come spettacolo dell’arte totale, in cui il testo non ha preminenza sulla musica, è qualcosa che esiste solo nel momento in cui viene prodotto sotto agli occhi dello spettatore e diventa percettibile ai sensi. Per lui l’artista drammatico, inoltre, non esisteva nella sua individualità ma era un mezzo figurativo. Il piacere dello spettatore era legato alla percezione simultanea di tutti gli elementi dello spettacolo, favola, dialogo, danza, mimica, costumi, architettura scenica. Il suo contributo è fondamentale perché ha intuito l’esigenza dell’unità dello spettacolo e ha formulato teoricamente l’idea di opera d’arte totale. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento fioriscono e muoiono le disposizioni sceniche, ovvero una consuetudine del Teatro alla Scala di fissare, per ciascuna opera, un modello canonico dello spettacolo sul piano dell’interpretazione musicale, della dimensione gestuale e dei movimenti, delle scene e dei costumi, aderente alla concezione degli autori, da loro approvato e tale da poter essere ripreso in qualsiasi teatro. Esisteva insomma un’unica messinscena corretta con cui tutti dovevano misurarsi. Le indicazioni della disposizione scenica erano integrate dai bozzetti delle scene e dai figurini dei costumi, che venivano noleggiati insieme alle partiture e ai materiali d’orchestra, dalla stessa casa editrice. Ovviamente la fortuna delle disposizioni sceniche andò declinando con la nascita e l’affermazione della regia e l’imporsi di una libera interpretazione dell’opera. Regia sarà in primo luogo lavoro d’insieme, coordinamento delle varie componenti dello spettacolo. Ci troviamo davanti ad un ripensamento integrale del teatro perché ridiventi un’arte. II. Il duca di Meiningen e il Giulio Cesare di Shakespeare Il primo metteur en scène non fu un uomo di spettacolo, bensì un duca abituato al comando, un capo, un militare: Georg duca di Meiningen. Divenne duca nel 1866, quattro anni prima che la Germania divenisse una nazione, e aveva subito dimostrato di voler abdicare a ogni ambizione politica per dedicarsi al proprio Teatro di Corte. Da ragazzo si era dedicato alla storia dell’arte antica, alla pittura e alla musica. Egli creò il primo caso di una compagnia omogenea, con settanta attori, che presero il nome di Meininger dalla città e che si estesero a trentotto diverse città europee nell’arco di oltre diciassette anni. Il duca, con il suo esempio, gettò le basi della regia moderna. Egli seppe scegliersi anche dei validi collaboratori. Il più stretto fu Ludwig Chronegk, un consigliere di corte ed ex attore che divenne il suo Regisseur: eseguiva sul palcoscenico le sue idee e metteva in pratica i suoi suggerimenti, si occupava di tutti i risvolti pratici dello spettacolo e seguiva la favore di un teatro più impegnato di idee. Nell’aprile 1895 il teatro viene definitivamente chiuso e dal 1897 Antoine dirige un nuovo teatro sul boulevard de Strasbourg che porta il suo nome: Theatre Antoine. Qui riforma la sala adattandola alle esigenze del mondo contemporaneo, rimuove il grande lampadario centrale che impediva agli spettatori di vedere il palcoscenico, elimina la buca del suggeritore. Un chiaro esempio del suo metodo di lavoro è la messinscena della Terra, rappresentata il 21 gennaio 1902. Questo spettacolo, di un realismo stupefacente in cui si videro in scena animali vivi, ci ha lasciato un cahier de mise en scène in cui compaiono indicazioni nuove. Qui Antoine si prende molta più libertà per quanto riguarda l’ambiente e i movimenti scenici, sostituendo spesso le didascalie dell’autore con altre lunghe didascalie di sua mano. I personaggi sono tratteggiati secondo connotazioni psicologiche, ricorrono appunti relativi agli stati d’animo o al carattere. Cosciente fin dalle sue prime prove dell’importanza del movimento sulla scena, Antoine sembra preoccupato di imprimere sempre più velocità, una velocità cinematografica, alle sue messinscene. Nel 1906 Antoine inizia una terza fase, quella in cui è nominato direttore dell’Odèon, secondo teatro nazionale in Francia. Qui si propone di mettere in scena i classici e le opere di Shakespeare rispettando tre regole: 1. Recitare il testo integralmente senza tagli e adattamenti. 2. Iscrivere l’opera nel contesto del tempo. 3. Rappresentare l’opera con la maggior esattezza possibile, con il suo stile animato e vivace. Ma l’esperienza dell’Odèon è economicamente fallimentare e nel 1914 Antoine è costretto a lasciare la direzione del teatro e il suo lavoro di regista teatrale per dedicarsi prima al cinema poi all’attività giornalistica come critico teatrale e cinematografico. Egli è stato un riformatore, intermediario tra l’autore e gli interpreti, ultimo anello di un processo in corso da più di un secolo. Così attraverso il tentativo di portare il naturalismo a teatro, con Antoine la Francia ha contribuito alla nascita della messinscena moderna e a imporre la regia come arte autonoma. Antoine è il primo praticien de theatre che intellettualizza il lavoro teatrale. IV. Stanislavskij dal Gabbiano di Cechov al sistema Quando nel 1989 Stanislavskij (1863-1938), in lotta contro l’arretratezza, la routine, i cliché del teatro russo, fonda con Nemirovic-Dancenko il Teatro d’Arte di Mosca, ha già dietro di sé vent’anni di esperienza teatrale. La sua prima regia è del 1891 e prima di allora era stato attore e coordinatore. Diventa il grande regista creativo che conosciamo grazie all’incontro con Cechov. Il 17 dicembre 1898 va in scena Il gabbiano. Il dramma non metteva in scena le vicende di un eroe principale, ma rappresentava un gruppo di famiglia in una casa e nel giardino adiacente. Stanislavskij inscena il testo mettendo a punto l’arte della regia come arte scenica sinfonica, che non richiede più un attore, ma attori. A differenza del duca di Meiningen, egli mette al centro la recitazione e non la ricostruzione dell’ambiente. Stende un dettagliatissimo piano di regia preventivo che chiama quaderno di regia. Una vera e propria sceneggiatura teatrale, molto simile a quella del cinema, che era nato tre anni prima. Nei suoi quaderni riporta a sinistra il testo di Cechov, scena per scena, a destra, in corrispondenza, una didascalia che prende dieci volte lo spazio di una battuta. Stanislavskij definisce le sfumature psicologiche, gli stati d’animo interiori, le intonazioni della voce, le pause, i silenzi, gli sguardi. Particolare attenzione viene data agli oggetti, di cui la scena viene letteralmente invasa, e alla loro manipolazione da parte degli attori. Erano anche molto utili agli interpreti che nel vecchio teatro si trovavano completamente abbandonati a se stessi, fuori dal tempo e dallo spazio. All’epoca, in Russia gli attori erano soliti recitare come tenori, non dialogavano fra di loro. Declamavano il testo, non lo vivevano. Stanislavskij, sull’esempio dei Meininger, crea una trama visiva in perenne movimento, somigliante più al vissuto quotidiano che al teatro convenzionale. I personaggi del Gabbiano erano antieroici, volutamente banali, deboli, miserabili, dilaniati dal dubbio sul proprio avvenire, si interrogavano continuamente su ciò che facevano, soffrivano in continuazione. La partitura di Cechov-Stanislavskij è basata sulla variazione continua delle emozioni, dal riso al pianto, su una costante mobilità di umori e comportamenti che implicava un grande esercizio e una grande disciplina da parte degli attori, che con lui smettono di recitare in modo grandioso e diventano tutti minimalisti. È ciò che spesso viene denominato realismo. Accanto al lavoro degli attori, un altro elemento fondamentale della sua regia erano i suoni, i rumori, la partitura sonora: abbaiare di cani, gracchiare di rane, i grilli, orologi e pendole che segnano le ore. I rumori servivano a scandire il tempo e a dilatare lo spazio, a dare la presenza di ciò che si svolgeva fuori della stanza. Ma servivano anche ad ottenere il silenzio. Atmosfera e stati d’animo sono quindi due parole chiave per il lavoro di Cechov e Stanislavskij. Il metodo seguito per Il gabbiano viene applicato anche per Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi messi in scena al Teatro d’Arte. Lavorando sui personaggi di Cechov, Stanislavskij diventa un maestro nel rappresentare sul palcoscenico la noia, l’assenza di motivazioni. Egli aspira alla sincerità, allo smascheramento della menzogna teatrale. Dopo il 1904, con la morte di Cechov, finisce una fase e se ne apre un’altra. Stanislavskij rinuncia a decidere preventivamente il piano dello spettacolo e non scrive più quaderni di regia. Vuole che sia l’attore stesso a diventare creatore di immagini, a riempire il vuoto. Da quel momento si impegna nel cercare di sviluppare la creatività nel lavoro dell’attore. Nasce così, nel 1906 il sistema Stanislavskij. Egli diventa il regista pedagogo, che si mette a disposizione degli attori per insegnare loro a dimenticare il mestiere e ad apprendere l’arte. Al contrario dell’attore di mestiere, l’attore d’arte è concentrato su di sé, prova psicologicamente e fisiologicamente i pensieri e i sentimenti del personaggio. Il centro della sua attenzione non è al di là della ribalta, ma all’interno della sua persona e nei limiti della scena. Lo scopo è quello non di rappresentare, ma di generare un vero sentimento e un’immagine vera. Il lavoro dell’attore diventa un lavoro interiore. Il suo sistema non è altro che un metodo per aiutare l’attore ad arrivare a credere nella verità della scena con la stessa sincerità con cui crede nella verità della vita. Il lavoro dell’attore di Stanislavskij inizia con un disciplinato dominio di sé. L’attore deve innanzitutto imparare a controllare la tensione muscolare, a rilassare i muscoli. Poi imparare a concentrarsi, a non lasciarsi distrarre a prescindere da tutto ciò che c’è intorno. Tramite la concentrazione l’attore deve assorbire il pensiero e i sentimenti del personaggio proposto dall’autore fino a provarli interiormente, affettivamente, in modo da vivere il personaggio, essere il personaggio, anziché riprodurlo e recitarlo. Per provare veramente un sentimento complesso bisogna andare per gradi, saperlo analizzare, scomporlo in vari elementi che agiscono uno sull’altro. Percorrendo la sua ricerca, Stanislavskij arriva a scoprire che, grazie alla concentrazione creativa, l’attore riesce a risentire un’emozione analoga già provata precedentemente nella sua vita in una situazione simile. Le chiama emozioni affettive e la memoria che conserva in noi sentimenti e sensazioni la chiama memoria affettiva o memoria emotiva. Riuscendo a rivivere le proprie emozioni, l’attore riuscirà a esprimere in modo autentico le emozioni del personaggio. Stanislavskij, dunque, pur continuando a recitare e a dirigere diversi spettacoli come regista, si dedica sempre di più esclusivamente alla sperimentazione e alla pedagogia degli attori, all’elaborazione del sistema, al lavoro dell’attore su se stesso e al lavoro dell’attore sul personaggio. Nel 1912 fonda il Primo Studio e lo affida a Leopold Sulerzickij. Rispettivamente nel 1916 e nel 1918 fonderà il Secondo e il Terzo. Cinque anni dopo lo scoppio della Rivoluzione, si reca in tournée in Europa e negli Stati Uniti con gran parte della compagnia del Teatro d’Arte, riscuotendo un clamoroso successo. Tramite Richard Boleslavskij, suo collaboratore, attore e regista al Primo Studio trasferitosi in America, il sistema si radica negli Stati Uniti e diventa uno dei principali e stabili strumenti di formazione degli interpreti del cinema americano. Dopo il 1930, Stanislavskij mette a punto un nuovo metodo per la costruzione del personaggio: il metodo delle azioni fisiche. Una vera e propria tecnica fisica per l’induzione di sentimenti. Il regista pensa che attraverso il corpo l’attore possa agire sull’anima e decide di iniziare il processo verso il personaggio cominciando non dall’immaginazione e dal sentimento, ma dalle azioni fisiche. Comunque, il rapporto dell’attore con il testo non cambia, deve ritrovare al di là della parola il vissuto, il sottotesto. Così l’attore vive il tempo, la psicologia di ogni singolo segmento del ruolo, usando tutti gli strumenti psichici e fisici che possiede, arrivando a rivivere in maniera chiara e netta anche i passaggi da un umore all’altro. L’intento di Stanislavskij è quello di aiutare gli attori a creare esseri umani reali. La guerra fredda rafforzerà la contrapposizione tra due Stanislavskij diversi, quello russo e quello americano. Negli anni Settanta l’Europa si fa erede del metodo delle azioni fisiche e il regista viene riconosciuto da tutti grazie al grande successo indiretto delle sue idee: il concetto di laboratorio teatrale e il lavoro dell’attore su sé stesso, indipendentemente dalla messinscena e anche dal personaggio. V. Appia e il Tristano e Isotta di Wagner Accanto alle esperienze dei Meininger, di Antoine e Stanislavskij, ci sono le riflessioni teoriche sulla scena moderna che hanno portato alla formazione del concetto di regia: le idee di Appia e Craig, che hanno contribuito a mettere in luce l’esigenza dell’unità delle componenti teatrali che fino ad allora erano separate rendendo necessaria la figura di un coordinatore, quindi di un regista. Adolphe Appia ha dato il suo contributo alla definizione e alla legittimazione della regia moderna attraverso la riflessione sul Wort-Ton- Drama di Wagner. Nel 1882 Appia assiste per la prima volta a un’opera wagneriana a Bayreuth: Parsifal. Rapito dalla drammaticità della musica, riconosce nel dramma musicale wagneriano lo spettacolo del futuro e rimane affascinato anche dalle innovazioni del teatro di Bayreuth: l’orchestra nascosta, la platea ad anfiteatro, il buio in sala durante la rappresentazione. Ma non era convinto dalle scene, i costumi e l’uso della luce, che restavano convenzionali come nelle messinscene di routine. La forma rappresentativa era realistica a danno dell’azione drammatica e della musica che appartenevano a una dimensione extra quotidiana perché facevano rivivere il mito. Appia è particolarmente critico nei confronti della recitazione dei cantanti wagneriani, che si rivolgono al pubblico con gesti esteriori, ridicoli. La recitazione realistica degli attori strideva con la potenza suggestiva e il carattere impalpabile della musica. C’è quindi un contrasto evidente tra espressione musicale ed espressione plastica, gestuale, tra musica e attore. Appia smaschera la contradizione basilare degli allestimenti wagneriani. Wagner utilizza le saghe nordiche per esprimere sentimenti primitivi, primordiali, profondi, ma resta prigioniero del realismo illusionista del suo tempo. Nel 1889 Appia va come volontario prima al Teatro di Corte di Dresda e poi al Burgtheatre e all’Opera di Vienna, per studiare sul campo le possibilità della scenografica, della scenotecnica e dell’illuminazione. Con lo studio della messinscena di Tristano e Isotta, Appia cerca di risolvere la distorsione tra il visuale e il sonoro. Tristano e Isotta, in conflitto con il mondo esteriore, si danno liberamente la morte bevendo una pozione che loro credono mortale. Ma la pozione, anziché ucciderli, si rivela essere un filtro d’amore che li infiamma reciprocamente. Il regista deve restituire la visione che hanno gli eroi del dramma, per il quali il mondo è un sogno spettrale. Per renderlo è necessario ridurre il materiale figurativo sostituendolo con un uso espressivo della luce, capace di creare un’atmosfera totalmente astratta, in grado di tradurre il conflitto tra mondo esterno e mondo interno, piano della realtà e inconscio, in un contrasto tra luce e ombra. Appia voleva che luce, recitazione, movimento degli attori, costumi, agissero in modo unitario, condividendo la stessa intenzione delle parole e della musica. Ma le idee di Appia erano troppo avanzate per l’epoca ed entrerà nella storia del teatro e della regia teatrale soprattutto come teorico. Aveva poi intuito che bisognava trovare una specie di ginnastica musicale che servisse tra intermediario tra l’espressione musica e l’espressione gestuale, tra l’attore e la musica. Appia trova la realizzazione di questo concetto nella ginnastica ritmica di Emile Jaques-Dalcroze, una ginnastica nel senso più alto del termine, che conferiva all’attore di un dramma una scioltezza anormale ed eleggeva il corpo dell’attore a mezzo espressivo. Dalcroze aveva aperto una scuola di tale disciplina nella città-giardino di Hellerau, presso Dresda, e inviterà Appia a seguirlo; da quell’esperienza nacquero le idee per L’opera d’arte vivente di Appia del 1921. Due anni dopo fu invitato a mettere in scena al Teatro della Scala il Tristano e Isotta di Wagner ma la luce non era in grado di offrire la mobilità prevista e il pubblico non fu entusiasta della rappresentazione. La maggior parte delle idee di Appia si imposero solo dopo la sua morte: la volontà di ridurre il materiale figurativo per sostituirlo con un uso espressivo della luce è divenuta infatti una caratteristica della concezione moderna della scena e una prerogativa di tutta la regia del Novecento. Lo stesso si può dire della rivalutazione del corpo umano come elemento espressivo, che ha anticipato la nascita e il successo della danza moderna come arte caratteristica del XX secolo. VI. Craig e il Didone e Enea di Purcell Figlio di Ellen Terry, la più grande attrice inglese dell’epoca vittoriana, Edward Gordon Craig, nasce e cresce sulle tavole del palcoscenico, dove inizia a recitare da bambino accanto alla madre. Fece l’attore per nove anni nella compagnia di Henry Irving, dove recitava anche la madre. All’epoca il teatro era dominato dalla presenza centrale del primattore. Nel 1897 Craig lascia definitivamente la carriera d’attore e nel 1900 torna al teatro come scenografo e regista. Anche lui, come Appia, parte per i suoi primi esercizi registici da un’opera musicale. La sua prima regia è la messa in scena di Didone e Enea di Purcell, che fu rappresentato in una sala da concerto del quartiere londinese di Hampstead il 17,18,19 maggio 1900. Era una composizione basata su una struttura convenzionale in cui ciò che contava non era l’intrigo né le parole ma la musica, la quale era ampiamente sufficiente e parlava da sola. Il giovane Craig propose di rappresentarla su un palcoscenico, con delle scene e di renderla il più possibile teatrale. Creò per l’occasione uno spazio scenico praticabile, pronto per essere animato dal movimento. Gli interpreti erano volutamente dei dilettanti, e solo il tenore e il primo ruolo femminile erano professionisti. Questo sia per ragioni economiche che pratiche: i non professionisti erano più duttili e Craig aveva un’avversione nei confronti dello star system. Un’altra novità era la cura dettagliata e preordinata di ogni aspetto dello spettacolo. Da Irving, Craig eredita precisione e professionalità ma a differenza sua, egli insegue una totale inesattezza nei dettagli. Alla definizione limitante del dettaglio Craig preferisce lo sfumato che crea l’atmosfera, suggerisce il mistero. L’arte di Craig è un’arte della suggestione, dell’evocazione, che restituisce libertà all’immaginazione del pubblico. La centralità attribuita all’elemento visivo gli derivava dalla sua formazione pittorica. Craig era influenzato dal movimento simbolista e sperimentò sulla scena ciò che i pittori avevano sperimentato nei quadri, e sfruttando l’invenzione della luce elettrica creò una nuova arte espressiva, anticipando il cinema. Craig segnava i movimenti e le indicazioni di regia sullo spartito, accanto alle note. Troviamo disegni, indicazioni dettagliate, sfumature e contrasti di colori, note relative ai costumi e schizzi dei movimenti scenici. La regia di Didone e Enea prelude all’idea del regista come creatore assoluto. Il ruolo dell’attore veniva radicalmente ridimensionato a favore dell’equivalenza armonica tra le varie componenti dello spettacolo. Il regista era responsabile dell’intero progetto visivo e il fine dello scenografo non consisteva più nel riprodurre proscenio aveva significato il ritorno alle tre dimensioni. Maschere. Clownerie metafisica. Travestimento, trucchi da baraccone. Più che il testo contano la mimica, il virtuosismo acrobati degli attori, la scaltrezza del circo. Al tempo lento di Cechov-Stanislavskij, subentrano il ritmo e il tempo che preparavano la Rivoluzione. Velocità e futurismo. Nell’ottobre 1917 Mejerchol’d si getta a capofitto nella Rivoluzione. Proclama l’Ottobre teatrale, occupa cariche importanti per poter riorganizzare il sistema dei teatri in Russia, che per decreto vengono nazionalizzati. La Rivoluzione gli permette per un decennio di sperimentare e dare libero corso alle sue invenzioni. Nel novembre 1918 mise in scena Mistero buffo di Majakovskij, ma lo spettacolo, con il suo stile da circo e le sue creazioni cubiste, non piacque ai politici sovietici, per i quali il teatro doveva essere uno strumento di formazione culturale improntato a un serio realismo educativo e non un baraccone da fiera futurista. Era il preludio delle accuse di formalismo che si sarebbero abbattute su di lui a partire dalla dittatura di Stalin. Nel Magnifico cornuto di Fernand Crommelynck che mise in scena con un centinaio di giovani allievi, liberatosi della scatola scenica, del soffitto e della scenografia dei teatri all’italiana, Mejerchol’d fece recitare gli attori sullo sfondo di mattoni nudi del teatro sopra una leggera costruzione stilizzata e concepita in modo tale che ogni suo elemento veniva costantemente proiettato nella recitazione degli attori. La scenografia era una specie di macchina che si animava durante la messa in scena. Per formare i suoi attori aveva escogitato la biomeccanica (vedi su Mango). Nella seconda metà degli anni Venti inizia una nuova fase, quella del grottesco. Il suo metodo ora è la sintesi. Scartando i dettagli, mescolando gli opposti e accentuando le contraddizioni, il grottesco ricrea la pienezza della vita. Il capolavoro di questa fase è Il revisore di Gogol’, andato in scena il 9 dicembre 1926, con il quale si propone di dare vita a una creazione puramente teatrale, affermare un linguaggio scenico originale e indipendente. Il testo di Gogol’ era un classico notissimo ai Russi. È la storia di come un piccolo funzionario viene scambiato per un importante ispettore inviato da San Pietroburgo a far luce su abusi amministrativi. Un esilarante equivoco attraverso questo “ignoto personaggio” che assurge a protagonista di un giallo, generando ipocrisie, malaffare e meschinità sullo sfondo di una desolante mediocrità umana. Nel Revisore, Mejerchol’d aveva strutturato interamente la pièce facendone una sintesi dell’opera completa di Gogol’. Parlava della Russia di Nicola I e con la sua messa in scena rendeva il testo di bruciante attualità. I personaggi alludevano alla capitale, avevano il tono e la sicurezza degli abitanti di una grande città. Nell’adattamento, la commedia non era suddivisa più in cinque atti, ma in quindici episodi: questa struttura corrispondeva meglio al modo di percezione dello spettatore moderno, permetteva di mettere l’accento non sul testo letterario ma sull’azione teatrale. L’azione scenica era costruita su due assi portanti. Se sul proscenio, nelle scene d’insieme Mejerchol’d illustrò la commedia del potere, la satira dell’impero russo, gli altri episodi, montati su praticabili mobili, in primo piano, interpretavano la pièce su un livello più personale e più umano, mostravano il caos e il decadimento della società e della famiglia. IX. Piscator e Oplà noi viviamo! di Toller Per molto tempo il ruolo di Erwin Piscator è stato circoscritto a quello del teorico del Teatro politico che egli aveva scritto nel 1929 per difendersi dall’accusa di formalismo che circolava in quegli anni negli ambienti di sinistra tedeschi, come in Unione Sovietica. Oggi Piscator ci interessa non tanto per l’aspetto ideologico, quanto per l’aspetto tecnologico e multimediale che è il mezzo del suo teatro. Avendo intuito il rapporto diretto che intercorreva tra massa e cultura delle immagini, egli ha individuato una nuova forma di teatro multimediale che funzionava per le masse proletarie di ieri, ma continua a funzionare per la società di massa di oggi. Piscator ha capito con grande anticipo che le trasformazioni storiche esigevano un linguaggio artistico basato sulla concezione più accelerata del tempo e più ampia dello spazio, sulla centralità del movimento, sulla percezione metropolitana della simultaneità e ha colto il primato della visione rispetto alla parola. Inserendo il cinema nel teatro, ha dato vita a una nuova drammaturgia. Tramite il film documentario ha allargato lo spazio ristretto della scatola scenica, mettendo in contatto la finzione della vicenda teatrale con le vicende reali del mondo, e tramite la tecnica del collage e del montaggio ha impresso alla rappresentazione teatrale un andamento non più naturalistico, logico, ma ritmico, rapido, telegrafico, fatto di alternanze e contrasti. L’intreccio del marxismo e del Dadaismo, saranno il tratto peculiare della sua proposta scenica. Dopo il debutto come regista, dal 1919 al 1921 Piscator dà vita al Proletarische Theater nei locali dei quartieri operai di Berlino, trasformati in teatri provvisori. L’intento dichiarato era quello di accantonare l’Arte e l’estetica, e di mettere il teatro al servizio della propaganda politica, facendone uno strumento della lotta di classe. In quel periodo mette in scena Fahnen di Alfons Paquet, il quale aveva drammatizzato lo sciopero degli operai anarchici di Chicago, che Piscator rende simbolo delle lotte operaie in generale. Nel corso della rappresentazione, su due pannelli situati in diagonale ai lati dell’avanscena, venivano proiettati estratti di giornali che legavano gli avvenimenti scenici alle rivendicazioni tedesche del 1924 e fotografie che spiegavano i retroscena della vicenda. La reazione della stampa fu in generale piuttosto negativa. I critici non capirono le intenzioni di Piscator e lo accusarono di aver contaminato con il germe mortale dell’anarchia il dramma tradizionale, ispirandosi alle riviste che venivano dagli Stati Uniti. Nelle rappresentazioni successive per la prima volta inserì, oltre le proiezioni fisse, anche tre sequenze filmate di materiale documentario proveniente dagli archivi di stato: combattimenti, assalti con lanciafiamme, città incendiate. Le riprese filmate mostravano l’orrore, la crudeltà e la brutalità della guerra in un’epoca in cui ancora non esistevano i cinegiornali. L’effetto sorpresa che risultava dal passaggio dal film alla scena recitata e viceversa aveva una grande presa sul pubblico. Lo scopo principale era quello di far entrare lo spettatore nell’ambito dell’azione scenica. Quando finalmente poté disporre di un suo teatro, il Piscator-Buhne, lo inaugurò con Oplà noi viviamo! tratto dall’omonimo testo di Ernst Toller: Karl Thomas, condannato a morte nel 1919 per aver partecipato alla rivoluzione del 1918, graziato dopo dieci giorni ma internato in una casa di cura a causa dello choc subito, usciva dalla clinica nel 1927 e ritrovava una Germania irriconoscibile. I sogni infranti del ragazzo venivano messi a confronto con la realtà politica dell’uomo del 1927, che alla fine si uccideva. In occasione di questa rappresentazione, creò per la prima volta un enorme libro di regia, redatto prima di iniziare le prove, in cui ad ogni pagina del testo corrispondeva un grande foglio suddiviso in sei colonne con tutte le indicazioni relative alla messinscena: una colonna per l’atmosfera, una per gli attori, una per le proiezioni e il film, una per la musica e i rumori, e una per le luci. Il lavoro del regista era il frutto del montaggio simultaneo tra le diverse componenti che attraverso un’elaborazione progressiva e la collaborazione tra il regista, lo scenografo, gli attori e i tecnici, si incastravano tra loro come i diversi pezzi di un ingranaggio. La scenografia era un impianto costruttivista. Consisteva in un’impalcatura di ferro, in tubi metallici per il gas, divisa verticalmente in tre parti e nel suo insieme appariva suddivisa in sette parti, una centrale e sei laterali. Ognuna di esse poteva essere utilizzata come un palcoscenico autonomo, coperta da un telo bianco come uno schermo di proiezione. Il risultato era un dispositivo a scacchiera che consentiva azioni simultanee e innumerevoli combinazioni. Piscator aveva ricreato a teatro i metodi del cinema: dissolvenza e montaggio. E il principio del montaggio era presente a tutti i livelli. Erano tre i tipi di film utilizzati da Piscator nei suoi spettacoli, con funzioni diverse:  il film didattico, che comunicava dati obiettivi e storici, illustrava l’argomento del dramma e restituiva il contesto;  il film drammatico, che si inseriva nello sviluppo dell’azione e veniva proiettato tra le scene teatrali o simultaneamente;  il film di commento che accompagnava l’azione coralmente, si rivolgeva direttamente allo spettatore e che fu paragonato al ruolo del coro nella tragedia greca. La forza del montaggio in Piscator costringe lo spettatore a creare e gli determina quella forte commozione creativa interiore. Dai collage dadaisti come dal cinema, Piscator apprende a parlare attraverso l’associazione, la comparazione, il confronto. Sa che dal confronto nasce l’idea. L’elemento fondamentale era la dinamica, il movimento. Nel maggio 1928 fu costretto per motivi economici a cedere il teatro. Quando Hitler prese il potere in Germania Piscator lasciò l’Unione Sovietica e si traferì a Parigi, da dove emigrò verso gli Stati Uniti. Nel 1940, a New York, creò il Dramatic Workshop, una scuola di teatro. Riprese gli esperimenti interrotti a Berlino, mirava alla partecipazione del pubblico in modo aggressivo. Nel 1951 tornò in Germania, dove lavorò più di dieci anni come regista ospite in vari teatri, cimentandosi in nuovi interessanti esperimenti sull’uso della luce. Brecht probabilmente fu il solo a riconoscere a Piscator un ruolo adeguato nel teatro contemporaneo. La rottura della tradizione e il bisogno di creare nuove forme alla luce di un progetto ideale, la frantumazione della scatola ottica e la scelta di usare la totalità dello spazio scenico, l’attivazione del pubblico, la volontà di integrare gli spettatori nell’attività teatrale. X. Brecht e Madre Coraggio Bertolt Brecht inizia la sua formazione in Baviera, dove era nato, negli anni dell'espressionismo. Ben presto se ne distaccherà, in quanto non gli piace tutto ciò che è tipicamente tedesco. Per lui saranno molto importanti Frank Wedekind, per la sua spavalderia e Karl Valentin, da cui impara a pensare al rovescio. Dopo un breve periodo giovanile come spettatore e critico di giornali di provincia, inizia il suo approccio al teatro come scrittore di drammi. Questa rimarrà la sua attività principale e solo negli ultimi anni si dedicherà alla regia. Era contrario alla ricerca spasmodica dell'effetto, convinto dall’inefficacia dell'emozione immotivata nello spettatore. Brecht cerca fin d'allora nel teatro il piacere della ragione, il divertimento intelligente. Per lui un autore teatrale doveva stimolare nel pubblico un atteggiamento indagatore, interessato. Tra il 1918 e il 1923 scrive i suoi primi drammi. Nel 1924 ha i primi approcci con il mestiere di regista. Mette in scena ai Kammerspiel di Monaco la riduzione che aveva scritto con Feuchtwanger di Vita di Edoardo II di Marlowe. Durante la metà degli anni Venti si trasferisce a Berlino, negli anni dell’americanismo. Così si appassiona allo sport di massa, alle corse ciclistiche e in particolare alla boxe. Di fronte al cambiamento sociale entra in crisi la forma tradizionale del dramma; infatti, Brecht si accorge che la vecchia struttura drammatica non bastava più. Nel 1925 scrive Un uomo è un uomo, in cui tratta del rimontaggio tecnico di un uomo per trasformarlo in un altro con un determinato scopo illegale. Nel 1926 Goebbels diventa il Gaultier di Berlino ed è in quel periodo che Brecht si avvicina al marxismo e alla sociologia. Da quel momento lo scopo del suo teatro diventa politico. Brecht non oppone propaganda a propaganda, è indotto proprio dallo stile dei metodi della pubblicità hitleriana a sviluppare un nuovo sistema critico nell'affrontare il teatro e la vita. Vuole esercitare l'arte dello smascheramento, opporre alla suggestione la ratio. Brecht sviluppa il concetto di popolare, cioè riuscire comprensibile alle vaste masse, riprendere e arricchire il modo di esprimersi, accogliere, consolidare e correggere il loro punto di vista. Così nel 1926 nasce il teatro epico. Lo spettatore non deve avere un piacere passivo, non legato a un sentimentalismo partecipe, ma critico. In questo modo bisogna rinunciare all’immedesimazione che dai tempi di Aristotele viene considerata connaturata all'opera teatrale. Nasce una nuova forma drammatica basata sulla rinuncia allo charme. Il 31 agosto 1928 al Theater am Schiffbauerdamm va in scena L'opera da tre soldi. Lo spettacolo fonde le tendenze del teatro di Weimar: divertimento e politica. Rifacimento di un’opera settecentesca inglese, era la storia di una banda di gangster, ladri, finti mendicanti londinesi raccontata alternando le scene recitate con “songs” le cui parole ironiche venivano cantate dagli attori a contrasto con l'atmosfera melodica e piacevole della musica di Kurt Weill. Brecht sperimenta nella costruzione del dramma una nuova tecnica che si fondava sul principio di provocare: lo straniamento. Straniare una vicenda o il carattere di un personaggio significava in primo luogo togliere al personaggio o alla vicenda qualsiasi elemento sottinteso, noto e farne oggetto di stupore e di curiosità. L'opera da tre soldi ebbe un successo internazionale senza precedenti e Brecht sperimentò la tecnica dello straniamento anche nella messa in scena e nella recitazione, e insieme a un gruppo di giovani attori perfezionò un nuovo stile sobrio di rappresentazione, che rompeva con la convenzione teatrale basata sull'immedesimazione: lo stile epico. Gli attori mantenevano un distacco rispetto al personaggio da loro interpretato, Brecht non voleva che si insinuassero nel cuore dello spettatore. I personaggi dovevano venire presentati in modo freddo, obiettivo, classico, non come oggetto di immedesimazione, ma con oggetto del pensiero. Spettatori e attori non dovevano avvicinarsi ma allontanarsi gli uni dagli altri, ciascuno doveva allontanare perfino sé stesso, altrimenti svaniva lo sgomento necessario alla presa di coscienza. Per consentire di tenersi alla giusta distanza dal personaggio, Brecht consigliava all'attore di recitare usando la terza persona e di pronunciare anche le didascalie per porsi in modo straniato rispetto alla propria battuta. Brecht costruisce dei modelli attraverso i quali gli attori si sarebbero potuti esercitare. Un modello base che resterà celebre è quello della scena di strada: un testimone oculare spiega alla gente le dinamiche di un incidente di cui è stato testimone, accompagnando la parola con una gestualità narrativa e limitandosi a raccontare gli eventi, in modo tale che gli astanti possano formarsi un’opinione, senza ammaliare, togliendo spazio all’illusione. La scenografia venne totalmente rivoluzionata. Allo scenografo Brecht non chiede più di ricostruire il luogo dell'azione. Bastava qualche accenno. Lo scenografo sa che ciò che non serve a una storia, la danneggia. Anche la musica e il suo uso inconsueto doveva contribuire a mutare l'atteggiamento del pubblico da quello dello spettatore wagneriano, che si abbandonava, allo spettatore che fuma, cioè il naturale doveva assumere l'importanza del sorprendente. Nel 1929 il crollo della borsa a NY provoca una crisi mondiale. In questo periodo nascono i drammi didattici, il cui scopo era quello di istruire e in cui l'intonazione sociale e politica di Brecht, che negli anni si era fatta sempre più marcata, era ora apertamente marxista: Il volo di Lindbergh, Il consenziente e il dissenziente, La linea di condotta, L’eccezione alla regola. In questi drammi l'ambiente, l'economia, il destino, la guerra, il diritto venivano mostrati come altrettante pratiche umane, suscettibili di essere modificate da altri uomini. Inoltre, si pubblicano i primi fascicoli dei Versuche, ossia contributi critici sul teatro in forma di appunti. Nel 1930 va in scena Ascesa e rovina della città di Mahagonny. Nelle note Brecht chiariva in termini schematici la contrapposizione tra forma drammatica e forma epica del teatro. Nel teatro il pensiero doveva e poteva difendersi da tutto ciò che rappresenta un tentativo di ipnosi, opponendo ogni processo di fusione e di suggestione a un procedimento opposto, basato su una radicale separazione degli elementi. Brecht chiarisce una distinzione per lui fondamentale, quella tra  l'opera d'arte collettiva, collaborazione tra autore, regista, scenografo, musicista, attore) in cui il contrasto fra i vari elementi non viene soppresso,  l'opera d'arte totale, cumulativa, nella quale secondo l'accezione wagneriana, le varie componenti si fondono perdendo la propria individualità.
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