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Riassunto del libro Rinascimento perduto, Sintesi del corso di Storia

Sintesi completa del libro Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII) di Gigliola Fragnito

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 30/04/2023

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Scarica Riassunto del libro Rinascimento perduto e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! 1 RINASCIMENTO PERDUTO LA LET TERATURA ITA LIA NA SOT TO GLI OCCHI DEI CENSORI (SECOLI XV -XVI I ) INTRODUZIONE Questo libro intende ricostruire i meccanismi censori che produssero interventi esiziali sulla letteratura di svago di largo consumo: romanzi cavallereschi, novellistica, satira, facezie e motti, capitoli berneschi, lettere amorose. È in un quadro in continuo movimento che va collocata l’elaborazione di criteri censori riguardanti le opere letterarie e il passaggio dall’esplicito divieto di un manipolo di autori, al rastrellamento a cavallo tra Cinquecento e Seicento, al momento dell’esecuzione dell’indice clementino, di un’infinità di scritti non inseriti in alcun indice promulgato. Di queste “regole” fu la settima dell’indice tridentino, con la proibizione delle opere lascive e oscene scritte ex professo, vale a dire pornografiche, che, dilatata a dismisura, finì con l’abbattersi su gran parte della letteratura italiana. Il clima era, però, cambiato intorno agli anni Settanta del Cinquecento quando, eliminati i principati focolai d’eresia nella Penisola, l’Inquisizione venne riconvertita in un servizio di polizia dei costumi mediante l’ampliamento delle sue competenze in direzione di trasgressioni tradizionalmente affidate ai confessori. Contemporaneamente la creazione della Congregazione dell’Indice (1572), incaricata di aggiornare l’indice tridentino, sotto la guida dell’intransigente cardinale Guglielmo Sirleto, segnò il progressivo consolidamento degli apparati censori centrali che trovarono il loro assetto più o meno stabile all’alba del Seicento. È in questo torno di tempo che l’estensione delle categorie di scritti suscettibili di proibizione investì in blocco la letteratura. L’invenzione della stampa aveva messo sul mercato opere a basso costo e in formati maneggevoli, trasformando il libro da privilegio per pochi a oggetto alla portata di molti, e aveva incentivato la produzione in volgare anche di libri risalenti ai secoli precedenti. Questa letteratura di intrattenimento era rapidamente esondata nelle piazze e nelle strade e finanche nelle campagne. Nel clima severo degli anni Settanta del Cinquecento, il carattere ludico e licenzioso di molta questa letteratura fornì non pochi pretesti a coloro che si accingevano a “censurare le favole”. La progressiva incrinatura delle barriere che separavano la cultura della nobiltà da quella dei ceti urbani, la circolarità tra vari ambienti sociali degli stessi scritti non potevano non allarmare la Chiesa, cui non doveva sfuggire che i fruitori riuscivano ad “appropriarsi” in diversi modi dei contenuti di questi testi. A ciò si aggiunse la tradizionale misoginia della Chiesa. Il progetto pedagogico postridentino avrebbe dovuto disciplinare la donna e, per suo tramite, l’intera società. Alla diffidenza si sommarono l’ignoranza e lo zelo degli addetti al controllo della circolazione libraria, i quali, per non sbagliare, preferivano bruciare. Con questa operazione si chiudeva a cavallo del Cinque e Seicento quella che era stata probabilmente una delle stagioni più luminose della tradizione letteraria italiana. Adriano Prosperi, muovendo dal presupposto che la censura fu una condizione “ordinaria, normale, della produzione letteraria” che servì ad acuire la curiosità e a stimolare la conoscenza, ha cercato di smussare l’opposizione cultura/censura, sostenendo che “la realtà della censura letteraria nell’Italia della prima età moderna è quella di un intreccio tra chierici e laici”. Questa tesi forte è stata oggetto di severe critiche da parte del maggior esperto della censura letteraria, Ugo Rozzo. Se è innegabile che nelle numerose accademie che pullulavano nell’Italia del Cinquecento si esercitava sugli scritti dei propri membri un costante controllo in vista della stampa, molto meno evidente è la trasformazione degli accademici in collaboratori e consulenti dell’Inquisizione. Non è condivisibile, d’altro canto, la tesi sostenuta da Vittorio Frajese, secondo il quale l’errore fondamentale degli storici della censura è quello di “connotare le due istituzioni dell’Inquisizione e della censura come istituzioni repressive”, mentre “per la cultura ecclesiastica la censura era cosa del tutto diversa dalla repressione: o meglio, la repressione era solo un aspetto della sua funzione”. In tale prospettiva la lotta contro il libro eretico fu solo una temporanea deviazione”. Che la Chiesa abbia adottato un modello pedagogico fondato sulla persuasione piuttosto che sulla coercizione è fuori discussione. Ma è altrettanto fuori discussione che si trattò di una pedagogia dal volto repressivo finalizzata a mantenere il controllo delle menti e delle coscienze, a plasmarle e a soggiogarle, privandole di strumenti di autonomia critica. Assai più difficile stabilire l’efficacia del sistema censorio, della quale sono state date valutazioni opposte. Facilmente dissimulabili, libri stampati e manoscritti sfuggirono sicuramente ai controlli periodici delle autorità ecclesiastiche. Le conseguenze dell’azione della Chiesa non possono però essere misurate solo sui libri che si salvarono. Esse vanno valutate alla luce delle modifiche che subirono interi generi letterari: dalla satira che scomparve dal mercato per circolare solo manoscritta, al romanzo cavalleresco. Altrettanto incisiva la pratica dell’autocensura. Sarebbe però un errore fermarsi alle sole ripercussioni sul piano letterario della politica repressiva della Chiesa. Non è il caso di ritornare sui desolanti tassi di analfabetismo al momento dell’Unità. Un aspetto, rimasto a lungo ai margini di questi dibattiti, è quello dell’incidenza della censura sulla disaffezione degli italiani per la 2 lettura. Sebbene fino alla metà del Cinquecento l’Italia sia stata uno dei paesi di più elevata alfabetizzazione, oggi essa si presenta come una nazione di “lettori deboli”. CAPITOLO PRIMO: ORIGINI DELLA CENSURA ECCLESIASTICA – GLI APPARATI 1. “Penna, lingua, alma et arte del Demonio et suoi ministri” Fin dalle origini la Chiesa esercitò forme di controllo sull’ortodossia attraverso la condanna di deviazioni dottrinali pronunciata da bolle pontificie e da decreti conciliari. Con la nascita tra Due e Trecento delle università, la vigilanza su docenti e studenti si fece più stretta e le facoltà di teologia (come Parigi) si assunsero il compito di condannare l’insegnamento di dottrine filosofiche e teologiche eterodosse. Si trattò, tuttavia, di un sistema censorio che godeva di larga autonomia. Perché Roma avverta la necessità di centralizzare il controllo sulla produzione intellettuale occorrerà attendere la fine del Quattrocento. A indurla a prendere provvedimenti fu l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Inizialmente l’atteggiamento della Chiesa fu decisamente favorevole e venne a crearsi una tacita alleanza tra il mondo dei tipografi e quello dei chierici (es. volgarizzamenti biblici). Tuttavia, di fronte ad una produzione editoriale sempre più imponente Roma percepì i danni che potevano derivare dalla lettura di scritti non sottoposti al vaglio delle autorità ecclesiastiche e iniziò a prendere alcune misure. Un primo intervento si ebbe il 17 novembre 1487 quando con la bolla Inter multiplices Innocenzo VIII affidò la censura preventiva ai vescovi e, a Roma e nel suo distretto, al vicario papale e al Maestro del Sacro Palazzo, riservando loro il giudizio sull’ortodossia dei testi destinati alla stampa. Emanata il 4 maggio 1515 nell’ambito del V Concilio Lateranense, la bolla Inter sollicitudines tornò sulla questione dell’imprimatur, associando, però, ai vescovi gli inquisitori, e comminando pesanti sanzioni ai trasgressori. Questa la normativa in vigore quando la penetrazione della Riforma protestante nella penisola italiana mise la Chiesa di fronte a tutte le potenzialità eversive della stampa. L’allargamento dei confini del sapere, la caduta degli steccati che separavano il mondo dei chierici e dei dotti dal comune fedele, non potevano non destare allarme. Roma reagì con lentezza e incertezza, condizionata dalla politica di riconciliazione tra cattolici e luterani perseguita da Paolo III Farnese e da Carlo V. Tuttavia, dopo il suo definitivo fallimento alla Dieta di Ratisbona (1541), la lotta al dissenso religioso assunse forme più efficaci. Con la Licet ab initio (21 luglio 1542) venne creata la Congregazione Romana del Sant’Ufficio con il compito di coordinare, attraverso i tribunali inquisitoriali periferici, la lotta contro individui sospettati o imputati di adesione alle dottrine ereticali. La manifesta importanza assunta dal libro quale veicolo di errori dottrinali indusse l’Inquisizione a porne sotto la propria sorveglianza la circolazione. Con l’editto Animadvertentes del 12 luglio 1543 l’Inquisizione incaricava i propri delegati a Roma e nei luoghi italiani di farsi consegnare dai librai gli inventari dei libri in vendita, di vietare a stampatori e tipografi di pubblicare alcunché senza previa licenza, di farsi sottoporre gli elenchi dei libri giunti alle dogane per poterli ispezionare e farsi consegnare dai detentori i libri eretici, di vietarne l’acquisto, il prestito, la lettura e l’ascolto. Per poter eseguire tali ordini era, però, indispensabile essere a conoscenza di quali fossero i libri proibiti. Diversamente dalla Francia, dove la facoltà di Teologia aveva nel 1544 emanato un indice dei libri proibiti, Roma attese il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559) per dotarsi di un analogo strumento. Il papa ne affidò la compilazione alla Congregazione del Sant’Ufficio che lo promulgò il 30 dicembre del 1558 con un proprio decreto. Venne estesa ai detentori e/o ai lettori di qualsiasi testo proibito la scomunica solo per chi avesse letto e per giunta consapevolmente, libri di eretici, scomunica dalla quale solo il pontefice o i suoi delegati potevano assolvere. Sopraffatto dalle proteste che gli giungevano da ogni parte, determinato a contenere gli esorbitanti poteri acquisiti dall’Inquisizione, Pio IV decise di incaricare i padri riuniti a Trento della redazione di un nuovo catalogo, sottraendo al Sant’Ufficio competenze attribuitegli dal predecessore. È stata ripetutamente sottolineata la moderazione, rispetto al precedente, dell’Indice Tridentino, promulgato il 24 marzo 1564: introduzione formale del criterio dell’espurgazione, grazie alla quale potevano essere recuperati molti testi vietati indispensabili ai professionisti; limitazione del divieto degli scritti di eretici; eliminazione della lista degli stampatori la cui intera produzione era stata proscritta; attenuazione della condanna di tutta l’opera di Erasmo; abolizione del divieto delle traduzioni bibliche nelle lingue materne. Non è stato, peraltro, sufficientemente messo in luce il ruolo preminente assegnato dal nuovo catalogo ai vescovi. Pio IV formulava, infatti, un fondamentale distinguo tra opere di autori eretici e opere proibite, ma non ereticali, e stabiliva una gerarchia di reati in base alla loro gravità, non prevista nel primo indice. Mentre lettori e detentori di libri della prima categoria incorrevano ipso iure nella scomunica e contro di loro sarebbe stato lecito procedere giudizialmente secondo la prassi canonica, lettori e detentori dei libri afferenti alla seconda si sarebbero macchiati di reato- peccato mortale. Delle 10 regole che costituivano la cornice normativa dell’Indice Tridentino e disciplinavano alcune importanti categorie di opere, due, la VII e la IX, riservavano all’esclusiva vigilanza dei vescovi due importanti settori della produzione editoriale e manoscritta: i libri lascivi e osceni e quelli di magia e astrologia. Il carattere moderato dell’indice conciliare e l’attribuzione ai vescovi di un ruolo preponderante nel controllo delle letture dei fedeli erano però destinati ad alimentare fortissime tensioni ai vertici stessi della Chiesa. All’indomani dell’elezione Pio V Ghislieri (1566-1572), prosecutore della politica rigorista del Carafa, si diffusero in effetti voci secondo le quali egli si sarebbe apprestato a “ridurre il Catalogo dei libri”. Tuttavia, anche un pontefice proveniente dal Sant’Ufficio dovette esitare prima di rimettere in discussione l’operato dei padri tridentini e di riaffermare la preminenza dell’Inquisizione sul concilio in materia di eresia. Nei 5 2. “Qui va pur intorno questo benedetto romore della proibizione d’infiniti poeti: vorrei sapere se ve n’è cosa alcuna di vero” Sia pure formulate in maniera assai confusa, le liste diramate dal Maestro del Sacro Palazzo e dalla Congregazione dell’Inquisizione colpivano un numero elevatissimo di famosi letterati e di autori oggi meno noti. Costabili, tuttavia, non si accontentò di compilare elenchi, ma inviò istruzioni agli inquisitori periferici, adducendo l’esempio di Roma, dove “si tratta di continuo di levar via tanti libri volgari” e di distruggerli. Seguirono altre liste, compilate sia dai Maestri del Sacro Palazzo, sia dall’Inquisizione a Roma e distribuite in periferia che aggiungevano nuovi autori e titoli, spesso senza distinguere tra libri proibiti, libri sospetti e libri passibili di correzione. Questo flusso continuo di elenchi di proibizioni dal centro alla periferia sembra essersi esaurito solo nel 1583 a seguito della protesta del cardinale Gabriele Paleotti, membro della Congregazione dell’Indice oltre che arcivescovo di Bologna. Egli ne denunciò l’illegittimità in quanto diramati senza la previa autorizzazione della Congregazione e costrinse l’allora Maestro del Sacro Palazzo, Sisto Fabri da Lucca, a stilare una lista di libri che “per errore o in altro modo senza autorità” erano stati proibiti. Da allora non risulterebbe l’emanazione di liste prive dell’avallo della Congregazione. Tuttavia, per quanto non formalmente approvati, quegli elenchi riflettevano fedelmente le scelte della Congregazione dell’Indice e dell’Inquisizione. Ne fornisce una prova il cosiddetto indice di Giovanni Dei del 1576. Nella dedica a Gregorio XIII il Dei dichiarava di essere stato incaricato dal cardinale Scipione Rebiba, decano del Sant’Ufficio e dal Maestro del Sacro Palazzo (Costabili, anche se non espressamente nominato) di controllare i libri in entrata e in uscita da Roma. Menzionava anche il cardinale Sirleto. È possibile cogliere nel richiamo ai massimi esponenti dei tre organi centrali deputati alla censura il loro diretto coinvolgimento nell’iniziativa del Dei. Nel suo catalogo segnalava non soltanto scritti dottrinalmente ereticali, ma anche quelli che “contra nonos mores, vitaeque pudicitiam aliqua continent”, mettendo sullo stesso piano eresia dottrinale e licenziosità. La presenza della letteratura è cospicua. Una particolare attenzione viene, inoltre, riservata a canzoni “dishoneste et lascive”, a “opere in versi di sacra scrittura cos’ volgari, come latini” causa di “gran danno”, a “madrigali” e a “villanelle in canto, et così canzoni alla napolitana, le quali apportano grandissimo danno alla christianità”. Per quanto redatto in maniera estremamente confusa l’indice elencava autori e scritti presenti nelle liste precedenti e anticipava quelli che sarebbero apparsi nelle liste successive soprattutto nel cosiddetto Indice di Parma del 1580. Se l’intervento del cardinale Paleotti riuscì a frenare la circolazione di nuovi elenchi, lo zelo profuso dal Dei e da altri censori nell’individuare autori, opere e “generi” letterari da vietare non andò, però, sprecato. Chiusa la parentesi sirletiana esso tornò utile per la confezione degli indici sistino (1590) e sisto-clementino (1593), sia per la stesura di norme più articolate che avrebbero dovuto sostituire le 10 regole tridentine, sia per la compilazione dell’indice dei libri volgari italiani. Non vi è dubbio che, per quanto attiene alle opere letterarie, la nuova normativa elaborata dai cardinali sia stata condizionata dalle precedenti “selezioni” e dai criteri che le avevano guidate. A testimonianza dei continui ripensamenti degli uffici romani, l’indice sisto-clementino non promulgato, pur ripristinando le regole tridentine, vi aggiungeva un’Instructio rivolta a coloro che erano chiamati a proibire, correggere e rilasciare l’imprimatur. Pur se non ufficiale questa guida trovò una concreta traduzione nell’indice “nazionale” dei libri italiani collocato in appendice dell’indice del 1590 e di quello del 1593 che riproponeva condanne e sospensioni di opere letterarie pronunciate in quegli anni. Sebbene Clemente VIII ne avesse ordinato la soppressione, esso figurava nella stampa del Blado del 1593 ed è ipotizzabile che sia tornato utile agli esecutori del terzo indice romano. La regolamentazione fissata nel sisto-clementino del 1593 verrà sostanzialmente riprodotta, di seguito alle 10 regole tridentine, nella seconda parte dell’Instructio dell’indice clementino relativa al de correctione librorum. Dopo aver stabilito a chi dovesse essere affidata la correzione dei libri, si passava a elencare puntigliosamente ciò che è necessario di correzione ed espurgazione. Appare opportuno riprodurre, numerandole per praticità le istruzioni su ciò che andava corretto: 1 – proposizioni eretiche ed erronee; 2 – proposizioni che introducono novità contro la somministrazione dei sacramenti e le cerimonie, e contro gli usi e le consuetudini della Chiesa cattolica; 3 – espressioni profane nuove escogitate dagli eretici per indurre in errore; 4 – termini dubbi e ambigui che possono distogliere l’animo dei lettori dal significato retto e cattolico; 5 – parole della Sacra Scrittura non fedelmente riportate; 6 – sono da espungere anche le parole della Sacra Scrittura adoperate in maniera empia in senso profano; 7 – parimenti dovranno essere cancellati gli epiteti elogiativi e qualsiasi cosa detta in lode agli eretici; 8 – a quanto sopra si aggiungeranno tutte quelle affermazioni che sanno di superstizioni, sortilegi e divinazioni; 9 – ugualmente dovranno essere cancellate tutte le proposizioni che sottopongono il libero arbitrio dell’uomo al fato; 10 – siano eliminate anche le proposizioni che sanno di paganesimo; 6 11 – ugualmente dovranno essere espunte tutte quelle proposizioni che recano danno alla reputazione del prossimo, specialmente a quella degli ecclesiastici e dei principi; 12 – dovranno anche essere espurgate le proposizioni contrarie alla libertà, immunità e giurisdizione ecclesiastica; 13 – ugualmente si cancellino quegli argomenti che desunti dalle massime, dai costumi, dagli esempi dei gentili favoriscono il governo tirannico; 14 – siano eliminati gli esempi che ledono e violano i riti ecclesiastici, gli ordini, lo status, la dignità e la persona dei religiosi; 15 – siano soppresse anche le facezie o le battute salaci ai danni della reputazione altrui; 16 – infine siano cancellate le lascivie che possono corrompere i buoni costumi; 17 – siano cancellate immagini oscene; è facile constatare come siano più numerose le prescrizioni che investono la morale rispetto a quelle dedicate alla fede e sottolineate come le preoccupazioni della Chiesa di fine secolo si spostino sulla difesa della giurisdizione ecclesiastica. CAPITOLO TERZO: ACCERCHIAMENTO DELLA LETTERATURA 1. “L’inquisitor è fatto giudice della fede, non censor dei costumi” Lento ed incerto fu il percorso degli organi censori romani verso l’estensione delle proprie competenze dagli scritti contro la fede a quelli contro la morale. La svolta segnata dalla nomina a Maestro del Sacro Palazzo del domenicano Paolo Costabili nel 1573 veniva ad innestarsi sugli umori rigoristi che da sempre avevano agitato alcuni settori della Chiesa, ma che l’invenzione della stampa e l’affermazione del volgare, con l’allargarsi della cerchia dei fruitori dei libri, avevano certamente accentuato. Fin dalla sua apparizione sulla scena fiorentina Girolamo Savonarola aveva stigmatizzato i poeti in quanto “sono dei bugiardi e quasi in tutte le cose usano la menzogna”. A monte di queste posizioni si avverte il timore che la riscoperta da parte degli umanisti del patrimonio dell’antichità greco-latina, la rinascita delle lettere e degli studi filologici indirizzati ai classici e alla Sacra Scrittura, non ché la valorizzazione del volgare potessero sfociare sia in interpretazioni eterodosse delle fonti pagane e cristiane, sia nella corruzione degli animi in cui venivano iniettati valori etici non conformi alla morale cristiana. Le dispute sull’immortalità dell’anima, sull’unicità dell’intelletto e sull’eternità del mondo che dalla prima metà del Trecento animavano le università indussero Leone X durante il V Concilio Lateranense a emanare la costituzione Apostolici regiminis (19 dicembre 1513) che condannava chi si opponeva alla subordinazione delle scienze alla teologia. Prescrizione generica cui la successiva costituzione Inter sollicitudines sul controllo preventivo della stampa – emanata il 4 maggio 1515 – poco aggiungeva se non un riferimento ai libri scritti in latino o in volgare “che contengono errori contro la fede”. Se le misure conciliari colpivano esplicitamente solo la tradizione peripatetica della filosofia universitaria, che rivendicava l’autonomia dell’indagine speculativa nei confronti della teologia, e gli scritti diffamatori, ma non le opere lascive e licenziose, di contenuto diverso furono i decreti del sinodo di Firenze, convocato nel 1516 dall’arcivescovo Giulio de’Medici, sulla scia della precedente campagna antiumanistica e anticarnevalesca di Savonarola. I decreti vietavano ai maestri delle scuole di grammatica, oltre al De rerum natura di Lucrezio, sostenitore della mortalità dell’anima, le opere di Catullo, gli epigrammi di Marziale, ricordando che tra gli autori latini non mancavano autori onesti. 2. “La via d’un vivere licenzioso e lascivo” Già prima dell’apparizione di Lutero era, quindi, emersa l’esigenza di un controllo ecclesiastico del sapere, ma l’indeterminatezza dei settori sui quali intervenire rivela l’assenza di un disegno preciso volto a colpire l’editoria di grande consumo all’interno della quale la letteratura d’evasione insieme ai volgarizzamenti biblici occupava un posto di primo piano. Tuttavia, le crescenti preoccupazioni nei confronti dei peccati della carne e dell’impudicizia delle donne si aggravarono con la diffusione delle dottrine luterane. Tuttavia, indipendentemente da questioni dottrinali, l’esigenza di una riforma morale della cristianità avvertita dai due schieramenti, cattolico e protestante, crea talvolta forme di convergenza delle loro posizioni ostili alle opere letterarie più in voga: per entrambi i loro racconti menzogneri avrebbero “attivato una dimensione emotiva che offuscherebbe e pervertirebbe la ragione, il discernimento, distogliendo quindi dalla virtù”. Scesero in campo Cornelio Agrippa di Nettesheim, filosofo tedesco cultore di arti occulte, di tendenze riformate e il benedettino francese, strenuo difensore dell’ortodossia cattolica, Gabriel Dupuyherbault. I due autori nei loro scritti riprendevano argomenti già esposti dall’umanista spagnolo Juan Luis Vives il quale, sulla scia di Erasmo, aveva proposto un nuovo modello di donna cristiana, valorizzandone il ruolo di educatrice alla pietà e alla cultura. Sulla base di questo presupposto egli condannò gran parte della produzione letteraria contemporanea. Agrippa si scagliava contro la poesia in generale, bollata come corruttrice bugiarda e oscena, e contro tutte le storie narrate dai romanzi cavallereschi, che falsificavano la realtà storica. Dal canto suo Dupuyherbault, muovendo dalla diffusione della Riforma in Francia, allargava lo spettro delle opere meritevoli di censura a quelle che definiva “lasciviae historiae” (come ad esempio il Decameron), ovvero opere che 7 incentivavano l’impudicizia delle donne. Nonostante questi scritti fortemente polemici nei confronti dei testi letterari, e nonostante, sia pure sporadicamente, le autorità civili avessero vietato opere letterarie, Roma, impegnata contro l’eresia dogmatica, mostra una sostanziale “latitanza censoria” nei confronti della letteratura. Solo agli inizi degli anni Cinquanta su istruzioni romane cominciarono a comparire opere letterarie censurate, ma in numero ridottissimo. Il dotto calabrese Gabriele Barri pubblicava il Pro lingua latina libri tres, in cui, intervenendo su una delle questioni di fondo dell’epoca, il rapporto latino-italiano, si schierava tra i sostenitori della superiorità del latino in quanto lingua sacra rispetto al volgare, ritenuto “strumento di voluttà e corruzione”. Barri gettava inoltre alle ortiche tutta la letteratura tardomedievale e rinascimentale – che aveva adottato l’italiano quale veicolo indispensabile di conoscenza e strumento di comunicazione del sapere al di fuori delle cerchie dei dotti -, contrastando implicitamente l’auspicio di Dante che il volgare potesse diventare “luce nuova”. Barri aggiungeva alle accuse di lascivia e di licenziosità dei precedenti detrattori della letteratura il sospetto di eresia, sia proiettando su alcuni scritti, risalenti al Tre e al Quattrocento, la dottrina luterana del servo arbitrio per il peso attribuito al fato nell’agire umano, sia addossando alle critiche devastanti di molti autori contro la corruzione della Chiesa. E in ciò non si discostava dalle posizioni dei riformatori, i quali non avevano esitato a fare di Boccaccio un antesignano di Lutero. Denunciava, inoltre, la mescolanza di sacro e profano nel lessico di poeti e prosatori, fornendo come esempio il Liber sententiarum di Paolo Cortesi (1504), dove i santi erano trasformati in heroes, i sacerdoti in flamines, l’inferno in Orcus. 3. “Et quanto alle disonestà et obscenità lasciare li lettori alla loro coscienza” I tempi però non erano ancora maturi perché queste critiche sferzanti si traducessero in formali divieti. Gli indici del 1558 e del 1564 sfiorarono appena la letteratura. Allora si potevano ancora, sia pure parzialmente, accogliere i suggerimenti formulati da Lelio Torelli, auditore alla giurisdizione di Cosimo I. La visione del Torelli, con il richiamo alla “coscienza” dei singoli lettori, era perfettamente in sintonia con la strategia di Pio IV tesa a frenare l’avanzata del Sant’Ufficio sul terreno dei comportamenti sessuali avviata dal suo predecessore Paolo IV Carafa. Ma la strategia del Carafa, dopo le breve tregua segnata da Pio IV, sarebbe stata ripresa da Pio V e Gregorio XIII con la nomina nel 1571 della commissione cardinalizia per la revisione dell’indice conciliare, eretta in Congregazione dell’Indice l’anno dopo. Erano anni in cui la Chiesa poteva accingersi con rinnovata energia a disciplinare e a moralizzare la società italiana. In questo progetto di stretta vigilanza sui costumi e sulla morale, i censori affilarono le armi contro settori della produzione editoriale che esulavano dal campo strettamente dottrinale e religioso. Con diffidenza ed intolleranza crescenti guardarono alla secolare, innocua abitudine di poeti e prosatori di dispensare attributi riservati alla divinità e ai santi a comuni esseri mortali; di divinizzare la donna e l’amore; di accordare preminenza nel destino dell’uomo al fato e alla fortuna; di gremire il comune linguaggio di parole, di modi di dire, di proverbi tratti da fonti liturgiche e bibliche. Inoltre, in anni in cui la Chiesa si adoperava all’irrobustimento e alla riforma delle istituzioni ecclesiastiche e a una riqualificazione dell’alto e basso clero, fondata su una marcata separatezza dal laicato, i suoi apparati repressivi non potevano non ingaggiare una lotta serrata contro la vena anticlericale che percorreva gran parte della letteratura italiana. D’altro canto, la creazione della Congregazione dell’Indice richiedeva un rinnovato impegno sia nell’aggiornamento delle liste dei libri da proibire, sia nell’attenuazione dei dettami dell’indice tridentino. Demandata dal concilio agli ordinari diocesani e agli inquisitori, la mancata correzione di un patrimonio indispensabile soprattutto ai professionisti (medici, giuristi, filosofi, teologi, docenti universitari, ecc.) era stata già oggetto di un motu proprio di Pio V del 19 novembre 1571 che accentrava a Roma nelle mani del Maestro del Sacro Palazzo, Tommaso Manrique, la correzione dei libri che non trattavano ex professo di religione, ma nei quali si erano insinuate proposizioni ereticali, nonché il controllo della pubblicazione presso la Stamperia del Popolo Romano delle edizioni corrette. È in questa funzione che il Manrique venne a trovarsi coinvolto fin dal 1571 in un serrato confronto-scontro con i Deputati fiorentini impegnati nella “rassettatura” del Decameron di Boccaccio. L’operazione fece emergere un primo insieme di “errori intollerabili” da eliminare, modificare e attenuare. Ma i sia pur pesanti interventi imposti da Roma non bastarono a salvare il lavoro dei Deputati. Sebbene munita dell’approvazione del Manrique e di un privilegio di Pio V, l’edizione apparsa a Firenze nel 1573 nella stamperia dei Giunti venne immediatamente vietata dal nuovo Maestro Paolo Costabili. Non era facile per i “rassettatori” capire e accettare il repentino mutamento degli orientamenti del successore del Manrique. E tantomeno adeguarsi alla personalità del Costabili. Alle critiche del clero regolare e secolare, basso e alto, maschile e femminile, da un lato non più compatibili con l’immagine purificata e disciplinata di sé che la Chiesa postridentina si proponeva di divulgare e di proiettare sul proprio passato; dall’altro sempre più indigeste a censori provenienti prevalentemente dal clero, veniva ora ad aggiungersi l’ossessione amorosa. A testimoniarlo l’indice di Giovanni Dei e le liste diramate da Roma ai tempi del Sirleto. 4. “Manus et vultum Laurae tangere cupit” L’attacco esplicito al Petrarca, punto di riferimento essenziale per l’umanesimo italiano ed europeo, non sarebbe però tardato. A sferrarlo fu, non a caso, Gabriele Barri. Il suo accanimento si diresse soprattutto al canzoniere e ai Triumphi del Petrarca, accusato di idolatria per aver dichiarato di adorare Laura e per averla chiamata “deum suum”; di essere un epicureo che riponeva nel piacere carnale la sua felicità e beatitudine, paragonando quest’ultima alla beatitudine celeste. Le sue cantilenae abbondavano di paragoni nefarii e prophani: Laura veniva eguagliata alla Beata Vergine. Alle accuse di immoralità si accompagnava anche quella di negare il libero arbitrio e la provvidenza e di essere stato, nei sonetti contro la corte papale avignonese, “temerarius et impudentissimus”. Al termine della sua invettiva non gli rimase di esortare il 10 tra i libri proibiti, mentre il successore di Giovanni Battista Lanci a Genova tra i libri “pernitiosi” e a Napoli vengono segregati nel convento di San Giovanni a Carbonara. Occorre anche sottolineare come non essendo i titoli corredati di riferimenti bibliografici non sia possibile verificare se tra le edizioni sequestrate o tra quelle indicate come in attesa di espurgazione ve ne fossero anche di già riedite pesantemente amputate e manipolate. 3. “Astretto di venire a qualche atto di abbrucciamento” Sarebbe tedioso ricostruire lo “statuto” delle singole opere confiscate a fine Cinquecento come si è tentato di fare per le opere del Doni, ma un loro pur sommario elenco evidenzia le difficoltà in cui ci si imbatte nel cercare di individuare i criteri che presiedettero a sequestri e roghi di libri che non figuravano nell’indice del 1596 né come proibiti, né come sospesi. Erano presenti nelle già menzionate liste? Ricadevano o si facevano ricadere arbitrariamente sotto le regole tridentine o sotto quelle de correctione librorum introdotte nell’indice clementino? Va, comunque, rilevato che ad aggravare la sorte delle opere letterarie contribuivano editti di pubblicazione dell’indice clementino che equiparavano testi dottrinalmente ereticali e testi licenziosi. Il vescovo di Imola, Ridolfo Paleotti, si spingeva fino ad includere tra gli eretici perseguibili dal Sant’Ufficio chi avesse letto libri “che trattino ex professo di cose lascive e profane”. Che si trattasse di un’innovazione rispetto al passato lo testimonia la resistenza di Carlo Emanuele I di Savoia alla promulgazione dell’indice nei propri territori. Queste innovazioni colpivano, peraltro, anche la giurisdizione ecclesiastica, come si evince dall’intervento del vescovo di Novara, Carlo Bascapè, discepolo di Carlo Borromeo, il quale chiese il ritiro di un editto, pubblicato a sua insaputa che obbligava a denunciare “quelli che hanno libri di cose lascive et contra i buoni costumi”. In questo clima in cui nessuno si sarebbe azzardato a contestare le pretese romane di controllare, oltre che l’ortodossia dottrinale, la moralità dei fruitori del libro, gli esecutori trovarono un sicuro argomento e incentivo per scatenarsi contro le opere letterarie e per non risparmiare nella loro furia alcun genere letterario. Volendo azzardare un bilancio delle opere letterarie più densamente presenti tra i libri sequestrati o perché proibiti o perché sospesi e, quindi, più diffuse, tenendo conto che le liste inviate a Roma risalgono per lo più alla seconda fase di applicazione dell’indice clementino, emerge la popolarità del Decameron, del Cortegiano, delle Maccheronee di Teofilo Forlengo, delle Lettere amorose, delle novelle e dei libri di Facezie e motti dei più vari autori, delle raccolte di Satire. Comunque, al di là di un’elencazione delle opere letterarie sequestrate o bruciate, occorre osservare che, insieme ai volgarizzamenti biblici, esse costituirono la categoria contro la quale i censori si accanirono con maggiore impegno. Vanno, tuttavia, segnalati alcuni comportamenti che connotano l’azione degli esecutori. Innanzitutto, l’ossessiva attenzione riservata alle opere che trattavano specificamente materie amorose, più ancora che ai romanzi cavallereschi. Altrettanto opportuno è rilevare l’approssimazione e la sommarietà con le quali si procedette alla “disinfestazione” di biblioteche pubbliche e private e di botteghe di librai. Inoltre, lo zelo degli esecutori sempre più propensi a largheggiare nell’applicazione dei divieti si sommò talvolta alla loro ignoranza e alla loro miopia. Ad esempio, il De ingenuis moribus dell’umanista Pier Paolo Vergerio il Vecchio fu sequestrato perché attribuito all’omonimo eretico cinquecentesco. Per tacere dell’incompetenza di molti dei compilatori delle liste da inviare a Roma sulla base degli elenchi forniti dai proprietari di libri. Raramente essi indicavano l’autore delle opere registrate, ma quando vi si impegnavano, facevano grandi confusioni. D’altro canto, a motivare interventi così drastici concorrevano vari fattori. Innanzitutto, la profonda avversione dei proprietari di libri nei confronti degli esecutori e la diffidenza verso la sorte riservata ai loro libri. Inoltre, anche a causa delle precedenti, talvolta superficiali, ispezioni, gli esecutori nei grandi centri si trovarono a gestire una massa impressionante di elenchi sottoposti dai proprietari e non risulta che fossero in molti ad esaminarli scrupolosamente. Anche in piccoli centri, come Rimini, l’inquisitore dichiarava di aver raccolto tra i libri sospesi “più di 600 pezzi” e, non disponendo di docenti capaci di emendarli, di attendere la pubblicazione dell’Indice espurgatorio per poter procedere alla loro correzione. Queste liste venivano, per giunta, compilate con criteri diversi: alcuni esecutori chiedevano a chi sapesse scrivere di elencare tutti i libri in suo possesso e a chi non sapeva scrivere di affidarne la compilazione a chi era in grado di farlo. Altri invitavano chi disponeva dell’indice a registrare solo i libri che risultavano proibiti o sospesi in suo possesso. Non sorprende, dunque, che di fronte alla complessità e macchinosità dell’operazione ci fosse chi, come l’inquisitore di Alessandria, si sentisse sollevato per aver trovato “questa inquisitione quanto a’ libri scopis mundatam”, grazie al suo predecessore il quale, “abruggiò tutti i libri prohibiti”, o chi si rallegrava che nella propria “chiesa poco o nulla vi sarà da fare intorno a questo particolare per esser luoco di gente idiote et rozze” o chi, infine, gioiva perché il proprio “popolo” attendeva “ad altri essercitij, che a libri per la Dio gratia”. CAPITOLO QUINTO: L’ESPURGAZIONE DEI LIBRI SOSPESI 1. “Io non leggo quasi mai libro nessuno, che non mi bastasse l’animo di fargli sopra una buona censura” Le liste dei libri sequestrati tra fine Cinquecento e inizio Seicento lasciano intravedere pile di testi affastellati nei depositi inquisitoriali e vescovili in attesa dell’azione purificatrice di qualche censore che potesse rimetterli in circolazione con brani inchiostrati, pagine tagliate o incollate. A mettere in moto formalmente la pratica espurgatoria era stato l’indice tridentino con lo scopo di recuperare per i cultori delle arti liberali opere di eretici che non trattassero di religione e di restituire al comune lettore quei pochi scritti letterari espressamente segnalati. Pratica che aveva precedenti nei collegi dei gesuiti che 11 era stata chiaramente introitata dal Bellarmino. Fin dalla loro nascita, Ignazio di Loyola aveva dato istruzioni di purgare da passi scabrosi o licenziosi i classici latini e greci usati dai docenti. La smania di disinfestare i testi letterari rientrava, però, in una temperie che, prim’ancora della formalizzazione del criterio dell’espurgazione, che aveva indotto alcuni letterati, indipendentemente da direttive romane, a “riscrivere” o a “censurare” opere di grande successo. Impossibile valutare allo stato attuale della ricerca quante siano state le opere letterarie oggetto di autonome “correzioni” di ordine contenutistico e non soltanto formale (lessico, grammatica, ortografia, lingua), oltre che di autocensura da parte degli autori prima degli anni Settanta. Infatti, di fronte al moltiplicarsi di liste di libri proibiti e sospesi inviate da Roma gli stampatori, fiutando il nuovo clima e timorosi di sanzioni, incaricarono correttori più o meno improvvisati di rivedere i testi sospesi, il che rende quasi impossibile individuare chi si celasse dietro. Spicca infatti, per la sua eccezionalità, la figura “professionale” del domenicano Girolamo Giovannini da Capugnano, il quale dedicò la sua esistenza a correggere testi appartenenti alle più varie discipline, tra i quali quelli letterari occupano un posto di rilievo. È, però, opportuno ricordare che il problema dell’espurgazione dei testi si era posto sin dalla creazione della Congregazione dell’Indice, istituita con il duplice scopo di aggiornare e rivedere il catalogo del 1564 e di predisporre l’indice espurgatorio, annunciato al concilio di Trento. Di conseguenza, già durante la prefettura Sirleto (1571-1585), vennero ad accatastarsi negli uffici romani, oltre alle opere sospese nel tridentino, pareri e memoriali relativi a scritti di cui si discuteva se inserirli tra i vietati o tra i sospesi nell’indice in preparazione. Ciò creò inevitabilmente un vero e proprio ingorgo, aggravato da una serie di elementi: assenza di criteri espurgatori chiari; oscillazioni costanti tra centralizzazione e decentralizzazione dell’attività dei revisori; perplessità sull’opportunità di dare alle stampe liste di correzioni di singole opere piuttosto che nuove edizioni espurgate; incompetenza o superficialità dei consultori; incertezze sulla priorità da accordare ai testi più richiesti; pressioni da parte di professionisti. Alle difficoltà interne di gestione di un progetto a dir poco titanico si sommarono le sovrapposizioni di competenze tra l’Indice, Inquisizione e Maestro di Sacro Palazzo, che finirono col causare l’affossamento dell’indice espurgatorio romano e col proiettare all’esterno un’immagine di totale inefficienza degli organi censori curiali. A pagare lo scotto di tale inefficienza fu soprattutto la letteratura italiana. Tuttavia, nel corso della revisione delle regole tridentine, che occupò le prime riunioni della Congregazione, il problema della tutela della moralità si affacciò più volte e sotto varie forme. Si discusse se vietare i libri di contemplazione e se autorizzare i manuali per confessori nelle lingue materne. Quanto alla regola VII fu anche occasione di un importante dibattito che metteva in discussione l’estensione della categoria di eresia a questo tipo di libri. Tra i consultori vi fu chi giudicò che si dovesse operare una distinzione tra libri proibiti, in quanto contrari alla dottrina cattolica, e libri con oscenità o sprezzanti nei confronti dei sovrani. L’evidente arbitrarietà maturata in quegli anni dall’equiparazione, sotto il profilo dell’eresia, di libri contro la morale fu nuovamente denunciata a proposito della regola X, quando si tornò a sottolineare che la scomunica doveva essere comminata solo ai lettori di libri eretici e tra costoro solo a quelli che lo avessero letti scienter, mentre i lettori di libri licenziosi avrebbero commesso peccato mortale. Di fatto la tutela della moralità venne affidata ai trattati di teologia morale, ai manuali per confessori, alle istruzioni per la donna cristiana, all’azione pastorale di vescovi, parroci e predicatori. Tuttavia, negli anni del Sirleto, nonostante questi accesi dibattiti, non sembra esservi stato alcun diretto impegno per il recupero delle opere letterarie da parte della Congregazione, interessata piuttosto alla correzione di opere filosofiche, mediche, giuridiche, teologiche ecc. Ne derivò un’anarchica proliferazione di revisori dilettanti che indusse i cardinali dell’Indice a porsi il duplice problema del controllo degli organi centrali sull’attività espurgatoria e della formulazione di regole specifiche. Ciò avvenne, però, solo nel 1587 dopo il rinnovamento della Congregazione da parte di Sisto V. I nuovi membri decisero che tutte le opere espurgate, prima di poter circolare, avrebbero dovuto essere sottoposte alla loro approvazione. Inoltre, si impegnarono alla compilazione di norme espurgatorie da inserire nell’indice in preparazione. La rilevanza attribuita ai testi sospesi è testimoniata anche dalla decisione del 25 giugno 1587 che affidava ai consultori della Congregazione la revisione di una serie di opere; dal potenziamento del numero dei consultori; dall’intensificarsi dei riunioni in cui venivano esaminate e discusse le “censure”. Questa accelerazione dei lavori permise di programmare in maniera più concreta la pubblicazione dell’indice espurgatorio. Su questa nuova impostazione sembra aver deciso il Discorso intorno all’Indice da farsi de libri prohibiti composto nei primi mesi del 1587 dal segretario della Congregazione, Vincenzo Bonardo, il quale raccomandava che i “moltissimi” libri sospesi fossero affidati a un “colleggio de Theologi deputati in Roma”, onde evitare che “un medesimo libro s’espurgherà in un vescovato, et da una Inquisitione in un modo, et diversamente da altri”. Notava, inoltre, come fosse difficile impedire la diffusione di “Molti libri”. Di fronte al “grande spaccio che se ne fa”, riteneva che “volerli levare et prohibire affatto è quasi impossibile”. Nel corso dell’esame delle regole nelle prime riunioni, a proposito della settima furono in vari a ritenere che le opere oscene ex professo dovessero essere esplicitamente elencate affinché gli “idiotae” non potessero giustificarsi accampando l’ignoranza di quali esse fossero. A tutela della moralità si auspicava anche il divieto di autori classici (Ovidio, Marziale, Catullo) corruttori della gioventù. Potevano essere concesse deroghe per Cicerone e Virgilio, ma non per gli autori cristiani. Nonostante un apparente attivismo, sotto Sisto V l’indice espurgatorio non vide, però, la luce e fu solo con Clemente VIII che venne dato un nuovo impulso alla sua stesura, valutando addirittura se fosse il caso di dargli la precedenza rispetto all’indice proibitorio. La proposta non venne accolta e si ridistribuirono per classi, secondo uno schema ormai consolidato, le opere di cui la Congregazione possedeva già le censure e quelle che sarebbero state espurgate a Roma e fuori. Presto, però, cominciarono a moltiplicarsi i segnali di un imminente rinvio del progetto. Da un canto, venne proposto che, in attesa della pubblicazione delle censure approvate dalla Congregazione, i proprietari potessero correggere i propri libri sulla base dell’indice espurgatorio spagnolo; dall’altro ci si appellò agli ordini religiosi, alle università straniere e italiane e ai nunzi al fine di 12 ottenerne la collaborazione. Non solo: il lento procedere della macchina fece sì che non prima dell’estate del 1594 ci si rendesse conto della necessità di reperire fondi per l’acquisto di importanti libri sospesi non posseduti dalla Congregazione e per compensi a copisti, censori e consultori. 2. “Come voi altri di Roma trattate le cose adaggio” Il ricorso all’ampia concessione di licenze di lettura dei libri emendabili era il risultato inevitabile dei ripetuti inceppamenti di ingranaggi censori che giravano a vuoto. Non è un caso che in questa situazione a dir poco caotica, all’indomani della promulgazione dell’indice clementino, i cardinali con abile mossa, prendendo a modello la Congregazione del Concilio, ottennero dal papa la facoltà di dirimere le controversie e di sciogliere i dubbi che fossero sorti nel corso dell’applicazione. Non fu, peraltro, questo l’unico strumento che avrebbe consentito loro di pilotare e di coordinare l’attività censoria. La Congregazione cercò di cogliere quell’occasione unica per insediarsi nel territorio alla pari del Sant’Ufficio e per sostituirsi ad esso nella vigilanza sulla produzione e circolazione dei libri. A tal fine progettò una riorganizzazione del sistema di controllo per definire e distinguere chiaramente la sfera di azione dei due dicasteri. Il nuovo sistema faceva perno essenzialmente sui vescovi, invitati a istituire nelle loro diocesi propaggini del dicastero romano: da essi presiedute, queste “congregazioni dell’Indice” locali, cui avrebbero partecipato consultori laici ed ecclesiastici, avrebbero dovuto riunirsi con regolarità nel palazzo vescovile per attendere all’esecuzione dell’Indice: vale a dire, nell’immediato, vagliare le liste dei libri o i libri consegnati, e, successivamente, provvedere all’emendazione delle opere sospese, alla censura preventiva e alla vigilanza sulla penetrazione di opere sospette o vietate nei territori sotto la loro giurisdizione. Nelle aree dell’Italia centro- settentrionale, dove erano presenti i tribunali inquisitoriali, questi nuovi organismi dovevano essere per composizione e per finalità da essi distinti, mentre l’inquisitore ne avrebbe fatto parte in subordine all’ordinario diocesano. Nel complesso, grazie all’assiduità e all’accuratezza con la quale i cardinali dell’Indice controllarono l’operato delle sedi locali e grazie ai frequentissimi interventi del Sant’Ufficio, la prima fase dell’esecuzione fu sistematica e capillare e i sequestri e roghi cui diede luogo causarono danni difficilmente calcolabili. Questi, tuttavia, non furono gli unici: durante la seconda fase, quella che prevedeva l’espurgazione delle opere sospese, emerse in maniera evidente l’inadeguatezza della Congregazione dell’Indice ad assolvere l’ambizioso compito che si era prefissa. Non si trattava, infatti, di correggere soltanto i libri espressamente sospesi nell’indice, bensì una moltitudine di testi che ricadevano sotto le regole tridentine, sotto quelle clementine e sotto condanne generali dell’indice stesso. Tutto ciò comportò un impegno che le “congregazioni locali”, per svariati motivi, non furono in grado di sostenere. Tra le maggiori difficoltà quella più frequentemente denunciata fu la carenza di persone capaci di farsi carico dell’espurgazione di opere. Molte altre cause concorsero a ritardarne o a impedirne la creazione o a renderne il funzionamento stentato: la principale fu la perdurante non-residenza dei vescovi nelle loro sedi. L’assenza del vescovo comprometteva tutto il disegno della Congregazione per l’insufficiente autorità del vicario chiamato a sostituirlo. A questi problemi strutturali si aggiungevano: la frequente incomprensione delle direttive romane; l’impossibilità di sostenere i costi per l’acquisto dei libri da correggere o per i compensi ai copisti che trascrivevano le censure eseguite; la mancata remunerazione dei revisori. Ma, al di là degli ostacoli organizzativi, fortissimo era lo scetticismo nei confronti delle modalità adottate dalla Congregazione. A incitare i revisori a sospendere i lavori concorrevano vari fattori: oltre alla notizia che la stessa opera o la stessa categoria di scritti veniva emendata altrove, la scoperta che ci si affaticava a rivedere opere già ristampate corrette; il ritardo con cui la Congregazione stessa accusava ricevuta delle espurgazioni o rispondeva ai quesiti della periferia; i non infrequenti smarrimenti delle censure da parte degli stessi inquisitori, l’irreperibilità di libri da espurgare indicati con titoli storpiati o fuori commercio. A questi disguidi si aggiungeva l’inosservanza da parte di Roma della normativa. L’Instructio prevedeva, infatti, che le opere sospese fossero censurate localmente e che le emendazioni fossero riunite in un “index expurgatorius” a stampa a uso locale. La richiesta di raccogliere a Roma le censure locali aveva, però, anche lo scopo di uniformarle. Tale atteggiamento contribuì ad alimentare la convinzione che, in attesa dell’indice espurgatorio, dedicarsi alla correzione dei testi fosse tempo perduto. Non vi è dubbio che nella mente dei cardinali il sistema avrebbe dovuto garantire innanzitutto che le opere più richieste venissero effettivamente emendate. Ma essi volevano anche assicurarsi che la correzione dei libri fosse fatta con quella perizia e ponderatezza che facevano spesso difetto a revisori dilettanti. A queste aspettative non sembrano aver corrisposto i risultati, nonostante la Congregazione avesse cercato di razionalizzare il lavoro, ripartendo tra le diocesi provviste di università o di accademie i libri più richiesti. Dopo un’iniziale adesione all’invito che li autorizzava a tenere o a procurarsi opere altrimenti vietate, universitari e accademici addussero ogni sorta di impedimenti professionali e familiari, paralizzando i lavori delle “congregazioni” quasi ovunque e costringendo i vescovi e inquisitori a gettare la spugna. 3. “Di qua non occorre aspettare censura alcuna” Il caso della confezione dell’indice espurgatorio delle opere letterarie è emblematico. Sollecitato dal cardinale Valier, Marino Zorzi, nunzio pontificio presso il granduca di Toscana Ferdinando I, gli comunicava il 29 luglio 1596 di aver trattato con il vicario arcivescovile e con l’inquisitore e di aver suddiviso per classi i consultori, laici e teologi regolari e secolari, ch iamati a correggere i libri di teologia, diritto, medicina e “belle lettere”. In un secondo momento, a seguito della richiesta di autorizzazione per un’ennesima edizione espurgata del Decameron ad opera degli accademici Desiosi, Roma chiese al nunzio di rivolgersi a questi ultimi affinché, qualora lo avessero espurgato in tempi ragionevoli, “se li potesse per publica utilità confidar molti altri libri di bella lingua da correggersi quali sono prohibiti e sospesi”. Fin dai suoi esori, però, la 15 conoscerà almeno 155 edizioni e che aveva segnato profondamente l’immaginario collettivo? Se lo dovettero chiedere i più avveduti tra i censori, considerando anche la dimensione orale del consumo che si faceva del Furioso a tutti i livelli della società. Come potevano i membri dell’Indice bandire il Furioso la cui fortuna letteraria era, inoltre, strettamente intrecciata co quella figurativa? Pittori più o meno famosi ne avevano riprodotto episodi salienti e personaggi in cicli di affreschi. All’oggettivo ostacolo rappresentato dall’ineguagliata fortuna del poema si aggiunse e probabilmente prevalse una motivazione di ordine politico. Nel momento in cui si accumulavano sui tavoli dei censori pareri espurgatori diretti a modificare il tessuto del poema e si discuteva se metterlo nominatim all0’indice, Clemente VIII si incamminava alla conquista di Ferrara per prenderne il possesso a seguito della morte senza eredi legittimi di Alfonso II d’Este. È difficile immaginare che un papa, il quale aveva cercato di salvaguardare la cultura rinascimentale, fosse disposto ad infliggere un ulteriore sfregio agli Este, condannando un’opera che aveva celebrato le glorie della dinastia, o che potesse pensare di insediarsi nel governo della Legazione con un gesto che gli avesse procurato sicura impopolarità tra i nuovi sudditi. Se le vicende censorie del Furioso si risolsero a favore dell’Ariosto, non per questo il percorso del poema negli uffici delle Congregazioni romane e delle sedi vescovili e inquisitoriali periferiche fu pacifico. Indubbiamente pesò sulla sua sorte il passaggio dalle forme di intrattenimento dei cantastorie legate all’oralità a una narrativa fissata in testi a stampa, legata ai modelli della lettura che, trasformando i romanzi di cavalleria in un prodotto editoriale assai più accessibile aveva accentuato la diffidenza del clero. Sottrarre ai fedeli i “libri de’bataglia”, ritenuti fonte di corruzione morale per le storie d’amore e di avventura che narravano e veicoli di eresia per le pratiche magiche e i sortilegi che divulgavano, divenne un impegno senza precedenti. Non prima però del 1572, quando il Paleotti segnalò al cardinale Guglielmo Sirleto, tra molte opere da valutare per l’indice in preparazione, anche il Furioso. Per quanto riguarda l’Ariosto, il censore Gabriele Barri isolava nel poema soprattutto quei passi in cui il poeta aveva strapazzato il clero. Egli si concentrò sulla spiegazione data ad Astolfo nel cielo della luna delle “versate minestre”, ravvisandovi un’irridente critica ai lasciti per le messe di suffragio. Giudicava, inoltre, le insidie de l decrepito eremita ad Angelica, mentre la descrizione di “questo nuovo inferno” quali appaiono all’arcangelo Michele i monasteri e i conventi, suscitava in lui la più grande riprovazione. Il Barri concludeva il suo rapido esame attribuendo anche il presunto suicidio del non nominato Simone Fornari all’adesione al luteranesimo in conseguenza del tempo dedicato a scrivere il commento del poema. Nonostante questo parere, il Furioso non comparve nelle liste inviate da Roma tra il 1574 e il 1583. Vi erano, però, mezzi più sottili per impedirne la circolazione e il Costabili seppe avvalersene: diffidò i librai romani dal rifornirsi di esemplari del poema. Nelle liste, comunque, si figuravano le Satire e sotto le voci che condannavano tutte le comedie ricaddero, ovviamente, anche quelle dell’Ariosto. Ciò non significa che nelle discussioni in seno ala Congregazione dell’Indice il Furioso venisse dimenticato. Con la mancata promulgazione dell’indice di Sisto V e l’avvento di Clemente VIII, riprese la scelta dei libri da inserire nell’indice. Roberto Bellarmino, dopo aver consigliato la proibizione di opere poetiche oscene in latino, chiedeva l’aggiunta anche del Furioso. Questi dibattiti non approdarono, tuttavia, all’inserimento delle opere di Ariosto nell’indice del 1596. La decisione di Clemente VIII di eliminare le appendici con gli indici “nazionali” – nelle quali erano sospese le Satire – fece scomparire il nome del ferrarese dall’elenco degli autori proibiti. Ma questa mancata menzione non si tradusse in minore rigore da parte degli esecutori dell’indice del 1596 i quali procedettero senza scrupoli al sequestro delle Satire, delle Rime, del Negromante, della Cassaria e dei Cinque Canti. Del Furioso non vi sono tracce. 3. “Sono cagione d’infinite delettationi morose, che da lettori si commettono” Fu, tuttavia, nella seconda fase di applicazione del clementino che i censori tornarono a esaminare opere letterarie in vista sia di edizioni corrette da fare approvare a Roma, sia della pubblicazione dell’indice espurgatorio. A indirizzare l’attento sguardo del poema ariostesco fu l’oratoriano Tommaso Galletti, consultore della curia arcivescovile napoletana. Il Galletti aveva, infatti, lanciato un grido d’allarme rivolgendosi il 6 giugno 1596 a Giulio Antonio Santori, membro della Congregazione del Sant’Ufficio: nei Cinque Canti, apparsi per la prima volta in appendice all’edizione veneziana del Furioso del 1545 presso gli eredi di Aldo Manuzio “vi sono parecchie stanze, nelle quali sfacciatamente si loda la comunanza delle moglie, e quelle maledette assemblee e mescolanze, che altre volte introdussero alcuni heretici”. Non era però, il solo. Ben prima di lui, già all’indomani della morte dell’Ariosto (1533), anche Pietro Bembo. Per tornare al parere del Galletti, messo a confronto con quello del Barri, appare assai più articolato, soffermandosi su singoli versi. Non è, però, meno severo. Galletti deprecava che si potesse attribuire a un non cristiano “profetico lume” o definirlo, come il mago merlino, “profeta”, dare del “santo” a un pagano, definire “miracoli” incanti e sortilegi. Per non parlare degli strali contro il clero. Le “censure” del Galletti giunsero a Roma non prima del 1600, ma la sua denuncia dell’immoralità del Furioso era stata trasmessa dal cardinale Santori già nell’estate del 1597 alla Congregazione dell’Indice. Quest’ultima si mostrò assai poco solerte. I revisori, prima di elencare i loro interventi, precisarono di aver fatto la “corretione conforme alla stampa di Giolitti in Venetia l’anno 1552”, nella quale figuravano anche i Cinque Canti. Trattandosi di revisori residenti a Ferrara, è legittimo il sospetto che essi avessero consapevolmente scartato l’edizione curata da Girolamo Ruscelli, stampata a Venezia nel 1556 presso il Valgrisi. Da un canto, motivi di opportunità politica dovettero sconsigliare dall’utilizzare edizioni curate da un fedele del casato estense e dedicate dal Valgrisi a Luigi e Alfonso d’Este. Dall’altro, è noto che Ruscelli pretendeva di aver avuto da Galasso, fratello del poeta, un esemplare dell’edizione del 1532 “ricorretto et migliorato”. Nella revisione del poema i censori cancellarono parole, versi, ottave e addirittura un intero canto senza suggerire sostituzioni. La loro acribia si volse ad altri aspetti: la commistione tra linguaggio cristiano e linguaggio pagani; l’immoralità e la lascivia delle donne; gli attacchi contro il clero alto e basso e la vena anticlericale ad essi sottesa; l’irriverenza verso i riti e le cerimonie della Chiesa. Per fare alcuni esempi circa l’uso 16 improprio di termini legati al cristianesimo: la definizione di “cimitiero” data al sepolcro del mago Merlino doveva essere cancellata, cos’ come il termine “paradiso” inteso come luogo di delizie, e “profeta” applicato a non cristiani. Sul piano della moralità femminile dovevano essere eliminate la difesa di Ginevra da parte di Rinaldo e con essa quella della libertà sessuale delle donne. Non diversamente da altri testi emendati, più estesi e penetranti appaiono gli interventi tesi a cancellare ogni critica nei confronti della Chiesa. Alcuni eventi politici coevi descritti con accenti polemici non mancano di essere espunti dai revisori ferraresi: così le critiche contro le aleatorie alleanze tra “re, papi e imperatori”. Cos’ anche gli accenni alle morti violente di papi e cardinali, causate dalla loro avidità e l’aspra e amara polemica contro l’immoralità e la corruzione della corte di Roma. Meritevole di essere espunto apparve, inoltre, l’auspicio del poeta che Carlo V ricomponesse la frattura della cristianità, auspicio in cui evidentemente i correttori ravvisarono la nostalgia per tempi in cui gli imperatori erano riusciti a esercitare un efficace controllo sul papato e nel contempo un’approvazione della politica di riconciliazione con i protestanti perseguita dall’Asburgo anche a costo di concessioni e compromessi. 4. “So che i meriti nostri atti non sono a satisfare al debito d’un’oncia” Al termine di questa rapida analisi dei pareri censori s’impongono alcune considerazioni. Anzitutto per quanto riguarda la loro distanza cronologica. Barri scriveva all’inizio degli anni Settanta del Cinquecento, quando non erano ancora state formulate le regole de correctione librorum e si procedeva guidati dalla foga distruttrice. A cavallo tra Cinque e Seicento Galletti e i censori ferraresi disponevano, invece, della normativa introdotta nell’indice clementino e cercarono di attenervisi. Se ciò spiega il diverso tenore delle critiche al romanzo, non consente, però, di gettare luce su un elemento che accomuna i loro orientamenti censori: la totale assenza di rilievi nei confronti di chiare manifestazioni delle inquietudini religiose dell’Ariosto, che non fossero riferimenti decisamente anticlericali e anticuriali. I molteplici richiami nel poema a dottrine di matrice evangelica sfuggirono allo scandaglio dei censori. Ossessionati dalla salvaguardia dell’onore di frati e monaci, essi, infatti, non prestarono attenzione alla preghiera di Carlo Magno durante l’assedio di Parigi, in cui il rifiuto del valore meritorio delle opere nel processo di salvazione e la totale fiducia nella grazia divina non avrebbero potuto essere più espliciti. Questa ottava esprimeva una convinta adesione da parte di Ariosto alla dottrina della giustificazione per sola fede che era stata largamente condivisa da molti prima della sua formulazione luterana. Merita attenzione anche la terminologia usata dal poeta: nel canto XXXIV per bocca di san Giovanni, Orlando viene incolpato di aver “renduto al suo signore / di tanti benefici iniquo merto”. In effetti intorno alla formula “beneficio di Cristo” / “benefici di Dio”, dalle Enarrationes in Psalmos di Sant’Agostino ai commenti ai salmi del primo Lutero, a quello di Valdés a Lo Evangelio di San Matteo. Si erano venuti coagulando, con diverse declinazioni, i temi della preminenza della grazia, della giustificazione per sola fede, della svalutazione delle opere e della vanità dei meriti acquisibili per loro tramite, della misericordia divina. Non passano, però, inosservate solo le inclinazioni religiose dell’Ariosto, che al momento dello scandaglio censorio non potevano non risultare eterodosse alla luce dei decreti tridentini. Il silenzio più impenetrabile cade anche sulle “belle e sagge donne”, sui “cavalieri”, sui letterati e filosofi che accolgono il poeta all’”arrivo in porto”, tra i quali non pochi appartenevano all’area del dissenso religioso. Se Barri e Galletti potevano non essere a conoscenza della profonda penetrazione dell’eresia nei domini estensi e nelle vicine corti padane, difficilmente i censori ferraresi avrebbero potuto ignorarla. Si può, quindi avanzare l’ipotesi che l’occultamento delle compromettenti frequentazioni dell’Ariosto fosse dettato dalla volontà di non riaprire un capitolo incandescente della storia estense. Sarebbe, pertanto, vano ricorrere alle censure del Furioso per attingervi elementi utili alla ricostruzione delle componenti dell’inquietudine religiosa dell’Ariosto. I censori si concentrarono sul problema dei confini tra verità e finzione, sulla permeabilità tra sacro e profano. Queste profonde riserve si sommarono alla crescente vigilanza ecclesiastica sulla sessualità femminile. Ad alimentare l’intolleranza nei confronti de l poema cavalleresco concorrevano anche la battaglia antiastrologica e antimagica e la conseguente negazione della preminenza nel destino dell’uomo del fato e della fortuna su cui molti autori indugiavano. Inoltre, in anni nei quali la Chiesa si impegnava nella catechizzazione e moralizzazione dei fedeli e nel disciplinamento dell’alto e basso clero, i pungenti giudizi sulle istituzioni ecclesiastiche presenti nel Furioso non potevano non allarmare i censori. Sarebbe, tuttavia, riduttivo ricondurli nell’alveo del tradizionale anticlericalismo e anticurialismo di cui era pervasa la letteratura italiana e leggerli con l’occhio volto essenzialmente agli “abusi” o a una incredulità e irreligiosità inclini a scalzare il cristianesimo o inserirl i nell’ambito di una diffusa e profonda ansia di rinnovamento ecclesiale. Gli attacchi agli ordini religiosi, al clero secolare, alla dissolutezza dei vertici della Chiesa, al nepotismo, alle imprese militari dei pontefici tese alla creazione di signorie per i propri familiari alla prevalenza degli interessi temporali, avrebbero potuto essere convogliati in quell’alveo. Ma se scaturivano dalla certezza della preminenza della grazia nel processo salvifico e della centralità del Vangelo nella vita del cristiano, potevano condurre versi proposizioni assai più audaci. La polemica non si fermò, infatti, a una trita denuncia dei vizi degli ecclesiastici, ma investì le espressioni “contabili” della fede e le pratiche superstiziose – dai voti, alle indulgenze, alle messe di suffragio. Restano, pertanto, da indagare più compiutamente contesti culturali, cittadini e familiari, e fonti scritte dei quali Ariosto nutrì il suo pensiero religioso. Sul piano della specificità ferrarese è stata evidenziata l’influenza della polemica antiecclesiastica del conterraneo Savonarola nonché del suo profetismo, prolungato nel tempo nel monastero domenicano di Santa Caterina, eretto nel 1502 da Ercole I per ospitarvi la terziaria Lucia Brocadelli da Narni. In quel monastero furono monache la sorella Virginia e le nipoti Prudenza e Domitilla, figlie della sorella Taddea, e lo stesso Ludovico ebbe stretti rapporti con il fratello di Lucia, Cassio da Narni. È stato, inoltre, messo in luce recentemente come confluissero nel Furioso intorno alla vittoria contro Venezia degli Este nella battaglia della Polesella (22 dicembre 1509) echi di brevi componimenti 17 recitati nelle piazze dai cantimpanca, delle stampe “popolari”; delle cronache cittadine che celebrarono l’evento a Ferrara. Un materiale che potrebbe forse essere utilizzato proficuamente anche per notizie relative alla religione cittadina ferrarese. Circa le fonti scritte che poterono alimentare la religiosità dell’Ariosto, occorrerà verificare l’incidenza degli scritti di Lorenzo Valla e della sua corrosiva polemica contro la donazione di Costantino, il potere temporale dei papi e gli ordini religiosi, nonché della sua ansia di renovatio ecclesiae. Andrà valutata anche l’estesa presenza di letture erasmiane sottese a molti canti: dalla condanna della proliferazione degli ordini regolari, alla descrizione piena di sarcasmo dei monasteri e conventi parigini visitati dall’arcangelo Michele, allo sdegno nei confronti della violenta politica antiestense di Giulio II. Né potrà essere trascurato l’intenso rapporto con la spiritualità dagli esiti eterodossi o decisamente ereticali dei benedettini cassinesi di San Benedetto, dove chiese di essere sepolto, rinunciando, contro radicate consuetudini, a essere deposto accanto agli avi nella cappella gentilizia di San Francesco. Né che nel primo compiuto commento al poema del 1549-1550, Simone Fornari, dalle indiscutibili inclinazioni calviniste, scorgesse dietro le interpretazioni allegoriche il valore morale e religioso e la funzione educativa del Furioso. Terminato l’esame delle “censure” del poema ariostesco, è lecito chiedersi se i tagli minimi e le estesi mutilazioni suggerite trovarono concreta applicazione. Per rispondere sarebbe necessaria una sistematica, ricognizione, delle edizioni secentesche. Quel che è certo è che quell’edizione auspicata dalla Congregazione dell’Indice, emendata e stampata sulla base delle espurgazioni ferraresi, non apparve mai. Ma il Furioso non era un testo qualsiasi: la revisione non si sarebbe potuta esaurire nelle cancellazioni. Occorreva, infatti, affrontare il problema cruciale della “riscrittura”, affinché il testo potesse essere comprensibile e scorrevole. Impresa che non venne mai tentata. È significativo in tal senso che nel 1609 la Congregazione dell’Indice autorizzasse il Maestro del Sacro Palazzo a far stampare il Furioso a Roma, senza porre alcuna condizione e altrettanto significativo che la smania purificatrice continuare a ossessionare zelanti inquisitori. CAPITOLO SETTIMO: IL POEMA SACRO 1. “Quattro sole parole bastariano in questa Scrittura sacra, ma è come li libri de battaia che sono cresciuti” La lotta contro la penetrazione in Italia delle dottrine dei Riformatori d’oltralpe aveva messo in luce la forte incidenza che l’accesso diretto alla Bibbia, favorito dalle traduzioni nelle lingue moderne, aveva avuto nella diffusione del dissenso religioso. La reazione delle autorità ecclesiastiche non si fece attendere: il primo indice dei libri proibiti (1558) vietava la lettura, il possesso e la stampa di traduzioni dell’Antico e Nuovo Testamento. Nonostante l’attenuazione del divieto dagli anni Settanta del Cinquecento si infittirono provvedimenti diretti non soltanto a ripristinare la proibizione del 1558, ma a estenderla a una vasta gamma di volgarizzamenti biblici e si inasprirono i contrasti ai vertici della curia sulla liceità o meno delle traduzioni della Scrittura. Contrasti che culminarono nella sospensione dell’indice del 1596 imposta dall’Inquisizione a Clemente VIII che si tradussero nella Observatio ad quartam regulam: “sia noto riguardo alla quarta regola dell’Indice di Pio IV che con questa stampa ed edizione non viene concessa di nuovo alcuna facoltà a vescovi, o inquisitori o superiori di regolari, di rilasciare licenze per l’acquisto, la lettura o il possesso di Bibbie stampate in volgare”. Precedenti interventi romani fecero piovere sugli uffici centrali i “dubia” della periferia che illustrano come il silenzio dell’Observatio potesse prestarsi a interpretazioni divergenti. In effetti, nelle liste redatte dal Maestro del Sacro Palazzo e dall’Inquisizione negli anni 1574-1580, esse erano state ripetutamente vietate non soltanto in volgare, ma anche in latino. Nell’Aviso alli Librari che non faccino venire l’infrascritti libri, e ritrovandosene havere, che non li vendino senza licenza del Costabili, pubblicato a Roma il 22 maggio 1574 delle “opere in versi, cos’ latine, come volgare di sacra scrittura” veniva prescritto: “non si permette di nessuna sorte”. Questo divieto verrà precisato nella “nota de’ libri proibiti”, predisposta dall’Inquisizione e risalente al 1580, “opere moderne in versi, così latine come volgari, che siano traduttioni della sacra scrittura”. Con queste precisazioni verrà ribadito nella lista di Alessandria, nel cosiddetto indice di Parma e in tutte le liste successive. Tuttavia, a giustificazione dei “dubia”, occorre osservare come le versificazioni non siano inserite nella lista di Vercelli del 1574, mentre nella lista di Napoli del 1583 figurino tra le opere da espurgare. Disorientati da queste raffiche di divieti e sospensioni, gli inquisitori locali più cauti chiedevano chiarimenti a Roma. Le delucidazioni che ricevevano dagli uffici centrali contribuiti però ad ampliare lo spettro degli scritti proscritti. Per quanto discordanti, le direttive romane allarmarono autori ed editori. Anche gli stampatori, nel timore di sequestri delle loro pubblicazioni e di danni irrimediabili ai loro commerci, si premunivano: nel tradurre i versi toscani il De partu Virginis del Sannazaro, Giovanni Giolito si sforzò di attenuare “la pericolosa invadenza dei modelli classici propria del testo latino”. La gamma delle opere devozionali di contenuto biblico oggetto di divieti andò ampliandosi nel corso degli anni successivi. Il 15 settembre 1590 i cardinali del Sant’Ufficio decretarono che la Bibbia e i compendi dei Vangeli e delle Epistole in volgare “dovessero essere lacerati alla presenza dei loro proprietari e successivamente bruciati” e il 1º dicembre 1594, in maniera più “ufficiale”, alla presenza di Clemente VIII, ribadirono tale proibizione. È indubbio che l’avversione nei confronti di questa letteratura biblica di largo consumo fosse dettata dalla frequente contaminazione tra sacro e profano, dalle non rare reminiscenze della cultura greco-romana, dalla presenza di formule magiche e superstiziose, dall’uso spesso irriverente e giocoso del lessico biblico, dall’inserimento di testi apocrifi, oltre che dalle modalità di fruizione da parte dei lettori. Di fronte all’andamento incerto degli interventi centrali, già in quegli anni i funzionari periferici chiedevano lumi per potersi districare in un settore vastissimo della produzione editoriale. Ma 20 storica, induceva gli autori di poemi biblici a concepirli alla stregua di un qualsiasi romanzo cavalleresco. È in questo contesto che occorre calare i ricorrenti dibattiti in seno ala Congregazione dell’Indice e valutarne le ripercussioni, quando la documentazione lo consenta. Versificazioni bibliche, sotto varie forma, continuarono a essere scritte e stampate nel Seicento, ma sappiamo poco degli ostacoli che dovettero superare prima di andare in stampa o dopo la pubblicazione. Illuminante si rivela in tal senso la vicenda censoria della Reina Esther di Ansaldo Cebà (1565-1623). Pubblicata nel 1615 a Genova presso il Pavoni con regolare “licenza dei superiori”, La Reina Esther 3 anni dopo approdò negli uffici della Congregazione dell’Indice, il 23 gennaio 1618. Quel giorno, infatti, le censure vennero date in esame al cardinale Felice Centini il quale, il 10 febbraio, riferì di condividerle: la Reina conteneva “multa falsa” contro la storia sacra e “profana et lascivia quoque multa”. Tuttavia, prima di sospendere o proibire il problema si ritenne di trasmetterle al cardinale Doria. Tenendo conto del sospetto che fosse stato quest’ultimo a denunciare la Reina, era scontato che il 2 aprile 1618 il poema venisse sospeso. Tuttavia, la pubblicazione della sospensione non fu immediata: si dovettero attendere 3 anni prima che la Reina fosse inserita nel decreto del 16 marzo 1621 e che la notizia fosse comunicata all’autore, il quale poté sollecitare l’intervento del suo grande e potente amico genovese Marc’Antonio Doria. Questi, a sua volta si rivolse al cardinale Alessandro d’Este, il quale cercò di favorire la causa del poeta. Vana fu la difesa del Cebà. E altrettanto vano fu il tentativo di aggirare gli interventi espurgatori impostigli. Prima di entrare nel vivo del problema Cebà sintetizzò in quattro punti le motivazioni della sospensione: “il primo raccolgo io dal nome, che gli danno, cioè Historia Esther metrice conscripta; il secondo è che si mescoli in esso le cose sacre con le profane; il terzo, che si descrivano laidamente l’historie sacre; e l’ultimo che si recitino molte volte drittamente al contrario”. Egli si difenderà puntigliosamente dalle accuse di aver mescolato sacro e profano, di aver introdotto nel racconto elementi lascivi e disonesti e di aver alterato la lezione biblica. Da un canto insinuò maliziosamente che non gli risultava fosse proibito mescolare “le cose sacre con le profane”; dall’altro cercò di dimostrare l’alta funzione pedagogica del contrasto tra la risplendente santità della vita di Ester e le perversioni degli idolatri che la circondavano. Ma è sul titolo pretestuosamente falso – Historia di Esther invece che La Reina Esther – dato al poema nell’editto di sospensione che il Cebà si soffermerà più distesamente individuando lucidamente in quella falsificazione l’origine di tutte le accuse che gli venivano mosse. Non gli sfuggiva, infatti, che dall’assimilazione del poema sacro a un’opera storica discendevano non soltanto il precario equilibrio tra puntuale adesione al testo sacro e divieto di tradurlo de verbo ad verbum, ma anche l’incolmabile divario tra la creatività dell’artista, tra l’”artificio dell’inventione poetica” e la “ver ità historica”. In questa accorata difesa non tanto della Reina quanto della creatività dell’artista, due aspetti meritano di essere sottolineati. Da una parte essa dà uno spessore più preciso alla lotta ingaggiata dagli organi romani contro la “petulantia” dei poeti. Dall’altra, essa consente di illustrare come nel giro di poco meno di 50 anni – tanti ne erano trascorsi da quando la Liberata era stata indirettamente investita dall’intransigenza del Costabili – Roma fosse riuscita a inculcare nei letterati italiani il senso dei confini che delimitavano la loro creatività artistica. Mezzo secolo di censura preventiva e di espurgazione di testi aveva reso i letterati più avvertiti dei margini angusti lasciati dalla vigilanza ecclesiastica alla loro creatività, ma anche più determinati a sfruttarli fino in fondo. Pu consapevole, quindi, che la Bibbia era considerata dalla Chiesa e dal comune lettore un libro di storia, Cebà, fermamente convinto che la poesia non dovesse sottostare alle regole della storia, si era illuso di poter superare gli scogli della censura. Cebà si era illuso di poter sfumare quel discrimine. Un’illusione che fu di breve durata: gli spiragli lasciati aperti dall’ambiguità normativa si sarebbero prontamente chiusi. Ma, pur tra rituali formule di sottomissione e di ossequio, lo scrittore protestò, dando voce al malessere di generazione di poeti. Egli rivendicò coraggiosamente la libertà di “favoleggiare sulla storia”, anche quella sacra, fondandola sulla netta distinzione tra scrittura poetica e scrittura storica. Per quanto agguerrito, gli sfuggiva che tale distinzione negli anni bui della Controriforma veniva sempre più respinta, in particolare per le opere di argomento biblico. Nonostante l’audacia e le influenti protezioni, Cebà dovrà piegare il capo. Obbligato a preparare un’edizione espurgata dal poema, fu sottratto dalla morte all’ingrato compito (16 ottobre 1622). Resta da verificare se la sorte del Cebà fu risparmiata ad altri letterati e se ciò avvenne perché non ebbero la sventura di imbattersi in uno dei tanti delatori che pullularono nell’Italia del tempo. Al di là dei casi singoli, le ripercussioni della censura appaiono, però, evidenti nel riorientare gli autori su terreni meno minati. Dalla fine Cinquecento si assiste, infatti, da un canto, al progressivo esaurirsi nel teatro gesuitico delle tragedie di soggetto biblico fino alla ripresa di metà Settecento e alla loro sostituzione con il drama martirologico, e, dall’altro, alla ricca fioritura di romanzi di ispirazione biblica in prosa. Ciò non significò, peraltro, un allentamento della vigilanza: la materia biblica continuò ad occupare i censori. Si può concludere questa fin troppo rapida escursione fra testi biblici in versi e in prosa, chiedendosi se i loro autori, a partire dal Cebà, si sarebbero identificati con la poco persuasiva immagine di letterato della Controriforma che si è voluto di recente proporre e che è già stata richiamata. Superfluo sottolineare come occorra guardarsi dal confondere consenso e coazione: e le documentate vicende della Gerusalemme Liberata e della Reina Esther servono a ricordarcelo. Ma anche dal vedere collaborazione laddove ci fu solo esigenza di preservare dalla distruzione e dall’oblio indispensabili testi di lingua, accettando come male minore di espurgarli, come ci insegna la “rassettatura” del Decameron. Ma non sarà inutile ricordare che la via dell’espurgazione che la Chiesa aveva imboccato al Concilio di Trento per recuperare un patrimonio indispensabile all’esercizio delle professioni liberali fallì malamente proprio per la mancata collaborazione tra frati ed intellettuali. Rimane, quindi, tutta da dimostrare la tesi secondo la quale la politica espurgatoria della Chiesa avrebbe offerto agli intellettuali una straordinaria palestra non soltanto per manifestare il loro “entusiasmo per la censura”, ma persino per affinare le loro conoscenze filologiche. Un loro concreto, capillare, coinvolgimento nel recupero di opere sospese è, infatti, difficilmente documentabili, sia perché quel recupero avvenne in misura estremamente esigua, sia perché le poche opere letterarie che 21 si salvarono dal naufragio furono purgate da membri di ordini religiosi. Né d’altro canto, sarebbe corretto attribuire a connivenze con gli apparati repressivi il riorientamento di interi settori della produzione editoriale italiana, costretta a conformarsi ai codici della cultura e dell’ideologia della Chiesa romana pur di superare i controlli ecclesiastici e andare in stampa. Non sembra in definitiva ci fosse una loro naturale propensione a lasciarsi asservire al progetto di clericalizzazione della cultura: ci fu, invece, un clima opprimente e repressivo che lentamente giunse a fiaccare e a piegare gli autori. CAPITOLO OTTAVO: ROMA TRA LIBELLI FAMOSI, PASQUINATE, AVVISI E SATIRE 1. “è assai più buggiardo che non è Banchi di Roma” Nella seconda metà del Cinquecento vi era chi non esitava a criticare chi diffondeva notizie false, definendolo “assai più buggiardo che non è Banchi di Roma”. In effetti le difficoltà che gli organi censori romani avevano incontrato per porre sotto controllo una crescente produzione di opere letterarie a stampa, furono certamente minori rispetto a quelle nelle quali s’imbatterono per sorvegliare la comunicazione manoscritta e orale di notizie improvvisate negli spazi pubblici urbani, in particolare di Roma. Ben oltre l’invenzione della stampa, in effetti, continuò a circolare una congerie di opuscoletti a stampa di poche carte di infima qualità e di piccolo formato o scritti a mano, smerciati a basso prezzo, fenomeno di cui negli ultimi 20 anni viene sempre più sottolineata l’importanza. L’attenzione si è spostata su questa “letteratura da strada” – libelli famosi, pasquinate, avvisi – e sul ruolo di cantimbanchi, venditori ambulanti, ciarlatani nel diffonderla fin dalla prima età moderna. Grazie a dessi notizia spesso di ordine politico venivano divulgate in tutti gli strati della società. Le istituzioni ecclesiastiche e civili avevano a lungo convissuto, a quanto pare pacificamente, con questo tipo di scritti che si caratterizzavano soprattutto per la critica dei costumi del clero, alto e basso, e delle pratiche religiose. Ma, suscitando una fame di notizie e, quindi, un’imponente e incontrollabile produzione di informazioni, le “guerre horrende” d’Italia, con il loro seguito di distruzioni, furono probabilmente all’origine dei primi provvedimenti ecclesiastici. Le responsabi lità dei papi nell’invasione straniera degli Stati nella Penisola, il succedersi sul trono di Pietro di papi indegni, la percezione dell’irreversibilità della crisi italiana e della fine del Rinascimento inasprirono in quegli anni drammatici le polemiche contro una chiesa dimentica della sua missione spirituale. Nella costituzione Inter Sollicitudines, emanata da Leone X il 4 maggio 1515 (V Concilio Lateranense) relativa al controllo preventivo di ciò che andava in stampa e al rilascio dell’imprimatur, si faceva riferimento, tra gli altri, a scritti contenenti affermazioni “lesive della buona fama di persone anche rivestite di dignità”. Sebbene indicato in modo molto generico è possibile intravedere un riferimento a scritti infamanti. Occorrerà attendere la circolazione dopo il 1542 degli anonimi Pasquillus extaticus e Pasquino in estasi e la confezione degli indici dei libri proibiti perché quantomeno il genere pasquillesco a sfondo riformato sia condannato negli indici di Venezia del 1549, di Venezia e Milano del 1554, e in quelli universali del 1558 e del 1564. È evidente che la particolare attenzione riservata alla pasquinata a partire dagli anni Quaranta fu destata dal carattere decisamente eterodosso dei testi stampati a Venezia e oltralpe che circolavano diffusamente nelle conventicole ereticali della penisola. Ma fu anche sollecitata dalla ricchezza egli ingredienti che vi confluivano (dalla profezia alla diffamazione) e dagli usi diversificati che ne vennero fati sia come strumento di lotta e di propaganda politica e religiosa, sia come strumento di vendetta privata. Di altre tipologie di scritti diffamatori, infatti, gli indici non fanno esplicita menzione, anche se all’interno degli organi censori la percezione che la diffamazione potesse essere veicolata da altri “generi” letterari era presente. Di fronte a questa letteratura deperibile, difficilmente intercettabile, ampiamente diffusa tra uomini e donne, le autorità ecclesiastiche furono costrette a ricorrere ad altri rimedi. Quantomeno a Roma, l’interruzione temporanea della produzione di scritti infamanti fu, infatti, il risultato di provvedimenti presi dai papi nella loro veste di sovrani temporali a tutela dell’ordine pubblico. È il caso della costituzione di Pio IV del 6 marzo 1651, che veniva accompagnata da due bandi “per levare le difficoltà che nascono sopra l’interpretatione” e sui “libelli famosi”. Il bando contro questi scritti infamanti presenta alcune peculiarità: non è pubblicato separatamente ma come appendice. Questo provvedimento di ordine pubblico veniva integrato dal bando sui libelli famosi, che merita di riportare per esteso. Esso diffidava chiunque dal “comporre, ne fare, ne scrivere, ne dire, ne leggere, ne publicare alcuna sorte di libelli famosi, così in prosa come in versi; sotto pena della confiscatione de tutti i suoi beni; nella quale pena incorrerà anchora ciascuno che scrivesse, o copiasse, o tenesse detti libelli. Et ciascuno che li attacara in qual si voglia luoco, o li recitara, o chi li trovera e non li distaccara da quello luoco”. Tale costituzione e i bandi verranno reiterati l’11 aprile 1564. L’emanazione del bando sui libelli famosi sarebbe stata sollecitata dai parenti di Pio IV. In sintonia con molti dei suoi predecessori, particolarmente indifferenti alla letteratura pasquillesca di cui pur erano uno dei principali bersagli, Pio IV sembrerebbe aver dato scarsissimo pesa a questo tipo di scritti ingiuriosi. Pur non espressamente nominate, nel bando rientravano anche le pasquinate. D’altro canto, di lì a poco Nicolò Franco verrà processato dal Sant’Ufficio con l’imputazione di aver contravvenuto proprio al bando del Pallantieri del 1564 nel Commento sopra la vita et costumi di Gio, Pietro Caraffa che fu Paolo IV, in cui pasquinate ed estratti dei processi ai parenti del Carafa si intrecciavano in una critica sferzante contro il papa Anticristo e le degenerazioni della Chiesa visibile, di pretto sapore riformato. Commento alla cui composizione Pio V riteneva non fosse estraneo il cardinale Giovanni Morone, di cui Franco era stato ospite. La condanna dell’opera, registrata 22 con il titolo Pasquilli, giunse inspiegabilmente due anni dopo, l’11 settembre 1572 sotto il pontificato di Gregorio XIII, quando il notaio dell’Inquisizione ebbe ordine di bruciarla. 2. “Per ancora non è troppo da scrivere della Corte tanto per esser ognuno impaurito” È, tuttavia, evidente che il Commento, dando largo spazio, al di là delle invettive contro il papa, a stralci degli atti processuali contro i Carafa e a corrispondenze diplomatiche e private, metteva sul tappeto il problema assai più grave del controllo dell’informazione per le sue ricadute politiche. In questa prospettiva non erano più soltanto i libelli famosi e le pasquinate ad allarmare le autorità ecclesiastiche: occorreva vigilare sull’attività dei menanti, autori di quella embrionale forma di giornalismo che erano gli Avvisi. Distribuiti a partire da metà Cinquecento, due volte a settimana a poco prezzo a Campo dei Fiori, in Banchi e in Piazza Navona, questi fogli manoscritti fornivano, infatti, notizie tendenziose o false, attinte per lo più nelle segreterie dei cardinali. Vi provvedeva Pio V il 17 marzo 1572, con un atto di ben maggiore portata di un bando del governatore, la costituzione Contra scribentes, dictantes, retinentes, transittentes et non lacerantes libellos famosos atque litteras nuncupatas d’avvisi. È ipotizzabile che a far maturare la decisione di intervenire in una materia che si stava rivelando sempre più incandescente fosse la strumentalizzazione da parte del cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, degli Avvisi come cassa di risonanza di un attentato alla sua vita ad opera di alcuni malfattori nel settembre del 1571. Arrestati e interrogati, confessarono che il mandante era stato Francesco de’Medici. Il cardinale Farnese non soltanto si affrettò a informare il papa del complotto, ma, convinto che, dando pubblicità all’accaduto e facendosi passare per vittima dei Medici, sarebbe riuscito a “muovere i cardinali a compassione di sé”, fece anche fare copie del processo e le fece disseminare per tutta Roma. Sconcertato dall’eco che aveva avuto una vicenda che ai suoi occhi doveva rimanere sepolta, Pio V fece trasferire il processo al tribunale del governatore, sottraendo in tal modo all’influenza del Farnese gli imputati. Gli interrogatori mostrarono l’infondatezza delle responsabilità di Francesco de’Medici. Avvedutosi dell’avversione di Pio V alla tesi del complotto, il cardinale Farnese mutò radicalmente strategia: si premurò di far sapere che scagionava i Medici da ogni responsabilità. Il clamore suscitato dall’episodio dentro e fuori Roma provocò nei giorni seguenti l’arresto e il bando di molti “novellanti” che “scrivevano fuora nuove” e l’ombra lunga della presunta congiura si proiettò anche sulla costituzione del 17 marzo 1572 contro i menanti e sui mezzi e sulle forme della comunicazione politica nella Roma pontificia. Pur riproponendo la condanna dei libelli famosi e delle pasquinate, ai loro autori venivano associati per la prima volta coloro che scrivevano “litteras monitorum vulgo appellatas lettere di avisi”, nelle quali, oltre alle solite invettive e profezie, venivano svelati reconditi segreti delle stanze vaticane e notizie provenienti anche da altre provincie. Dall’esigenza di salvaguardare la fama e l’onore delle persone di qualsiasi ordine e grado si era passati alla necessità di difendere gli arcana Ecclesiae e gli arcana Imperii. L’avversione nei confronti della circolazione incontrollata dell’informazione crebbe con Gregorio XIII, il quale, nella costituzione del 1º settembre 1572 puniva severamente sia gli autori di avvisi sia gli scrittori e propagatori di scritti diffamatori. Nonostante la giustizia papale desse una caccia spietata ai menanti, non sembra fosse riuscita a farli tacere. Che questa assidua vigilanza si riflettesse sula qualità delle notizie divulgate dai menanti era inevitabile. Il timore di essere arrestati serpeggia tra le righe degli avvisi. Col tempo essi daranno sempre più spazio alla cronaca mondana, alle strategie matrimoniali della nobiltà, alle rivalità tra i cardinali, ai crimini commessi a Roma, alla presenza di banditi nei palazzi cardinalizi, temi tutti assai meno compromettenti dei “negozi” politici. Forse per il loro carattere effimero, forse per non invadere territori riservati allo sfogo, tutto sommato innocuo, della protesta popolare contro il malgoverno, le pasquinate godettero di maggiore tolleranza. Gli stessi avisi riferiscono con frequenza la loro affissione, ma si astengono dal riportarne il contenuto, segno evidente dei maggiori rischi che correvano i menanti rispetto ai pasquinisti. Ciò spiega la lunga vita della pasquinata che lascerà la sua impronta ancora nell’Ottocento nei sonetti romaneschi del Belli. Nonostante la complessità del rapporto tra satira “regolare” (così come avviata dall’Ariosto) e pasquinata e le difficoltà di dare una definizione di quest’ultima, la sorte riservata in generale alla poesia satirica e in particolare a quella del poeta ferrarese fu molto diversa, pur tenendo conto dell’indiscutibile dipendenza di alcune Satire di Ariosto dagli obbiettivi polemici e dalla cronaca che ispiravano le pasquinate romane. Il motivo per il quale la poesia satirica entrò immediatamente nel mirino dei censori è dovuto al fatto che, diversamente dalle pasquinate, si trattava di produzione a stampa. 3. “Multa spurcitiae plena” Come si è accennato, le Satire di Ariosto non appaiono in nessun indice romano del Cinquecento, ma vengono condannate o sospese nelle liste semiufficiali dopo il 1574. Negli indici “Nazionali” del 1590 e del 1593 non promulgati, erano vietate “se non saranno emendate”. Sebbene assenti nell’indice del 1596, agli occhi dei censori le Satire contenevano, come il Furioso, “multa spurcitiae plena”. La forte domanda del mercato – testimoniata dalle innumerevoli edizioni e ristampe – indusse la Congregazione dell’Indice ad annoverarle tra le poche opere letterarie da assegnare all’espurgazione dei propri consultori. Evidentemente senza alcun esito se il cardinale Agostino Valier il 10 ottobre 1600, nell’affidare l’emendazione delle opere ariostesche alla “congregazione” ferrarese, non escludeva le Satire. D’altro canto, emendare le sette satire non era compito agevole considerando che le tematiche affrontate, sia pure con toni sarcastici, urtavano sotto molteplici aspetti la sensibilità dei censori. Non potevano certo passare inosservati gli attacchi nei confronti del comportamento ipocrita e avido degli ecclesiastici e della corruzione della corte di Roma, la denuncia della dissolutezza e della rapacità del clero, l’aspra polemica contro la politica di papi. Tuttavia, al momento della richiesta del Valier esistevano già numerose edizioni delle Rime et satire o delle sole Satire sottoposte ad interventi espurgatori di vario tipo. Di fronte all’irrigidirsi della temperie culturale seguita 25 Beccadelli alla “rassettatura” del Boccaccio, appare quantomeno ipotizzabile che le pesanti alterazioni apportate agli scritti dell’antenato derivassero dalla preoccupazione di salvaguardarne il profilo morale e cristiano piuttosto che da veri e propri scrupoli di carattere religioso. 3. “Io non ho tempo di scrivere quasi a persona, non che a fare ogni lettera col compasso in mano” Mentre seguiva a distanza la “rassettatura” del Decameron, nella prepositura di Prato, Beccadelli attendeva a una “riscrittura” personale, quella della propria vita. Comporre un epistolario, selezionando le centinaia di lettere da lui scritte, era un antico progetto maturato negli anni ormai lontani della nunziatura di Venezia. Quando vi era giunto, infatti, non si era ancora spenta l’eco della pubblicazione nel 1538 del Primo libro delle lettere scritte a Pietro Aretino, iniziatore del genere epistolare in volgare. Alle raccolte individuali cominciarono ad affiancarsi antologie di lettere di autori vari. Oggetto di numerosi studi, fin dagli anni Settanta del Novecento, questo straordinario fenomeno è stato analizzato nelle sue varie sfaccettature, ora sottolineandone il carattere di manuali di “buon volgare” e di tecnica epistolare, ora di veicoli di una o più meno esplicita propaganda delle “Inquietudini religiose” del secolo, ora di fonte di notizie su uomini celebri e su event i contemporanei, ora di notizie storiche. A questo fervore editoriale il Beccadelli non rimase estraneo perché durante il suo soggiorno veneziano rinsaldò i legami di amicizia con Paolo Manuzio, tanto da tenere a battesimo il figlio Girolamo. Non si trattò, però, solo di un intensificarsi di rapporti familiari precedenti: Beccadelli, così come si adopererà nel 1561 a fare assumere il Manuzio da Pio IV in qualità di stampatore, lo aiutò ad affrontare una situazione di grave indebitamento. Di front a questi “doni” e prestiti è credibile che la politica editoriale del Manuzio sia stata influenzata dalle scelte dei suoi “finanziatori”. Appare, quindi, plausibile l’ipotesi che il Manuzio abbia suggerito al Beccadelli di riflettere su un’eventuale edizione del proprio epistolario. Nella proposta convergevano gli interessi dello stampatore i gusti dei lettori. Beccadelli godeva della fama di fine letterato, capace, quindi, di offrire modelli di lettere in “buon volgare”. Scrittori gli dedicavano le loro opere; Tiziano ne fissava i bonari lineamenti in un ritratto. La sua posizione prestigiosa gli dava accesso ai grandi e gli permetteva di intrattenere rapporti epistolari con loro: apparteneva, in altri termini, alla categoria degli “huomini che governano il mondo”. Oltre ad essere un prelato illustre, era anche un uomo profondamente legato agli ambienti del dissenso religioso, dei quali condivideva l’adesione alla dottrina della giustificazione per sola fede e le aspirazioni di riforma della Chiesa. Ma fu soltanto verso la fine della sua vita che egli ebbe agio di realizzare quel progetto, “Relegato fuor del mondo”, al governo delle anime ragusee, che non esitava a paragonare a “sassi durissimi”. L’”esilio” venne ad assumere un carattere provvidenziale, sottraendolo alla frenetica attività del tribunale dell’Inquisizione. Scrisse le biografie del Contarini, del Bembo e del Petrarca nelle quali rivendicò la compatibilità tra humanae litterae e servizio della Chiesa. Fu solo nel ritiro pratese, dove approdò nel 1565, che poté finalmente dedicarsi alla selezione e alla revisione delle proprie lettere. Se quantomeno il periodo della costruzione del suo epistolario è accertabile, le finalità non furono mai esplicitate. Fermamente determinato a non dare nulla alle stampe durante la propria vita, Beccadelli pensò probabilmente a una pubblicazione postuma o a un uso familiare del proprio epistolario. Sebbene solo a Prato ne avviasse l’allestimento, è evidente che si trattava di un progetto a lungo meditato: lo testimoniano gli stessi termini cronologici della raccolta, che copre il periodo dal 29 marzo 1550 al 15 agosto 1566. Fino alla nunziatura di Venezia, Beccadelli aveva assolto prevalentemente mansioni subalterne di segretario. Solo con la nomina a nunzio la situazione si capovolse: l’incarico gli consentiva, infatti, di disporre di segretarie tenuti a conservare copia dei dispacci inviati a Roma e della parallela corrispondenza con “particolari” (cardinali, ambasciatori, sovrani). Meditate, dunque, fin dagli anni veneziani, la costruzione di un “libro di lettere” e l’elaborazione di criteri di selezione si rivelarono, però, tutt’altro che semplici. Innanzitutto, dovette far fronte alla consistenza numerica delle missive (furono selezionate 973 missive per l’epistolario, e solamente nel triennio 1563-1566 ci sono giunte 965 missive). La scelta definitiva denuncia, comunque, la difficoltà di ricomporre in un insieme unitario e coeso una congerie di materiali epistolari risalenti a momenti diversi di una biografia segnata da trionfi e sconfitte e impone un’analisi preliminare per individuare gli orientamenti a essa sottesi e distinguere fra quelli rispondenti ai gusti e alle esigenze di potenziali lettori e quelli di ordine più strettamente autobiografico. Beccadelli si attenne forse, al Secretario, trattato-antologia di Sansovino, e alle Lettere di Bernardo Tasso e al loro scopo di offrire al comune lettore epistole per tutte le circostanze: gratulatorie, consolatorie, esortative, di raccomandazione, di risentimento, di supplica ecc. ma con una particolare attenzione alla qualità del rapporto tra autore e destinatario. Ciò spiega la presenza ripetitiva di tante lettere, identiche nella sostanza, ma che si differenziano nella scelta delle immagini e delle metafore, del lessico e soprattutto delle formule di ossequio. Egli non ignora, inoltre, il successo editoriale di piccoli manuali destinati a fornire le regole del comportamento sociale e culturale: lo testimonia l’inclusione di una serie di lettere in cui vengono enumerati doveri e mansioni del maggiordomo di una corte cardinalizia: lettere che riflettono la sua poliedrica esperienza. Né d’altro canto Beccadelli è indifferente all’avidità di notizie di un’età nella quale la circolazione dell’informazione scritta è ancora insufficiente a soddisfare la curiosità o a placare i timori dei lettori, in un momento in cui l’Europa, da un lato, amplia i propri orizzonti; dall’altro, si sente tragicamente minacciata dall’avanzata del turco nel Mediterraneo e nelle sue regioni orientali. Avendo trascorso 5 anni a Ragusa, egli introduce nel suo epistolario lettere ricche di notizie relative ai turchi. Le pressioni e le sollecitazioni del mercato editoriale sono, quindi, presenti alla mente del Beccadelli quando si accinge a selezionare le sue lettere. Ma se egli paga il suo tributo alla traduzione epistolografica lasciando un numero schiacciante di freddi esercizi retorico-stilistici, di lettere scritte “per 26 cerimonia et usanza di Corte”, un altro ordine di preoccupazioni suggerisce l’inclusione di lettere utili a ricomporre e a proporre l’immagine di sé che egli voleva consegnare ai posteri. Questi criteri diversi trovano, però, un filo conduttore nella disposizione in ordine cronologico delle lettere. L’epistolario si presenta, infatti, nettamente scisso in due parti: la prima relativa agli anni della nunziatura di Venezia (1550-1554), in cui prevalgono le lettere scritte per “cerimonia”; la seconda, che copre gli anni dell’”esilio” raguseo e del suo impegno pastorale, delle ultime burrascose sessioni del tridentino e del soggiorno in Toscana (1555-1566), in cui predomina il discorso autobiografico. Il disegno ideale della vita del Beccadelli si snoda tra due poli cronologici e geografici consapevolmente scelti: a un estremo l’anno 1550 e la nunziatura veneziana, apice della sua carriera; all’altro l’anno 1566 con la definitiva sistemazione nella prepositura di Prato. L’anno 1555 segna un profondo spartiacque e l’avvio di un inarrestabile declino e di un’inesorabile persecuzione: persecuzione della sorte, persecuzione degli uomini. La sorte gli strappa il suo più influente protettore: Marcello II Cervini muore dopo un mese di pontificato. Le rivalità della curia, il tarlo dell’invidia che corrode i colleghi sono causa del suo allontanamento da Roma, del suo esilio in Dalmazia; la meschinità e le maldicenze degli ambienti di curia saranno la causa dei suoi dissapori con il cardinale Giovanni Morone. Ma se fu tradito dagli uomini, non lo fu da Dio. La misericordia divina s’incarna, inaspettatamente, nel duca di Toscana, il quale lo sottrae alle difficoltà e alle angosce offrendogli il più ricco e il più dilettevole benefico dello stato, la prepositura di Prato. Beccadelli vuole trasmettere attraverso il proprio epistolario l’idea che l’unica via per risanare la Chiesa e le sue istituzioni siano la presenza stabile dell’ordinario in diocesi e l’eliminazione da parte del papato dei molteplici intralci burocratici all’azione riformatrice. È, quindi, munito di una non comune esperienza pastorale che si incammina verso l’Italia dopo l’elezione di Pio IV (1559). In attesa dell’apertura del concilio, ospite per alcuni mesi a Roma dell’appena scarcerato Morone, insieme a quest’ultimo ebbe modo di discutere la linea da tenere a Trento sull’improrogabilità delle riforme delle strutture ecclesiastiche. Nulla lasciava prevedere che il drammatico scontro intorno alla residenza episcopale avrebbe aperto un’incolmabile frattura nei rapporti con il Morone. Deciso, da un canto, a non tradire la propria coscienza vanificando in tal modo 5 anni di sofferta cura pastorale, dall’altro incapace di cogliere la svolta irreversibile segnata dal pontificato di Paolo IV e i fondati timori del Morone circa la riapertura di indagini ai danni degli “spirituali£, Beccadelli incautamente si espose nella commissione per la redazione dell’indice tridentino, di cui fece parte, in favore dell’eliminazione del divieto del 1558 delle opere di Flaminio – discepolo di Valdés. A destare, inoltre, non pochi sospetti fu l’impegno profuso da Beccadelli nel celebrare la memoria del cardinale Pole, scrivendone la biografia e adoprandosi perché ottenessero l’imprimatur del concilio. Morone, con una acuta consapevolezza della precarietà della propria riabilitazione, si dissociò apertamente da chi lo aveva seguito nella sua battaglia e da Beccadelli. Colpito da apoplessia il 22 agosto 1562 l’arcivescovo lasciò Trento per farvi ritorno ancora infermo su ingiunzione di Roma il 9 novembre successivo. Per nulla piegato da accuse e intimidazioni, sulla spinosa questione dell’istituzione divina dell’episcopato assunse posizioni che irritarono Pio IV. Beccadelli finì con l’accettare l’invito di Cosimo I a recarsi in Toscana. Le sue traversie non sarebbero, però, finite: il risentimento di Pio IV per le critiche mosse alla sua mancata residenza a Ragusa avrebbe pesato sulla nomina di una successione nella diocesi dalmata e sull’inserimento di Beccadelli nella prepositura di Prato. Col tempo l’amarezza per le angherie subite si sarebbe attenuata, ma la sua visione degli uomini che lo avevano danneggiato si fece sempre più cupa. Profondamente diviso tra le aspirazioni riformatrici, che vide incarnate in Pio V Ghisleri, e la fedeltà a un patrimonio dottrinale e culturale che quel papa avrebbe definitivamente spazzato via processando Pietro Carnesecchi, Beccadelli appare nella silloge alquanto elusivo e incerto nel riferire nomi ed episodi legati ai suoi antichi sodali. Se da un canto, infatti, non esita a prendere le difese del Flaminio e a inserire le lettere scritte al Carnesecchi, dall’altro cancella in maniera maldestra nomi di amici come Donato Rullo o Ludovico Castelvetro, coinvolti in processi inquisitoriali. Né vi è traccia nell’epistolario delle sue convinzioni religiose al di là dell’abbandono fiducioso a Dio e a Cristo. Difficile spiegare un procedere così contradditorio i Beccadelli, in anni in cui, per giunta, la censura romana non si era ancora accanita contro la letteratura e, in specie, contro i “libri di lettere”. Non sembra azzardato vedere una coincidenza fra il trasferimento del Carnesecchi a Roma per l’ultimo processo (26 giugno 1566) e l’ultima lettera della silloge (15 agosto 1566). Per quanto Beccadelli avesse corretto abilmente la sua vita, riscrivendo i suoi testi i rischi di infrangersi sugli scogli dell’Inquisizione erano sempre in agguato.
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