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Riassunto del libro: Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità., Appunti di Storia

Riassunto del libro: Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Carocci editore

Tipologia: Appunti

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Scarica Riassunto del libro: Sandro Bellassai, L'invenzione della virilità. e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! 1. Virilità e storia politica Il virilismo è etimologicamente l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente ritenuti tali. Virile è ciò che è proprio, che si addice all’uomo, alla forza, alla fermezza e all’autorità che gli sono tradizionalmente attribuite. Il virilismo è stato un’invenzione che coincide con la seconda metà del XIX secolo. Il concetto di virilità non era nuovo ma diventò un ingrediente simbolico delle retoriche pubbliche e patriottiche per poi diventare un concetto ricorrente nei discorsi intorno a passato, presente e futuro. In un’epoca in cui le élite e l’opinione pubblica avevano un carattere maschile, il crescente protagonismo delle donne venne percepito come una minaccia pericolosissima. Accanto all’avanzata delle donne, anche le radicali trasformazioni che si verificarono nella società di fine secolo sembrarono prefigurare una decadenza della sicurezza maschile nel pubblico e nel privato. Questi processi di modernizzazione economica, sociale, politica e culturale attaccarono la stabilità e la sicurezza del dominio maschile, mettendo in discussione la tradizione a cui quel dominio era legato: la posizione gerarchicamente privilegiata del genere maschile discendeva da una legge divina o naturale, eredità dei padri che sarebbe stato un sacrilegio mettere in discussione. Se la modernità significava indebolimento del dominio maschile e della virilità, la reazione maschile fu rilanciare la virilità stessa, conferendole un'enorme valenza ideologica e mitologica, e impregnando di virilismo ogni ambito sociale, morale e politico. Dato che il genere maschile si presumeva di rappresentare l’umanità stessa questa battaglia per virilizzare la società fu presentata come una prospettiva necessaria alla salvezza dell'umanità nella sua interezza. Virilismo e società di massa Il virilismo non si contrappose con nettezza alla modernità, anzi può definirsi tipicamente contemporaneo: fornì un contributo rilevante permettendo l’integrazione di vasti strati sociali nella contemporaneità. Il virilismo operò come un importante strumento della modernizzazione della società contemporanea, tra le funzioni più rilevanti ci fu difendere gli interessi della parte tradizionalista del genere maschile. L’allarme sociale intorno ai pericoli corsi dalla mascolinità tradizionale, diffuso dalla fine dell’800, si presentava anche come formidabile strumento di consenso a vantaggio di una politica nazionale i cui principi illiberali, autoritari e violenti ricevevano ulteriore legittimazione. I valori della gerarchia e della forza corrispondevano alla mascolinità e alla tradizione, costituivano la quintessenza dell’autentica virilità. Si può così comprendere la persistenza, nella storia politica contemporanea italiana, delle culture viriliste e autoritarie. Altro tratto rilevante nella storia politica italiana è il virilismo misogino, definita come una delle zone franche ideologiche grazie alle quali la politica della modernità poté convivere con la politica della tradizione, fondata sulla gerarchia. Segnali importanti dell’influenza del virilismo si ritrovavano negli atteggiamenti diffusi che le élite culturali, politiche e scientifiche assunsero nel trattare il tema del protagonismo delle masse. Il modo in cui le masse venivano tratteggiate in queste rappresentazioni denunciava ampi riferimenti di natura chiaramente sessuata. L'attenzione scientifica per i comportamenti delle masse faceva trapelare un certo sentimento antidemocratico: Gustave Le Bon dichiarava che il suffragio delle folle è spesso pericoloso. La folla, una volta trovato il suo maschio domatore, avrebbe avuto un'importanza cruciale → liturgia politica fascista, tipicità del regime: passione per la folla, volontà di potenza protesa ad agire sul corpo sociale per plasmarlo, trasformarlo e creare da esso, come opera d'arte un armonico collettivo, secondo la formula mussoliniana. In queste dinamiche politiche non possiamo trascurare le rilevanze di genere, come sottolineato da Clara Gallini la quale tracciava quadri angosciosi della folla delinquente ricorrendo spesso anche al tema della femminilità di quest'ultima → richiedeva per natura un condottiero la cui tempra virile sarebbe stata un elemento politico significativo. In questo uomo forte, la folla avrebbe risvegliato istinti di forza e dominio, Scipio Sighele afferma: il desiderio del possesso e della conquista. L'amore e l'ambizione non hanno altro scopo: possedere una donna, conquistare una moltitudine. La prospettiva del possesso fisico della massa presentava un carattere fortemente sessuato e le amplissime garanzie di persistenza del privilegio maschile sarebbero risultate essenziali ai fini della seduzione che sulle masse poteva esercitare un orizzonte di appartenenza nazionale saturo di energie maschie, aggressive, autoritarie. Il piano discorsivo del genere costituì quindi un territorio simbolico di mediazione sul quale costruire la disciplinata integrazione nella nuova realtà moderna di crescenti fasce di popolazione maschile. In una società in cui le masse erano sempre più protagoniste della scena politica, la loro adesione a una determinata prospettiva ideologica diventava un passaggio obbligato per la gestione del comando. Il virilismo rappresentò una garanzia di continuità del tradizionale ordine politico → uno strumento di adesione, che facendo leva sull’insicurezza maschile restituiva agli uomini la sicurezza del dominio, ma di fatto garantiva la continuità del tradizionale e gerarchico ordine politico proprio nell’epoca in cui parti consistenti del genere maschile erano chiamate dai processi di modernizzazione a ridimensionare il ruolo sacrale della tradizione. Si preferì modernizzare il patriarcato piuttosto che spatriarcalizzare la modernità. Nella storia dell’Italia unita, questa configurazione ideologica, basata sul virilismo, concezioni gerarchiche (razzismo, misoginia, omofobia) e autoritarismo si perpetrò fino alla seconda metà del ‘900, quando la grande trasformazione degli anni 50-60 portò a una vera delegittimazione storica del virilismo. Negli anni del boom, le trasformazioni sociali e politiche in senso più liberale ed egualitario (riconoscimento dei diritti delle donne, liberalizzazione dell’etica, emersione di un pluralismo identitario all’interno del genere maschile) segnarono il declino del virilismo classico, anche perché la vecchia morale patriarcale avrebbe ostacolato l’espansione dei beni di consumo di massa. Dagli anni ‘70 agli anni 2000 si verifica un’agonia terminale del virilismo: i movimenti femministi degli anni ‘70 hanno contribuito al discredito del senso comune, ma elementi retorici misogini riconducibili al linguaggio virilista continuano ad affiorare negli anni successivi nella comunicazione mediatica. La violenza imperialista Il nazionalismo presenta uno stretto legame col virilismo. La nazione o l'impero diventa l'incarnazione politica della virilità collettiva per cui gli uomini esprimevano la propria virilità come devoti figli della nazione. Virile divenne sinonimo di uomo disponibile a esercitare la forza e la violenza brutale contro il nemico. La natura interclassista ed esclusiva è rintracciata sia nel virilismo sia nei fondamenti razzisti dell’imperialismo e ciò accomunò le gerarchie autoritarie dell'Italia e della Germania e le democratiche nazioni colonialiste della Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Anche la misoginia ha avuto una funzione all’interno dei confini della nazione, il nazionalismo aggressivo ha esercitato tale natura esclusiva all’esterno della società nazionale (per razza anziché per genere) per cui le donne colonizzate erano considerate doppiamente inferiori ed escluse, su una duplice base di genere e razza. In Germania, in Francia e in Italia la violenza nazionalista, imperialista, esclusiva e gerarchica guadagnò terreno alla svolta del ‘900. L'opinione pubblica fu assuefatta alla violenza verbale nei confronti delle diverse razze dato che la politica nazionale dei paesi occidentali conobbe una netta brutalizzazione del linguaggio corrente. Secondo Banti, il bagno di sangue come lavacro rigeneratore non apparteneva esclusivamente al nazionalismo aggressivo della belle epoque, ma a una costante del pensiero nazional-patrottico europeo fin dalle sue origini. Tuttavia, negli ultimi decenni del 800, gli eroi si trasformarono da combattenti di una guerra partigiana soldati agli ordini dello Stato senza che si registrassero mutamenti nel loro fervente desiderio di sacrificio e di sete di sangue. Non si può dire che la violenza è l'esito della mascolinità, ma il nesso tra uomo e violenza è esistito ed è storicamente determinato e sessuato e pervade l’orizzonte delle relazioni sociali. Bisognerebbe capire il genere di violenza da un lato e il suo orientamento dall'altro perché il disastroso connubio fra virilità e violenza non si è celebrato solo nei paesi totalitari ma in tutto l'Occidente ed è parte integrante della sua storia. Gli stessi rispettabili europei (che si ritenevano incapaci di compiere violenze atroci) sostenevano il concetto di onore virile nazionale nel nome del quale simili violenze furono praticate. È possibile sostenere che la virilità abbia contribuito non solo a generare violenze di massa ma anche stabilire un'alleanza fra uomini normali atterriti della crisi di virilità e perpetratori 2. La soluzione virile Nelle società occidentali di fine ‘800 prese piede la questione femminile. Già negli anni 60 dell'Ottocento erano nati movimenti femministi formalmente organizzati, di ispirazione borghese e liberale. Obiettivi: istruzione delle donne, accesso al lavoro retribuito, una riforma del diritto civile che elevasse le donne allo status di persone giuridicamente capaci e non più subordinate ai familiari maschi. Alla fine del secolo si iniziarono a formare anche le prime associazioni femminili nazionali per il suffragio. Le rivendicazioni civili e politiche delle donne avrebbero segnato agli occhi di molti uomini un punto di non ritorno: la percezione maschile di questo protagonismo femminile → senso di minaccia. La visibilità delle donne nella sfera pubblica aumentò costantemente nel diciannovesimo secolo e la cosiddetta emancipazione femminile divenne un argomento di discussione molto diffuso. Apparente avanzata delle donne veniva riassunta nell'espressione femminilizzazione della società, secondo alcune analisi dell'epoca era una tendenza moderna, il frutto avvelenato del progresso. Per questo il protagonismo femminile veniva spesso associato alla modernità e venivano entrambi collegati ad un senso di minaccia → prova tangibile del potenziale degenerativo della modernità. Il pessimismo, lo scetticismo o l'ostilità verso i processi di modernizzazione in campo sociale, civile e culturale sembravano tradursi in un disperato appello contro la rovina degli uomini in quanto specie e non degli uomini in quanto genere. I sintomi della sindrome moderna erano riconoscibili come un complesso di fenomeni che indebolivano il corpo e il carattere maschile, la civiltà delle macchine, del livellamento sociale, degli anonimi e spaesati spazi urbani erodeva le doti preziose dell'uomo come la volontà, il vigore, il decoro, la rispettabilità del nome, la capacità di governare sensi, nervi e passioni. Misogine di fine secolo Il linguaggio pubblico della virilità per l'identità di genere si fondava sulla stigmatizzazione della diversità come fattore di integrazione sociale. L'esclusione di un soggetto rappresentato come pericolosamente diverso aveva come effetto il rafforzamento dell'appartenenza. La donna che a fine ‘800 stava mutando in donna nuova spargeva il panico tra gli uomini occidentali sempre più insicuri della propria identità virile. Secondo la caricatura maschile e ricorrente la donna nuova era una figura mostruosa, un'aberrazione della natura di cui la più minacciosa incarnazione era la femminista. Nonostante facessero parte di movimenti femministi solo minoranze di donne, queste suscitavano apprensioni smisurate → la nascita di questi movimenti era un evento dalla forte portata simbolica poiché per la prima volta, si metteva in discussione l'egemonia del maschio sulla vita politica e sulle scelte che governavano la società. L'esclusiva maschile nella sfera pubblica appariva sempre più minacciata con l'istruzione universitaria aperta anche alle donne, la vittoria del Nobel da parte di diverse donne e nelle arti, nella letteratura e negli spazi della cultura si moltiplicavano le celebrità femminili oltre a lavoratrici spesso dotate di una certa indipendenza economica e familiare. Di fronte a questa situazione di minaccia gli accusatori della donna nuova proponevano dei caratteri caricaturali riconducibili a una lunga storia misogina. Questa forma di misoginia aveva lo scopo di identificare e allo stesso tempo condannare senza appello il mutamento dell'identità femminile come fenomeno sociale diffuso. La misoginia in età contemporanea fu la reazione maschile alle conseguenze di genere date dalla modernizzazione → è stata lo strumento fondamentale attraverso il quale si è perseguita per decenni una restaurazione delle identità e dei ruoli di genere. Alla radice di questo atteggiamento misogino va rintracciata la volontà degli uomini di ristabilire un ordine gerarchico fra maschile e femminile, ma anche quella di difendere il loro stesso equilibrio identitario pericolante. L'uguaglianza femminile si presentava come una minaccia perché gli uomini avevano contato sulle donne non solo per badare alla casa, ma anche per mascherare le ambivalenze interne alla virilità. Nei più svariati ambiti di cultura scienza e opinione pubblica si diffuse negli ultimi decenni dell'Ottocento un sentimento maschile drammaticamente misogino. Mentre le donne invadevano la sfera pubblica femminilizzata perdevano la loro femminilità, fuoriuscendo dalle buie stanze causavano una catastrofe storica → la catastrofe è doppia: spalancavano le porte alla confusione e quindi alla degenerazione, si allontanavano dalla propria silenziosa missione materna mettendo in grave pericolo la stessa riproduzione dell'umanità come specie. Moralisti e sociologi denunciavano la prossima morte della famiglia a causa del crescente egoismo delle giovani, riluttanti a considerare la maternità come unica occupazione della propria vita. Il tema della degenerazione iniziò a presentare in molti casi dirette connessioni con il mutamento dell'identità di genere → un indizio di questa degenerazione sta nella perdita dei caratteri sessuali: si hanno uomini femminilizzati e donne mascolinizzate, la mascolinizzazione delle donne sarà sempre una disgrazia. La donna nuova era descritta come un essere sensualmente anfibio e antropologicamente e regressivo. Virilità e modernizzazione Tra 800 e 900 le società occidentali si trasformarono grazie all'industrializzazione e alle innumerevoli innovazioni tecniche che portarono a una sorta di accelerazione storica e a un distanziamento da tutta la precedente storia dell'umanità. La rottura con il passato era percepibile anche sul piano estetico, su quello della comunicazione mediatica e nel rapporto fra Stato e popolo. È del 1892 il famosissimo Degenerazione dell'ungherese Max Nordau il quale sosteneva che il concetto su cui si basa la fin du siecle è questo: distaccarsi in pratica dal costume tradizionale facendo uno strappo alle tradizioni. Questo può essere visto come una sorta di tradimento: generava entusiasmi e ottimismo ma anche timore smarrimento e angosciosi interrogativi. Accanto ai più speranzosi per il futuro si poneva il coro dei perplessi e dei pessimisti, i quali sostenevano il tema di una modernità matrigna, distruttrice e disumanizzante. Un medico statunitense pubblicò nel 1901 un trattato su una nuova patologia, la Newyorkite, l'effetto diretto della vita moderna. In questa sua sintesi Kern delinea la Newyorkite come una particolare infiammazione causata dalla vita nella grande città e tra i suoi numerosi sintomi annovera la rapidità, il nervosismo e la mancanza di riflessioni in tutti i movimenti. Allo stesso modo un autore tedesco menzionava l'accelerazione dei trasporti e della comunicazione come causa del moderno nervosismo, mentre un medico inglese nel 1892 aveva già preannunciato un aumento vertiginoso delle malattie mortali fra gli anni 60 e 80 dell'Ottocento come conseguenza della tensione e dell'eccitazione costante data dalla modernità. La proletarizzazione di artigiani e contadini produceva effetti di alienazione che si manifestavano in sintomi comportamentali praticamente maschili come l'alcolismo e la violenza, segnando anche il tramonto della possibilità di trasmettere il mestiere ai propri figli maschi, fonte di orgoglio virile, riproducendo una fierezza della paternità che non era certo un tratto identitario indifferente rispetto al genere. In questo periodo risulta scottante la questione della perdita della potenza virile → Mantegazza aveva già negli anni 70 dell'Ottocento messo in guardia sui pericoli della civiltà moderna per le più preziose capacità maschili. Il tema dell'impotenza maschile sia in senso letterale, sia in quanto metafora di un regresso del potere degli uomini come conseguenza della società moderna, ricorreva in una straordinaria quantità di studi scientifici. Proprio in questo periodo si diffuse in tutta Europa un vero e proprio allarme sociale e scientifico sulla degenerazione omosessuale, considerata fra le più nefaste della femminilizzazione e quindi un'ulteriore frutto avvelenato della modernità → lo stesso termine omosessuale fu coniato per la prima volta nel 1869 in Germania. Invertito o pederasta, i due termini più diffusi fino a metà del 900 per indicare l'omosessualità maschile → invenzione di fine ‘800 questi erano infatti gli anni in cui la repressione delle devianze di genere raggiungeva in tutta Europa un'urgenza inedita: orientandosi contro una identità omosessuale piuttosto che contro dei comportamenti omosessuali si venne così a creare la figura negativa dell'omosessuale e un generale atteggiamento omofobico. La nazione italiana e la prospettiva virilista Minacciati dagli attacchi dell’avanzata femminile e dai processi di modernizzazione con effetti debilitanti, molti uomini occidentali sentirono avvicinarsi la fine di una sana mascolinità. La cultura razzista e imperialista, nutrita soprattutto dal nazionalismo, si accosta a questa esaltazione sessuata della forza, della gerarchia, della fierezza indirizzata all'esterno della nazione → la potenza del genere maschile e quella della nazione stessa apparivano legate simbolicamente attraverso nessi logici e retorici. Il sesso veniva sempre percepito come minaccioso o pericoloso, qualcosa che avrebbe inevitabilmente condotto gli uomini a una morte ignobile, la violenza avrebbe neutralizzato la minaccia di svirilizzazione che l'intimità sessuale conteneva, rappresentava un elemento necessario dell'equipaggiamento dell'uomo che non volesse essere divorato nella sua virilità dalla donna. La violenza in ambito sessuale era il rovescio della paura maschile nei confronti di un femminile di cosmica potenza. Armi, violenza, guerre e sessualità si fondevano per giungere ad un'integrità virile. Mario Carli, futurista e fascista, sostenne che la razza italiana era virile, fatta di domatori e amatori sempre armati, uomini fatti per il comando e maschi fatti per il predominio sessuale. Nell’Italia dei decenni a cavallo tra 800 e 900 la costruzione della virilità simbolica, l’uso della violenza e la sottomissione dell'avversario possono essere illustrati anche dall'istituto del duello, molto diffuso fra le élite. Era una forma di combattimento cruento per una causa d'onore: l'onore ovviamente aveva un'affinità profonda con l'identità virile. Come in guerra, la vita umana aveva un peso inferiore a quello del supremo bene dell'onore, il duello era tutto un teatro della virilità. Vincolato a rigidi codici cavallereschi e chi lo combatteva esibiva pubblicamente vigore fisico, abilità tecnica, coraggio e sprezzo del pericolo. Il duello costituiva un prodotto e un'occasione di manifestazione del proprio senso di virilità. In questo rituale entrava in scena anche l'abilità nazionale visto che i protagonisti di queste vicende si candidavano o erano già impegnati a guidare le sorti della nazione. Corpo maschile, onorabilità individuale e nazionale, disciplina e arti militari si legavano anche nel campo della nascente educazione fisica moderna. Nel 1881, il cattedratico Baccelli prefigurava per la gioventù italiana un'educazione post-scolastica obbligatoria per inculcare disciplina, sentimento dell'ordine, rispetto delle istituzioni. Sviluppare con esercizi le forze fisiche e diffondendo lo spirito militare che è la prima delle condizioni per la facile e rapida formazione di un buon esercito. Ovviamente, questa pedagogia vigorosa e disciplinante aveva una propria impronta sessuata, infatti, sul piano dell'educazione fisica degli ultimi anni del secolo si affermò definitivamente una concezione etico-militaristica. Nel 1909 i futuristi scrissero nel loro primo manifesto di voler glorificare la guerra, unica igiene del mondo → il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. Proprio il futurismo è un buon esempio di cultura politica nata esplicitamente per conciliare virilismo e modernità. Pur presentandosi come un movimento di rottura, di fatto è promessa di continuità perché conservava dello scenario politico tradizionale elementi tradizionali quali l‘esaltazione della virilità, col suo corollario misogino, bellicismo, spirito elitario. Quindi trasferisce nel paesaggio culturale-politico moderno elementi tradizionali. La valenza positiva della modernità era legata a tali aspetti sessuati del linguaggio politico in cui era possibile rintracciare garanzia di persistenza della tradizione. Infatti, la Grande Guerra fu vissuta come occasione di rigenerazione non solo nazionale ma proprio maschile a dimostrazione della virilizzazione della scena politica e culturale. Le culture moderate, conservatrici, reazionarie del primo decennio del 900 seguirono la prospettiva dell'affermazione del nazionalismo militante cercando al contempo di convertire la massificazione della politica da minaccia a risorsa per l'ordine gerarchico della società con intensificazione di questa strategia nel secondo decennio del 900. Il codice virilista, in cui i riferimenti sessuati e misogini abbondavano, venne percepito come una delle risorse più efficaci per operare una sintesi fra autoritarismo e politica di massa, e dunque per realizzare un’integrazione organica delle nazioni salvaguardando le tradizionali gerarchie di classe, genere e razza. L’efficacia politica del codice virilista fu tale che non rimase circoscritta a pochi fanatici nazionalisti, ma coinvolse i giovani repubblicani del 1914 che invocavano uno spirito combattente che sposava poi il nazionalismo praticarla, furono gli elementi fondativi della politica maschile del dopoguerra. Gli atti violenti e autoritari dei fascisti non erano ignoti ma il momento storico li risaltò come salvifici e attrattivi, proprio per questo il fascismo ricevette l’appoggio di vari apparati statali e partiti. Con lo squadrismo fascista il compito di ricostruire un’identità virile fu travasato in annientamento fisico o neutralizzazione attraverso la forza fisica dell’avversario politico e di classe → la virilizzazione come esasperata violenza, favorì una penetrazione fra le masse del mito nazionalista della “rigenerazione violenta” del popolo italiano. Gli ex squadristi rappresentarono la parte intransigente del fascismo e della sua componente mascolina, furono protagonisti di un breve periodo di gloria durante il quale nacque “Il Selvaggio”, una rivista che fece dell’esaltazione della violenza e del tradizionalismo la propria missione principale. La restaurazione violenta dell’ordine sociale e morale della nazione aveva come scopo primario rimettere al posto giusto i valori e le gerarchie tradizionali ma voleva avere anche il significato di un processo di rigenerazione per restituire all’uomo la virilità perduta. Per legittimare la violenza si tirava in ballo la sua trascendentalità che la poneva al di sopra della storia e dunque antimoderna, di origine divina o naturale → “La violenza è la voce di Dio” dalla rivista “Il Selvaggio”. Un antimodernismo di genere Le minacce della città Il ruralismo è il fenomeno culturale che ha avuto più successo da parte della storiografia, l’esaltazione della popolazione rurale come nucleo della comunità nazionale era necessario affinché le famiglie contadine si sentissero pienamente coinvolte nei destini del paese oltre ad attenuare gli strati sociali sui quali si scaricavano i costi più pesanti delle politiche economiche di regime → il contadino viene spesso celebrato come quintessenza di mascolinità naturale o selvatica. Il ruralismo si poneva accanto all’antimodernismo, il modello ideale era costituito dalla famiglia patriarcale o dai piccoli proprietari terrieri → efficace programma difensivo nei confronti delle degenerazioni della civiltà contemporanea tra le quali si può annoverare il desiderio delle giovani donne verso una vita migliore e una maggiore cura di sé, il declino di regole patriarcali, nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità dei sessi e indebolivano il sentimento religioso → a tutto questo si va ad unire il virus della denatalità. Una minaccia ancora peggiore si riscontrava nei centri urbani: diventati cittadini, i rurali mettevano al mondo meno figli → la città come luogo di corruzione della stirpe, la metropoli cresce e si sviluppa attirando verso di sé la popolazione della campagna, la quale però diventa infeconda. Nei decenni passati si era già diffusa la convinzione che la città, la tecnologia, il comfort, i ritmi della vita moderna mettessero a repentaglio la virilità ma nell'ottica del ventennio una simile concezione si drammatizza ulteriormente perché l'uomo nuovo del fascismo si vedeva negata dalla modernità la soddisfazione di un suo fondamentale bisogno → temprare la propria mascolinità attraverso un'esistenza avventurosa, piena di sfide, costanti pericoli e avversità. Alla luce di questo stato d'animo riaffiorava la nostalgia di quando si combatteva al fronte ma l'esaltazione di questa vita piena di avventure non doveva condurre per forza a rischiare la vita nella trincea, entra in gioco a questo punto la letteratura. La letteratura popolare ispirata alle avventure in mondi selvaggi e misteriosi era da interpretare come un mito di evasione che era offerto a un pubblico maschile affascinato da situazioni straordinarie, perché immerso quotidianamente in un'esistenza moderna che gli appariva fin troppo ordinaria. Il mito dell'avventura serviva quindi da compensazione fantastica di una condizione esistenziale che l'uomo percepiva come deleteria per la propria identità di maschio. L'italiano del fascismo era inquadrato nella disciplina paramilitare sin dall'infanzia, doveva irrobustire i muscoli attraverso l'esercizio ginnico ed avere un linguaggio verbale corporeo di tipo marziale, rude e virile. Questo corrispondeva apparentemente a una naturale vocazione del genere maschile: proprio nel ‘34 lo stesso Duce affermò che la guerra sta all'uomo come la maternità sta alla donna. Nel suo progetto totalitario il regime fascista perseguì una pedagogia della virilità indirizzata ad ogni maschio di qualsiasi età, la quale proponeva la figura del combattente votato all'azione come modello di genere ideale. Era necessario subordinare il pensiero all'azione attraverso una sorta di pensiero antintellettuale per distinguersi ideologicamente il più possibile dal borghese. La figura dell'intellettuale veniva denigrata perché minava alle radici della famiglia tradizionale con la sua poca o nulla dignità virile e patriarcale, l'intellettuale impersonava una sorta di degenerazione dell'intelletto. L'intellettualismo veniva definito come un'intelligenza infeconda, senza virilità era la malattia dell'intelligenza → patologia con caratteristiche di una sindrome degenerativa o di una malattia senile → genuinità maschile originaria che la modernità corrompe e conduce alla decadenza. Il fascismo si poneva proprio contro questo intellettualismo e contro questa degenerazione con azione, impulsività e giovinezza. Proprio la giovinezza è cruciale nel vocabolario fascista poiché riassume virilità, virtù, salute fisica e morale in opposizione all'intellettualismo → si presentava come la sintesi delle virtù virili dell'uomo fascista. Veniva esaltata la mascolinità dei RAS: un uomo giovane, nuovo e intendiamo per giovinezza l'audacia, la franchezza e la spregiudicatezza del pensare, del parlare e dell'agire; l'amore del pericolo, l'impeto volitivo, l'inclinazione alla violenza, il disinteresse, l'esaltazione dello spirito e della fede → Mussolini veniva spesso rappresentato come principe della gioventù. In altre occasioni, il termine veniva usato in un'accezione più classicamente generazionale, in cui si fondevano l'entusiasmo e la maturità, la storia millenaria e il futuro, la tradizione e la rivoluzione. Il meschino borghese Durante il periodo fascista il termine borghese si intendeva il riferimento all'alta borghesia, descritta come una classe per eccellenza parassitaria e immorale. Il fascismo si impegnava nel cercare le cause della crisi della civiltà → lo sviluppo e la modernità erano variabili negative, a differenza della povertà, condizione assolutamente positiva sul piano dell’incremento demografico → il benessere era ritenuto una condizione che favoriva la diffusione dei disturbi nervosi e che rischiava di compromettere la razza frenandone la crescita. Nel suo discorso del 1938, il Duce fece una distinzione nettissima fra capitalismo e borghesia “perché la borghesia può essere una categoria economica ma è soprattutto una categoria morale, uno stato d’animo, un temperamento”. Il sentimento antiborghese fascista può essere distinto in due diversi atteggiamenti: • da una parte esaltazione dei valori del mondo contadino che si traduceva in retorica ruralista e si collegava all’antiurbanesimo; quindi, questo atteggiamento glorificava la stabilità e la tradizione; • dall’altra disprezzo delle convenzioni e comodità borghesi, quindi atteggiamento che glorificava il dinamismo, l’avventura, l’azione. Sia l’uomo rurale-tradizionale, sia l’uomo spavaldo-dinamico si sentivano immersi nel loro ambiente ideale solo quando si trovavano nella natura; mentre chiusi tra quattro mura accusavano i sintomi della decadenza maschile: si esaltava un corpo maschile vigoroso in opposizione a quello borghese inetto e sedentario. La borghesia e l'ebreo cittadino rappresentavano la mascolinità degenerata e il contatto con il mondo femminile era visto come un pericolo di perdita della virilità. Il fascista si distingueva dal borghese per i valori come l'amore per la nazione, l'eroismo e il disgusto per l'egoismo e l'individualismo borghese. La donna moderna e la crisi della fecondità Quando la rappresentazione della mascolinità assumeva tratti estremi come accadde nel fascismo, per dare verosimiglianza a questa immagine virile occorreva una spalla: non una donna ugualmente pomposa e rude, ma la moglie sottomessa che almeno nel suo comportamento pubblico confermasse la pantomima della superiorità sessuale del marito. La donna doveva confermare l'idea di essere sempre stata, di essere oggi e sempre la compagna minore dell'uomo. La rappresentazione della femminilità si riaffermava come un fondamento sicuro su cui costruire il discorso antimodernista → l'associazione donna-natura-tradizione era di cruciale importanza poiché grazie a questa la donna moderna finiva per apparire una contraddizione: essendo la donna la parte per eccellenza naturale dell'umanità ed essendo natura e modernità due termini opposti inconciliabili, se la donna era moderna non era più donna, nel Ventennio gli uomini sapevano bene che, in realtà, le donne dietro la spinta della modernità non stavano mutando soltanto la veste → le trasformazioni della femminilità si facevano risalire alla cultura di massa americana e questo non accadeva di certo solo in Italia. Fin da quando negli anni ‘20 la cultura statunitense varcò le frontiere europee si scatenò il panico per le eventuali trasformazioni nei ruoli sessuali che avrebbero potuto produrre. Nell'Italia fascista si lanciavano disperati appelli contro l'invasione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, i nuovi modelli di donne magre e disinvolte decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extradomestico e al tempo libero. Si varava un complesso sistema di organismi statali, provvidenze pubbliche, festività e iniziative per sostenere l'esclusiva missione di madre di ogni donna, a questo si accompagnava un ferreo controllo sulla stampa. Nel 1929 Paolo Ardal sosteneva che tutto il disagio morale finanziario economico di una civiltà dipende dalla costruzione femminile. Nello stesso anno Carlo Scorza (futuro capo dei Fasci giovanili) collegava esplicitamente mutamento moderno della femminilità e svirilizzazione del maschio: la donna ha invaso il campo degli affari, delle professioni e degli impieghi: verissimo ma è del pari verissimo che l'uomo ha invaso il campo della moda, dei profumi, delle mille futilità dell'ozio e delle mollezze. Sempre nel 1929, Umberto Notari dava alle stampe un libretto intitolato La Donna “Tipo Tre” dedicato al fenomeno visibile della decadenza maschile e dell'ascesa della donna come effetto della civiltà meccanica industriale. Questo nuovo tipo di donna sfidava apertamente l'uomo, lavorava tutto il giorno in ufficio, non rispettava il marito e per la quantità dei suoi impegni non partoriva più di un paio di figli. La donna “Tipo Tre” era riluttante nei confronti della maternità ma la responsabilità ultima ricadeva sull'uomo poiché, veniva accusato di aver creato questa situazione abdicando al proprio ruolo di comando e cedendo negli ultimi cinquant'anni sempre più terreno alle donne. La retorica del regime può essere considerata un terreno discorsivo al confine fra misoginia, virilismo e antimodernismo. Il sentimento antiborghese aveva un ruolo primario, mentre la borghesia allevava non figli ma barboncini da salotto dimostrando una sciagurata indifferenza per il destino della nazione, il regime riponeva le proprie speranze in uomini e donne non ancora corrotti dalla modernità → una modernità che assumeva sembianze straniere sotto le spoglie di una cultura materialistica livellatrice e disumana ma le influenze più reali provenivano dall'oltre Atlantico e parevano minacciare direttamente il proprio destino demografico della nazione. La retorica fascista esasperò le concezioni misogine che da decenni coniugavano trasgressioni dell'identità di genere naturali e infecondità: per il demografo Corrado Gini la decadenza biologica della razza si rilevava anche da fenomeni come l'attenuazione della riservatezza e del pudore nella donna, dell'iniziativa e dell'aggressività dell'uomo. Fu Gini a fornire nel 1927 a Mussolini i dati per il celebre discorso dell'Ascensione a partire dal quale, la questione demografica divenne un tema di assoluta rilevanza nazionale. Il legame fra riproduzione sessuale e grandezza della nazione fu così uno dei canali principali attraverso cui la questione della virilità e delle tradizionali identità di genere, acquisì nel discorso fascista un rilievo politico istituzionale che non aveva mai avuto. Il calo delle nascite era causato in primo luogo dagli effetti negativi della modernità: combatterli diventò un compito di importanza ancora maggiore per il regime. Il deviante era il borghese, egoista e antipatriottico oltre che scarsamente virile; la deviante era la donna troppo moderna, americaneggiante, indipendente e mascolinizzata. I danni sociali provocati da queste devianze erano gravissimi: eccessivo allentamento dei rapporti gerarchici familiari, scadimento nell'uomo di quella robusta virilità che il fascismo con tanto amore e tanta costanza persegue. Secondo Saraceno l'obiettivo della campagna era quello del riequilibrio del potere all'interno della famiglia, nemico di questo riequilibrio è il 4. Il declino Tra la metà degli anni ‘50 e i primi anni ‘60 la società italiana fu investita da una serie di mutamenti sociali che trasformarono radicalmente il paesaggio culturale e morale, decretando il declino della tradizione quale fondamento del sistema di valori condivisi. Lo sviluppo industriale e del terziario, le grandi migrazioni, l’espansione abnorme delle città, l’estensione della scolarizzazione, l'enorme diffusione della cultura di massa, la nuova centralità dei beni e consumi moderni trasformarono la società italiana in senso più laico, liberale e civile. Ne risentì l’assetto delle relazioni di genere: si riscontrarono cambiamenti nella rappresentazione dei ruoli femminili anche nell'ambito domestico, nell’affermazione di una morale sessuale e atteggiamenti meno oppressivi, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne. Negli anni ‘70 ci furono notevoli differenze rispetto al passato ma ancora resistenza al cambiamento, persistenza di un asse asimmetrico e gerarchico del potere. Non ci fu la scomparsa in tempi breve della disuguaglianza fra uomini e donne. Nei momenti in cui tale disuguaglianza sembrava diminuire, come era stato percepito da molti uomini di fin de siècle, si era tentato di riaffermare a vari livelli la disuguaglianza che pareva garantire la sicurezza virile. Con le trasformazioni del boom, tale operazione fu impossibile. La disuguaglianza rimase copiosa negli anni ‘60 sul piano giuridico, economico e sociale, ma in misura insufficiente a garantire la tranquillità virilista; inoltre, risultò impraticabile il rilancio di una retorica della superiorità maschile naturale per via della modernizzazione e dell'affermazione del neofemminismo negli anni ‘70. L’asimmetria fra i generi si ridusse ancora facendo tramontare definitivamente la plausibilità politica della prospettiva virilista. Negli anni ‘60 e ‘70 si verificò anche il declino dell'elemento virilista legato alla violenza e all’aggressività. Il consenso di massa verso questa prospettiva scese drasticamente dopo il crollo del sistema di potere fascista e le traumatiche disillusioni della guerra mondiale anche se il linguaggio militarizzante sembrò riprendere con l'inizio della guerra fredda (1962 – 1991). Negli anni ‘60, i processi di decolonizzazione, di superamento della segregazione razziale, emersione di cultura giovanile antiautoritaria, la diffusione di una cultura pacifista o antimilitarista contro l’escalation nucleare, contribuirono ad erodere i valori imperialisti, autoritari. Anche la diffusione del benessere spinse l'opinione pubblica a confidare in una integrazione sociale per vie pacifiche e liberali. L’esplosione della conflittualità nel 1968-1969 per rivendicazioni egualitarie, antimilitariste e antiautoritarie dei movimenti sociali, studenteschi, operai spostò ancora di più le pulsioni nazionaliste, autoritarie e belliciste ai loro minimi storici. I tentativi di rilancio del contesto di virilità con mascolinità aggressiva, competitiva e potente furono destinati al fallimento, aumentando l'insicurezza maschile e tale insicurezza generava a sua volta una domanda di rilancio virilista, non essendo concepibile per molti uomini una sana mascolinità avulsa dal virilismo. Tali tentativi contribuirono al mantenimento di un virilismo informale, attivo nella società, nelle istituzioni, non più trionfalmente legittimato come nei decenni precedenti. Sue tracce vistose si sarebbero notate nella comunicazione pubblicitaria dei nuovi beni di consumo. Il nuovo scenario dei consumi svolse quella funzione di integrazione sociale di massa, che era già stata propria del virilismo nazionalista, rendendo superflui i connotati illiberali e violenti. Infatti, Pier Paolo Pasolini, all’indomani del referendum sul divorzio, che rivelò la sconfitta epocale del tradizionalismo di genere, non interpretò questo risultato come una vittoria del progressismo libertario, ma come un’affermazione del nuovo potere legato alla cultura di massa, al consumo. Negli anni ‘60, i beni di consumo acquisirono l’importante virtù simbolica di appartenenza al mondo civile. Nella sfera di consumi privati connessi ai nuovi stili di vita molti uomini e donne trovarono il senso di un'appartenenza collettiva. Il nuovo scenario culturale intaccava la potestà normativa e il potere di controllo maschile sui comportamenti delle donne, questo insieme di mutamenti ebbe l'effetto di aggravare le vecchie insicurezze maschili rispetto al declino storico della virilità, ampie fasce di popolazione maschile poterono concretamente constatare gli effetti positivi dello sviluppo. I nuovi scintillanti beni e la vita moderna divennero veramente accessibili alle masse anche grazie alla diffusione dei pagamenti rateali che rappresentarono una piccola rivoluzione non solo economica ma anche psicologica. Questo nuovo universo simbolico disponeva di un apparato propagandistico: i media e la cultura di massa veicolavano una grandiosa pedagogia modernista che penetrava nel cuore dell’identità collettiva, ma la superiorità maschile sulle donne non era realmente messa in discussione con rinnovate occasioni di affermazione del genere maschile che non contraddissero il declino storico del virilismo classico che con la grande modernizzazione degli anni ‘60 emerse in modo sempre più chiaro. Le dinamiche d'integrazione consumistica richiedevano abbandono dei valori, atteggiamenti e linguaggi virilisti, ma riuscirono a rassicurare gli uomini che non sarebbero diventati meno virili perché più moderni. Pur mantenendo il potere a tutti i livelli, buona parte del genere maschile accettò di recidere il cordone ombelicale che legava la sicurezza maschile alla tradizione, una fonte di legittimazione del potere cui le generazioni precedenti si erano aggrappate per proteggersi da una libertà femminile e da una modernità percepite come svirilizzanti. A partire da allora il futuro maschile si sarebbe sempre più collocato al di fuori del virilismo classico di cui il neocapitalismo non sapeva che farsene. Consumi e scenari di genere Nella percezione delle masse il primo segno evidente del miracolo economico fu che dalla miseria si poteva davvero uscire. Nel corso degli anni ‘50 e ’60, milioni di famiglie abbandonarono la campagna e l’ancestrale vincolo di una frugalità morale e materiale, nelle nuove capitali del benessere, anche gli immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali ma anche in molte campagne si percepivano chiaramente i segni del mutamento. Fu attraverso i consumi (dischi, moto, consumi del sabato sera) che l'etica del neocittadino subì una metamorfosi radicale e l'immigrato si mette a risparmiare per procurarseli. Anche nelle campagne si sentirono i segni del mutamento con modificazione dei valori culturali degli abitanti, generato da un diverso grado di istruzione, dall'avvento della tecnica e dell'industria, dall'infiltrazione della cultura di massa. Questi fattori hanno toccato con maggiore o minore intensità i diversi strati della popolazione con ansia di evasione, di conoscenza del mondo che esiste al di là del loro. La cultura di massa ebbe un ruolo di primo piano nel mutamento con un'evidente femminilizzazione della società portando il Bel Paese a ingentilirsi e svirilirsi, come scrisse Giorgio Bocca. Tra i modelli di comportamento moderni di cui la donna può godere una parte importante è relativa ai consumi, l'universo del comfort appare affidato alla donna, essa decide degli acquisti con conseguenze sulla sua immagine ma anche sull’equilibrio tradizionale del potere fra i generi: la vecchia condanna sulla natura spendacciona della donna costituiva uno strumento di controllo sempre meno efficace da parte dell'uomo. Le gerarchie tradizionali di genere avrebbero costituito un ostacolo alla moltiplicazione dei consumi perché gli uomini ponendosi come mediatori tra le donne e il mercato concedevano alle massaie un’autonomia di scelta ristretta ai soli consumi alimentari e quale suppellettile. Dunque, il mercato mosse verso l’eliminazione dell’ostacolo scavalcando gli uomini e rivolgendosi direttamente alle donne, attraverso i mezzi di comunicazione che ora esaltavano l’intelligenza e l’autonomia decisionale femminile. Di conseguenza mettendo in crisi il rapporto triangolare uomo-donna- mercato il neocapitalismo degli anni ‘60 diede un grande colpo al virilismo. Nel nuovo contesto del boom i mezzi di comunicazione di massa si spingevano fino a un'abile esaltazione dell'intelligenza quasi imprenditoriale delle donne di casa diffondendo grazie alla pubblicità commerciale un'immagine femminile dotata di autonomia decisionale e competenze specifiche. Apocalisse e integrazione maschile Se fino ad allora la svirilizzazione fu vissuta come una catastrofe, negli anni del miracolo economico molti uomini non valutavano negativamente tale fenomeno. Dal punto di vista della storia del virilismo, fu una novità davvero epocale che segnò in maniera decisiva le vicende dell'identità maschile contemporanea. Alcuni, come il pedagogista Volpicelli, pensarono che il cambiamento della condizione femminile in termini di istruzione rappresentasse un’opportunità di arricchimento spirituale per la famiglia, di ingentilimento dei ragazzi. Sui media trovava uno spazio crescente il dissenso identitario, indicatore della crisi del virilismo: in un articolo del 1958 accanto alla tenace persistenza di pregiudizi e discriminazioni e tabù si evidenziavano importanti elementi di novità: dai giovanotti siciliani preoccupati di precisare che anche dalle loro parti era arrivato il progresso lo svecchiamento dei costumi al soldato di leva per il quale il don Giovanni non rappresentava affatto un modello positivo ma dichiarava è la società che ti spinge ad esserlo altrimenti sembri un fallito. L'ipotesi di una semplice restaurazione del passato era improbabile: per quanto riguarda il mutamento femminile, l'emancipazione appariva agli occhi di tutti il prodotto inevitabile di uno sviluppo al quale nessuno poteva predicare la rinuncia, una parte vertiginosamente crescente degli uomini stava accettando di abbandonare una mentalità severamente tradizionale per collocarsi nell'orizzonte della modernità e goderne così appieno gli evidenti e concreti vantaggi. Per tutti, comunque, lo scenario della grande trasformazione non lasciava dubbi: l'epoca d'oro della mascolinità tradizionale era giunta al termine. La rassicurazione modernista L'uomo del boom avrebbe dovuto abbandonare per forza qualcosa della vecchia mascolinità, ma la sua esistenza non avrebbe avuto qualcosa di meno di quella dei progenitori, l’uomo moderno sarebbe ancora stato un uomo virile, degno di questo nome. L’uomo-consumatore ideale degli anni ‘60 sarebbe stato non tirannicamente patriarcale, liberale e tollerante verso le donne, incline ai piaceri della vita, competitivo, brillante in società. Se guardiamo ad alcune rappresentazioni della mascolinità nei media degli anni 60 si ritrovano vari segnali di una strategia di rassicurazione virile. I linguaggi mediatici apparivano orientati a ricostruire un’immagine del maschile autorevole: ad esempio nelle pubblicità di cosmetici maschili, settore delicato proprio per la difficoltà di legittimare un’esigenza di cura estetica che avrebbe potuto esporre l’uomo al sospetto di effeminatezza, ricorre spesso la parola virile → i linguaggi tentavano di rispondere a un’esigenza comunicativa di ricostruzione di un valore che si credeva di aver perduto. Assieme a virile, altro termine ricorrente era successo, che divenne unità di misura della mascolinità. Il tradimento della tradizione ebbe conseguenze cruciali sulla mascolinità perché venne a mancare un pilastro essenziale della legittimazione del dominio maschile sulle donne. Sotto la spinta della grande trasformazione degli anni 50-60, il lento declino del virilismo, già avviato negli ultimi decenni dell’800, che il fascismo aveva cercato di contrastare, si trasformò in una frana. L'enfasi dilagante sul successo rilanciava il concetto di gerarchia talvolta davvero aggressivo e prevaricatore di tanti maschi amareggiati dalla mollezza dei tempi, dotato di individualismo e competitività ma anche di freddezza morale necessaria per raggiungere i propri obiettivi. Chi non correva per il successo o non vi arrivava risultava un fesso o un moralista. Tale qualità non era nemmeno più funzionale a un supposto interesse superiore e nobile (la patria, la razza, la fede, la nazione), ma è un mero strumento del proprio tornaconto individuale. Coniugando efficienza, successo e gerarchia, l’azienda moderna suggeriva un profilo di genere al passo con i tempi e appagava l’esigenza maschile di ordine tradizionale, rassicurando gli orfani del virilismo sulla continuità di antiche atmosfere sociali e di genere. La triste fine del gallo La modernità incontrava una critica impegnata dai toni apocalittici che non esprimeva alcuna nostalgia per il virilismo, ma metteva a fuoco una crisi dell'uomo moderno in quanto maschio. Non erano rare raffigurazioni ironiche o sarcastiche delle patetiche sopravvivenze di un modello virilista. Negli anni del miracolo economico, in ambito letterario e cinematografico prese corpo un’articolata denuncia del progresso che dietro l’invitante facciata nascondeva spaesamento, disgregazione e alienazione. Molti intellettuali denunciarono questa amara verità: La dolce vita di Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Visconti, La vita agra di Bianciardi. Nell’opera Il pollo ruspante, il protagonista maschile, interpretato da Tognazzi, firma accumuli di cambiali per poter comprare un televisore, i suoi figli con il neofemminismo riguardò un confronto continuo sul piano delle grandi idee, sui ruoli e sulle relazioni ma anche sulla condivisione dei compiti quotidiani come ad esempio lavare i piatti o cambiare i pannolini, le femministe potevano contare sul consenso delle donne ma in questo momento della storia anche su alcuni uomini: militanti della sinistra extraparlamentare, intellettuali laici e progressisti, studenti, cattolici dissidenti; ma anche sull’appoggio di uomini autenticamente critici nei confronti della mascolinità tradizionale. Nel il referendum sul divorzio avrebbe reso evidente a tutti 1974 che la società italiana non si identificava più in una visione del mondo rigidamente patriarcale e tradizionalista. Nella vita di tutti i giorni i giovani uomini facevano esperienza di un mutamento importante dei rapporti fra i generi e lo spazio domestico fu luogo di rinegoziazioni con ridistribuzione paritaria dei compiti. Il fatto che un certo numero di uomini s'impegnassero collettivamente a decostruire il castello simbolico della virilità rappresentò un evento di una profonda rottura. L'uomo si rendeva conto che le armature virili da sempre rendevano infelici gli stessi uomini. Gruppi di auto-coscienza maschile erano nati a partire dal 1969 negli Stati Uniti e poi in Europa (Gran Bretagna, Germania, in Italia nel 1974). Secondo Stefano Segre da parte del maschio non c’è nessuna spinta diretta a mettersi in discussione perché c’è identificazione tra lui e il mondo circostante cioè per l’uomo realizzarsi significa realizzare sé stesso; per la donna realizzare sé stessa nel mondo significa negarsi come donne. Non c'è per l'uomo una storia di oppressione o di sfruttamento e sembra ridicolo pensare che l'uomo debba liberarsi. I gruppi di coscienza maschile erano visti con sospetto dalle femministe perché ritenevano l’autocoscienza maschile una strumentalizzazione della pratica delle donne. I femministi, come furono ironicamente appellati, erano intellettuali o genericamente di sinistra, erano più borghesi che proletari e rifiutavano il ruolo patriarcale di capofamiglia. Non tutti i compagni rivoluzionari erano disposti a riconoscere piena dignità alle istanze politiche del movimento delle donne. Secondo Marco Lombardo Radice, curatore di un volume del 1977 sulla crisi del maschio, l’uomo cercando il suo posto e cedendo sempre più potere alle femmine ha sviluppato un sano e proficuo antifemminismo. La parabola dei collettivi maschili di autocoscienza in Italia fu una parentesi fugace. A chi aveva attraversato la stagione della mobilitazione collettiva, gli anni ‘80 apparvero un ritorno all'ordine, il femminismo non riempiva più le piazze e non esercitava più la stessa influenza sul senso comune. Erano sempre gli uomini a occupare indiscutibilmente le stanze del potere a tutti i livelli. Già alla fine del decennio ‘70, secondo le più attente analisi, era possibile vedere risalire le quotazioni dell'antifemminismo e della misoginia (perché l'uomo voleva curare le ferite delle sue infelici esperienze personali vedendo come colpevoli le donne). L'evoluzione individualista e terapeutica dell'autoriflessione maschile degli anni ‘80 fu favorita dal disorientamento diffuso che portava con sé la stagione del grande freddo. La prima causa del mutamento della mascolinità è sempre il riequilibrio del potere fra uomini e donne nel pubblico e nel privato come ha sottolineato lo storico Vaudagna. Quindi l’uomo: - o riesce a restaurare i ruoli tradizionali continuando meccanicamente a recitare un copione antico - o si mette in discussione e avverte un senso di impotenza e frustrazione data dall’impossibilità di identificarsi entusiasticamente con modelli identitari di ispirazione virilista. Ammette la crisi e cerca di curarla clinicamente entro una prospettiva tutta individuale. Turbamenti mediatici Nei decenni successivi agli anni ‘70 anche le forme di misoginia perdevano gran parte del loro smalto retorico. Nell'ultima parte del secolo anche le rappresentazioni delle donne classicamente viriliste risultarono sempre meno efficaci nel difendere la supremazia maschile come principio indiscutibile → a vari livelli le stanze del potere rimanevano saldamente presidiate da uomini e continuavano ad apparire come ambienti marcati naturalmente da un tratto maschile inconfondibile. Gli uomini non hanno certo rinunciato completamente alla supremazia, questa non è certo scomparsa ciò ma che è accaduto è che la legittimazione della gerarchia fra i generi ha mutato la dimensione discorsiva, non essendo più affidata a occasioni argomentative ma a canali pedagogici più discreti. L'impraticabilità delle vecchie retoriche che denigravano le donne ha spinto a trovare forme di espressioni meno frontali, il linguaggio mediatico ha spesso offerto ottime occasioni per rappresentare le donne in modo perlomeno riduttivo ma ricorrendo alla grande potenza evocativa di stereotipi, immagini, tecniche e linguaggi tipici della comunicazione di massa. Lo stereotipo della donna in carriera diffuso negli ultimi due decenni del ‘900 suggeriva una pericolosa deriva innaturale del femminile che da un lato contaminava gli ultimi spazi della sfera pubblica e dall'altro era essa stessa contaminata dalla mascolinità. Non potendo più far leva su una legittimazione, si ricorreva a una recriminazione patriarcale. L'icona della donna in carriera suscitò tratti inquietanti che, nell'immaginario misogino maschile, erano stati per lungo tempo collegati allo scenario di una donna in una posizione di prestigio e di potere → fu tipico di questa operazione il tentativo esplicito di incidere direttamente sulla rappresentazione delle donne stesse facendo leva sui pesanti sensi di colpa che molte donne venivano chiamate a provare nel momento in cui sceglievano egoisticamente di non rinunciare alle proprie aspirazioni personali nei propri impegni familiari. Sul Corriere della Sera si affermava nel ‘99 che la tendenza sempre più marcata da parte delle donne in carriera a fare la scalata ai ruoli tradizionalmente maschili avrebbe trasformato anche il loro comportamento materno: madre cattiva, madre che lavora: assente ed egocentrica. C'era sempre il dubbio che a donne moderne e snaturate facesse difetto la coscienza, e che quindi non fosse per nulla sufficiente far leva sulla loro colpevolizzazione in quanto madri o mogli → si riteneva più utile convincere le lettrici che le proprie scelte professionali avrebbero sicuramente distrutto non solo i propri affetti ma loro stesse. Donne in carriera, più infelici degli uomini. L'emancipazione socioeconomica delle donne nelle società industrializzate ha portato a un declino del loro benessere psicologico. Su un periodico on-line nel 2009 fu pubblicato un articolo intitolato Donne in carriera più infelici degli uomini in cui si sosteneva che l'emancipazione socioeconomica delle donne nelle società industrializzate ha portato a un declino del loro benessere psicologico. Sempre sul Corriere della Sera si arrivò a una patologizzazione della donna rampante diagnosticando la FESS (Female Executive Stress Syndrome), sindrome psichiatrica in cui la donna non ha interesse per i discorsi sui bambini e ricette e rifiuta perfino la sua personalità femminile. Nel 2006 sullo stesso quotidiano comparve l’articolo intitolato “Uomini, non sposate le donne in carriera” in cui si sosteneva che la donna virilizzata avrebbe generato meno figli, vissuto la maternità come sofferenza, non avrebbe pulito casa, avrebbe tradito il marito, divorziato e persino il marito della donna in carriera si sarebbe ammalato più facilmente. Nei primi anni ‘90, la nuova complessità dell'immagine mediatica dell'uomo era un fenomeno già molto evidente: il nudo maschile riceve un importante certificazione sul piano marketing. Nel 1997 apparse un quadrimestrale italiano dedicato alle derive del maschile, un articolo in cui si analizzava il crescente ricorso alla corporeizzazione e genitalizzazione maschile. La mascolinità o meglio la virilità comincia a essere sottolineata fisicamente fino alla provocazione. Ma questi giovanotti muscolosi, questo ritorno di un ideale fisico primitivo e selvaggio nascondono un'insoddisfazione, un'inquietudine, una tensione di fuga. Il tema della crisi del maschio si ripropose sempre più spesso nei media, sembrava di assistere a una sorta di riemersione dalla clandestinità degli uomini in quanto uomini. Era diventato pressoché impossibile mettere in atto strategie efficaci di riscossa virile che potessero restituire (come era sembrato possibile per più di un secolo) illusioni di potenza, dominio, maestà indiscussa. Alla fine del 900 lo sguardo dell'uomo non soltanto tornava su sé stesso, vedendosi egli come uomo, sotto la spinta di un confuso malessere, di un senso di frustrazione, di un trauma di detronizzazione ma rimaneva penosamente bloccato sull'evidenza impietosa della propria finitezza sessuata in un equilibrio ormai impossibile fra nuove domande e risposte superate. Nella metà degli anni 90, i periodici dedicavano pure le copertine all'impotenza maschile, come fenomeno in aumento. Nel film Full Monty del 1997, importante tassello della rappresentazione degli uomini, il protagonista racconta a degli amici di aver visto 3 donne in bagno che urinano come gli uomini e parlano di loro. In quanto uomini, sentendosi in via d’estinzione come dinosauri, prenderanno la decisione di diventare spogliarellisti per ridare desiderio alle donne. Trasformati in oggetto di desiderio, si spogliano della tradizionale neutralità maschile fanno esperienza di cosa vuol dire trovarsi dall’altra parte del circuito erotico, lasciando emergere la propria parzialità. La virilità come merce La perdita dell'occupazione, la precarietà del lavoro, minavano la sicurezza maschile su più piani: annullamento del ruolo di breadwinner, annullamento dell'esclusività del procacciatore di reddito, indebolimento dell'identità sociale legata alla posizione professionale. Il mercato aveva individuato nell’invisibilità maschile un limite importante alle tendenze di sviluppo in atto: perché l’uomo diventasse un target bisognava secolarizzare e interrogare l’identità maschile. Si assiste alla moltiplicazione di immagini maschili in cui era proprio l'identità di genere a interrogare e allo stesso tempo a essere interrogata da chi guardasse. Fra gli anni 90 e 2000 lo sviluppo impressionante di nuovi consumi (cosmetici, palestre, centri fitness, chirurgia estetica…) conduceva il corpo maschile a un'ulteriore e continua esposizione mediatica, impensabile in altre epoche. Questa esperienza corporea legata a un senso di inadeguatezza personale poteva anche generare sul piano sociale una confusione crescente tra i generi e dunque nuovi timori di svirilizzazione: un vero e proprio circolo vizioso dell'identità maschile. L'appropriazione mediatica del maschile per esigenze di mercato di consumo costituiva la sconsacrazione finale della virilità: il corpo maschile divenne oggetto e non più solo soggetto dello sguardo collettivo e ciò impediva ogni illusione di rianimazione del virilismo, non poteva sopravvivere all'abbassamento al rango. Questa sessuazione del mercato e mercificazione dell'identità maschile agiva in un contesto sociale e culturale in cui il sistema complessivo dei media veniva acquisendo un peso politico più che notevole. Il corpo maschile era ormai al centro dello sguardo dei media e di conseguenza di un pubblico di centinaia di milioni di lettori e spettatori → il corpo poteva diventare oggetto di un'attenzione mediatica dagli esiti potenzialmente imprevedibili. Le riviste maschili italiane → Se il new man è un uomo ossessionato dalla salute e dalla forma fisica, allora tali riviste devono essere il luogo in cui questa ossessione viene incoraggiata e legata ad arene differenti come la malattia, la dieta e il regime alimentare, la chirurgia estetica, la bellezza eccetera. Si tratta di un vero e proprio allarme sociale alimentato a scopo commerciale, in cui il corpo maschile è continuamente sotto assedio, minacciato dalle tipiche malattie maschili: stress, ipertensione, fumo ecc. La conclusione è che i periodici maschili mostrano una mascolinità precaria, che va definita, è in costante pericolo di ridefinizione in corso d'opera. Il regime della visibilità pubblica come oggetto aveva ormai investito nell'identità maschile rendendolo invisibile come soggetto.
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