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Le fasi del procedimento di formazione della legge in Italia, Schemi e mappe concettuali di Istituzioni Diritto Pubblico

Le fasi del procedimento di formazione della legge in italia, inclusi i procedimenti per commissione deliberante, redigente e la fase integrativa dell’efficacia. Vengono inoltre esaminate le funzioni del parlamento, i poteri del presidente della repubblica, il principio della separazione tra politica e amministrazione e le riserve di legge.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 19/02/2024

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sara-gamboni-1 🇮🇹

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Scarica Le fasi del procedimento di formazione della legge in Italia e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Istituzioni Diritto Pubblico solo su Docsity! DIRITTO PUBBLICO IL PRINCIPIO DEMOCRATICO-REPUBBLICANO Il principio democratico-repubblicano è espresso nell’articolo 1.1 Cost. L’articolo di apertura della Costituzione italiana esprime l’essenza stessa della Repubblica, affermando il principio democratico e sancendo il riconoscimento della forma di Stato repubblicana, basata sulla sovranità popolare. L’espressione “Repubblica democratica” significa che tutti i cittadini hanno il diritto a quelle libertà che nessuno può violare né limitare. Inoltre, il Costituente ha sancito il riconoscimento del valore del lavoro, inteso come fondamento dello Stato ed importante strumento democratico di sviluppo della personalità umana, nonché “mezzo” per stimolare e far crescere il progresso materiale e spirituale della società. IL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA Il principio di eguaglianza è disciplinato dall’articolo 3 Cost. Nel primo comma viene espresso il principio di eguaglianza formale, nonché una serie di specifici divieti di discriminazione (il cosiddetto nucleo forte dell’eguaglianza), mentre nel secondo comma vi è il principio di eguaglianza sostanziale: • L’eguaglianza formale prescrive che si devono trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. Questo principio sta all’origine del controllo di ragionevolezza delle leggi, che è diventato lo schema che domina larga parte dei giudizi della Corte costituzionale sulla legittimità delle leggi; • Il nucleo forte del principio di eguaglianza vieta distinzioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personale e sociali”. Tale nucleo non comporta un divieto assoluto al legislatore di introdurre differenziazioni basate sui fattori indicati, ma vieta di farne il motivo di una discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà; • Il principio di eguaglianza sostanziale punta esattamente a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che impediscono l’eguale godimento dei diritti e delle libertà. È un programma d’intervento quello che la Costituzione indica nel legislatore, che ha il compito di eliminare, appunto gli handicap sociali. Ma questo compito può essere assolto soltanto derogando al principio di eguaglianza formale. Il contrasto tra questi due principi è stato spesso enfatizzato come l’inconciliabile contrasto tra lo Stato liberale, basato sull’eguaglianza formale, e lo Stato sociale, rivolto all’eguaglianza sostanziale. I due principi di eguaglianza si limitano e si completano a vicenda: quello sostanziale impedisce l’eccesso di rigore dell’eguaglianza formale, quello formale impedisce alle azioni “positive” di diventare a loro volta fonte di ingiustizia, dando luogo a casi di “discriminazione all’incontrario” (reverse discrimination). Il punto di equilibrio viene stabilito dal giudizio di ragionevolezza. La tutela dei diritti della donna lavoratrice, il suffragio universale, la parità fra i sessi sono alcuni tra i mezzi per assicurare l’uguaglianza effettiva dei cittadini per il pieno sviluppo della persona umana. LA SOVRANITÀ NELLA COSTITUZIONE La sovranità può definirsi come quel potere d’imperio originario, in quanto sorge con la nascita dello Stato stesso, esclusivo, poiché compete solamente ad esso, ed incondizionato, dal momento che non incontra alcun limite giuridico all’interno del territorio nazionale. Essa ha due aspetti: interno ed esterno. Quello interno consiste nel supremo potere di comando in un determinato territorio, che è tanto forte da non riconoscere nessun altro potere al di sopra di sé. Quello esterno consiste, invece, nell’indipendenza dello Stato rispetto a qualsiasi altro Stato. I due aspetti sono strettamente intrecciati: lo Stato non potrebbe vantare il monopolio della forza legittima e quindi il supremo potere di comando su un dato territorio se non fosse indipendente da altri Stati. Dopo l’affermazione dello Stato moderno, si è posta la questione di chi esercitasse effettivamente il potere sovrano. A tal proposito sono state poste tre teorie: • Secondo la prima teoria, verso la fine dell’800, lo Stato veniva configurato come una persona giuridica, cioè come un vero e proprio soggetto di diritto, titolare della sovranità. Questa tesi, da una parte, in Paesi di recente unità nazionale, serviva a dare una legittimazione di carattere oggettivo allo Stato e quindi era utile al rafforzamento di ancora deboli identità nazionali, dall’altra parte poteva risolvere il conflitto tra il principio monarchico e quello popolare; • La sovranità della Nazione è stata una delle invenzioni più importanti del costituzionalismo francese dopo la rivoluzione del 1789. L’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino affermava che “la sovranità appartiene alla Nazione da cui emanano tutti i poteri”. Dunque, veniva meno la sovranità del Re e non vi era più la divisione del Paese in ordini e ceti sociali ma, al loro posto, subentravano i singoli cittadini eguali, unificati politicamente nell’entità collettiva chiama Nazione; • Rousseau, invece, affermava il principio della sovranità popolare in quanto faceva coincidere la sovranità con la volontà generale del popolo, che a sua volta era identificata con la volontà del popolo sovrano, ossia dell’insieme dei cittadini considerati come un ente collettivo. La sovranità popolare, enunciata nell’articolo 1.2 Cost., ha perso però quel carattere di assolutezza a causa di tre circostanze: • La prima è che la sovranità popolare non si esercita direttamente ma viene inserita in un sistema rappresentativo basato sul suffragio universale; • La seconda riguarda la diffusione di Costituzioni rigide che hanno un’efficacia superiore alla legge e possono essere modificate solo attraverso procedure molto complesse; • La terza riguarda la preminenza della Costituzione che viene garantita, di regola, dall’opera di una Corte costituzionale. Un altro limite della sovranità è costituito dall’affermazione di organizzazioni internazionali, quali l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), istituita nel 1945 con la finalità principale di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Inoltre, la limitazione della sovranità statale diventa più evidente con la creazione in Europa di Organizzazioni sovranazionali. LA CONDIZIONE GIURIDICA DELLO STRANIERO NELLA COSTITUZIONE In certi casi la Costituzione riconosce a tutti la tutela dei diritti, in altri casi solo ai cittadini. Il problema che sorge è se e in quale misura i diritti che la Costituzione riserva espressamente ai cittadini possano essere estesi agli stranieri: l’articolo 10.2 Cost. pone per la condizione giuridica dello straniero una riserva di legge rinforzata per contenuto. Attraverso un doppio meccanismo, l’interpretazione dei diritti inviolabili alla luce dell’articolo 2 Cost., e quindi come diritti inviolabili dell’uomo e non del solo cittadino, e l’applicazione delle garanzie riconosciute agli stranieri in base ai trattati internazionali, a cui le leggi sono vincolate in forza dell’articolo 10 Cost., la Corte costituzionale è giunta ad affermare il principio per cui la garanzia dei diritti inviolabili si estende allo straniero anche laddove la Costituzione li attribuisce ai soli cittadini. Tuttavia, occorrono due precisazioni: • L’estensione opera nei confronti dei soli diritti inviolabili, per gli altri si continua ad applicare la regola fissata dall’articolo 16 delle Preleggi che ammette lo straniero a godere dei “diritti civili attribuiti al cittadino” a condizione di reciprocità. Quindi bisognerà dimostrare che la legislazione del Paese da cui lo straniero proviene riconosce lo stesso diritto ai cittadini italiani; • L’eguaglianza dello straniero nel godimento dei diritti inviolabili è un principio, non una regola tassativa. Ciò significa che il legislatore può prevedere degli oneri o delle limitazioni particolari a carico degli stranieri, purché essi siano ragionevolmente giustificabili sulla base della loro particolare condizione di straniero. Il diritto d’asilo è un diritto soggettivo riconosciuto dall’articolo 10.3 Cost. allo straniero di trovare rifugio nel territorio italiano. Si differenzia dall’asilo diplomatico che si ha quando una persona si rifugia in un’ambasciata straniera esistente nel territorio del suo paese. significa escludere la garanzia del pluralismo religioso e la laicità dello Stato italiano: ciò viene, infatti, assicurato dall’articolo 3.1 Cost. e dall’articolo 8 Cost. Dunque, in Italia esiste il principio di laicità, elaborato soprattutto dalla giurisprudenza costituzionale, ed anche la tutela della libertà di coscienza. LA NASCITA DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato, stabilisce i principi che sono alla base dell'ordinamento giuridico ed i caratteri essenziali dell'organizzazione politica ed è la fonte primaria della scala giuridica delle fonti del diritto. La Costituzione italiana è nata grazie a delle condizioni assai particolari. Dopo che vent’anni di fascismo, guerre ed eventi internazionali avevano radicalmente mutato l’organizzazione sociale e l’assetto politico del Paese, i membri dell’Assemblea Costituente (556), eletti per la prima volta, non sapevano quale esito avrebbero avuto le prime elezioni politiche che qualche anno dopo avrebbero avviato l’ordinario corso della nuova vita costituzionale italiana. La paura di soccombere ha prevalso sul desiderio di imporsi: perciò, vi fu un’attenzione assoluta per i diritti delle minoranze, la scelta per il sistema parlamentare e per il sistema delle garanzie costituzionali. La nascita della Costituzione italiana fu il frutto di tappe successive: • 25 giugno 1944: viene emanato il decreto legislativo luogotenenziale n°151 che dota lo Stato italiano di un ordinamento provvisorio, caratterizzato dalla funzione esplicita di preparare la formazione di un rinnovato stabile assetto costituzionale; • 16 marzo 1946: viene introdotto un nuovo decreto luogotenenziale n°98. Si stabilisce che a decidere la nuova forma istituzionale dello Stato (Monarchia o Repubblica) sarà direttamente il popolo italiano, mediante un referendum istituzionale a cui parteciperanno, per la prima volta, anche le donne. In precedenza si era delegata tale decisione all’Assemblea Costituente; • 2 giugno 1946: si svolgono le elezioni per l’Assemblea Costituente ed il referendum istituzionale: → 12.717.923 voti per la Repubblica (54,3 %); → 10.719.284 voti per la Monarchia (45,7 %); • 28 giugno 1946: l’Assemblea Costituente elegge Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato; • 15 luglio 1946: l’Assemblea Costituente decide di nominare, al suo interno, una Commissione di 75 membri (la Commissione dei 75), presieduta da Meuccio Ruini, incaricata di elaborare e proporre un progetto di Costituzione. Questa commissione era divisa in tre sottocommissioni che dovevano occuparsi dei diritti e dei doveri dei cittadini, dell’ordinamento della Repubblica e dei diritti e dei doveri economico-sociali; • 31 gennaio 1947: la Commissione dei 75 presenta il progetto di Costituzione; • Dal 4 marzo al 22 dicembre 1947: l’Assemblea discute il progetto; • 22 dicembre 1947: l’Assemblea Costituente approva la Costituzione a scrutinio segreto (453 si, 62 no); • 27 dicembre 1947: il testo costituzionale viene promulgato nell’edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale n°298 dal capo provvisorio dello Stato; • 1° gennaio 1948: la Costituzione italiana repubblicana entra in vigore. La Costituzione italiana si definisce: • Votata: è stata deliberata dal popolo mediante l’elezione di un’Assemblea Costituente; • Scritta: i principi e gli istituti fondamentali dell'organizzazione dello Stato sono contenuti in un documento formale (il testo costituzionale) e perché è espressamente prevista la forma scritta per le leggi che regolino la materia costituzionale; • Rigida: alle norme in essa contenute è stata assegnata un'efficacia superiore a quella delle leggi ordinarie, in modo che le leggi che modificano la Costituzione e le leggi in materia costituzionale devono essere adottate dal Parlamento non con il procedimento di formazione delle leggi ordinarie ma con una procedura aggravata (articolo 138 Cost.), ed, inoltre, le disposizioni aventi forza di legge in contrasto con la Costituzione vengono rimosse con un procedimento innanzi alla Corte costituzionale; • Lunga: un consenso così vasto si è potuto realizzare soltanto sommando le istanze, gli interessi ed i valori delle diverse componenti; • Compromissoria: è il frutto di una particolare collaborazione tra tutte le forze politiche uscenti dal secondo conflitto mondiale; • Programmatica: rappresenta un programma, attribuendo alle forze politiche il compito di rendere effettivi gli obiettivi fissati dai costituenti attraverso dei provvedimenti legislativi non contrastanti con le disposizioni costituzionali; • Democratica: è dato particolare rilievo alla sovranità popolare, ai sindacati e ai partiti politici. La Costituzione italiana del 1948 si compone di parti diverse: i Principi fondamentali (articoli 1-12 Cost.), Parte I - Diritti e doveri dei cittadini (articoli 13-54 Cost.), Parte II - Ordinamento della Repubblica (articoli 55-139), e si conclude con 18 Disposizioni transitorie e finali, dettate allo scopo di regolare il passaggio dal vecchio regime al nuovo ordinamento democratico. LE FORMAZIONI SOCIALI NELLA COSTITUZIONE Le formazioni sociali sono delle aggregazioni sociali, sono quelle formazioni spontanee che sviluppano la socialità dei cittadini e che permettono di raggrupparsi in comunità intermedie tra i singoli e lo Stato, operando per la realizzazione di interessi comuni ai loro componenti (la famiglia, i partiti politici, i sindacati, le associazioni). Si esplicitano nell’articolo 2 Cost. Tale articolo è costituito da un: • Principio personalistico: i “diritti inviolabili” vengono riconosciuti dallo Stato e sono diritti fondamentali, inalienabili, irrinunciabili, indisponibili e insopprimibili, attraverso i quali la persona umana può affermare la propria libertà ed autonomia. Il principio afferma il valore assoluto e universale della persona umana. La tutela della persona riguarda il singolo cittadino e le formazioni sociali; • Principio solidaristico: la solidarietà è la risultante dell’interdipendenza fra tutti gli uomini e si esprime attraverso le formazioni sociali. La Costituzione prevede al riguardo una serie di prestazioni e di comportamenti il cui adempimento viene considerato un dovere per la particolare necessità e rilevanza sociale (l’obbligo di pagare le tasse). GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DELLO STATO Lo Stato è l’organizzazione del potere politico (un ente) che esercita il monopolio della forza legittima in un determinato territorio e su un popolo che lo occupa, avvalendosi di un apparato amministrativo. Gli elementi costitutivi di esso sono il popolo, il territorio e la sovranità. Il popolo è costituito dall’insieme di tutte le persone che hanno la cittadinanza dello Stato: chi appartiene ad un altro Stato è straniero mentre è apolide chi non ha alcuna cittadinanza. Il termine popolo si distingue da quello di popolazione per la quale s’intende, invece, l’insieme delle persone che sono presenti in un dato momento all’interno di un determinato territorio. Il territorio è un determinato ambito spaziale in cui uno Stato esercita la propria sovranità, in modo indipendente da qualsiasi altro Stato. La precisa delimitazione di esso è la condizione essenziale per garantire che questo avvenga. È costituito dalla terraferma, quella porzione di territorio delimitata da confini, che possono essere naturali o artificiali, oppure delimitati da Trattati internazionali, dalle acque interne comprese entro i confini, dal mare territoriale, quella fascia di mare costiero interamente sottoposta alla sovranità dello Stato (12 miglia marine), dalla piattaforma continentale, costituita dal cosiddetto zoccolo continentale, cioè quella parte del fondo marino di profondità costante che, più o meno esteso, circonda le terre emerse prima che la costa sprofondi negli abissi marini, dallo spazio atmosferico sovrastante, da navi e aeromobili battenti bandiera dello Stato quando si trovano in spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato (territorio mobile) e dalle sedi delle rappresentanze diplomatiche all’estero (extraterritorialità). La sovranità → La sovranità nella Costituzione (pagine 1-2). LA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI La Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali è una Convenzione internazionale redatta e adottata nell'ambito del Consiglio d'Europa. È stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai 13 Stati al tempo membri del Consiglio d'Europa ed è entrata in vigore in Italia il 10 ottobre del 1955, dopo una lunga elaborazione giurisprudenziale. La CEDU è considerata il testo centrale in materia di protezione dei diritti fondamentali dell'uomo perché è l'unico dotato di un meccanismo giurisdizionale permanente che consenta a ogni individuo di richiedere la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU, attraverso il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, con sede a Strasburgo. I Governi firmatari, membri del Consiglio d’Europa, considerata la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, che mira a garantire il riconoscimento e l’applicazione universali ed effettivi dei diritti che vi sono enunciati e considerato che il fine del Consiglio d’Europa è quello di realizzare un’unione più stretta tra i suoi membri attraverso anche la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, hanno convenuto, all’interno dei 59 articoli, l’obbligo di rispettare i diritti dell’uomo, il diritto alla vita, la proibizione della tortura, la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato, il diritto alla libertà e alla sicurezza ed il diritto ad un equo processo. LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), in Italia anche nota come Carta di Nizza, è stata solennemente proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo dal Parlamento, il Consiglio e la Commissione. Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell'articolo 6 del Trattato sull'Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati e protocolli ad essi allegati, come vertice dell'ordinamento dell'Unione europea. Essa risponde alla necessità, emersa durante il Consiglio europeo di Colonia (3 e 4 giugno 1999), di definire un gruppo di diritti e di libertà di eccezionale rilevanza e di fede che fossero garantiti a tutti i cittadini dell'Unione. Il progetto è stato elaborato da un'apposita Convenzione presieduta da Roman Herzog, ex presidente della Repubblica federale tedesca, e composta di 62 membri: 15 rappresentanti dei capi di Stato e di Governo degli Stati membri, 1 rappresentante della Commissione europea, 16 membri del Parlamento europeo e 30 membri dei Parlamenti nazionali. La Carta enuncia i diritti e i principi che dovranno essere rispettati dall'Unione in sede di applicazione del diritto comunitario. L'attuazione di tali principi, comunque, è affidata anche alle normative nazionali. Il testo della Carta inizia con un preambolo ed i 54 articoli sono suddivisi in 6 capi i cui titoli enunciano i valori fondamentali dell'Unione: dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia. Il settimo capo è rappresentato da una serie di “disposizioni generali" che precisano l'articolazione della Carta con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). I diritti contenuti nella Carta sono classificabili in quattro categorie: • Le libertà fondamentali comuni, presenti nelle Costituzioni di tutti gli stati membri; • I diritti riservati ai cittadini dell'Unione, in particolare riguardo alla facoltà di eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo e di godere della protezione diplomatica comune; • I diritti economici e sociali, quelli che sono riconducibili al diritto del lavoro; • I diritti moderni, quelli che derivano da alcuni sviluppi della tecnologia (tutela dei dati personali, il divieto alla discriminazione di disabilità e di orientamento sessuale). verso gli Stati riguardo all'adempimento degli obblighi comunitari. Inoltre, la Commissione può esercitare un controllo indiretto sugli Stati membri attraverso le segnalazioni dei soggetti privati, cittadini ed imprese, relative alla mancata attuazione del diritto comunitario e stabilisce l’ammontare dei Fondi strutturali, cioè dei finanziamenti stanziati dalla Comunità per esigenze di sviluppo economico, occupazionale e formativo degli Stati membri, e la loro ripartizione ai singoli Stati. La Commissione è composta da un numero di componenti pari a quello degli Stati membri, i quali durano in carica cinque anni, sono scelti in base alle loro competenze generali ed alle garanzie di indipendenza offerte e vengono designati di comune accordo dagli Stati membri e dal futuro presidente della stessa. Il Parlamento europeo elegge il presidente (Ursula von der Leyen) su proposta del Consiglio ed approva la composizione della Commissione. Il Parlamento può censurare la Commissione costringendola alle dimissioni. I membri della Commissione sono designati dal Consiglio su proposta degli Stati ma il presidente della Commissione deve essere d’accordo sulla loro designazione, assegna loro le competenze e può chiedere e ottenere le loro dimissioni. Il Vicepresidente della Commissione è l’Alto rappresentante per gli Affari Esteri (Josep Borrell) che rappresenta l’UE nella politica estera; • Il Parlamento europeo è composto dai rappresentanti dei cittadini dell'Unione, eletti in ciascuno Stato per cinque anni a suffragio universale e diretto (presidente David Sassoli). È, dunque, un organo rappresentativo e dotato di legittimazione democratica, che partecipa pienamente al processo di formazione degli atti normativi, attraverso la procedura legislativa ordinaria. L'adozione degli atti normativi, promossi dalla Commissione, richiede il consenso sia del PE sia del Consiglio, il dissenso dei quali è comunque superabile con la convocazione di un apposito Comitato di conciliazione. Sono poi previste diverse procedure legislative speciali basate sulla partecipazione di entrambi gli organi legislativi. Inoltre, il PE dispone di un potere di iniziativa legislativa indiretta, esercitato tramite la Commissione, e risponde alle petizioni dei cittadini comunitari, nominando un Mediatore chiamato ad indagare sui casi di cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie, denunciati dagli stessi cittadini. Infine, il PE è titolare di poteri di controllo verso la Commissione, che si sostanziano nell'istituzione di commissioni temporanee d'inchiesta, nella presentazione di interrogazioni, ma, soprattutto, nel voto di fiducia iniziale sul presidente e sui membri della Commissione e nella possibilità di approvare una mozione di censura verso la stessa, che ne provoca le dimissioni; • La Corte di Giustizia è l'organo giurisdizionale comunitario che assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione ed applicazione del Trattato. È composta da tanti giudici quanti sono gli Stati membri ed ha il compito di giudicare sulle violazioni del diritto comunitario, commesse dagli Stati membri o dalle istituzioni europee, sulla legittimità degli atti normativi comunitari, e di interpretare il diritto comunitario in via pregiudiziale. La Corte è coadiuvata dal Tribunale di primo grado, titolare di competenze specifiche, le cui sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte stessa per motivi di solo diritto; • La Corte dei Conti è l’organo di controllo contabile della Comunità che esamina le entrate e le spese della stessa e degli organi da essa creati; L’EVOLUZIONE DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA Sin dall’origine i Trattati istitutivi della Comunità europea ponevano al centro degli obiettivi l’instaurazione di un mercato comune, un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Questo comportava l’adozione da parte della Comunità e degli Stati membri di una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche degli Stati membri, ispirata al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Il mercato unico è stato completato, a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, dalla creazione di una moneta unica, l’Euro, cui aderiscono 18 dei 27 Stati membri dell’UE, nonché dalla definizione e dalla conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, gestite direttamente dalle istituzioni comunitarie, il Sistema europeo di banche centrali (SEBC), indipendente sia dalle istituzioni nazionali che da quelle europee. Secondo il meccanismo introdotto con l Trattato di Maastricht e confermato dal Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE), la politica monetaria doveva essere condotta a livello sovranazionale dalla BCE, mentre le politiche di bilancio erano di competenza dei singoli Stati. Tale meccanismo, però, non è riuscito ad imporre la riduzione del debito pubblico e del disavanzo di bilancio in modo da assicurare il rispetto dei parametri di Maastricht. Pertanto, per affrontare la grave crisi delle finanze dell’Eurozona, sono state introdotte importanti riforme: • Il semestre europeo, che consiste in una procedura finalizzata al coordinamento preventivo delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri; • La nuova sorveglianza macroeconomica e finanziaria, introdotta con il cosiddetto six pack, ossia con un insieme di sei regolamenti comunitari, che ha modificato il Patto di stabilità e crescita; • Il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione europea, caratterizzato dall’introduzione del pareggio di bilancio e dall’individuazione di un percorso di riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL; • La creazione di un’Unione bancaria, diretta ad evitare i rischi di “contagio” tra il sistema finanziario privato e la finanza pubblica degli Stati. LA LIBERTÀ PERSONALE La libertà personale, espressa nell’articolo 13 Cost., nella sua accezione più ristretta e storica coincide con la libertà dagli arresti. Il nucleo fondamentale della libertà personale è, dunque, la libertà fisica, la disponibilità della propria persona. Solo lo Stato può limitare la libertà fisica delle persone. Nella prassi giurisprudenziale, l’ambito della nozione di libertà personale ha subito, però, un notevole ampliamento in quanto la garanzia dalla tutela dagli arresti si è estesa anche ad altre forme di limitazione fisica dell’individuo, quali la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale. Tuttavia, non tutte le limitazioni della libertà personale ricadono nel divieto di tale articolo: ne restano escluse quelle di lieve entità, di per sé incapaci di ledere la dignità personale e di costituire delle misure equivalenti all’assoggettamento dell’individuo all’altrui potere. Inoltre, in base a indizi sospetti che certi reati possano essere commessi in futuro, possono essere adottate delle misure di prevenzione come le misure cautelari (l’arresto domiciliare, la carcerazione preventiva, la sospensione da un pubblico ufficio) o le misure di sicurezza (il riformatorio, il ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario, la libertà vigilata). Gli strumenti di tutela della libertà personale sono i più forti che la Costituzione preveda per limitare ogni discrezionalità dell’autorità pubblica: la riserva assoluta di legge e la riserva di giurisdizione. Inoltre, l’articolo 111.7 Cost. prevede che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali che incidono sulla libertà personale sia sempre ammesso il ricordo davanti alla Corte di cassazione. L’articolo 13.3 Cost. prevede un’eccezione, anch’essa coperta da riserva di legge, per di più rinforzata. La riserva di legge di quest’articolo opera anche per l’individuazione del tipo di restrizione cui può essere sottoposta la libertà personale. Tuttavia, sono diversi i principi costituzionali che operano a questo proposito: • Il divieto di ogni violenza fisica o morale sulle persone sottoposte a restrizione (articolo 13.4 Cost.); • Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (articolo 27.3 Cost.); • L’esclusione assoluta della pena di morte (articolo 27.4 Cost.); • Il giudizio di ragionevolezza viene allargato anche alle misure delle pene, cioè alla proporzione, che deve sussistere, tra la gravità della pena e la gravità del reato. Inoltre, l’articolo 32.2 Cost. prevede la limitazione della libertà personale per finalità sanitarie, ossia il trattamento sanitario obbligatorio per il quale s’intende ogni tipo di attività diagnostica o terapeutica imposta all’individuo. Se il trattamento è rivolto alla ricerca della prova del reato o alla difesa sociale dalla commissione di reati futuri, si ricade nella tutela tipica dell’articolo 13 Cost. Se invece il trattamento è ispirato a finalità sanitarie, si considera la tutela specifica prevista dall’articolo 32 Cost. L’obbligo di sottoporsi a trattamento medico deve essere motivato esclusivamente da esigenze della tutela della salute pubblica, non della propria salute individuale. LA LIBERTÀ E L’INVIOLABILITÀ DEL DOMICILIO Secondo una definizione classica, il domicilio è la proiezione spaziale della persona. Il codice civile nell’articolo 43 fissa il domicilio di una persona nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Invece, secondo l’articolo 614 del codice penale, per domicilio si intende l’abitazione e ogni altro luogo di privata dimora, nonché le appartenenze di essi: chi violi il domicilio, ossia vi si introduce o vi si trattiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, incorre in una sanzione penale. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha esteso la nozione di domicilio al di là della nozione penalistica, includendovi qualsiasi spazio isolato dall’ambiente esterno di cui il privato disponga legittimamente, incluso il bagagliaio dell’automobile. Come la libertà personale, anche il domicilio è inviolabile (articolo 14.1 Cost.). Al domicilio si estendono le stesse garanzie previste per la libertà personale, ossia la riserva di legge assoluta e la riserva di giurisdizione per gli atti di ispezione, perquisizione e sequestro (art. 14.2 Cost.). Inoltre, la libertà di domicilio è garantita alle formazioni sociali, quali le società, le associazioni, ecc. Oltretutto, anche per il domicilio è prevista la facoltà della polizia di procedere, in casi eccezionali (flagranza di reato, in caso di evasione e per altri motivi d’urgenza), ad ispezione, perquisizione e sequestro senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, ma rispettando i termini di trasmissione e di convalida prescritti dall’articolo 13.3 Cost. Le ispezioni e gli accertamenti sono coperti da una riserva di legge rinforzata per contenuto (articolo 14.3 Cost.). L’autorità amministrativa può accedere nel domicilio per accertare lo stato dei luoghi o esaminare la documentazione ivi conservata, senza la previa autorizzazione del giudice. LA LIBERTÀ E LA SEGRETEZZA DELLA COMUNICAZIONE L’articolo 15 Cost. tutela la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione, a partire dalla corrispondenza. Tale libertà tutela l’espressione del proprio pensiero che è intenzionalmente non manifesta ma riservata: la segretezza è, quindi, l’elemento che caratterizza la comunicazione. La libertà e la segretezza sono assicurate dalla Costituzione a tutte le forme della comunicazione, sia essa veicolata attraverso le parole od altri segni, sia essa scritta od orale, sia essa trasmessa per posta, telefono o in via telematica: determinante perché vi sia la tutela della comunicazione è che lo strumento utilizzato sia idoneo a garantire la segretezza del messaggio. La libertà e la segretezza della corrispondenza sono tutelate attraverso il doppio meccanismo della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Per il sequestro della posta l’articolo 254 del codice di procedura penale richiede che esso sia disposto dall’autorità giudiziaria e che solo il giudice possa prendere cognizione del contenuto del materiale sequestrato: l’unico potere che ha la polizia in caso d’urgenza è di ordinare al servizio postale di sospendere l’inoltro della corrispondenza, ordine che perde efficacia se il Pubblico Ministero entro 48 ore non dispone il sequestro. Per le intercettazioni telefoniche il Pubblico Ministero deve chiedere l’autorizzazione al giudice che l’accorda soltanto quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini dell’indagine: comunque può essere disposta solo per un periodo limitato di 15 giorni, di volta in volta prorogabili. Ma se le intercettazioni sono state effettuate illecitamente il loro risultato non può essere utilizzato nel processo e la relativa documentazione deve essere distrutta. Il diritto alla riservatezza o diritto di privacy si fonda sui due perni della libertà di domicilio e la libertà di comunicazione: esso non trova uno specifico riconoscimento nella Costituzione, ma nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. L’oggetto di questa libertà è la sfera dell’intimità della persona, la tutela dei dati personali. pensiero e della fede. L'articolo 19 Cost. riguarda la libertà di culto mentre, invece, il diritto di agire secondo coscienza è implicito in tutti i diritti della libertà ed incontra i limiti posti dalle leggi. La libertà di coscienza e la libertà religiosa sono tutelate attraverso una serie di strumenti: • Il divieto di discriminazione: le distinzioni per religione e per opinioni politiche sono vietate dal nucleo duro del principio di uguaglianza. Le opinioni religiose appartengono ai cosiddetti “dati sensibili” il cui trattamento è sottoposto a controlli severissimi da parte del Garante della privacy; • L'eguaglianza tra le confessioni religiose: dopo la riforma del Concordato, si è riconosciuto nell’articolo 8.1 Cost. il principio di eguaglianza di trattamento tra le religioni, anche quelle in minoranza. Le stesse “intese” con le confessioni non cattoliche hanno esteso ad altre religioni molti privilegi di carattere fiscale, finanziario, pastorale; • La libertà di culto: ognuno ha il diritto di professare liberamente la propria fede. La libertà di culto si estende a tutte le attività generalmente collegate ad esso. L’aspetto “negativo” della libertà si manifesta su due diversi versanti: da un lato la libertà a non svolgere alcuna attività di culto, dall’altro la tutela della libertà di coloro che non professano alcuna fede religiosa (gli atei). L'unico limite che incontra tale libertà è il buon costume, un concetto indefinito che assume un’ampiezza diversa di significati; • L’obiezione di coscienza: è il rifiuto da parte dell'individuo di compiere atti, prescritti dall'ordinamento, ma contrari alle proprie convinzioni. Lo stesso ordinamento, in alcuni casi, prevede il diritto di obiettare. LA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO La libertà di manifestazione del pensiero, definita anche come libertà di espressione, consiste nella libertà di esprimere le proprie idee e divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari. Nessuna selezione può essere compiuta tra le idee quanto a scopi, contenuti e circostanze: tutte possono essere sottoposte liberamente, trovando nell'articolo 21 Cost. la loro garanzia. L'unico limite che tale articolo pone alla libertà di espressione è il buon costume che viene riferito alla morale sessuale: proprio per questo, il buon costume è legato all’evoluzione dei costumi. La Corte costituzionale ha fatto salve diverse fattispecie penali, ritenendo che sia punibile l’espressione del pensiero quando essa sia idonea a determinare un’azione pericolosa per la sicurezza pubblica (l’istigazione, l’apologia di reato, la pubblicazione di notizie false o tendenziose). Inoltre, ha fatto salve le fattispecie di reato a protezione del sentimento religioso e del prestigio delle istituzioni (il vilipendio, l’oltraggio) ed anche l’ingiuria e la diffamazione. È lasciata al giudice la valutazione del caso concreto, e, in particolare, la considerazione se il pensiero espresso costituisca una forma di critica, magari dura e “colorita” od abbia i caratteri dell’insulto od un motto di scherno. La libertà di espressione è garantita a tutti (articolo 21.1 Cost.). Il problema è che i mezzi di diffusione del pensiero più efficaci non sono disponibili per tutti, sia per via di fattori fisici che per fattori economici (le frequenze televisive). Dunque, la libertà di manifestazione del pensiero s’intreccia, quando entrano in gioco i mezzi di comunicazione di massa, con la libertà di iniziativa economica. La libertà di espressione e la libertà di informazione sono strettamente legate tra di loro: manifestare il proprio pensiero significa essere liberi di poter informare e di essere informati (profilo attivo e profilo passivo). È per questo che la Corte costituzionale ha imposto un sistema d’informazione qualificato e caratterizzato dal pluralismo delle fonti da cui attingere le conoscenze e le notizie. A tutela di tale principio è nata la legislazione antitrust, garantita oggi dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), che ha cercato di porre sotto controllo i trasferimenti di proprietà delle imprese giornalistiche e radiotelevisive, per renderli trasparenti ed evitare le concentrazioni e la formazione di posizioni dominanti. Data l’epoca in cui è stata scritta, la Costituzione disciplina esplicitamente solo la stampa. Il regime della stampa è caratterizzato dal divieto di sottoporre la stampa a controlli preventivi, cioè di introdurre delle autorizzazioni o censure (articolo 21.2 Cost.), in modo da impedire la pubblicazione e la diffusione del pensiero. È ammesso invece il sequestro, ossia un provvedimento di ritiro della stampa successivo alla sua pubblicazione, pur vincolato da garanzie molto rigide: • Una riserva di legge assoluta (articolo 21.3 Cost.): la legge sulla stampa consente il sequestro per apologia del fascismo e per la salvaguardia del buon costume. Inoltre, la stampa è libera ma non può essere anonima perché altrimenti si impedirebbe a chi si sentisse danneggiato dalle notizie pubblicate di far valere la responsabilità dell’autore di esse. Perciò, bisogna indicare il direttore responsabile che ne risponde penalmente e provvede ad un controllo; • Una riserva di giurisdizione: valgono per il sequestro della stampa le norme analoghe a quelle che disciplinano la libertà personale (articolo 21.3-21.4 Cost.). In assenza di regole costituzionali specifiche, è stato quindi compito della Corte costituzionale elaborare i principi che devono ispirare la disciplina della radiotelevisione, determinando il numero massimo di concessioni, i limiti quantitativi per la concentrazione tra imprese televisive ed imprese editoriali e tra imprese televisive e concessionarie di pubblicità. Inoltre, è stato su sollecitazione della giurisprudenza costituzionale che il sistema radiotelevisivo è passato dal regime di monopolio pubblico al sistema misto attuale. I DIRITTI DELLA SFERA ECONOMICA I diritti nella sfera economica sono quelli compresi dalla Costituzione economica, cioè dal Titolo III della Parte I della Costituzione. In esso vengono dettati i principi in materia di lavoro (articoli 35-36-37-38-46 Cost.), di organizzazione sindacale e di sciopero (articoli 39-40 Cost.) e di impresa e di proprietà (articoli 41-42-43-44 Cost.). LA LIBERTÀ DI ORGANIZZAZIONE SINDACALE E IL DIRITTO DI SCIOPERO L’articolo 39 Cost. non è mai stato applicato, salvo il primo comma che sancisce la libertà di organizzazione sindacale. Essendo tale organizzazione una specie del genere di quello delle associazioni, composta dai lavoratori che appartengono alla stessa categoria, sarebbe bastata la tutela generale prevista dall’articolo 18 Cost. Il fatto è che la Costituzione prefigura un modello specifico di organizzazione sindacale: è il sindacato che, a condizione di avere un ordinamento interno di tipo democratico, viene registrato, acquista la personalità giuridica e, soprattutto, può entrare in rappresentanze unitarie che stipulano contratti collettivi di lavoro con efficacia normativa, perché vincolano tutti gli appartenenti alla categoria. Ma i sindacati hanno sempre rifiutato di attuare questa norma: per cui sono rimaste delle semplici associazioni di diritto privato ed i contratti che essi stipulano non sono fonti dell’ordinamento generale, ma hanno valore vincolante solo per i soggetti che lo hanno stipulato e per i loro iscritti. Lo sciopero è la sospensione collettiva temporanea delle prestazioni di lavoro rivolta alla tutela di un interesse dei lavoratori: è un diritto nel senso che chi sciopera non può subire conseguenze negative sul piano penale, civile o disciplinare, a parte la sospensione della retribuzione. Lo sciopero tutelato dall'articolo 40 Cost. è però solo quello che i lavoratori dipendenti attuano per interessi, anche non economici, di categoria, non anche quello politico o quello attuato dai datori di lavoro (la “serrata”) o dai liberi professionisti: tuttavia, anche queste manifestazioni sono libere e garantite dalle altre libertà (di riunione, di associazione, di espressione) riconosciute dalla Costituzione. Tale articolo rinvia alle leggi la regolazione ed i limiti del diritto di sciopero. Ma anche questa disposizione non è stata attuata, perché non si è mai approvata una disciplina generale del diritto di sciopero: esiste solo la disciplina del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali (la sanità, la giustizia, i trasporti pubblici) nei quali devono comunque essere garantite le prestazioni indispensabili. LA LIBERTÀ DI INIZIATIVA ECONOMICA PRIVATA L'articolo 41 Cost. sancisce la libertà di iniziativa economica privata ed è apparso come la chiave di svolta della Costituzione economica poiché pone un principio di bilanciamento tra l’iniziativa economica privata e l’interesse collettivo (articolo 41.2 Cost.). Inoltre, l'articolo 41.3 Cost. della Costituzione sembrava porre l'esigenza di equilibrare l'iniziativa economica con i principi della pianificazione pubblica dell'economia. In sostanza, in tale articolo sembrava scorgersi l'ambiguità di un compromesso tra l'ideologia penalista e quella socialista. È stata soprattutto l’espansione dell’UE a rendere obsoleti tali temi: l’affermazione dei principi della libera circolazione dei capitali, delle merci e dei lavoratori, le regole di concorrenza che dominano il mercato, il divieto di aiuti pubblici alle imprese, hanno portato l’economia lontano dalle prospettive della pianificazione vincolante e del dirigismo pubblico dell’economica. La scelta comunitaria, invece, è quell’opposta, di una semplice regolazione del mercato per garantirvi la concorrenza ed impedire il costituirsi di posizioni dominanti che falsino la concorrenza stessa. È in questa prospettiva che si colloca anche l’istituzione dell’Autorità antitrust, quale garante, indipendente dagli organi di governo, della concorrenza e del mercato. Inoltre, l’articolo 43 Cost. consente la “nazionalizzazione” (Enel) o, addirittura, la “collettivizzazione” di determinate imprese o categorie di imprese. Dunque, prevede una riserva di legge rinforzata per contenuto. La tendenza, su sollecitazione dell’UE, è verso la privatizzazione delle imprese pubbliche e, soprattutto, verso il superamento dei monopoli pubblici: per cui tale articolo è destinato ad avere un’applicazione marginale. LA PROPRIETÀ NELLA COSTITUZIONE L’articolo 42 Cost. è il frutto di un compromesso tra l’ideologia capitalista e quella socialista: esso, infatti, ammette la proprietà privata solo se e in quanto compatibile con la “funzione sociale”. La proprietà privata è un diritto reale che ha per contenuto la facoltà di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo: indica quindi l'appartenenza di un bene a un soggetto. Per quanto riguarda i limiti, la riserva di legge rinvia al legislatore di trovare i punti di equilibrio tra la proprietà privata e gli interessi generali. L’articolo 42.3 Cost. prevede la possibilità di espropriazione della proprietà privata. Essa consiste nella manifestazione della prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato: il diritto soggettivo di proprietà degrada in puro interesse legittimo e al proprietario rimane solo il diritto a un’indennità per il bene espropriato che non lo risarcisce se non in parte della perdita economica subita. I BENI PUBBLICI La proprietà, avente ad oggetto beni mobili od immobili, può avere natura pubblica o privata, così come disciplinato dall’articolo 42 Cost. I beni appartenenti al patrimonio dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Il demanio pubblico (il lido del mare, la spiaggia, i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia) riguarda quei beni inalienabili che non possono formare oggetto di diritto a favore di terzi, se non nei casi espressamente previsti dalla legge. Nell’ipotesi in cui tali beni cessino la loro destinazione ad uso pubblico, passano direttamente nel patrimonio dello Stato. L’inizio e la cessazione della demanialità muta a seconda che si faccia riferimento a beni naturali o beni pubblici artificiali: • Per i beni naturali l’inizio della demanialità si colloca al momento della loro venuta ad esistenza. Di conseguenza, assume un valore meramente dichiarativo l’atto con cui la PA Individua e classifica tale tipologia di beni; • Per i beni del demanio artificiale non è sufficiente la loro venuta ad esistenza ma occorre un valore ulteriore che consiste nella destinazione del bene all’uso pubblico. La cessazione della demanialità viene dichiarata dalla PA e il relativo atto deve essere oggetto di pubblicità. I beni patrimoniali si distinguono in beni mobili e immobili e beni disponibili e indisponibili. Relativamente ai beni mobili, per la loro natura o determinazione di legge, sono disciplinati dagli articoli 812 e seguenti del codice civile. Vanno ricompresi anche i materiali per i servizi pubblici. Si definiscono indisponibili quei beni che per loro stessa destinazione ad un servizio pubblico e governativo non possono essere alienati o comunque sottratti dal patrimonio dello Stato. Ne fanno parte I partiti che ottengono la maggioranza alle elezioni formano il Governo e ne designano i ministri: inoltre, hanno la possibilità di nominare uomini di loro fiducia in incarichi pubblici di varie nature. L'indirizzo politico dello Stato viene formulato dai partiti di maggioranza, attraverso un confronto con i partiti di opposizione delle assemblee elettive. Nella storia europea i partiti nacquero con il primo Stato rappresentativo formatosi in Inghilterra intorno al 1688. Essi non erano ancora dei partiti al mondo del moderno senso della parola in quanto avevano scarsi contatti con la società ed esprimevano diversi orientamenti all'interno di una stessa classe sociale. Questi partiti vengono definiti notabili perché si formano attorno alle figure di importanti esponenti del mondo politico senza basi di massa. I partiti politici erano presenti anche nello Stato liberale, ma erano ristretti gruppi di persone, legati da una grande omogeneità economica e culturale. Essi agivano soprattutto dentro il Parlamento mentre al di fuori di esso si riducevano a comitati o circoli di opinione costruiti attorno alle personalità di alcuni notabili. In regime di suffragio limitato, per essere eletti erano sufficienti i voti di poche centinaia di elettori, che spesso conoscevano personalmente il candidato. I DOVERI COSTITUZIONALI La Costituzione contiene vari riferimenti ai doveri dei cittadini, ma perlopiù si tratta di principi non facilmente traducibili in regole di comportamento. Difatti, i doveri posti dagli articoli 2-4.2 Cost. non impediscono di certo a nessuno di vivere di rendita sperperando le proprie ricchezze in egoistiche dissolutezze. Inoltre, difficile è l’interpretazione del “dovere di fedeltà alla Repubblica” previsto dall’articolo 54.1 Cost. Tale dovere esprime il suo significato normativo espressamente nei confronti di chi assume cariche pubbliche, mentre per la generalità dei cittadini si risolve nell’obbligo di rispettare la Costituzione e le leggi. Per questo, i doveri costituzionali si riducono principalmente a due: • Il “sacro” dovere di difesa della patria (articolo 52.1 Cost.): a tale dovere corrisponde essenzialmente l’obbligo del servizio militare (sospeso dal 2005), anche se i riflessi del dovere di difesa possono toccare, in caso di guerra, tutti i cittadini, non solo i militari; • Il dovere di pagare le tasse (articolo 53.1 Cost.): a tale dovere corrisponde l’obbligo per lo Stato di costruire un sistema tributario “informato ai criteri di progressività” (articolo 53.2 Cost.). La regola che proporziona i tributi alla capacità contributiva rispecchia il principio di eguaglianza formale, mentre la regola della progressività è ispirata da esigenze di eguaglianza sostanziale. LE FORME DI STATO IN GENERALE Con l’espressione forma di Stato si intende il rapporto che corre tra le autorità di potestà d’imperio e la società civile, nonché l’insieme dei principi e dei valori a cui lo Stato ispira la sua azione. La nozione di “forma di Stato” si riferisce, dunque, al modo in cui si strutturano i rapporti tra lo Stato e la società, tra i governanti ed i governati: al variare di tali rapporti corrispondono finalità diverse perseguite dallo Stato nell’esercizio delle sue funzioni. Lo Stato assoluto è la prima forma dello Stato moderno: nacque in Europa tra il 400 ed il 500 e si è affermato nei due secoli successivi. Nello Stato assoluto il potere sovrano era concentrato nelle mani della Corona, titolare della funzione legislativa ed esecutiva, mentre il potere giudiziario era esercitato da Corti e Tribunali formati da giudici nominati dal Re. La volontà del Re era considerata la fonte primaria del diritto: ciò che egli voleva aveva efficacia di legge. Il suo potere non incontrava limiti legali né poteva essere condizionato dai desideri dei sudditi. Lo Stato liberale è una forma di Stato che nasce tra la fine del 700 e la prima metà dell’800, a seguito della crisi dello Stato assoluto, dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e dell’affermazione della borghesia. Il modello dello Stato liberale è caratterizzato da una finalità politico costituzionale garantistica, dalla concezione dello Stato minimo, dal principio di libertà individuale, dalla separazione dei poteri, dal principio di legalità e dal principio rappresentativo. Lo Stato di democrazia pluralista si afferma a seguito di un lungo processo di trasformazione dello Stato liberale che porta all’allargamento della sua base sociale. Per cui lo Stato monoclasse si trasforma in uno Stato pluriclasse: esso si fonda sul riconoscimento e la garanzia della pluralità dei gruppi sociali, degli interessi, delle idee, dei valori che possono confrontarsi nella società ed esprimere la loro voce nei Parlamenti. Perciò, sul piano storico, l’elemento fondamentale dello Stato di democrazia pluralista è l’allargamento dell’elettorato attivo che è culminato nel suffragio universale. Invece, nei Paesi in cui l’avvento della democrazia di massa non era stato accompagnato dall’accettazione del pluralismo e della tolleranza da parte delle forze politiche, la crisi sfociò nell’affermazione di forme di Stato basate sulla negazione del pluralismo e sull’identificazione del partito unico con lo Stato. In Italia e in Germania vi fu la soppressione del pluralismo politico e nell’unificazione politica della società attraverso lo Stato totalitario: lo Stato fascista in Italia guidato da Mussolini dal 1922 al 1943 e lo Stato nazionalsocialista o nazista in Germania capeggiato da Hitler dal 1933 al 1945. LE FORME DI GOVERNO IN GENERALE Per forme di Governo s’intendono i modi in cui il potere d’imperio è distribuito tra gli organi principali di uno Stato, ovvero le relazioni sussistenti tra gli organi costituzionali di indirizzo politico. La Monarchia costituzionale è la forma di governo che si afferma nel passaggio dallo Stato assoluto allo Stato liberale. Nell'Europa continentale si afferma dopo la rivoluzione francese del 1789 e trova espressa disciplina nelle prime costituzioni liberali tra cui lo Statuto Albertino del 1848. La monarchia costituzionale si caratterizza per la netta separazione dei poteri tra il Re ed il Parlamento, titolari rispettivamente del potere esecutivo e del potere legislativo. Il Re restava comunque titolare di prerogative che scaturivano dalla sua collocazione al vertice dello Stato, che gli consentivano di partecipare all'esercizio della funzione legislativa, attraverso la sanzione delle leggi approvate dal Parlamento, e di quella giurisdizionale, attraverso la nomina dei giudici ed il potere di concedere grazie e commutare pene. Inoltre, il monarca aveva il potere di nominare i ministri, che erano suoi diretti collaboratori, nonché il potere di sciogliere anticipatamente la Camera elettiva del Parlamento. La monarchia costituzionale si basava perciò sull'equilibrio che si veniva a creare tra due centri di potere, ciascuno dei quali si basava su un diverso principio di legittimazione politica e sull’appoggio di differenti classi sociali: il Re sul principio monarchico-ereditario mentre il Parlamento sul principio elettivo. La forma di governo parlamentare si caratterizza per l'esistenza di un rapporto di fiducia tra il Governo ed il Parlamento: il primo costituisce emanazione permanente per il secondo, il quale può costringerlo alle dimissioni votandogli contro la sfiducia. Se il Parlamento è bicamerale, occorre distinguere i sistemi costituzionali in cui la fiducia può essere votata da ciascuna Camera (Italia), da quelli in cui il rapporto di fiducia intercorre con una sola Camera, la "Camera politica” (Germania). Tale forma di governo si è affermata nello Stato liberale attraverso un lento processo storico ed ha conosciuto fasi distinte. Il sistema parlamentare delle origini era un parlamentarismo dualista, dove il potere esecutivo era ripartito tra il Capo dello Stato e il Governo: il Governo doveva avere una doppia fiducia, quella del Re e quella del Parlamento e, a garanzia dell'equilibrio tra il potere esecutivo ed il potere legislativo, al Capo dello Stato era riconosciuto il potere di scioglimento anticipato del Parlamento, che fungeva da contrappeso alla responsabilità politica del Governo. Invece, la seconda fase ha visto l'affermazione del parlamentarismo monista, in cui il Governo ha un rapporto di fiducia esclusivamente con il Parlamento ed il Capo dello Stato è relegato in un ruolo di garanzia e, perciò, assolutamente estraneo al circuito di decisione politica. Dall’esigenza di contrastare un’eccessiva instabilità e debolezza manifestata dal Parlamento ed identificata come una delle cause del totalitarismo europeo, ha preso corpo in Europa soprattutto nel secondo dopoguerra la tendenza alla razionalizzazione del parlamentarismo, cioè a tradurre in disposizioni costituzionali scritte le regole sul funzionamento del sistema parlamentare, il cui obiettivo prevalente è quello di garantire la stabilità del Governo e la sua capacità di realizzare l'indirizzo politico prescelto, nell'ambito di un sistema costituzionale che comunque tutela le minoranze politiche. La forma di governo italiana, delineata dalla Costituzione, è una forma di governo parlamentare a debole razionalizzazione, in cui cioè sono previsti solo limitati interventi del diritto costituzionale per assicurare la stabilità del rapporto di fiducia e la capacità di direzione politica del Governo. La razionalizzazione costituzionale del rapporto di fiducia (articolo 94 Cost.) è diretta a garantire la stabilità del Governo. La forma di governo presidenziale è quella in cui il Capo dello Stato è eletto dall'intero corpo elettorale nazionale, non può essere sfiduciato da un voto parlamentare durante il suo mandato, che ha una durata prestabilita e presiede e dirige i Governi da lui nominati. Questo è il caso degli Stati Uniti d'America, dove il Presidente ed il Vicepresidente sono eletti per un mandato di quattro anni, attraverso una procedura che solo formalmente è a doppio grado: infatti, l'elettore, nell'ambito di ciascuno Stato, formalmente vota per l'elettore presidenziale, mentre in realtà esprime la sua preferenza per il candidato alla Presidenza, già in precedenza individuato, attraverso apposite convenzioni nazionali, dai rispettivi partiti. Il Presidente degli Stati Uniti d'America gode della forte legittimazione politica che deriva dall'investitura popolare diretta e, in quanto capo dell’esecutivo, ha alle sue dipendenze l’amministrazione dello Stato federale. Inoltre, nomina i suoi collaboratori (i segretari di Stato), che non possono essere membri del Parlamento, i quali quando sono riuniti formano il cosiddetto Gabinetto, privo di qualsiasi rapporto con il Parlamento. Di fronte al Presidente vi è il Parlamento, che prende il nome di Congresso ed ha struttura bicamerale. Le due camere sono il Senato, formato da due rappresentanti per ogni Stato membro, rinnovati parzialmente ogni due anni, e la Camera dei rappresentanti, formata su base nazionale, in modo proporzionale alla popolazione degli Stati, da deputati con mandato biennale. Il Congresso è titolare del potere legislativo, approva il bilancio annuale, può mettere in stato d'accusa (impeachment) il Presidente per tradimento, corruzione o altri gravi reati. La forma di Governo semipresidenziale si caratterizza per un Capo dello Stato (chiamato Presidente) eletto direttamente dal corpo elettorale dell'intera nazione che dura in carica per un periodo prestabilito, per un Presidente indipendente dal Parlamento, perché non ha bisogno della sua fiducia, anche se non può governare da solo, ma deve servirsi di un Governo, da lui nominato, e per un Governo che deve avere la fiducia del Parlamento. Perciò, in tale sistema c'è una struttura diarchica o bicefala del potere di Governo, che, infatti, ha due teste: il Presidente della Repubblica ed il Primo ministro. Nelle forme di governo semipresidenziali a Presidente forte, il Presidente gode di importanti poteri, molti dei quali possono essere esercitati senza bisogno della controfirma del Governo. In particolare, egli nomina il Primo ministro e, su proposta di quest’ultimo, nomina e revoca i ministri, sottopone a referendum ogni progetto di legge concernente l’organizzazione dei pubblici poteri, può sciogliere l’Assemblea nazionale, può deferire al Consiglio costituzionale una legge prima della sua promulgazione, affinché questo organo controlli la legittimità costituzionale di essa. Nelle forme di governo semipresidenziali a prevalenza del Governo, invece, il ruolo del Presidente si riduce a quello di garanzia. LA RAPPRESENTANZA POLITICA Nella nozione di rappresentanza politica confluiscono due significati: • Da una parte, rappresentanza significa “agire per conto di” e perciò esprime un rapporto tra rappresentante e rappresentato, per cui il secondo, sulla base di un atto di volontà chiamato mandato, dà al primo il potere di agire nel suo interesse, con l’osservanza dei limiti e delle istruzioni stabilite col mandato; • Dall'altra parte, rappresentanza significa che qualcuno fa vivere in un determinato ambito qualche cosa che effettivamente non c'è. A tal proposito, la dottrina tedesca preferisce usare il vocabolo rappresentazione. Secondo questa accezione, la rappresentanza non presuppone l'esistenza di un rapporto tra il rappresentato ed il rappresentante, il quale dispone invece di una situazione di potere autonoma rispetto al primo. L'accezione moderna della rappresentanza politica, nata con la rivoluzione francese, è proprio quest’ultima. Invece, il primo significato risale alla particolare struttura dei parlamenti medievali, che sopravvissero all'assolutismo. Come nella rappresentanza del diritto privato, c'erano tre soggetti: il rappresentante ed il rappresentato, tra cui si instaurava uno specifico rapporto, e poi c'era un soggetto terzo, il Re, davanti al quale i rappresentanti prospettavano gli interessi e la volontà delle comunità che li avevano designati. Per indicare tale specie di rappresentanza si è usata l'espressione rappresentanza di interessi. Questa figura comporta, pertanto, che il rappresentante sia tenuto ad agire nell'interesse del soggetto rappresentato, con cui corre un rapporto basato su un mandato imperativo. Lo Stato liberale ha introdotto una nozione profondamente diversa di rappresentanza. La società liberale, infatti, ha cancellato i “corpi intermedi” e giuridicamente si è presentata come formata da singoli individui eguali davanti alla legge. La rappresentanza politica, quindi, doveva essere un mezzo tecnico attraverso cui si formava un'istituzione che doveva agire nell'interesse generale. Le formule elettorali proporzionali più utilizzate sono il metodo d’Hondt o delle divisioni successive ed il metodo del quoziente. Un sistema maggioritario ha un effetto selettivo, nel senso che l'accesso alle aule parlamentari viene consentito esclusivamente a chi ottiene più voti nei collegi, e quindi solamente alle forze politiche maggiori. Invece, tutte le forze minori che non raggiungono la maggioranza nei singoli collegi, non avranno rappresentanza parlamentare, salvo che queste non stringano un patto elettorale con quelle maggiori. Inoltre, questo sistema garantisce una certa stabilità politica e di governo. Viceversa, i sistemi proporzionali garantiscono l'accesso in Parlamento anche alle minoranze politiche, sicché si può dire che essi hanno un effetto proiettivo. Il voto diventa così l'espressione della volontà dell'elettorato: tuttavia, l'eccessiva frammentazione del voto rende difficile governare in quanto sarà difficile mettere d'accordo le innumerevoli forze politiche rappresentate. Perciò, in alcuni sistemi, pur in presenza di formule proporzionali, un certo grado di selettività è dato dalla presenza di una clausola di sbarramento, in virtù della quale possono accedere alla ripartizione dei seggi solamente le liste che a livello nazionale abbiano conseguito una percentuale significativa di voti, con la conseguenza di escludere i partiti più piccoli. Un altro modo di coniugare formule proporzionali ed effetto selettivo consiste nella previsione di un premio di maggioranza, per cui le coalizioni che superino una certa percentuale di voti hanno attribuiti in premio un certo numero di seggi. IL SISTEMA ELETTORALE ITALIANO Il sistema elettorale italiano è l'insieme delle regole con cui, sulla base dei voti espressi dai cittadini italiani durante le elezioni, sono assegnati i seggi all'interno degli organi politico-istituzionali locali, nazionali ed europei. La situazione è articolata e differenziata a seconda delle varie categorie di votazione previste dall'ordinamento politico italiano: • Le elezioni politiche, in occasione delle quali si vota per l'elezione dei 630 componenti della Camera dei deputati e dei 315 membri elettivi del Senato della Repubblica; • Le elezioni europee, in occasione delle quali si vota per l'elezione dei 76 membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia; • Le elezioni regionali, in occasione delle quali si vota per l'elezione del presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale; • Le elezioni amministrative, in occasione delle quali si vota per l'elezione del sindaco e del Consiglio comunale. LA STORIA DEL SISTEMA ELETTORALE ITALIANO Sino al 1993 in Italia le due Camere del Parlamento erano elette con un sistema proporzionale, che assicurava a tutte le forze politiche garanzie di sopravvivenza, evitava la concentrazione di troppo potere nelle forze maggioritarie ed incentivava la ricerca dell’accordo e della mediazione. Le trasformazioni della società italiana hanno prodotto una spinta verso una democrazia maggioritaria. Questa spinta ha avuto il momento di più alta tensione politica con il referendum elettorale del 1993 (legge Mattarella) che riguardava l’abrogazione di alcune norme della legge elettorale del Senato, mediante il quale il corpo elettorale esprimeva un chiarissimo indirizzo politico a favore di una trasformazione maggioritaria del sistema elettorale. Ma, a causa di dissidi interni ai partiti tradizionali della democrazia italiana, il Parlamento incontrò grosse difficoltà nell’approvare la riforma elettorale. Si preferì, pertanto, “fotografare” il risultato del referendum elettorale con due leggi: queste hanno previsto, per l’elezione sia della Camera dei deputati che del Senato, un sistema misto, prevalentemente maggioritario, in cui il 75% del totale dei seggi viene attribuito in collegi uninominali con il maggioritario a turno unico, mentre il restante 25% è ripartito con metodo proporzionale. Tuttavia, nel 2005 è stato introdotto un sistema elettorale proporzionale (legge 270/2005), ribattezzata come “Porcellum”, il quale si caratterizzava per la lista bloccata, per cui l’elettore vota per una delle liste in competizione ma non può esprimere alcuna preferenza per i candidati, per la preventiva indicazione del capo della coalizione, per la clausola di sbarramento ed il premio di maggioranza, diretto a garantire che comunque la coalizione o la lista singola più votata abbia la maggioranza in Parlamento. La Corte costituzionale, con la sentenza 1/2014, ha dichiarato illegittimo l’eccessivo premio di maggioranza assegnato per l’elezione della Camera dei deputati e garantito, per l’elezione del Senato, in ciascuna circoscrizione regionale, in misura pari al 55% dei seggi assegnati alla circoscrizione ed ha dichiarato illegittimo la mancata previsione del voto di preferenza. A seguito della sentenza, è stata approvata nel 2015 una nuova legge elettorale denominata Italicum. La legge 52/2015 prevedeva un sistema proporzionale, con premio di maggioranza (di entità minore di quello precedente), clausola di sbarramento e voto di preferenza. La legge, quindi, riprendeva dai sistemi precedenti l’obiettivo di assicurare una maggioranza parlamentare individuata immediatamente dal risultato elettorale. Però, anche questa legge elettorale è stata oggetto nel 2017 di una sentenza della Corte costituzionale che ha rigettato la questione di costituzionalità relativa alla previsione di un premio di maggioranza al primo turno, accolto le questioni relative al turno di ballottaggio dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che lo prevedevano ed accolto la questione relativa alla disposizione che consentiva al capo lista eletto in più collegi di scegliere a propria discrezione il proprio collegio d’elezione facendo sopravvivere il criterio residuale del sorteggio. L’ATTUALE SISTEMA ELETTORALE ITALIANO Attualmente la legge elettorale della Repubblica Italiana che disciplina l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica è la legge Rosato 165/2017, nota come Rosatellum. L'impianto della legge, identico a meno di dettagli alla Camera e al Senato, si configura come un sistema elettorale misto a separazione completa. Per entrambe le camere: • Il 37% dei seggi (232 alla Camera e 116 al Senato) è assegnato con un sistema maggioritario a turno unico in altrettanti collegi uninominali: in ciascun collegio è eletto il candidato più votato, secondo il sistema noto come uninominale secco; • il 61% dei seggi (rispettivamente 386 e 193) è ripartito proporzionalmente tra le coalizioni e le singole liste che abbiano superato le previste soglie di sbarramento nazionali. La ripartizione dei seggi è effettuata a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato. A tale scopo sono istituiti collegi plurinominali nei quali le liste si presentano sotto forma di listini bloccati di candidati; • il 2% dei seggi (12 deputati e 6 senatori) è destinato al voto degli italiani residenti all'estero e viene assegnato con un sistema proporzionale che prevede il voto di preferenza. La legge elettorale prevede che ogni lista presenti un proprio programma e dichiari un proprio capo politico nonché, eventualmente, l'apparentamento con una o più liste al fine di creare coalizioni: l'esistenza di una coalizione, che è unica a livello nazionale, vincola le liste coalizzate a presentare un solo candidato in ciascun collegio uninominale. Sono previste diverse soglie di sbarramento, ossia percentuali di voti al di sotto delle quali non si viene ammessi alla ripartizione dei seggi nei collegi plurinominali: • 3% dei voti ottenuti a livello nazionale: valida per le liste singole; • 20% dei voti ottenuti a livello regionale: valida, alternativamente e solo al Senato, per le liste singole; • 20% dei voti ottenuti a livello regionale o elezione di due candidati nei collegi uninominali: valida, alternativamente, per le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute presentate esclusivamente nelle Regioni a statuto speciale in cui sia prevista una particolare tutela di tali minoranze; • 10% dei voti ottenuti a livello nazionale: valida per le coalizioni, purché comprendano almeno una lista che abbia superato una delle altre tre soglie previste. Alla determinazione della cifra elettorale di coalizione non concorrono i voti espressi a favore delle liste collegate che non abbiano conseguito almeno l'1% dei voti a livello nazionale, oppure, solo per quanto riguarda il Senato, il 20% a livello regionale, oppure ancora, solo per quanto riguarda le liste rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute presentate esclusivamente nelle regioni a statuto speciale in cui sia prevista una particolare tutela di tali minoranze, il 20% a livello regionale o l'elezione di due candidati nei collegi uninominali. Le liste collegate in una coalizione che non raggiunga la soglia del 10% sono comunque ammesse al riparto dei seggi qualora abbiano superato, a seconda dei casi, almeno una delle altre soglie previste. La legge stabilisce una suddivisione del territorio nazionale in 20 circoscrizioni per il Senato della Repubblica (coincidenti con le Regioni) e 28 circoscrizioni per la Camera dei deputati. Per alcune circoscrizioni il territorio coincide con quello dell'intera Regione, mentre per altre il territorio regionale è ripartito in più circoscrizioni (2 in Piemonte, 4 in Lombardia, 2 in Veneto, 2 in Lazio, 2 in Campania, 2 in Sicilia). Restano invece invariate le quattro ripartizioni della circoscrizione Estero. LE ELEZIONI DEL PARLAMENTO EUROPEO Le elezioni del Parlamento europeo sono svolte, a partire dal 1979, sulla base di leggi elettorali diverse per ciascuno Stato. In Italia la materia è regolata dalla legge 18/1978, modificata dalla legge 10/2009 che ha introdotto una soglia di sbarramento del 4%. I seggi attribuiti in Italia sono attualmente 76, in seguito alla Brexit, ed essi sono ripartiti nell’ambito di cinque circoscrizioni plurinominali in cui è stato diviso il territorio nazionale: Italia nord-occidentale, Italia nord-orientale, Italia centrale, Italia meridionale, Italia insulare. Ai fini della loro ripartizione fra le liste concorrenti si opera nel seguente modo: • Si calcola il quoziente elettorale nazionale, ottenuto dividendo il totale dei voti validi ottenuto dalle liste ammesse alla ripartizione dei seggi per il numero dei seggi da assegnare; • Si divide la cifra elettorale di ciascuna lista ammessa, pari al totale dei voti validi ottenuti, per il quoziente elettorale; • Il risultato di quest’ultima divisione indica il numero dei seggi che spetta a ciascuna lista; • I seggi che eventualmente rimangono ancora da attribuire sono rispettivamente assegnati alle liste per le quali le ultime divisioni hanno dato maggiori resti e, in caso di parità dei resti, a quelle liste che abbiano avuto la maggiore cifra elettorale nazionale. Poi si passa alla fase successiva che consiste nell’assegnazione dei seggi, già attribuiti alle diverse liste, alle diverse circoscrizioni. A questo scopo si opera nel seguente modo: • Si calcola il quoziente elettorale di lista, che è ottenuto dividendo la cifra elettorale nazionale di lista per il numero dei seggi ad essa assegnati; • Si calcola la cifra circoscrizionale di lista, che è eguale al numero dei voti validi ottenuti da ciascuna lista nelle singole circoscrizioni elettorali; • Si divide la cifra circoscrizionale di lista per il quoziente elettorale di lista e si ottiene il numero dei seggi attribuiti a quella lista nella singola circoscrizione; • Ove alcuni seggi non risultino assegnati, si applica il metodo dei più alti resti. Per quanto riguarda tali elezioni, la legge affida le controversie relative alle operazioni elettorali al TAR del Lazio, mentre quelle in materia di ineleggibilità e incompatibilità sono assegnate alla Corte d’Appello competente per territorio. GLI ORGANI COSTITUZIONALI La figura più importante è costituita dagli organi costituzionali, elaborata dalla dottrina per indicare gli organi dotati delle seguenti caratteristiche: • Sono elementi necessari dello Stato, nel senso che la mancanza di uno di essi determinerebbe l’arresto della complessiva attività statale; • Sono elementi indefettibili dello Stato, nel senso che non può aversi la loro soppressione o sostituzione con altri organi senza determinare un mutamento dello Stato; • La loro struttura di base è interamente dettata dalla Costituzione; • Ciascuno di essi si trova in condizione di parità giuridica con gli altri organi costituzionali. LE FUNZIONI DEL PARLAMENTO L'articolo 70 Cost. attribuisce l'esercizio della funzione legislativa collettivamente alle due Camere ma in determinati casi, in deroga a ciò, negli articoli 76-77 Cost. è previsto che il Governo possa porre in essere decreti aventi forza di legge ordinaria attraverso pur sempre un controllo parlamentare ex ante od ex post. Importante è anche l’uso che il Governo può fare della questione di fiducia al Parlamento tutte quelle volte in cui le Camere discutono di questioni di fondamentale importanza per il perseguimento dei suoi obiettivi programmatici. La questione di fiducia può essere posta su qualsiasi deliberazione della Camera, con eccezione per quanto attiene al funzionamento interno delle Camere. Nell’ipotesi in cui il Governo ponga la questione di fiducia su un articolo di un progetto di legge, se la Camera si esprime favorevolmente l’articolo è approvato e tutti gli emendamenti presentati s’intendono respinti. Perciò la questione di fiducia diventa un espediente procedurale per rendere più veloce il procedimento parlamentare. Gli atti della cosiddetta funzione di controllo parlamentare consistono in atti tradizionalmente riportati alla funzione ispettiva o di controllo in senso lato. Possono avere diverse funzioni: controllare la legalità di comportamento del governo e della pubblica amministrazione, verificare la corrispondenza dell'azione governativa all'indirizzo politico voluto dalla maggioranza parlamentare, esprimere più che un controllo una direttiva politica per l'azione governativa ed esprimere con forma di legge una autorizzazione o una approvazione per specifici atti di governo. La funzione parlamentare di controllo si concretizza in singoli istituti di diritto parlamentare il cui comune denominatore è quello di essere diretti a far valere la responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento. Questi istituti sono l’interrogazione e l’interpellanza. L’interrogazione è una domanda che un parlamentare rivolge, per iscritto, al Governo avente ad oggetto la veridicità o meno di un determinato fatto. I regolamenti parlamentari dispongono che il Governo possa dichiarare di non poter rispondere, esponendone i motivi, o che preferisce differire la risposta, indicando una data per la quale si avrà una risposta. Lo svolgimento delle interrogazioni può avvenire in aula o in commissione. L'interrogante può richiedere di ricevere una risposta scritta. Sono state introdotte anche le interrogazioni a risposta immediata, cioè interrogazioni aventi ad oggetto una sola domanda, che fa riferimento ad un argomento di rilevanza generale, urgente e di particolare attualità politica. Le interrogazioni in questione si svolgono secondo un preciso contraddittorio fra parlamentare e Governo i cui tempi sono già fissati dai regolamenti parlamentari, che dedicano a questo contraddittorio un apposito spazio (question time). Nell’interpellanza l’interpellante chiede, per iscritto, di conoscere quale sia l’intenzione politica del Governo, in riferimento ad un fatto o ad una determinata situazione, date per scontate. Ha facoltà di replica e qualora non sia soddisfatto può presentare una mozione per promuovere un dibattito. I regolamenti parlamentari prevedono pure lo svolgimento di interpellanze urgenti (interpellanze con procedimento abbreviato in Senato), le quali affiancano le tradizionali interpellanze. Esse possono essere presentate dal presidente del gruppo parlamentare a nome del rispettivo gruppo, oppure da un certo numero di deputati. I regolamenti parlamentari prevedono degli atti che mirano ad indirizzare l’attività del Governo: la mozione, la risoluzione e l’ordine del giorno. La mozione può essere presentata da un Presidente di un gruppo parlamentare o da 10 parlamentari alla Camera e da 8 parlamentari al Senato. Il fine è quello di determinare una discussione e la deliberazione della Camera su questioni che incidono sull’attività del Governo: il Governo può porre la questione di fiducia. La risoluzione può essere proposta anche in commissione. Ha come fine quello di manifestare un orientamento o definire un indirizzo: la sua proponibilità in commissione consente di accentuare il ruolo di controllo e di indirizzo delle commissioni nelle materie di competenza, ma comporta anche il rischio di una “frantumazione settoriale” dell’indirizzo complessivo. Infatti, la risoluzione al pari della mozione condiziona l’indirizzo governativo. L’ordine del giorno è un atto d’indirizzo rivolto al Governo che ha carattere accessorio, nel senso che s’inserisce nella discussione di un altro atto, per lo più una legge: serve a dettare direttive su come deve essere applicata. Il Governo può accettarlo o meno, ma comunque resta un atto politico che non produce effetti al di fuori dei rapporti tra Governo e Camera. La Costituzione attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire commissioni d’inchiesta su materie di pubblico interesse, con i poteri ed i limiti dell’autorità giudiziaria (articolo 82 Cost.). Si tratta, pertanto, di un potere monocamerale, anche se nella prassi si istituiscono Commissioni bicamerali d’inchiesta, che vengono deliberate da entrambe le Camere, generalmente con una legge. La commissione d’inchiesta è formata in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari di una o di entrambe le Camere (articolo 82.2 Cost.). Si distinguono le inchieste a fini politici, che accertano la responsabilità di titolari di uffici pubblici o politici, da quelle a fini legislativi, che invece apprendono le conoscenze dirette ad acquisire dati per un migliore svolgimento della funzione legislativa. Gli obiettivi dell’inchiesta e la varietà dei mezzi d’azione postulano che la commissione abbia il potere di opporre il segreto sulle risultanze acquisite nel corso delle indagini, potendovi derogare, per venire incontro alle richieste dell’autorità giudiziaria, ove non ne derivi danno per l’assolvimento del suo compito. Compare così nella giurisprudenza costituzionale il segreto funzionale, espressione dell’autonomia costituzionale delle Camere. Inoltre, altre funzioni svolte dal Parlamento sono indicate negli articoli 78-79-80-81 Cost. LA COMPOSIZIONE DEL PARLAMENTO La Costituzione italiana prevede l’articolazione del Parlamento in due Camere: la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica (articolo 55.1 Cost.). La Costituzione ha optato per un bicameralismo perfetto o paritario, con due Camere distinte, dotate delle medesime attribuzioni e, di regola, funzionanti in via contemporanea e separata. Inoltre, ha previsto un aggancio del Senato al territorio regionale (articolo 57.1 Cost.). Di conseguenza, ciascuna Camera può deliberare la concessione od il ritiro della fiducia al Governo (articolo 94 Cost.), mentre la formazione di una legge richiede che ciascuno dei due rami del Parlamento adotti una deliberazione avente ad oggetto il medesimo testo legislativo (articolo 70 Cost.). Vi sono alcune differenziazioni relative alla composizione dei due rami del Parlamento: attualmente la Camera dei deputati è composta da 630 deputati (articolo 56.2 Cost.), per eleggere i deputati è sufficiente la maggiore età e per essere eletti deputati bisogna avere 25 anni (articolo 56.3 Cost.), mentre il Senato della Repubblica è composto da 315 senatori (articolo 57.2 Cost.), più alcuni nominati a vita (articolo 59 Cost.), per votare i senatori bisogna avere 25 anni e per essere eletti senatori bisogna avere 40 anni (articolo 58 Cost.). La legge costituzionale 2/1963 ha stabilito una durata analoga per entrambi i rami del Parlamento, che è pari a 5 anni (articolo 60 Cost.) dove tale periodo viene definito “legislatura”. L’articolo 60.2 Cost., in merito alla prorogatio, dispone che la durata di ciascuna camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra. Inoltre, al fine di garantire la continuità funzionale del Parlamento, la Costituzione stabilisce che i poteri delle Camere scadute sono prorogati finché non siano riunite le nuove Camere (articolo 61.2 Cost.). La prorogatio cessa con la prima riunione delle nuove Camere (articolo 61.1 Cost). Il Senato della Repubblica risiede a Palazzo Madama mentre la Camera dei Deputati a Montecitorio. La conseguenza del bicameralismo paritario italiano è l’appesantimento del processo decisionale parlamentare, poiché prima che la legge si perfezioni è necessario che le due Camere approvino il medesimo testo e se una vi apporta qualche modifica dopo l’approvazione dell’altra, quest’ultima dovrà pronunciarsi una seconda volta. LE COMMISSIONI PARLAMENTARI Le commissioni parlamentari, disciplinate dall’articolo 72.1-72.3 Cost., sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei, monocamerali o bicamerali. La costituzione sia delle Giunte che delle Commissioni deve avvenire in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari. Le commissioni parlamentari temporanee assolvono compiti specifici e durano in carica il tempo stabilito per l’adempimento della loro particolare funzione. Le commissioni parlamentari permanenti sono invece organi stabili e necessari di ciascuna Camera, titolari di importanti poteri nell’ambito del procedimento legislativo. Ciascuna commissione permanente ha competenza in una determinata materia. Inoltre, esse si riuniscono per ascoltare e discutere comunicazioni del Governo e per esercitare le funzioni di indirizzo, di controllo e di informazione secondo quanto stabilito dal regolamento. Si riuniscono poi in sede consultiva per esprimere pareri nel procedimento di formazione del decreto legislativo. Sono 14 sia nella Camera dei deputati che nel Senato della Repubblica e ognuna ha competenza in determinati settori: • Camera: 1 Affari costituzionali, Presidenza del Consiglio e Interni, 2 Giustizia, 3 Affari esteri e comunitari, 4 Difesa, 5 Bilancio, tesoro e programmazione, 6 Finanze, 7 Cultura, scienza e istruzione, 8 Ambiente, territorio e lavori pubblici, 9 Trasporti, poste e telecomunicazioni, 10 Attività produttive, commercio e turismo, 11 Lavoro pubblico e privato, 12 Affari sociali, 13 Agricoltura, 14 Politiche dell’Unione europea; • Senato: 1 Affari costituzionali, 2 Giustizia, 3 Affari esteri, emigrazione, 4 Difesa, 5 Bilancio, 6 Finanze e tesoro, 7 Istruzione pubblica, beni culturali, 8 Lavori pubblici, comunicazioni, 9 Agricoltura e produzione agroalimentare, 10 Industria, commercio, turismo, 11 Lavoro, previdenza sociale, 12 Igiene e sanità, 13 Territorio, ambiente, beni ambientali, 14 Politiche dell’Unione europea. Le commissioni bicamerali sono formate in parti eguale da rappresentanti delle due Camere. La Costituzione (articolo 126 Cost.) prevede espressamente una sola commissione bicamerale: quella per le questioni regionali, modificata dalla recente riforma del titolo V. Con la legge sono state istituite commissioni bicamerali con poteri di controllo, di indirizzo e di vigilanza: il Comitato per i servizi di sicurezza e la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE La Costituzione italiana ha previsto il Parlamento in seduta comune (articolo 55.2 Cost.), che è un organo collegiale composto da tutti i parlamentari per lo svolgimento di alcune particolari funzioni. È considerato però un collegio imperfetto, perché non è padrone del proprio ordine del giorno ma viene riunito solo per specifiche funzioni, tassativamente elencate dalla Costituzione, che consistono in compiti elettorali e nella funzione accusatoria: • L’elezione del Presidente della Repubblica (articolo 83.1 Cost.); • Il giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione (articolo 91 Cost.); • L’elezione di 5 membri della Corte costituzionale (articolo 135.1 Cost.); • L’elezione di ⅓ dei componenti del Consiglio superiore della magistratura (articolo 104.3 Cost.); • La messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica (articolo 90.2 Cost.); • La votazione di un elenco di 45 cittadini dal quale si sorteggiano 16 membri aggregativi alla Corte costituzionale per giudicare sulle accuse costituzionali contro il PdR (articolo 135.7 Cost.). Quando il Parlamento si riunisce in seduta comune il Presidente e l'Ufficio di Presidenza sono quelli della Camera dei deputati (articolo 63.2 Cost.). LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE DEL BILANCIO La grave crisi finanziaria apertasi in Europa nel 2011 ha messo in discussione la stessa capacità di alcuni Stati di onorare il loro debito pubblico, e questo rischio è stato accentuato dai pregressi squilibri della finanza pubblica italiana, caratterizzata da un assai elevato livello di debito. Per fronteggiarla si è anche proceduto alla riforma dell’articolo 81 Cost., attraverso la legge costituzionale 1/2012, introducendo il cosiddetto “equilibrio di bilancio”. Infine, il Governo ha la funzione di controllo sull'attività di tutti gli organi amministrativi centrali anche se adesso con minor incisività che in passato. LA COMPOSIZIONE DEL GOVERNO Il Governo è un organo costituzionale complesso, formato dal Presidente del Consiglio, dai ministri e dal Consiglio dei ministri (articolo 92.1 Cost.). Esso esercita una quota rilevante dell’attività di indirizzo politico, delle potestà pubbliche proprie della funzione esecutiva, nonché importanti poteri normativi. Il Governo è, quindi, quel complesso di organi cui è affidata la funzione d'individuare e tradurre in concreti programmi d'azione l'indirizzo politico espresso dal corpo elettorale, prima, e dal Parlamento, poi, e di curare l'attuazione di tali programmi in tutti i modi in cui essa sia configurabile. Ha la durata di 5 anni e si forma in seguito, appunto, al rinnovo delle due Camere, attraverso le elezioni, oppure in seguito alle dimissioni delle Camere precedenti. Per scegliere la persona che dovrà guidare il Governo, il Presidente della Repubblica consulta gli ex Presidenti della Repubblica, i Presidenti delle Camere ed i leader dei partiti presenti in Parlamento. II Governo, nel sistema costituzionale italiano, è un organo complesso, in quanto costituito al suo interno da più organi con competenze autonome. Gli organi governativi espressamente previsti dalla Costituzione sono quegli organi che concorrono a determinare in via diretta la volontà del governo unitariamente considerato: il Presidente del Consiglio, i ministri ed il Consiglio dei ministri. IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI ED I MINISTRI Il Presidente del Consiglio dei ministri viene nominato con decreto dal Presidente della Repubblica, controfirmato dallo stesso Presidente del Consiglio nominato e dura in carica con il Governo stesso. I requisiti per la nomina sono la cittadinanza italiana e il godimento dei diritti civili e politici, mentre non occorre l'appartenenza alle Camere. È un organo monocratico, cioè composto da una sola persona. Ha il compito di convocare il Consiglio dei ministri e formarne l’ordine del giorno e le sue funzioni sono esplicitate nell’articolo 95.1 Cost. (principio della direzione politica monocratica). Inoltre, nell’ambito dei poteri strumentali rispetto al coordinamento delle attività dei ministri, può: • Sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti, sottoponendo le relative questioni al Consiglio dei ministri; • Adottare le direttive politiche ed amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, ovvero quelle relative alla direzione della politica generale del Governo; • Adottare le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza della pubblica amministrazione; • Concordare con i ministri interessati le pubbliche dichiarazioni che essi intendano rendere e che impegnano la politica generale del Governo; • Istituire particolari Comitati di ministri con il compito di esaminare in via preliminare questioni di comune competenza o esprimere pareri su questioni da sottoporre al Consiglio dei ministri. In caso di reati commessi, la Costituzione esplicita le conseguenze nell’articolo 96 Cost. I ministri sono degli organi individuali fondamentali, le cui responsabilità vengono espresse nell’articolo 95.2 Cost. (principio di responsabilità politica di ciascun ministro). Ciascuno di essi è a capo di un particolare ramo della PA chiamato ministero o dicastero. Insieme al PdC compongono il Consiglio dei ministri, contribuendo a definirne l’indirizzo politico. Inoltre, anch’essi sono sottoposti per i reati ministeriali al giudizio della magistratura ordinaria (articolo 96 Cost.). IL CONSIGLIO DEI MINISTRI Il Consiglio dei ministri è l’organo collegiale composto dal Presidente del Consiglio e dai ministri (principio della responsabilità politica collegiale). Secondo la legge 400/1988, il Consiglio dei ministri delibera, in particolare, in merito ad ogni questione relativa all’indirizzo politico del Governo, all’indirizzo generale dell’azione amministrativa, ai conflitti di attribuzione fra i ministri, all’iniziativa del Presidente del Consiglio di porre la questione di fiducia dinanzi alle Camere, ai disegni di legge ed alle proposte di ritiro di disegni di legge, ai decreti legge, a quelli legislativi ed ai regolamenti del Governo, agli atti adottati dal Governo in sostituzione delle Regioni, alle linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria e i progetti dei trattati e degli accordi internazionali di natura politica o militare, ecc. Per lo svolgimento dei suoi compiti, il Presidente del Consiglio dispone di una struttura amministrativa di supporto, che è la Presidenza del Consiglio dei ministri. La legge 400/1988, modificata dal d.lgs. 303/1999, ha previsto che gli uffici di diretta collaborazione del Presidente del Consiglio siano organizzati nel Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri, cui è preposto un Segretario generale nominato con d.P.C.M. La Presidenza del Consiglio ha sede a Palazzo Chigi a Roma. GLI ORGANI GOVERNATIVI NON NECESSARI La legge 400/1988 ha razionalizzato varie figure di organi governativi non necessari: • Il Vice-presidente del Consiglio dei ministri: è un ministro che viene eventualmente nominato fra i ministri ed al quale, su proposta del PdC, il Consiglio dei ministri attribuisce le funzioni di supplente del Presidente, nel caso in cui questi sia assente od impedito. Spesso si ricorre alla sua nomina per dare risalto alla presenza nella coalizione ad un partito diverso da quello che esprime il Presidente del Consiglio; • I Comitati interministeriali: possono essere istituiti per legge, che ne fissa la composizione e le competenze (il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, il Comitato Interministeriale per gli Affari Europei), od istituiti con decreto del PdC, con compiti provvisori per affrontare questioni definite (i comitati di ministri); • I ministri senza portafoglio: sono i ministri non preposti ad un ministero, i quali svolgono le funzioni loro delegate dal PdC, sentito il Consiglio dei ministri; • I sottosegretari di Stato: sono collaboratori del ministro o del Presidente del Consiglio, svolgendo i compiti che quest’ultimo delega loro con apposito decreto (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale). Non fanno parte del Consiglio dei ministri e non possono partecipare alla formazione della politica generale del Governo. Sono nominati con un decreto del PdR, su proposta del Presidente del Consiglio, di concerto con il ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei ministri. Il sottosegretario assume le sue funzioni solo dopo il giuramento prestato davanti al PdC. Tra i sottosegretari importante è il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, che svolge le funzioni di segretario del Consiglio dei ministri, curando la verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni e dirigendo l’Ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri; • I viceministri: sono quei sottosegretari cui vengono conferite deleghe relative all’intera area di competenza di una o più strutture dipartimentali o di più direzioni generali, cioè delle strutture amministrative all’interno dei ministeri. Possono essere invitati dal PdC d’intesa con il ministro competente, a partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri, senza diritto di voto; • I commissari straordinari del Governo: vengono nominati al fine di realizzare obiettivi specifici, in relazione a programmi o ad indirizzi deliberati dal Governo o dal Parlamento, o per particolari esigenze di coordinamento operativo tra amministrazioni statali. Essi sono nominati con decreto del PdR, su proposta del PdC, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. LE CRISI DI GOVERNO La crisi di Governo consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del rapporto di fiducia tra il Governo stesso ed il Parlamento (o meglio la maggioranza). Tradizionalmente si suole distinguere le crisi parlamentari dalle crisi extraparlamentari. Le crisi parlamentari sono determinate dall'approvazione di una mozione di sfiducia oppure da un voto contrario sulla questione di fiducia posta dal Governo. In questo caso il Governo è giuridicamente obbligato a presentare le sue dimissioni al Capo dello Stato. Le crisi extraparlamentari, invece, si aprono a seguito delle dimissioni volontarie del Governo, causate da una crisi politica all'interno della coalizione di maggioranza, a seguito della quale il Governo non può più far approvare i provvedimenti necessari alla propria azione e previsti dal suo programma. A queste ultime sono assimilabili le crisi determinate dalle dimissioni del solo Presidente del Consiglio, che determinano la cessazione dalla carica dell'intero Governo. Per far conoscere ai cittadini i motivi della crisi, i Presidenti della Repubblica hanno tentato la cosiddetta parlamentarizzazione delle crisi nate fuori dal Parlamento, ovvero l’invito rivolto dal Presidente della Repubblica al Governo dimissionario a presentarsi in una delle due Camere per esporre i motivi della crisi ed aprire sugli stessi un dibattito parlamentare. Il potere dei partiti di recedere dagli accordi di maggioranza, aprendo la crisi, ha determinato la notevole instabilità dei Governi italiani e la loro inefficienza decisionale. In caso di crisi di Governo, il Presidente della Repubblica può adottare diverse soluzioni: • Il Presidente della Repubblica rinvia il Presidente del Consiglio alle Camere, respingendo le sue dimissioni, per la verifica della sussistenza del rapporto fiduciario del Governo in entrambi i rami del Parlamento; • La nomina di un nuovo Governo, presieduto dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, con eventuali modifiche della compagine ministeriale; • La nomina di un nuovo leader dello stesso orientamento politico: viene nominato un nuovo leader che gode della fiducia degli stessi partiti che costituivano la vecchia maggioranza; • La nomina di un nuovo leader di diverso orientamento politico: viene nominato un nuovo leader che gode della fiducia di una nuova maggioranza; • Un Governo istituzionale: il Capo dello Stato designa come Presidente del Consiglio dei ministri il Presidente del Senato od il Presidente della Camera; • Un Governo tecnico: viene nominato un Governo costituito da esperti in materia politica, ma estranei ai partiti ed alla vita politica in quanto tale; • Lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate: il Presidente della Repubblica, verificata l’impossibilità di perseguire altre strade, scioglie le Camere ed indice nuove elezioni (articolo 88 Cost.). IL RAPPORTO DI FIDUCIA TRA PARLAMENTO E GOVERNO La permanenza del rapporto di fiducia tra il Governo ed il Parlamento può essere verificata attraverso tre procedure: la mozione di sfiducia, la mozione di fiducia e la questione di fiducia. La mozione di sfiducia è l'atto con cui il Parlamento interrompe il rapporto di fiducia con il Governo, obbligandolo alle dimissioni. Essa deve essere motivata e votata per appello nominale (i parlamentari sono chiamati uno alla volta ad esprimere il proprio voto), così come disciplinato dall'articolo 94.2 Cost. Ciò comporta una chiara assunzione di responsabilità politica da parte dei parlamentari, impedendo il fenomeno dei cosiddetti franchi tiratori, cioè i deputati che si nascondono dietro al voto segreto per minare la maggioranza. Inoltre, secondo l'articolo 94.5 Cost., la mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. In questo modo, si assicura un periodo di decantazione e di riflessione, prima della votazione della sfiducia e si scoraggiano i colpi di mano (i cosiddetti assalti alla diligenza). L'altro aspetto della disciplina costituzionale del rapporto di fiducia si instaura con la mozione di fiducia: è disposto che il Governo, entro dieci giorni dalla sua formazione, si presenti alle Camere per ottenere la fiducia, che viene accordata o respinta sempre con una mozione motivata e votata per appello nominale (articolo 94.3 Cost.). In caso di mancata fiducia, il Presidente della Repubblica si rimette all’opera, secondo la consueta procedura per la formazione del Governo. Ciò significa che il Governo deve avere una maggioranza che lo sostiene, senza la quale non riuscirebbe a ottenere la fiducia iniziale voluta dalla Costituzione. Infine, la questione di fiducia può essere posta dal Governo su sua iniziativa che richiede l’approvazione parlamentare. In questo caso, il Governo dichiara che, ove la sua proposta non dovesse essere approvata promulgare la legge, ne ordina la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale ed obbliga chiunque ad osservarla e a farla osservare come legge dello Stato. La promulgazione s’inserisce nella fase integrativa dell’efficacia del procedimento legislativo e non è un atto dovuto, dato che il PdR ha il potere di rinviare la legge alle Camere per un riesame, ma ove questa è riapprovata nel medesimo testo, egli è tenuto alla promulgazione della legge (articolo 74.2 Cost.); • La ratifica dei trattati internazionali, predisposti dal Governo, ed eventualmente autorizzati dal Parlamento, l’accreditamento dei rappresentanti diplomatici esteri (articolo 87.8 Cost.), la dichiarazione dello stato di guerra previa deliberazione delle Camere, chiamate a conferire al Governo i poteri necessari (articolo 78 Cost.) ed altresì il comando delle forze armate e la presidenza del Consiglio supremo di difesa (articolo 87.9 Cost.). Ma le decisioni sostanziali relative alla conduzione della politica estera, alla formazione dei trattati, alla dichiarazione dello stato di guerra, al comando delle forze armate sono rimesse al circuito Parlamento-Governo. Il PdR ha solamente il potere di essere informato dal Governo sui contenuti della politica estera e della difesa, ed esercita i poteri connessi alla presidenza del Consiglio supremo di difesa; • La concessione della grazia e la commutazione delle pene (articolo 87.11 Cost.), che si differenziano dall’amnistia e dall’indulto perché si riferiscono a singole persone e consistono nel condono totale o nella commutazione della pena irrogata; • La Costituzione (articolo 87 Cost.), infine, affida al Capo dello Stato i poteri di “autorizzare” la presentazione alle Camere dei disegni di legge governativi, di “indire” le elezioni delle nuove Camere fissandone la prima riunione, di “indire” il referendum popolare, di “conferire” le onorificenze della Repubblica; di “emanare” il decreto di scioglimento dei Consigli regionali e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge (articolo 126.1 Cost.). Relativamente agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, il Capo dello Stato gode di un'ampia sfera di discrezionalità. La controfirma governativa assume, in questo caso, una funzione di controllo diretto ad accertare la legittimità formale dell'atto. Tali atti sono: • Gli atti di nomina, cioè gli atti con i quali il Presidente della Repubblica nomina: i. Cinque senatori a vita (articolo 59.2 Cost.); ii. ⅓ dei giudici costituzionali (articolo 135.1 Cost.): il decreto presidenziale di nomina di ⅓ dei giudici costituzionali è controfirmato dal PdC, senza che ciò possa far pensare ad un intervento governativo circa il contenuto del decreto stesso; • Il rinvio delle leggi: il PdR con un messaggio motivato (deve contenere l’indicazione dei motivi del rinvio medesimo) può rinviare una legge alle Camere per una nuova deliberazione (articolo 74.1 Cost.); • I messaggi presidenziali: il PdR può inviare messaggi “liberi” alle Camere, ai sensi dell’articolo 87.2 Cost. essi non sono vincolati nel senso che la Costituzione non disciplina il contenuto, che può variare secondo quella che è la volontà presidenziale. Di regola, dovrebbe trattarsi di atti con i quali il PdR intende stimolare od orientare l’attività parlamentare su problemi da lui ritenuti cruciali per la vita del paese. L’invio alla Camera del messaggio non necessariamente promuove un dibattito parlamentare su suoi contenuti; • Le esternazioni atipiche: sono tutte quelle manifestazioni del pensiero presidenziale, che non assumono le forme previste dalla Costituzione per i messaggi, i cui destinatari sono in genere la pubblica opinione o il popolo. Sono riconducibili alle esternazioni atipiche presidenziali i “messaggi alla Nazione”, i discorsi pubblici, le lettere ufficiali, le interviste, le conferenze stampa e, in generale, tutte le altre manifestazioni di pensiero presidenziale che non si concretizzano in atti ufficiali tipici e, per la loro natura, si sottraggono alla controfirma ministeriale; • La convocazione straordinaria delle Camere (articolo 62.2 Cost.), che è diretta a garantire il funzionamento delle istituzioni costituzionali contro eventuali prevaricazioni della maggioranza. Il contenuto degli atti complessi eguali/duali/duumvirali è predisposto e voluto sia dal PdR che dal Governo: la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e lo scioglimento anticipato delle Camere. LA MESSA IN STATO D’ACCUSA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Il principio cardine fissato dalla Costituzione è l’irresponsabilità del PdR. Egli non può essere chiamato a rispondere della responsabilità politica: infatti, la Costituzione non ha previsto nessun meccanismo che consenta di realizzare la rimozione anticipata dalla carica del PdR. Tuttavia, il PdR, come tutti i titolari di organi costituzionali, può essere sottoposto alla critica politica. Per quanto riguarda la responsabilità giuridica del PdR bisogna distinguere: • Gli atti posti in essere nell’esercizio delle sue funzioni: l’articolo 90.1 Cost. prevede esclusivamente una responsabilità penale per i reati di altro tradimento e attentato alla Costituzione. Al di fuori di queste ipotesi estreme, il PdR è giuridicamente irresponsabile e, in relazione a tali fatti, non potrà essere perseguito neppure dopo che è cessato il suo mandato; • Gli atti che adotta come qualsiasi altro cittadino: si tratta di atti e di comportamenti non riconducibili all’esercizio delle funzioni presidenziali. Egli è penalmente responsabile per i fatti commessi e qualificabili come reati ed estranei all’esercizio delle sue funzioni, anche se l’azione penale sarebbe improcedibile per tutta la durata del mandato, mentre è civilmente responsabile al pari di qualsiasi altro cittadino. Nel caso che il Presidente compia uno dei reati connessi alla sua funzione, l’ordinamento prevede una precisa e particolare procedura: il Presidente deve prima essere messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri (articolo 90.2 Cost.), sulla base di una relazione effettuata da un Comitato formato dai componenti della Giunta del Senato e della Camera per le autorizzazioni a procedere. Il Comitato è presieduto in modo alternativo, per ogni legislatura, dai presidenti delle rispettive Giunte. Successivamente, qualora il Parlamento dovesse concedere l’autorizzazione a procedere, il PdR sarà giudicato dalla Corte costituzionale. In particolare: qualora sia stata deliberatala la messa in Stato d’accusa, la Corte costituzionale può disporne la sospensione dalla carica. IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA A garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza da ogni altro potere della magistratura (articolo 104.1 Cost.), la Costituzione italiana ha previsto che tutti i provvedimenti riguardanti la carriera e, in generale, lo status dei magistrati ordinari debbano essere adottati da un organo sganciato dal Governo, cioè il Consiglio superiore della magistratura (CSM), un organo di garanzia costituzionale che regola e governa, in totale autonomia, la magistratura ordinaria italiana, amministra la giurisdizione e garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, sia in funzione giudicante che requirente. Il CSM è composto: • Di tre membri di diritto: il Presidente della Repubblica, che lo presiede (articolo 104.2 Cost.), il primo presidente della Cassazione ed il Procuratore generale della Corte di cassazione (articolo 104.3 Cost.); • Di membri togati, eletti dai magistrati ordinari, che devono rappresentare i 2/3 del Collegio (articolo 104.4 Cost.); • Dei membri laici, che costituiscono un 1/3 del Collegio e sono eletti dal Parlamento in seduta comune tra gli appartenenti ai professori ordinari di Università in materie giuridiche ed agli avvocati che esercitano la professione da almeno 15 anni (articolo 104.4 Cost.). Il CSM si articola in 9 Commissioni che hanno funzioni istruttorie e di proposta. La presidenza del Collegio è attribuita al Presidente della Repubblica ma essa ha prevalentemente un carattere formale e simbolico, visto che il CSM elegge un vicepresidente tra i membri laici (articolo 104.5 Cost.) che svolge concretamente tutti i compiti connessi alla presidenza del Collegio. La legge 44/2002 ha approvato una riforma della composizione del CSM e delle modalità di elezione. Attualmente i membri togati sono 16 e quelli laici 8 (27 membri totali). L’elezione dei magistrati avviene nel seguente modo: • In un collegio unico nazionale per 2 magistrati che esercitano le funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la Procura generale presso la medesima Corte; • In un collegio unico nazionale per 4 magistrati che esercitano le funzioni di Pubblico Ministero presso gli uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia, ovvero che sono destinati alla Procura generale presso la Corte di Cassazione; • In un collegio unico nazionale per 10 magistrati che esercitano le funzioni di giudice ovvero che sono destinati alla Corte suprema di Cassazione. All’elezione partecipano tutti i magistrati. In ciascun collegio vengono eletti i candidati che abbiano ottenuto il maggior numero di voti, in numero pari a quello dei seggi da assegnare in ciascun collegio. La responsabilità disciplinare opera in caso di violazione dei doveri connessi al corretto esercizio della funzione giurisdizionale, e precisamente i magistrati ordinari rispondono di ogni comportamento, assunto in ufficio o fuori, in violazione dei propri doveri, in modo da compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario, ossia la “credibilità” dello stesso agli occhi dei cittadini. I magistrati ordinari, oltre che alla responsabilità disciplinare sono sottoposti a quella penale ed a quella civile. La prima opera in caso di reati commessi nell’esercizio delle funzioni. Quanto alla responsabilità civile del magistrato, il cittadino danneggiato può richiedere il risarcimento allo Stato (cosiddetta responsabilità indiretta), che si rivale sul magistrato responsabile del danno, conseguente a diniego di giustizia ovvero ad atti e comportamenti assunti con dolo o con colpa grave. Il CSM ha diverse competenze ed attribuzioni: controlla, gestisce e predispone il piano di assunzioni, sempre attraverso il concorso pubblico, assegna gli incarichi e le promozioni, decide sulle domande di trasferimento, commina provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati (articolo 105 Cost.). Inoltre, può chiamare all'ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano 15 anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori (articolo 106.3 Cost.), può dispensare o sospendere dal servizio i magistrati oppure destinarli ad altre sedi o funzioni (articolo 107.1 Cost.), può fare proposte al Ministero di giustizia sulle modificazioni delle giurisdizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, dà pareri al ministro della giustizia sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie. Tutti i provvedimenti del CSM assumono la veste di decreti del PdR e sono sottoposti al sindacato del giudice amministrativo ove vengano impugnati con apposito ricorso giurisdizionale. Il giudice competente è il TAR del Lazio e, in appello, il Consiglio di Stato. Fanno eccezione le sentenze disciplinari pronunciate dall’apposita sezione che, invece, sono impugnabili davanti alle sezioni unite della Corte di cassazione. I PRINCIPI COSTITUZIONALI RELATIVI ALLA MAGISTRATURA La Costituzione pone alcuni principi fondamentali in tema di giurisdizione. In primo luogo, il principio della precostituzione del giudice, detto anche principio del giudice naturale, disciplinato dall’articolo 25.1 Cost. Si tratta di una fondamentale garanzia per i cittadini: nessuno può trovarsi ad essere giudicato da un giudice appositamente costituito dopo la commissione di un determinato fatto. La legge deve indicare i criteri astratti (di competenza territoriale, di valore, ecc.) impiegando i quali sia possibile predeterminare quasi automaticamente quale sia l’organo giudiziario competente a giudicare di una certa questione. È pure posto il divieto di istituire giudici speciali, cioè organi che sono formati fuori dall’ordinamento giudiziario, ossia alla giurisdizione ordinaria, mentre è possibile istituire sezioni specializzate presso i tribunali ordinari (articolo 102.2 Cost.). Non ricadono nel divieto le giurisdizioni speciali (giudici amministrativi, tribunali militari, corte dei conti, ecc.), in quanto sono previste dalla Costituzione e in larga parte preesistenti ad essa. Anche per tali giurisdizioni sono però assicurate forme di indipendenza che rappresentano un’importante garanzia per tutti i cittadini. Altre garanzie sono poi poste dagli articoli 101-102.3-108-111.6-111.7 Cost. La Corte di cassazione si configura come giudice di legittimità, cioè competente a conoscere le sole violazioni di legge compiute dagli organi giurisdizionali di grado inferiore. Essa, inoltre, risolve anche i conflitti di competenza insorti tra i giudici ordinari e i conflitti di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale. In questo senso la Corte di cassazione è un organo di chiusura del sistema giudiziario a cui le disposizioni dell’ordinamento giudiziario affidano la funzione di “nomofilachia”, cioè la soluzione delle 8) L’amministrazione pubblica deve tendere ad essere un’amministrazione locale: infatti, dopo la riforma del Titolo V, l’articolo 118 Cost. stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni e che gli stessi Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni proprie, oltre a quelle conferite loro con legge statale o regionale. DIRITTO SOGGETTIVO E INTERESSE LEGITTIMO Si ha un diritto soggettivo quando un determinato bene o vantaggio è garantito dall’ordinamento giuridico (appartamento ereditato, la somma che mi devono). L’acquisto e il godimento del bene sono indipendenti dall’intervento della pubblica amministrazione. Il diritto del privato, però, può scontrarsi con un interesse pubblico e trovarsi perciò di fronte all’amministrazione che lo ha in cura: l’autorità amministrativa ha il potere il limitare o sopprimere quel diritto (l’espropriazione). L’espropriato, cioè colui al quale le è stato limitato o soppresso quel diritto, comunque non perde ogni tutela: l’ordinamento tutela il suo interesse a difendersi da un’amministrazione che operi in difformità dalla legge o eccedendo dal potere che essa le assegna. Perciò egli può agire davanti al giudice amministrativo, che dovrà giudicare proprio sulla conformità dell’atto al modello normativo: nel caso in cui risulti violato tale modello dovrà pronunciare l’annullamento dell’atto illegittimo, ripristinando il diritto del privato. Insomma, anche quando il privato subisce una compressione del suo diritto soggettivo, in nome della prevalenza dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, l’ordinamento gli garantisce l’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa. Questa situazione soggettiva prende appunto il nome di interesse legittimo che può essere definito come la situazione di vantaggio che si possiede di fronte al potere dell’amministrazione e che si sostanzia nella garanzia della legittimità dell’atto amministrativo. In pratica, si ha giurisdizione del giudice ordinario quando l’amministrazione ha agito priva di autorità, vuoi perché ha deciso di impiegare strumenti di diritto privato, vuoi perché ha agito in carenza assoluta di potere, ossia in quelle circostanze che comportano la nullità del provvedimento. Invece, si ha giurisdizione del giudice amministrativo quando l’amministrazione ha agito con autorità, ma il privato ritiene che il provvedimento presenti vizi di illegittimità che ne potrebbero causare l’annullamento. IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA IL GIUDICE ORDINARIO E IL GIUDICE AMMINISTRATIVO Il sistema giudiziario italiano si caratterizza per la contestuale presenza di più giurisdizioni: sono istituiti i giudici ordinari, i giudici amministrativi, i giudici contabili, i giudici tributari ed i giudici militari. La loro competenza è stabilita dalla legge secondo criteri differenti che tengono conto o della materia su cui la giurisdizione va esercitata o della posizione giuridica vantata dal soggetto di diritto. I giudici ordinari amministrano la giustizia civile e penale attraverso organi giudicanti e organi requirenti. Gli organi giudicanti civili si dividono in organi di primo grado (giudice di pace e tribunale) e di secondo grado (corte d’appello). Le decisioni del giudice di pace si possono impugnare in appello dinanzi al tribunale, mentre le decisioni assunte dal tribunale in primo grado possono essere impugnate presso la corte d’appello. Anche tra gli organi giudicanti penali vi sono organi di primo grado (il giudice di pace, il tribunale, la corte d’assise) e organi di secondo grado (la corte d’appello, la corte d’assise d’appello, il tribunale della libertà). Gli organi requirenti sono i Pubblici ministeri che esercitano l’azione penale e agiscono nel processo a cura di interessi pubblici. Perciò, il Pubblico ministero (PM) attiva, attraverso l’esercizio dell’azione penale, la giurisdizione penale per l’accertamento di eventuali reati e la condanna dei loro autori. Inoltre, agisce anche nel processo civile, nei casi stabiliti dalla legge a tutela di interessi pubblici. Mentre il ruolo del PM nel processo civile è interamente rimesso alla legge, nel campo penale nessuna legge può cancellare o modificare l’obbligo per il PM di esercitare l’azione penale, in quanto tale obbligo è previsto dalla Costituzione (articolo 112 Cost.). Obbligo dell’azione penale significa che il PM non può scegliere discrezionalmente se avviare o meno l’azione relativamente al tipo di reato, ma è tenuto a intraprendere la sua azione sempre e comunque in presenza di una notitia criminis dotata di un certo fondamento. In questo modo la Costituzione vuole evitare che l’attivazione della giurisdizione penale sia condizionata da scelte a favore di qualcuno o contro qualcun altro, e quindi sia caratterizzata dall’imparzialità. Ciò spiega perché la Costituzione garantisce l’indipendenza del PM (articolo 108.2 Cost.) e dispone che il PM goda delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario (articolo 107.4 Cost.). Gli uffici del PM si rinvengono presso i tribunali (sia quelli ordinari che quelli per i minorenni), presso la Corte d’appello e presso la Corte di cassazione. Presso quest’ultima è istituita anche la Direzione nazionale antimafia composta dal Procuratore nazionale antimafia e dai suoi sostituti, con compiti di coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata, ed in particolar modo di quelle svolte dalle Direzioni distrettuali antimafia, istituite presso gli uffici del PM nei tribunali posti nei capoluoghi dei distretti giudiziari. Non va confusa con queste strutture la Direzione investigativa antimafia, istituita presso il Ministero dell’interno con il compito di assicurare lo svolgimento, in forma coordinata, delle investigazioni preventive relative alla criminalità organizzata, nonché di effettuare le indagini di polizia giudiziaria riguardanti delitti di tipo mafioso o comunque riconducibili all’associazione medesima. La funzione giurisdizionale di primo grado nelle controversie in cui sono coinvolti soggetti con età inferiore ai 18 anni è esercitata dal Tribunale per i minorenni, organo collegiale formato da 2 magistrati professionali e da 2 esperti. In sede penale esso si configura come giudice unico di prima istanza nei confronti di tutti i soggetti che al momento della commissione del reato non avevano ancora raggiunto i 18 anni. In sede civile, invece, tale tribunale è competente a giudicare una serie di casi tassativamente indicati dalla legge in cui il giudice interviene nell’interesse del minore (l’adozione nazionale e l’internazionale). I giudici amministrativi sono i tribunali amministrativi regionali (TAR), istituiti uno in ciascuna Regione ed eventualmente articolati in sezioni, e il Consiglio di Stato. Alla giurisdizione amministrativa è affidata la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi, che prevede la possibilità che siano annullati gli atti della PA. Al giudice ordinario spettano le controversie in materia di diritti soggettivi, al giudice amministrativo quelle in materia di interessi legittimi. Il Consiglio di Stato assomma in sé, oltre a poteri giurisdizionali, in quanto giudice d’appello dei tribunali amministrativi regionali, anche poteri consultivi, che possono essere attivati dal Governo dal momento che si tratta di un organo ausiliario del governo stesso (articolo 103.1 Cost.). La Corte dei Conti opera attraverso sezioni regionali (primo grado) e sezioni centrali (secondo grado). In generale, essa esercita la giurisdizione in tema di responsabilità dei pubblici amministratori qualora abbiano recato un danno economico ai soggetti pubblici dai quali dipendono ed ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica ed in quelle specificate dalla legge (articolo 103.2 Cost.). I giudici tributari o le commissioni tributarie esercitano la giurisdizione nelle controversie tra i cittadini e l’amministrazione finanziaria dello Stato riguardanti i tributi e sono ordinate su due gradi di giurisdizione (provinciale e regionale). Contro le decisioni d’appello della commissione regionale può essere fatto ricorso alla Corte di cassazione per motivi di diritto. I giudici militari, in tempo di guerra, esercitano la giurisdizione secondo quanto stabilito dalla legge, mentre in tempo di pace, esercitano la giurisdizione solo sui reati militari commessi da appartenenti alle forze armate (articolo 103.3 Cost.). I VIZI DI LEGITTIMITÀ DELL’ATTO AMMINISTRATIVO L’illegittimità dell’atto amministrativo copre l’intera area del contrasto tra l’atto e le norme vigenti che si inserisce, da un lato, tra le ipotesi gravissime e rare della nullità e, dall’altro, tra quelle lievi che rientrano nella mera irregolarità e che sono prive di conseguenza per la validità dell’atto (al massimo possono causare conseguenze disciplinari per il funzionario che le ha commesse). I vizi di illegittimità degli atti amministrativi sono divisi in tre categorie: • Incompetenza: si ha quando il provvedimento è emanato da un’amministrazione che ha la potestà sulla materia, altrimenti vi sarebbe nullità per carenza di potere, denominata anche incompetenza assoluta, ma da un organo incompetente, detta infatti incompetenza relativa (un provvedimento emanato dal Sindaco o del Presidente di Regione al posto del dirigente); • Violazione di legge: è il puntuale contrasto tra il provvedimento con qualsiasi norma giuridica vigente. Tipiche sono le violazioni delle norme sul procedimento, ma con alcune attenuazioni introdotte dalla legge 15/2005: essa infatti nega l’annullabilità dei provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. In particolare, il provvedimento non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. In sostanza, quello che si vuole evitare è che il privato si appigli a difetti formali facendo saltare provvedimenti amministrativi che, anche se perfettamente regolari, non avrebbero potuto essere diversi. Il vizio specifico di violazione della legge rappresenta una figura residuale, che contiene tutte quelle ipotesi di violazione di norme vigenti che non toccano la competenza dell’organo né l’uso della discrezionalità amministrativa, la quale è oggetto specifico dell’eccesso di potere; • Eccesso di potere: è il vizio specifico della discrezionalità amministrativa. Esso quindi non può colpire gli atti vincolati della pubblica amministrazione. Nasce dal tentativo storico del giudice di annullare i provvedimenti amministrativi che, benché non presentassero contrasti puntuali con le disposizioni vigenti, si manifestassero chiaramente viziati nel ragionamento e nelle valutazioni attraverso le quali si è formata la volontà dell’organo amministrativo. I “vizi” di questo tipo sono stati classificati in “figure sintomatiche” dell’eccesso di potere. I RICORSI AMMINISTRATIVI Il ricorso amministrativo è un’istanza che il privato rivolge all’amministrazione per chiedere l’annullamento o la revoca di un provvedimento illegittimo o, in certi casi, semplicemente inopportuno. Vi sono quattro tipi di ricorso amministrativo: • Il ricorso gerarchico proprio è un rimedio riconosciuto in via generale (salvo che la specifica legge, su cui si fonda l’atto, non lo escluda), attraverso il quale il privato può chiedere all’organo gerarchicamente superiore a quello che ha emanato l’atto di annullare, revocare o riformare l’atto amministrativo che lo riguarda, invocando sia motivi di legittimità che di merito, quindi di opportunità. Il ricorso va presentato entro 30 giorni dal giorno in cui l’atto è stato notificato (o in cui il privato ne ha avuto conoscenza) ed è considerato respinto se entro 90 giorni l’amministrazione non risponde; • Il ricorso gerarchico improprio è invece un rimedio di carattere eccezionale (quindi proponibile solo se previsto dalla legge) e consiste nell’istanza rivolta ad un organo diverso dal superiore gerarchico e che deve essere individuato, appunto, dalla legge; • Il ricorso in opposizione è anch’esso un rimedio di carattere eccezionale che deve essere rivolto allo stesso organo che ha emanato l’atto, nel tentativo di fargli cambiare idea. Rispetto ad un semplice reclamo (che ovviamente si può sempre fare) ha il vantaggio di obbligare sempre l’amministrazione a rispondere (vale il meccanismo di silenzio-rigetto) e di sospendere i termini di decadenza dal ricorso giurisdizionale; • Il ricorso straordinario al Capo dello Stato è uno strumento generale che ha due caratteristiche particolari: può essere proposto solo se non ci sono altri ricorsi amministrativi disponibili (o se sono stati già respinti) ed è alternativo al ricorso giurisdizionale. Infatti, può essere proposto, come quello giurisdizionale, solo per motivi di legittimità ed ha il solo vantaggio di essere proponibile entro 120 giorni dalla notificazione o conoscenza dell’atto, mentre il ricorso giurisdizionale è proponibile entro 60 giorni. La decisione del ricorso, solo formalmente imputabile al PdR, è determinata dal parere che obbligatoriamente esprime il Consiglio di Stato. IL RICORSO GIURISDIZIONALE Il ricorso giurisdizionale è lo strumento con cui il privato impugna il provvedimento illegittimo di fronte al giudice, rivolgendosi, quindi, ad un organo terzo. Il privato, destinatario di un provvedimento illegittimo, non ha alcuna necessità di ricorrere in via amministrativa, perché può impugnare il provvedimento direttamente davanti al giudice. L’articolo 113 Cost. garantisce una copertura totale: contro gli atti della pubblica amministrazione, è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e perché non è sufficiente che si constati che esso è illegittimo. Infatti, annullare un atto già efficace può comportare conseguenze sia per i privati che per gli interessi pubblici assai rilevanti, ed è indispensabile che l’amministrazione ne valuti con attenzione l’opportunità. Pertanto, l’amministrazione deve provvedere all’annullamento entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. È discrezionale anche un altro provvedimento di secondo grado, la revoca di un provvedimento, che non riguarda i provvedimenti viziati, ma toglie efficacia ad un provvedimento in vigore per ragioni connesse al mutamento dell’interesse pubblico o della situazione di fatto. La revoca del provvedimento, dunque, è sempre possibile, ma fa sorgere in capo all’amministrazione l’onere di indennizzare il pregiudizio che ne derivi ai privati interessati al provvedimento revocato. Infine, il Governo dispone di un potere di annullamento d’ufficio di ogni atto amministrativo emanato da qualsiasi autorità amministrativa, sempre per motivi di illegittimità e in nome di uno specifico interesse pubblico. È un potere riconosciuto dalla legge a tutela dell’unità dell’ordinamento, naturalmente a carattere straordinario. Solo gli atti amministrativi delle Regioni ne sono immuni. GLI ATTI AMMINISTRATIVI La pubblica amministrazione agisce attraverso atti amministrativi, che sono atti giuridici in quanto comportamenti consapevoli e volontari che danno luogo a effetti giuridici. Attraverso essi la PA esercita i propri poteri attribuiti dalla legge per la cura degli interessi pubblici e si giustificano, appunto, con la prevalenza dell’interesse pubblico su quello del privato. Tra gli atti amministrativi rientrano gli atti normativi (generali e astratti), quali i regolamenti amministrativi dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, gli atti di programmazione (i piani ed i programmi che determinano gli obiettivi dell’azione di una o più amministrazioni), le direttive amministrative (atti di indirizzo con cui un organo politico amministrativo orienta il comportamento di altri organi amministrativi) o anche i meri atti amministrativi, cioè gli atti che non hanno rilevanza esterna, anche se spesso attraverso essi si snoda il procedimento amministrativo). Gli atti amministrativi che producono effetti esterni, e quindi influiscono sulle situazioni giuridiche dei soggetti cui sono destinati, creando nuovi diritti o doveri, si chiamano provvedimenti amministrativi. Di regola, il provvedimento amministrativo è l’atto finale di un procedimento amministrativo che, articolandosi in diverse fasi nelle quali vengono prodotti diversi atti amministrativi privi di rilevanza autonoma, culmina appunto con il “provvedimento”. GLI ISTITUTI DELLA SEMPLIFICAZIONE DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA I principali istituti attraverso cui si realizza il principio di semplificazione amministrativa sono la Conferenza dei servizi e la Segnalazione certificata di inizio attività. La Conferenza dei servizi (introdotto nel 1990) è una riunione cui l’amministrazione procedente invita i responsabili di tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento, al fine di realizzare una valutazione congiunta dei diversi interessi pubblici coinvolti. Essa sostituisce all’esame separato da parte dei diversi uffici amministrativi un esame ed una valutazione contestuale, con ovvio effetto di semplificazione e riduzione dei tempi per decidere. Quando l’esercizio di un’attività sia subordinato ad autorizzazione, licenza, nulla-osta, richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali, commerciali o artigianali, il provvedimento dell’amministrazione è sostituito da una Segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) se il suo rilascio dipende esclusivamente dall’accertamento di requisiti e se non si è in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici, culturali, militari, ecc. I requisiti tecnici vengono attestati da tecnici abilitati incaricati dall’interessato e gli eventuali pareri sono sostituiti da autocertificazione (ISEE). L’attività può iniziare subito, ma l’amministrazione può, entro 60 giorni, contestare la regolarità della segnalazione e fermare l’attività. Un altro importante istituto è il silenzio-assenso, che opera qualora sia decorso un certo periodo di tempo senza che l’amministrazione abbia adottato un provvedimento espresso. In taluni casi, il silenzio dell’amministrazione equivale ad un provvedimento favorevole. L’ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI La legge sul procedimento amministrativo ha riconosciuto ai soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi, un’ampia garanzia del diritto di accesso ai documenti amministrativi, a condizione che essi dimostrassero di avere un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento rispetto al quale veniva chiesto l’accesso. Esso ha come oggetto una nozione di documento amministrativo molto ampia, visto che in esso è compresa ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni e concernenti le attività di pubblico interesse. Il decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013) ha introdotto l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicare sui loro siti istituzionali i più importanti documenti che riguardano la loro organizzazione e la loro attività e l’istituto dell’accesso civico. Il diritto di accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato, nei procedimenti tributari e in altri procedimenti in cui prevalgono le esigenze di protezione dei dati personali o di sicurezza nazionale. Chi intende accedere ad un documento amministrativo, deve fare una domanda motivata all’amministrazione che lo detiene, ed in caso di rifiuto il diretto interessato può rivolgersi al TAR che ordina all’amministrazione di esibire il documento all’interessato. Chi intende partecipare ad un concorso pubblico, ovvero ad una gara d’appalto, o comunque prendere parte ad un procedimento amministrativo deve provare di avere i requisiti richiesti dalla legge e più in particolare dall’amministrazione interessata. Ciò richiedeva la produzione di un numero elevato di certificazioni, che si risolvevano per il privato in una notevole perdita di tempo. Per alleviare questa situazione, è stata prevista la cosiddetta autocertificazione (ISEE), grazie alla quale le dichiarazioni rese dall’interessato possono sostituire le normali certificazioni concernenti i dati anagrafici, le qualità personali, il godimento dei diritti civili e politici, lo stato di famiglia, ecc. LA DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA L’attività di applicazione delle leggi da parte dell’amministrazione pubblica è solo raramente un’attività di semplice esecuzione della legge, priva di qualsiasi margine di valutazione di opportunità. L’attività della pubblica amministrazione non è mai attività interamente libera. I soggetti privati possono agire del tutto liberi, salvi i limiti negativi posti dalla legge. Ma, nell’ambito del lecito, il privato è libero di scegliere ciò che vuole, di comportarsi come crede: la PA non lo è. Essa è infatti vincolata dalla legge ed è la legge stessa che definisce le finalità, gli obiettivi, l’interesse pubblico che deve perseguire. La legge non è solo un limite negativo per l’amministrazione in quanto le conferisce il potere-dovere di realizzare un determinato interesse pubblico (ordine pubblico, strade, parcheggi, istruzione superiore, ecc.). Difficilmente, però, la legge può indicare anche tutto ciò che l’amministrazione deve fare per raggiungere il suo obiettivo: per questo, in genere, l’attività dell’amministrazione non è di semplice esecuzione, ma richiede delle scelte, e queste scelte sono legittime se orientate all’interesse pubblico che la legge assegna in cura all’amministrazione (la legittimità dell’attività amministrativa è perciò definita in positivo). Lo spazio di scelta che la legge attribuisce all’amministrazione, perché questa realizzi l’interesse pubblico, si chiama discrezionalità amministrativa. La scelta discrezionale può riguardare l’opportunità o meno di provvedere, il momento in cui farlo, la misura o il contenuto del provvedimento e gli strumenti. Il più delle volte all’amministrazione non è attribuita solo la scelta dei mezzi con cui raggiungere un determinato obiettivo, ma la valutazione di come, in relazione all’oggetto concreto, bilanciare interessi pubblici o pubblici e privati concorrenti. LE AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI La tendenza a ricondurre le attività economiche ai soggetti privati ed a realizzare un mercato concorrenziale, in attuazione dei valori europei, sta alla base dell’istituzione delle cosiddette Autorità amministrative indipendenti. Con questa formula di sintesi si comprendono alcune istituzioni che si differenziano dalle altre autorità pubbliche perché sono indipendenti rispetto al Governo ed al suo indirizzo politico, svolgono funzioni di controllo e di arbitraggio in certi settori economici e servono a garantire l’osservanza di regole generalmente riconducibili a valori europei, in primo luogo a quello della realizzazione di un mercato concorrenziale. Esse, perciò, costituiscono una risposta sia alla globalizzazione dei mercati ed allo sviluppo tecnologico, sia alla creazione di un mercato unico comunitario basato sulla libera concorrenza. Lo Stato si trasforma da Stato imprenditore in Stato regolatore che, generalmente, in attuazione o in armonia con i principi europei, fissa regole imitatrici dell’iniziativa economica a tutela di interessi collettivi, regole conformative, standard di qualità cui le imprese operanti in certi mercati devono attenersi per poter affacciarsi sul mercato. Conseguentemente, esso deve dare spazio a strutture organizzative che assicurino l’osservanza di queste regole da parte degli operatori economici, senza cedere alle pressioni di parte e, quindi, mantenendo una posizione di terzietà rispetto agli operatori economici del settore e di indipendenza rispetto agli altri poteri pubblici. Pertanto, i titolari di queste Autorità, di regola, non sono nominati dal Governo, durano in carica per un periodo predeterminato e, inoltre, spesso finiscono per seguire moduli operativi simili a quelli giurisdizionali, anche se certamente non appartengono alla giurisdizione e contro i loro atti può essere attuato un ricorso agli organi giurisdizionali. Nell’ordinamento italiano, la figura più importante di Autorità amministrativa indipendente è costituita dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. L’Antitrust è un organo collegiale costituito dal Presidente e da 4 membri nominati con determinazione adottata d’intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, tra persone di notoria indipendenza e competenza. Essa ha il compito di garantire il diritto di iniziativa economica, contro quei comportamenti delle imprese che producono una limitazione della concorrenza. I comportamenti vietati sono stabiliti dalla legge e rispondono alle intese restrittive della libertà di concorrenza, all’abuso di posizione dominante nel mercato ed alle operazioni di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza. All’Autorità Antitrust si aggiungono altre figure, che non si limitano a controllare, ma hanno anche importanti poteri di regolazione dello specifico mercato, finalizzati a garantire la concorrenza anche nei comparti in cui lo specifico mezzo fisico utilizzato per la produzione presenta rilevanti limiti strutturali: • La Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB); • L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM); • Il Garante per la protezione dei dati personali. Accanto alle Autorità amministrative indipendenti esistono le cosiddette Autorità semi-indipendenti, i cui membri sono nominati dal Governo, ed hanno funzioni schiettamente amministrative (l’Autorità dell’energia). IL PROCEDIMENTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE Dato il carattere rigido della Costituzione italiana, la procedura di revisione costituzionale ha delle caratteristiche diverse rispetto al procedimento di modifica di una legge ordinaria. Viene, infatti, detta aggravata ed è disciplinata dall’articolo 138 Cost. Il procedimento per le leggi costituzionali prevede due deliberazioni successive da parte di ciascuna Camera. In tutto vi saranno dunque quattro deliberazioni, sul medesimo testo: due in ogni ramo del Parlamento. La prima deliberazione è a maggioranza relativa: basta che i sì superino i no. Siccome in questa fase le Camere possono apportare al progetto di legge costituzionale qualsiasi emendamento, il progetto è destinato a viaggiare tra Camera e Senato (le cosiddette navette) tante volte quante sono necessarie ad ottener il voto favorevole di entrambe sul medesimo testo. La seconda votazione può essere effettuata solo dopo che sia trascorso un intervallo di tre mesi dalla prima. I regolamenti delle Camere vietano che siano portati emendamenti al testo votato in precedenza perché altrimenti il procedimento dovrebbe ripartire dall’inizio. Nella seconda approvazione si aprono due strade alternative. Se il consenso sulla riforma è così ampio che nella votazione in ciascuna Camera si esprime a favore la maggioranza qualificata dei 2/3 dei membri per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Si tratta però di un principio generale non recepito dalla Costituzione, che vieta soltanto la retroattività delle norme penali incriminatrici (articolo 25.2 Cost.). Il principio di irretroattività vale anche per l’abrogazione. Se questa è un effetto prodotto dal nuovo atto sulle norme precedenti, esso opera, in mancanza di disposizioni contrarie, solo per il futuro. La vecchia norma perde efficacia dal giorno dell’entrata in vigore del nuovo atto, e questo significa non solo che non sarà più la regola dei rapporti giuridici sorti dopo quella data, ma anche che tutti i rapporti precedenti restano in piedi e rimangono regolati da essa. La vecchia norma, quindi, benché abrogata, sarà pur sempre la norma che il giudice dovrà applicare ai vecchi rapporti. Può dunque capitare che il giudice si trovi ad applicare ancora norme abrogate da diversi anni. In gergo si dice che l’abrogazione opera ex nunc (“da ora”). L’art 15 delle Preleggi elenca tre ipotesi di abrogazione: • Abrogazione espressa: “per dichiarazione espressa del legislatore”. È il contenuto di una disposizione. Solitamente si tratta di uno degli articoli finali della legge in cui si scrive “sono abrogate le seguenti disposizioni”, e segue l’elenco degli atti, articoli e commi e, talvolta, singole porzioni degli enunciati legislativi: ovviamente ciò che il legislatore dispone vale per tutti (“erga omnes”; • Abrogazione tacita: “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”. L’abrogazione tacita non è disposta dal legislatore e non è il contenuto di un’apposita disposizione. Anzi, il problema nasce proprio dal fatto che il legislatore, emanando le nuove disposizioni, non si è preoccupato di eliminare le vecchie. È quindi il giudice a dover fare pulizia, perché si trova di fronte ad un’antinomia: egli deve ritenere che prevalga la norma successiva perché questa è la conseguenza di un principio fondamentale in un sistema rappresentativo. Ma il giudice non può eliminare le disposizioni, ma può operare solo con gli strumenti dell’interpretazione, e questi gli dicono di preferire la norma più recente e di considerare la vecchia come abrogata. Gli effetti temporali dell’abrogazione tacita sono identici agli effetti dell’abrogazione esplicita (ex nunc). Ciò non vale per gli effetti spaziali perché, mentre le disposizioni del legislatore valgono sempre per tutti, le interpretazioni del giudice valgono solo nel singolo giudizio (inter partes) e non vincolano affatto gli altri giudici; • Abrogazione implicita: “perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”. L’abrogazione implicita è simile a quella tacita. Non c’è infatti una disposizione che dichiari l’abrogazione della legge precedente, ma è l’interprete che trae dal fatto che il legislatore abbia riformato la materia un argomento per sostenere che la vecchia legge debba ritenersi abrogata e le sue norme non debbano più essere applicate. Questa abrogazione opera perciò sul piano dell’interpretazione e non su quello della legislazione. La differenza tra l’abrogazione tacita e quella implicita è quindi essenzialmente di strategie argomentative seguite dall’interprete: inoltre, mentre la prima basandosi su contrasto tra singole norme, porta di solito a ritenere abrogata una o più disposizioni, la seconda, basandosi sul fatto che la disciplina della materia è stata riformata, porta a ritenere abrogata una o più leggi. Diversa dall’abrogazione è la deroga: essa nasce da un contrasto tra norme di tipo diverso, nel senso che la norma derogata è una norma generale, mentre la norma derogante è una norma particolare: è semplicemente un’eccezione alla regola. La differenza tra l’abrogazione e la deroga sta nel fatto che la norma abrogata perde efficacia per il futuro, e può riprendere a produrre effetti soltanto nel caso in cui il legislatore emani un’ulteriore disposizione che lo prescriva (si parla di riviviscenza della norma abrogata). La norma derogata non perde, invece, la sua efficacia, ma viene limitato il suo campo di applicazione. Simile alla deroga è la sospensione dell’applicazione di una norma, sospensione limitata a un certo periodo e spesso a singole categorie o zone. IL CRITERIO GERARCHICO Il criterio gerarchico dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella che nella gerarchia delle fonti occupa il posto più elevato. Quando la Costituzione dispone che la Corte costituzionale giudica della legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (articolo 134 Cost.), disegna implicitamente una gerarchia, per cui in caso di contrasto la Costituzione prevale sulla legge e sugli atti a questa equiparati. La prevalenza della norma superiore su quella inferiore si esprime attraverso l’annullamento, ossia l’effetto di una dichiarazione di illegittimità che un giudice pronuncia nei confronti di un atto, di una disposizione o di una norma. A seguito della dichiarazione di illegittimità, l’atto, la disposizione o la norma perdono la validità. La validità consiste nella conformità di un atto o di un negozio giuridico rispetto alle norme che lo disciplinano. L’atto invalido è un atto viziato: mentre l’abrogazione opera nel ricambio fisiologico dell’ordinamento, l’annullamento colpisce situazioni patologiche che si verificano in esso. I vizi possono essere di due tipi: • Vizi formali, che riguardano la forma dell’atto: se esso è emanato da un organo non competente oppure il procedimento seguito per la sua formazione non corrisponde a quanto prescritto dalle norme superiori. In questo caso sarà l’intero atto ad essere viziato; • Vizi sostanziali che riguardano i contenuti normativi di una disposizione, cioè le norme. La disposizione sarà viziata perché produce un’antinomia, un contrasto con norme tratte da disposizioni di rango superiore. In linea generale, quando un giudice dichiara l’illegittimità di un atto normativo, questa dichiarazione ha effetti generali (erga omnes): in seguito ad essa, l’atto annullato non può essere applicato a nessun rapporto giuridico, anche se sorto in precedenza all’annullamento. Al contrario dell’abrogazione, dunque, l’annullamento non opera solo per il futuro, ma anche per il passato (ex tunc). Però, gli effetti dell’annullamento si avvertono solo per quei rapporti giuridici che l’interessato possa sottoporre a un giudice, che siano cioè ancora azionabili: questi si dicono rapporti pendenti o aperti, in contrapposizione ai rapporti esauriti o chiusi, i quali non possono essere dedotti davanti al giudice. I rapporti si chiudono: • Con il decorso del tempo: estinzione del diritto per prescrizione e perdita della possibilità di esercitare il diritto, cioè decadenza; • Per volontà dell’interessato: acquiescenza; • Perché il rapporto è stato definito con una sentenza non più impugnabile: giudicato. Se una norma posteriore di grado inferiore (una nuova legge) contraddice una norma precedente di grado superiore (un articolo della Costituzione), non ci potrà essere abrogazione della norma superiore da parte della norma inferiore, ma annullamento di quest’ultima. Il criterio gerarchico, dunque, prevale rispetto a quello cronologico. Invece, nel caso in cui una norma posteriore di grado superiore contraddice una norma precedente di grado inferiore bisogna tener conto se le due norme siano omogenee o meno. Due norme possono dirsi omogenee se sono entrambe di “principio” od entrambe di “dettaglio”. Allora, se sono omogenee si ritiene che prevalga il criterio cronologico (la norma successiva abroga direttamente quella precedente, senza bisogno che il giudice dichiari l’illegittimità). Al contrario, se sono disomogenee, vi è l’abrogazione nell’ipotesi che la in cui la norma successiva superiore sia di dettaglio, altrimenti, nel caso più normale in cui la norma successiva superiore sia di principio non si ha abrogazione, ma dovrà intervenire un giudice dichiarando l’illegittimità della norma precedente, inferiore e di dettaglio (prevale nuovamente il criterio gerarchico su quello cronologico). IL CRITERIO DELLA SPECIALITÀ Il criterio della specialità dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma speciale a quella generale, anche se questa è successiva. Questo profilo non è ben codificato, né sotto il profilo concettuale né sotto quello legislativo. La preferenza per la norma speciale non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (abrogazione), né con riferimento alla sua validità (annullamento). Le norme in conflitto rimangono entrambe efficaci e valide: l’interprete opera solamente una scelta circa quale norma da applicare, mentre l’altra norma semplicemente non è applicata ma rimane ovviamente in vigore. Dunque, si può dire che l’effetto tipico della prevalenza della norma speciale su quella generale è la deroga. È evidente che il criterio di specialità opera esclusivamente tra norme, cioè sul piano dell’interpretazione: infatti, è proprio l’interprete a dover risolvere l’antinomia e scioglie il conflitto tra norme applicando, se non interferiscono altri criteri, il criterio della specialità. Tale criterio, quindi, opera inter partes. Il legislatore può comunque indicare, con un’esplicita disposizione, la prevalenza di una norma sull’altra: è il caso di quelle disposizioni in cui la regola è accompagnata da una clausola di esclusione di alcune ipotesi, cioè dall’eccezione. L’eccezione può essere disciplinata dalla stessa disposizione che pone la regola, oppure può essere prevista con una clausola di rinvio indeterminato. Ma in questi casi non si parla di applicazione del criterio di specialità, ma si tratta semplicemente di una tecnica di redazione dei testi normativi, un modo in cui il legislatore delimita, ovviamente con effetti erga omnes, l’ambito di applicazione delle sue stesse disposizioni. IL CRITERIO DELLA COMPETENZA Il criterio della competenza non si presta ad una definizione stringente in forma di regola per l’interprete: serve a spiegare com’è organizzato attualmente il sistema delle fonti, piuttosto che ad indicare all’interprete come risolvere le antinomie. Il problema da cui nasce il criterio della competenza è questo: l’introduzione della Costituzione rigida, e quindi di una fonte sovrapposta alla legge ordinaria, ha comportato che, accanto alla legge formale, cioè all’atto prodotto attraverso il normale procedimento parlamentare, siano presenti altre leggi od altri atti equiparati alla legge formale a cui, per ragioni diverse, la Costituzione assegna “competenze” particolari. La gerarchia delle fonti non basta più a darci il quadro esatto del sistema, perché all’interno dello stesso grado gerarchico, cioè tra atti che hanno la stessa posizione gerarchica, e quindi la stessa forza, vi sono suddivisioni non spiegabili in termini, appunto, di “forza” (di gerarchia), ma di “competenza”. Se dovessimo utilizzare il criterio della competenza come regola con cui risolvere i conflitti tra norme, dovremmo dire che esso prescrive di dare preferenza alla norma competente. Alla decisione della prevalenza si arriva mediante tre fasi, comuni allo schema del criterio di specialità: • La distinzione tra gli ambiti di applicazione delle due norme; • La scelta della norma competente “per ambito”; • La non applicazione della norma incompetente. Benché il criterio di competenza, in quanto prescrizione diretta all’interprete, non sembri dunque avere una propria consistenza, autonomia dagli altri criteri, esso è tuttavia assunto dalla Corte costituzionale come criterio che deve guidare i giudici in alcune situazioni, come nei rapporti tra atti normativi statali e atti normativi regionali o quando si trovino di fronte al contrasto tra una norma dell’ordinamento italiano e una norma dell’UE. LA LEGGE La Legge formale è l’atto normativo prodotto dalla deliberazione delle Camere e promulgato dal PdR: è la fonte del diritto per eccellenza. La “forma” della legge è data dal particolare procedimento prescritto dalla Costituzione per la sua formazione. Attraverso questo procedimento sono formate sia le leggi ordinarie che le leggi costituzionali (una variante aggravata del procedimento legislativo ordinario). Con l’espressione legge formale si indica sia la legge che occupa nella gerarchia delle fonti lo stesso gradino della Costituzione (legge costituzionale), sia la legge che occupa il gradino immediatamente inferiore (legge formale ordinaria). Gli atti con forza di legge sono invece atti normativi che non hanno la “forma” della legge (cioè non sono prodotti dalla deliberazione delle Camere e promulgati dal PdR), ma sono equiparati alla legge formale ordinaria: occupano la sua stessa posizione nella scala gerarchica, e perciò, possono validamente abrogarla (hanno la stessa “forza attiva” della legge ordinaria) ed essere da essa e solo da essa abrogati (hanno la stessa “forza passiva”). Sono dunque fonti che possono sostituirsi alla legge, almeno laddove la Costituzione non ponga una riserva di legge formale. • In terzo luogo, l’articolo 76 Cost. prescrive che la legge di delega contenga delle indicazioni minime (i cosiddetti contenuti necessari): i. Deve restringere l’ambito tematico della funzione delegata, indicando un oggetto definito: la delega non deve essere generale, ma circoscritta a singoli argomenti; ii. Deve restringere l’ambito temporale della funzione delegata, indicando un tempo limitato entro il quale il decreto deve essere emanato: se il termine previsto per l’esercizio della delega eccede i 2 anni, il Governo è tenuto a sottoporre lo schema di decreto delegato al parere delle Commissioni permanenti delle due Camere; iii. Deve restringere l’ambito della discrezionalità del Governo, indicando i principi e criteri direttivi che servono da guida per l’esercizio del potere delegato. Il potere esecutivo esercita le proprie funzioni attraverso la forma del decreto. Decreti sono anche gli atti che il Governo emana nell’esercizio delle attribuzioni legislative che gli sono riconosciute dalla Costituzione. Quanto ai decreti emanati in forza della legge di delega, la loro formazione segue questo procedimento: • Proposta del ministro (o dei ministri) competente; • Delibera del Consiglio dei ministri; • Eventuali adempimenti ulteriori; • Eventuale deliberazione definitiva del Consiglio dei ministri, a seguito dei pareri espressi dai soggetti consultati; • Emanazione da parte del PdR (articolo 87.5 Cost.). Di tutte le fasi procedimentali deve essere data indicazione nella “premessa” del decreto. L’articolo 14.1 della legge 400/1988 introduce una novità quanto al “nomen juris” dei decreti delegati: essi vengono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale con la denominazione di “decreto legislativo” (comunemente abbreviato in d.lgs.) e con la stessa numerazione progressiva delle leggi. L’emanazione del decreto legislativo deve avvenire entro il termine stabilito dalla legge di delegazione, mentre il testo del decreto legislativo adottato dal governo è trasmesso al Presidente della Repubblica, per l’emanazione, almeno venti giorni prima della scadenza (articolo 14.2). Scaduto il termine, viene meno ogni potere del Governo di deliberare le norme delegate. Emanato il decreto, il potere delegato è comunque esaurito. Nell’emanazione del decreto, il PdR non svolge una funzione solo formale rispetto a quello che svolge in sede di promulgazione della legge. Se la delega legislativa si riferisce ad una pluralità di oggetti distinti suscettibili di separata disciplina, il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per uno o più degli oggetti predetti (articolo 14.3). Le norme illegittime di un decreto legislativo possono essere eliminate attraverso il giudizio della Corte Costituzionale (articolo 134 Cost.). LA RISERVA DI LEGGE La riserva di legge è lo strumento con cui la Costituzione regola il concorso delle fonti nella disciplina di una determinata materia. L’obiettivo è quello di evitare che, in materie particolarmente delicate, manchi una disciplina legislativa capace di vincolare il comportamento degli organi del potere esecutivo. La riserva di legge è, perciò, una regola per l’esercizio della funzione legislativa: impone al legislatore di disciplinare una determinata materia, impedendogli di lasciare che essa venga disciplinata, in tutto o in parte, da atti che stanno ad un livello gerarchico più basso della legge. È dunque evidente che la riserva di legge acquista un significato preciso soltanto dove vi sia una Costituzione rigida, perché solo in questo caso i limiti posti dalla Costituzione alla funzione legislativa possono imporsi al legislatore e, se violati, causare l’illegittimità della legge prodotta. Diverso significato ha il principio di legalità, il quale affonda le sue radici nello Stato di diritto. Esso prescrive che l’esercizio di qualsiasi potere pubblico si fondi su una previa norma attributiva della competenza: la sua ratio è quella di assicurare un uso regolato, non arbitrario, controllabile, “giustiziabile”, del potere. La nostra Costituzione dà per scontato che il principio di legalità ispiri il nostro ordinamento, anche se si trovano alcuni accenni più o meno espliciti in varie disposizioni: articoli 23 Cost. (prestazioni personali), 25.2 (legalità delle pene), 101.2 (soggezione dei giudici alla legge). La funzione legislativa è oggi sottoposta al principio di legalità: essa è attribuita, regolata e limitata dalla Costituzione. La riserva di legge è appunto una delle regole limitative del potere legislativo poste dalla Costituzione: essa si presenta perciò come un risultato dell’estensione della legalità alla stessa attività legislativa. Il meccanismo della riserva di legge opera in diversi modi. Bisogna infatti distinguere tra: • Riserve di legge e riserve ad altri atti; • All’interno delle riserve di legge, tra le riserve alla legge formale ordinaria e le riserve alle fonti primarie (cioè alla legge ordinaria e alle fonti equiparate); • Tra le riserve alle fonti primarie si possono distinguere diverse tipologie di riserve (assolute, relative, rinforzate, ecc.). Le riserve a favore di atti diversi dalla legge sono rare. Si tratta di: • Riserve a favore della legge costituzionale: l’articolo 138 Cost. introduce un particolare procedimento di revisione costituzionale; • Riserve a favore dei regolamenti parlamentari; • Riserve a favore dei decreti di attuazione degli Statuti speciali. La riserva di legge formale ordinaria impone che sulla materia intervenga il solo atto legislativo prodotto attraverso il procedimento parlamentare con esclusione quindi degli atti equiparati alla legge formale stessa. La ratio di questa riserva è quella di riservare all’approvazione parlamentare tutte quelle leggi che rappresentano strumenti attraverso i quali il Parlamento controlla l’operato del Governo. È il Governo ad emanare provvedimenti urgenti che si sostituiscono alla legge, e a chiedere al Parlamento di approvarli e di trasformarli in legge (articolo 77.2 Cost.). Le semplici riserve di legge prescrivono che la materia considerata da esse sia disciplinata dalla legge ordinaria (dunque includendo anche gli atti con forza di legge), escludendo o limitando l’intervento di atti di livello gerarchico inferiore alla legge, cioè dei regolamenti amministrativi. La ratio della riserva di legge è di assicurare che la disciplina di materie particolarmente delicate venga decisa con la garanzia tipica insita nel procedimento parlamentare: è vero che, operando la riserva a favore della legge ordinaria, essa ammette non solo la legge formale ma anche gli atti con forza di legge, ma è anche vero che l’emanazione dell’atto con forza di legge del Governo è sempre preceduta o seguita da una legge formale. A seconda dei rapporti tra legge e regolamento si distinguono due tipi di riserve di legge: • La riserva assoluta esclude qualsiasi intervento di fonti sub-legislative dalla disciplina della materia, che, pertanto, dovrà essere integralmente regolata dalla legge formale ordinaria o da atti ad essa equiparati. Riserve di questo tipo soprattutto si trovano nella parte della Costituzione dedicata alle libertà fondamentali (articolo 13.2 Cost. dispone che la libertà personale sia limitata solo nei casi e modi previsti dalla legge). La ratio è che le libertà fondamentali sono rivendicate contro il “potere”, contro lo Stato ed il suo potere coercitivo, che è detenuto dal Governo e dalle strutture dei pubblici poteri che dipendono da esso. Ecco perché le limitazioni di queste libertà devono essere decise con le garanzie della legge. Per vincolare ulteriormente l’attività dei poteri pubblici in merito a questa materia, molte disposizioni costituzionali aggiungono alla riserva assoluta di legge anche la riserva di giurisdizione: così, ogni atto dei poteri pubblici che incida sulla libertà, non solo deve essere previsto in astratto dalla legge, ma deve essere autorizzato in concreto dal giudice (per atto motivato dell’autorità giudiziaria, articolo 13.2 Cost.); • La riserva relativa non esclude che alla disciplina della materia concorra anche il regolamento amministrativo, ma richiede che la legge disciplini preventivamente almeno i principi a cui il regolamento deve attenersi. (l’articolo 97.1 Cost. dispone che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge). Sta alla legge decidere quanto strette debbano essere le maglie della sua disciplina, ma una legge deve esserci e non può limitarsi a conferire al Governo un potere normativo in bianco. Ponendo questa riserva, la Costituzione pone contemporaneamente un vincolo al legislatore, il quale deve dettare almeno la disciplina generale della materia, ed un vincolo al potere esecutivo, i cui atti sono sottoposti al principio di legalità sostanziale. Le riserve rinforzate sono un meccanismo con cui la Costituzione non si limita a riservare la disciplina di una materia alla legge, ma pone ulteriori vincoli al legislatore. Si possono distinguere: • Le riserve rinforzate per contenuto: si hanno in quei casi in cui la Costituzione prevede che una determinata regolazione possa essere fatta dalla legge ordinaria soltanto con contenuti particolari: → L’articolo 14.3 Cost. consente al legislatore di dettare regole speciali, meno rigide, per le perquisizioni domiciliari ma solo per motivi di sanità e di incolumità pubblica, oppure per “fini economici e fiscali”; → L’articolo 16.1 Cost. consente al legislatore di limitare la libertà di circolazione, ma solo con regole che dispongano in generale per motivi di sanità o di sicurezza; → L’articolo 43 Cost. consente alla legge, a fini di utilità generale di nazionalizzare le imprese, questa volta non in via generale, ma solo individuando determinate imprese o categorie di imprese. La ratio di queste riserve è di limitare il potere del legislatore, in modo che le eventuali leggi che intendessero comprimere la sfera di libertà degli individui potranno essere legittime solo a condizione che siano razionalmente giustificabili in relazione ai fini indicati dalla Costituzione. • Le riserve rinforzate per procedimento: prevedono invece che la disciplina di una determinata materia debba seguire un procedimento aggravato (o rinforzato) rispetto al normale procedimento legislativo: → L’articolo 7 Cost. prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, già regolati dal Concordato, possano essere modificati solo previo accordo tra le due parti; → L’articolo 116.3 Cost. prevede che con legge formale, approvata a maggioranza assoluta (1° rafforzamento) sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata (2° rafforzamento), su iniziativa della stessa e sentiti gli enti locali (3° rafforzamento), si possano riconoscere a determinate Regioni forma e condizioni particolari di autonomia riguardanti alcune specifiche materie (rafforzamento per contenuto). La ratio di queste riserve di legge è di limitare il potere della maggioranza politica nei confronti delle minoranze, siano esse comunità religiose o comunità locali: la maggioranza può fare la legge solo al “costo” di ottenere il consenso dei soggetti che rappresentano la comunità minoritaria interessata. I REGOLAMENTI DELL’ESECUTIVO Con il termine regolamento si designano atti normativi difficilmente riconducibili a tipologie unitarie. In alcuni casi, tale termine designa atti tipici, fonti dell’ordinamento giuridico generale: questo è il caso dei regolamenti amministrativi (categoria in cui rientrano i regolamenti dell’esecutivo, i regolamenti regionali e i regolamenti degli enti locali), cioè atti sostanzialmente legislativi ma formalmente amministrativi. I regolamenti dell’esecutivo sono atti normativi spesso complessi ed emanati dagli organi dell’esecutivo attraverso un procedimento che non ha le garanzie di controllo parlamentare che caratterizzano le leggi e gli atti con forza di legge. Lo spazio normativo che occupa il regolamento dell’esecutivo dipende dalla legge: questo perché il regolamento dell’esecutivo è una fonte secondaria, sottoposta nella gerarchia delle fonti, alle fonti primarie, cioè alla legge e agli atti con forza di legge. La Costituzione non disciplina i regolamenti dell’esecutivo: essa si limita a disciplinare la formazione della legge formale e gli atti ad essa equiparati. Tali regolamenti sono menzionati indirettamente dall’articolo 87.5 Cost., che, enumerando le attribuzioni del PdR, include anche l’emanazione di essi. Tuttavia, la riforma costituzionale del Titolo V, ha introdotto un’importante innovazione (articolo 117.6 Cost.): ha stabilito il principio di parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti alle sole materie sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e riservando alle Regioni il potere regolamentare in tutte le altre materie. Oggi, perciò, i regolamenti del Governo sono fonti a competenza limitata dalla Costituzione. Il fondamento dei regolamenti, ossia le condizioni per la loro validità, va ricercato nella legge ordinaria. Da qui derivano tre importanti conseguenze: • Mentre per le fonti primarie il sistema è chiuso, in quanto la tipologia degli atti è compiutamente e tassativamente elencata dalla Costituzione, lo stesso non vale per le fonti secondarie, che sono modellabili dalla legislazione ordinaria; • In caso in cui, prima dello svolgimento del referendum, la legge venga abrogata: l’Ufficio centrale dichiara che le operazioni non hanno più corso. LA DELEGIFICAZIONE L’articolo 17.2 della legge 400/1988 disciplina il fenomeno dei regolamenti cosiddetti “delegati” o “autorizzati”. La particolarità di questi regolamenti è di provocare un apparente effetto abrogativo delle leggi precedenti. La loro funzione, infatti, è di produrre la cosiddetta “delegificazione”, cioè la sostituzione della precedente disciplina di livello legislativo con una nuova disciplina di livello regolamentare. Tale articolo stabilisce che è la legge ordinaria a disporre l’abrogazione della legislazione precedente, facendo però decorrere l’effetto abrogativo dalla data di entrata in vigore del regolamento, la cui emanazione essa autorizza. L’assenza nel nostro ordinamento di una riserva di regolamento amministrativo favorisce l’inarrestabile tendenza del legislatore ordinario ad occuparsi delle materie più disparate, irrigidendone la disciplina. La delegificazione si propone come rimedio all’espansione ipertrofica della legislazione ordinaria, rimedio che opera declassando la disciplina della materia dalla legge al regolamento. Essa muove ad un abbassamento del livello della disciplina normativa che regola una materia, nella convinzione che, sostituendo la legge con il regolamento, si possa velocizzare l’adeguamento delle regole alla realtà. La deregolamentazione punta, invece, ad una drastica riduzione dell’insieme delle regole che imbrigliano l’attività dei privati in un certo settore, nella convinzione che l’iniziativa privata e il mercato possano finalmente riespandersi, con tutti i conseguenti effetti benefici. Mentre la semplificazione intende eliminare, o almeno attenuare, il peso e i costi degli asfissianti procedimenti burocratici, che inutilmente opprimono la vita dei privati e delle imprese. La delegificazione non significa affatto ridurre il numero delle norme in vigore su una certa materia. Anzi, spesso il passaggio da una disciplina legislativa ad una ministeriale comporta maggiore anelasticità delle regole. Quindi, non è affatto detto che la delegificazione influisca positivamente anche sulla semplificazione. LA COMPOSIZIONE E LE FUNZIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE La Corte costituzionale è un organo costituzionale di giustizia e di garanzia richiesto dalla stessa rigidità della Costituzione per garantire il rispetto delle norme costituzionali. È evidente l’importanza della composizione della Corte costituzionale vista la delicatezza giuridica e politica delle sue competenze e la necessità della sua indipendenza. La Corte costituzionale, secondo l’articolo 134 Cost. è competente a giudicare: • Sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni. L’articolo 137.1 Cost. pone una riserva di legge costituzionale per stabilire le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale; • Sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato; • Sui conflitti di attribuzione fra lo Stato e le Regioni e fra le Regioni; • Sulle accuse promosse contro il PdR a norma della Costituzione, cioè per le uniche due ipotesi di responsabilità presidenziale; • Sull’ammissibilità dei referendum abrogativi (articolo 75.2 Cost.). Ai sensi dell’articolo 135.1 Cost., la composizione della Corte costituzionale è di 15 giudici nominati: • Per ⅓ dal PdR: la scelta dei giudici è completamente rimessa alla discrezionalità del Capo dello Stato, senza alcuna proposta governativa. La controfirma apposta dal PdC esprime, in questo caso, un semplice controllo esterno. Dunque, la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato un potere di notevole rilievo affinché egli lo eserciti con l’imparzialità che è propria del suo ruolo; • Per ⅓ dal Parlamento in seduta comune: la loro elezione avviene a scrutinio segreto con la maggioranza qualificata dei ⅔ dei componenti l’assemblea e, dopo il 3° scrutinio, è sufficiente la maggioranza dei 3/5 dei componenti; • Per ⅓ dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative: ossia tre sono eletti dai magistrati della Corte di cassazione ed uno ciascuno dai magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, con maggioranza assoluta nella 1° votazione e successivamente relativa. È normale che ai giudici costituzionali chiamati a comporre la Corte costituzionale siano richiesti requisiti tecnici elevati, perché essi hanno da interpretare ed applicare la Costituzione come testo normativo, impiegando gli strumenti e le tecniche tipiche del giurista. È nella qualità tecnico-giuridica del loro lavoro che si fonda la legittimazione di tali giudici. Perciò, è la stessa Costituzione a preoccuparsi di indicare i requisiti professionali dei componenti la Corte costituzionale nell’articolo 135.2 Cost. I giudici costituzionali durano in carica per 9 anni decorrenti dal giorno del giuramento ed il loro mandato non è rinnovabile (articolo 135.3 Cost.). Tuttavia, i giudici non scadono tutti insieme, ma uno alla volta. Il periodo del mandato ha inizio dal giorno del giuramento: alla scadenza, il giudice cessa dalla carica e dall’esercizio delle funzioni (articolo 135.4 Cost.). Ciò significa che ai giudici non si applica il regime della prorogatio (ad eccezione dei giudizi d’accusa), in forza della quale i titolari di pubblici uffici, benché scaduti, continuano a svolgere le proprie funzioni sino a quando non siano sostituiti. Il Presidente è un giudice della Corte, eletto dalla Corte stessa a scrutinio segreto ed a maggioranza assoluta. Il suo mandato è triennale ed è rinnovabile (articolo 135.5 Cost.). A parte le consuete funzioni di rappresentanza esterna e la direzione amministrativa degli uffici della Corte, spettano al Presidente le funzioni tipiche di chi presiede un organo collegiale: dunque, convoca la Corte, ne presiede le sedute, stabilisce il calendario delle udienze, decide gli incarichi dei giudici, sovraintende all'attività delle Commissioni ed esercita gli altri poteri che gli sono attribuiti per legge e dai regolamenti. Oltretutto, a parità di voti, su una questione di legittimità, il suo voto vale doppio. Vige un severo regime di incompatibilità, che riguarda non solo le cariche politiche elettive (membro del Parlamento o dei Consigli regionali), ma anche la professione (articolo 135.6 Cost.). Naturalmente, durante il loro mandato i giudici della Corte costituzionale non possono svolgere attività inerente ad un’associazione o partito politico (articolo 98.2 Cost.). La Corte ha invece una composizione allargata allorché debba giudicare sulle accuse nei confronti del PdR. In tali casi, la composizione ordinaria della Corte viene integrata con l’aggiunta di altri 16 membri (giudici aggregati), estratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, compilato dal Parlamento in seduta comune ogni 9 anni, mediante elezione con le stesse modalità stabilite per l’elezione dei giudici ordinari (articolo 135.7 Cost.). Le decisioni che la Corte emana sono di due tipi: le sentenze e le ordinanze. L’articolo 18 della legge 87/1953 ci indica il criterio generale di distinzione tra questi due atti: la Corte giudica in via definitiva con sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottati con ordinanza. Dunque, la sentenza definisce il giudizio, ossia è l’atto con cui il giudice chiude il processo, mentre l’ordinanza è uno strumento che non esaurisce il rapporto, ma serve per risolvere questioni che sorgono nel corso del processo. La Costituzione e le leggi cercano di assicurare la “neutralità” della Corte costituzionale e dei suoi giudici attraverso un ricco complesso di garanzie: • Immunità ed improcedibilità: i giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, inoltre, i giudici, finché durano in carica, godono della stessa immunità personale accordata ai parlamentari (articolo 68.2); • Inamovibilità: i giudici della Corte costituzionale non possono essere rimossi né sospesi dal loro ufficio se non a seguito di una deliberazione della stessa Corte, presa a maggioranza dei ⅔ dei presenti, e solo per sopravvenuta incapacità fisica o civile o per gravi mancanze nell’esercizio delle loro funzioni. Però il giudice decade dalla carica se non esercita per 6 mesi le sue funzioni; • Convalida delle nomine: spetta alla stessa Corte costituzionale, che delibera a maggioranza assoluta la convalida della nomina dei suoi membri; • Trattamento economico: i giudici della Corte hanno un trattamento economico che non può essere inferiore a quello del magistrato ordinario investito delle più alte funzioni. Alla scadenza del mandato, ad essi è poi garantito il reinserimento nelle precedenti attività professionali; • Autonomia finanziaria e normativa: la Corte amministra un proprio bilancio, il cui ammontare è fissato dal bilancio dello Stato. Ha un proprio regolamento contabile che si affianca agli altri strumenti normativi di cui la Corte si può dotare per regolare il proprio funzionamento; • Autodichia: così come per le Camere, anche la Corte costituzionale gode di competenza esclusiva per giudicare i ricorsi in materia di impiego dei propri dipendenti. • a) Procedimento in via incidentale. L'illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge può farsi valere con un procedimento in via incidentale (o d'eccezione), cioè con un procedimento che consegue a una controversia pendente innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria o amministrativa. Nel corso di tale controversia può essere eccepita da una delle parti, o dal pubblico ministero, oppure d'ufficio, dall'autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio, l'incostituzionalità della legge da applicare. In questo caso il giudice rinvia gli atti alla Corte costituzionale sospendendo la causa affinché la Corte decida sulla questione. • b) Procedimento in via di azione. L'illegittimità costituzionale di una legge può farsi anche valere in via d'azione (o principale). Il governo quando ritenga che una legge approvata dal Consiglio regionale ecceda la competenza della Regione, la rinvia al Consiglio regionale nel termine di 30 giorni dalla comunicazione della legge stessa al commissario del governo per il visto. Se il Consiglio regionale la approva nuovamente a maggioranza assoluta dei suoi componenti, il governo può, entro 15 giorni dalla comunicazione, promuovere la questione di legittimità dinnanzi alla Corte costituzionale. La questione è sollevata, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, dal presidente del Consiglio. Inoltre, quando una Regione ritiene che una legge o un atto avente forza di legge della Repubblica invada la sfera di competenza a essa assegnata dalla Costituzione, può, con deliberazione della giunta regionale, promuovere l'azione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte, nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente forza di legge. La legge di una Regione può essere impugnata anche da un'altra Regione che ritenga lesa da tale legge la propria competenza. Il controllo di costituzionalità delle leggi tratta atti con forza di legge e quindi è da escludersi l’impugnabilità di norme consuetudinarie o regolamenti. Non si esclude che tali atti siano incostituzionali, ma la competenza a giudicare spetta al giudice ordinario o al giudice amministrativo. La forza di legge comporta, per l’atto che la possiede, una duplice qualità, consistente nella capacità innovativa, cioè di abrogare o di modificare qualsiasi atto di grado legislativo, e nella capacità di resistenza, nella capacità cioè di non essere abrogato o derogato da parte di qualsiasi atto di grado non legislativo. In poche parole abroga le norme di grado inferiore e non può essere da esse abrogata. Questo porta a concludere che sono certamente atti statali con forza di legge definiti decreti legislativi e decreti legge. La Corte non controlla, invece, i regolamenti, secondo il principio di autonomia delle Camere. Tutela, però, non solo la conformità costituzionale, ma anche i principi costituzionali non scritti. IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Il giudizio di legittimità costituzionale è detto giudizio in via incidentale in quanto la questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di un procedimento giudiziario (che viene detto giudizio principale o giudizio a quo), come “incidente processuale”, che comporta la sospensione del giudizio e la remissione della questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale. È un giudizio successivo e concreto, perché la legge viene in rilievo al momento della sua applicazione. È indisponibile in quanto il giudice, se sussistono i presupposti, è tenuto a sollevare la questione dinanzi alla Corte costituzionale, né le parti possono opporsi. La questione di legittimità costituzionale deve essere sollevata nel corso di un giudizio e dinanzi ad una autorità giurisdizionale: la deve sollevare il giudice, d’ufficio o su richiesta di una delle parti. Spetta al giudice formulare l’atto introduttivo e verificare la sussistenza di due requisiti: • Che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso: la rilevanza consiste in un legame di strumentalità, di pregiudizialità, tra la questione di legittimità costituzionale e il giudizio a quo. Il giudizio principale non può proseguire senza che venga risolta la questione di legittimità costituzionale; menomazione od interferenza, ossia dall’aver provocato un impedimento all’esercizio delle attribuzioni dell’ente. Il conflitto è introdotto da un ricorso: la condizione di ammissibilità del ricorso è l’interesse a ricorrere: il ricorrente deve dimostrare di aver subito una lesione attuale (non solo potenziale) e concreta (non solo teorica) della sua competenza. Nel caso in cui l’interesse al ricorso venga meno, la Corte dichiara la cessata materia del contendere. In giudizio sono legittimati a stare solo il PdC ed il Presidente della Giunta regionale. La sentenza che decide il conflitto dichiara a chi spetta (o non spetti) la competenza, con conseguente eventuale annullamento dell’atto che ha generato il conflitto. LE TIPOLOGIE DI PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE Le pronunce della Corte costituzionale nei giudizi di legittimità possono essere suddivise in tre grandi famiglie: le decisioni di inammissibilità, le sentenze di rigetto e le sentenze di accoglimento. LE DECISIONI DI INAMMISSIBILITÀ La Corte pronuncia l’inammissibilità della questione quando manchino i presupposti per procedere ad un giudizio di merito. Ciò può accadere: • Quando manchino i requisiti soggettivi e oggettivi per la legittimazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale, ossia quando la questione sia stata sollevata da un organo non qualificabile come giudice o al di fuori di un procedimento qualificabile come giudizio, oppure, nei giudizi in via d’azione, quando vi sia irregolarità nelle delibere del Consiglio dei ministri o della Giunta regionale o non siano stati rispettati i termini di impugnazione; • Quando sia carente l’oggetto del giudizio, ossia quando l’atto impugnato non rientri tra quelli indicati dall’articolo 134 Cost. Tale difetto può essere macroscopico, ed essere rilevato dalla Corte in limine litis: in questo caso la “manifesta inammissibilità” sarà decisa in camera di consiglio, senza dunque procedere all’udienza pubblica, e dichiarata con un’ordinanza; • Quando manchi il requisito della rilevanza: se vi è una semplice carenza di motivazione, la Corte, con ordinanza, ordinerà la restituzione degli atti al giudice a quo, perché egli riconsideri la rilevanza. Altrettanto accadrà se si è di fronte ad un’ipotesi di jus superveniens: quando la disposizione impugnata è stata abrogata dal legislatore dopo che il giudice ha sollevato la questione, la Corte restituisce gli atti al giudice a quo cui spetta di valutare se al suo giudizio si debba applicare la norma nuova o quella vecchia; • Quando l’ordinanza di remissione (o il ricorso) manchi di indicazioni sufficienti ed univoche per definire la questione di legittimità; • Quando siano stati compiuti errori meramente procedurali; • Quando la questione sottoposta alla Corte comporti una valutazione di natura politica o un sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento, esplicitamente esclusi dal controllo della Corte. LE SENTENZE DI RIGETTO Con la sentenza di rigetto la Corte dichiara non fondata la questione prospettata dall’ordinanza di remissione. È importante notare che la Corte non dichiara che la legge impugnata è legittima, ma si limita a respingere la questione sollevata dal giudice a quo. Tali sentenze sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale. A differenza delle sentenze di accoglimento, le sentenze di rigetto non hanno effetti erga omnes: il suo unico effetto giuridico è di precludere la riproposizione della stessa questione da parte dello stesso giudice nello stesso stato e grado dello stesso giudizio. Nessuna preclusione subiscono invece gli altri giudici (né lo steso giudice in altro processo): la preclusione opera perciò solo inter partes. Nulla esclude pertanto che la questione di costituzionalità venga nuovamente sollevata sia nello stesso processo sia in altro. Il rigetto di una questione di legittimità costituzionale non esclude che la stessa possa essere riproposta alla Corte, accompagnata da diverse motivazioni e che possa andare incontro ad un esito diverso. Ma se un altro giudice risolleva la questione senza aggiungere argomentazioni nuove, la Corte non entra neanche nel merito di essa e pronuncia, con ordinanza deliberata in camera di consiglio, la “manifesta infondatezza” della questione stessa. Invece, le sentenze interpretative di rigetto sono le decisioni con cui la Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale, non perché il dubbio di legittimità sollevato dal giudice (o nel ricorso) non sia giustificato, ma perché esso si basa su una cattiva interpretazione della disposizione impugnata. Esse non sono vincolanti, ma se l’interpretazione risultasse sempre errata alla fine la Corte costituzionale dichiarerebbe incostituzionale la norma. LE SENTENZE DI ACCOGLIMENTO Con la sentenza di accoglimento la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata. Tale dichiarazione ha effetti erga omnes, con un effetto assimilabile a quello dell’annullamento. La sentenza di accoglimento è assimilabile alla pronuncia di annullamento perché nasce dall’accertamento di un vizio della legge, di un contrasto con le norme costituzionali, gerarchicamente superiori, che causa l’invalidità della legge in questione. La sentenza ha valore costitutivo, nel senso che, benché il contrasto con la Costituzione sia certamente sorto in precedenza, è solo con la sentenza che esso è accertato e la legge viene invalidata. Gli effetti di tale sentenza operano ex tunc, ossia sono retroattivi. La dichiarazione di illegittimità si traduce, infatti in un ordine rivolto ai soggetti dell’applicazione (giudici e amministrazione) di non applicare più la norma illegittima. Ciò significa che gli effetti della sentenza di accoglimento non riguardano solo i rapporti che sorgono in futuro, ma anche quelli che sono sorti in passato, purché non si tratti di rapporti giuridici ormai chiusi, esauriti. Queste sentenze devono essere pubblicate immediatamente, e comunque non oltre 10 giorni, sulla Gazzetta ufficiale e, in caso di legge regionale, sul Bollettino ufficiale della Regione. L’articolo 136.1 Cost. dispone che la norma dichiarata incostituzionale dalla Corte cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Invece, le sentenze di accoglimento sono dette manipolative, interpretative od anche normative quando il loro dispositivo non si limita alla semplice dichiarazione di illegittimità della legge o delle singole sue disposizioni, ma l’illegittimità è dichiarata nella parte in cui la disposizione significa o non significa qualcosa; ossia per la norma che esprime. Queste sentenze comprendono: • Le sente di accoglimento parziale: con esse la Corte dichiara illegittima la disposizione per una parte solo del suo testo; • Le sentenze additive: sono decisioni con cui la Corte dichiara illegittima la disposizione nella parte in cui non prevede ciò che invece sarebbe costituzionalmente necessario prevedere; • Le sentenze sostitutive: sono le decisioni con cui la Corte dichiara l’illegittimità di una disposizione legislativa nella parte in cui prevede X anziché Y. L’EVOLUZIONE DEL REGIONALISMO ITALIANO L’organizzazione costituzionale italiana prevede, accanto agli apparati dello Stato centrale, un complesso sistema di autonomie regionali e locali. La Costituzione italiana del 1948 aveva previsto infatti uno Stato regionale e autonomista, basato su Regioni dotate di: • Autonomia politica (articolo 114 Cost.), cioè sulla capacità di darsi un proprio indirizzo politico, anche diverso da quello dello Stato; • Autonomia legislativa (articolo 117 Cost.) e amministrativa nelle materie espressamente indicate dalla Costituzione (articolo 118 Cost.); • Autonomia finanziaria (articolo 119 Cost.), cioè l’attribuzione di risorse finanziarie necessarie per esercitare le loro competenze, anche attraverso tributi regionali e la partecipazione ai proventi di tributi statali, nonché la libertà di stabilire come e in quali settori spendere le risorse che affluiscono nei loro bilanci. Le Regioni su cui si doveva applicare la disciplina prevista dalla Costituzione erano 15, alle quali si aggiungevano altre 5: Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, dotate di autonomia differenziata, più ampia di quella delle altre Regioni, e definita nei suoi contenuti dallo Statuto di ciascuna di queste Regioni, approvato con legge costituzionale. Mentre sono denominate Regioni ordinarie quelle disciplinate direttamente dalla Costituzione, le altre sono denominate Regioni speciali. Inoltre, condizioni di particolare autonomia sono state riconosciute alle Province autonome di Trento e Bolzano. Il documento costituzionale, poi, riconosceva l’autonomia di enti territoriali riguardanti un’area più piccola di quella regionale, e cioè i Comuni e le Province. La loro autonomia doveva essere definita da leggi generali dello Stato. Le Regioni ordinarie sono state istituite concretamente nel 1970, nonostante previste già dalla Costituzione. In ogni caso, l’esercizio effettivo delle funzioni da parte delle Regioni richiedeva che lo Stato, con legge o con atto equiparato (denominato decreto di trasferimento) trasferisse loro le funzioni amministrative, insieme con il personale necessario per esercitarle. Tale trasferimento sarebbe dovuto avvenire con legge dello Stato. Il concreto trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni è avvenuto prima nel 1972 e poi nel 1977, ma si è trattato di un trasferimento parziale, perché i Ministeri hanno conservato numerose competenze nell’ambito delle materie che la Costituzione affidava alle Regioni. Una svolta nella ripartizione delle funzioni amministrative c’è stata con la legge 59/1997, la cosiddetta “legge Bassanini”, la quale disponeva che alle Regioni e agli altri enti locali dovevano essere attribuite tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura ed alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché i compiti amministrativi localizzati nei rispettivi territori, con l’eccezione di quei compiti e funzioni amministrative riservate espressamente dalla legge medesima allo Stato. La legge Cost. 1/1999 ha modificato la forma di governo regionale, permettendo l’elezione diretta del Presidente della Giunta e ampliando l’autonomia statutaria in materia di forma di governo. CARATTERI GENERALI DELLA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE Nel 2001 il Parlamento ha approvato una legge costituzionale 3/2001 di riforma organica del titolo V della parte seconda della Costituzione, che è entrata in vigore a seguito dell’esito positivo del referendum costituzionale di cui all’articolo 138 Cost. La nuova disciplina costituzionale ha mutato l’assetto dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, realizzando un forte decentramento politico e disegnando una Repubblica delle autonomie, articolata su più livelli territoriali di governo (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato), ciascuno dotato di autonomia politica costituzionalmente garantita. Il nuovo testo dell’articolo 114 Cost., pertanto, pone sullo stesso piano lo Stato e gli altri enti territoriali minori, garantendo a ciascuno di essi di autonomia politica nell’ambito di quell’unità complessiva che è la Repubblica. Tale autonomia comporta, in primo luogo, l’attribuzione a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione (articolo 114.2 Cost.). Questa articolazione ha delle immediate conseguenze sul modo in cui sono ripartite le competenze, sia legislative che amministrative, tra lo Stato e gli altri enti territoriali: lo Stato ha perduto la potestà legislativa generale, in quanto ora può legiferare solo nelle materie individuate dalla Costituzione, e, inoltre, la legge statale e la legge regionale sono sottoposte agli stessi limiti, ovvero il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali. Anche sul piano della potestà regolamentare, la competenza dello Stato è limitata alle materie di competenza legislativa esclusiva, mentre in ogni altra materia la potestà regolamentare è riservata alle Regioni. L’interpretazione prevalente dell’originario testo costituzionale si basava sul principio del parallelismo delle funzioni secondo il quale, nelle materie di competenza legislativa delle Regioni, quest’ultime esercitavano Lo Stato può solo impugnare le leggi regionali successivamente alla loro pubblicazione, cioè quando esse sono già in vigore, senza poter esercitare un veto preventivo. LA POTESTÀ LEGISLATIVA TRA LO STATO E LE REGIONI Prima della riforma del Titolo V, l’articolo 117 Cost. elencava le materie su cui le Regioni ordinarie avevano potestà legislativa (potestà concorrente), aggiungendo che le leggi statali potevano delegare ulteriori competenze alle Regioni (potestà attuativa). Oggi, il nuovo articolo 117 Cost. stabilisce: • Un elenco di materie su cui c’è potestà legislativa esclusiva dello Stato (articolo 117.2 Cost.); • Un elenco di materie su cui le Regioni hanno potestà legislativa concorrente (articolo 117.3 Cost.). La “concorrenza” consiste in questo: la legislazione dello Stato determina i principi fondamentali della materia, mentre il resto della disciplina compete alle Regioni che, ovviamente, devono rispettare i principi fissati dallo Stato; • Una clausola residuale per cui in tutte le materie non comprese nei due elenchi precedenti, spetta alle Regioni la potestà legislativa (potestà legislativa residuale delle Regioni). I vecchi Statuti speciali restano formalmente in vigore, in quanto le modifiche apportate dalla legge costituzionale 2/2001 riguardano la forma di governo, ma non le competenze. Per questo aspetto essi restano legati alla vecchia logica, per cui contengono diversi elenchi di materie di competenza regionale, divisi secondo il “livello” di potestà regionale: • La potestà esclusiva è la più ampia e caratteristica: le Regioni ordinarie ne sono prive poiché è riservata alle sole Regioni ad autonomia speciale. Essa è caratterizzata da un legame con la legislazione statale rappresentato da due limiti specifici: a) Il limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico: essi consistono in orientamenti o criteri direttivi di così ampia portata o così fondamentali da potersi desumere, di norma, solo dalla disciplina legislativa relativa a più settori materiali. Sono quindi per lo più norme non scritte, principi generalissimi non posti dalle singole leggi ma ricavabili dall’insieme della legislazione (il principio di annualità del bilancio o del giusto procedimento amministrativo); b) Il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali: pensato per poter far applicare le riforme strutturali (la riforma agraria) anche nelle Regioni speciali, è diventato lo strumento di cui lo Stato dispone per imporre in tutte le Regioni i principi innovativi di tutte le leggi di riforma; • La potestà concorrente (non prevista nel solo Statuto della Valle d’Aosta): incontra gli stessi limiti della omologa competenza delle Regioni ordinarie; • La potestà integrativa o attuativa: consente alla Regione speciale di emanare norme, in alcune specifiche materie, per adeguare la legislazione dello Stato alle particolari esigenze regionali. Dopo la riforma del Titolo V, la potestà esclusiva appare un residuo giurassico di fronte alla potestà residuale riconosciuta alle Regioni ordinarie, che potrebbe sembrare più libera dai vincoli che tradizionalmente limitano la potestà esclusiva delle Regioni speciali. Questo problema non è stato risolto e la riforma si limita a introdurre la clausola di maggior favore per cui sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite. A ciò si aggiunge l’articolo 116.3 Cost. che consente, con una legge ordinaria rinforzata, di concedere, a singole Regioni ordinarie, forme e condizioni particolari di autonomia in materia di organizzazione della giustizia di pace, di istruzione, di tutela dell’ambiente e dei beni culturali, nonché in tutte le materie concorrenti. LA FORMA DI GOVERNO REGIONALE La legge costituzionale 1/1999 ha modificato gli articoli 121-122-123-124-125-126 Cost. introducendo una forma di governo regionale basata sull’elezione popolare diretta del Presidente della Regione. Prima della riforma costituzionale del 1999, le Regioni avevano una forma di governo parlamentare a predominanza assembleare, per effetto della disciplina costituzionale, delle scelte degli statuti e di un sistema elettorale di tipo proporzionale. Questo sistema ha favorito la notevole instabilità delle Giunte regionali, determinata da frequenti crisi dovute alle rotture degli accordi tra i partiti della coalizione formatasi dopo le elezioni. Il primo tentativo di rafforzare il Governo regionale ed accrescere la stabilità è stato nel 1995 con la riforma del sistema elettorale delle Regioni ordinarie, ancora oggi vigente. Questo sistema prevede: • Un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione di liste che ottiene più voti a livello regionale; • La caratterizzazione delle liste regionali attraverso il capolista designato per la Presidenza della Giunta e alcuni candidati espressivi dell’intera Regione; • Una disincentivazione alla presentazione di liste di piccoli partiti mediante l’introduzione di una clausola di sbarramento; • Una riduzione delle preferenze ad una soltanto. Il sistema elettorale regionale consiste nella previsione che l’80% dei seggi attribuiti alla Regione sia ripartito fra i collegi provinciali, mentre il residuo 20% venga assegnato a livello regionale ed attribuito, in tutto o per metà, alla lista più votata, in modo da assicurare ad essa la maggioranza assoluta del Consiglio regionale. La riforma costituzionale del 1999 ha dato l’avvio ad un mutamento della forma di governo regionale, la quale dovrà essere definita dagli Statuti delle Regioni stesse. Mentre avviene ciò, è in vigore una disciplina transitoria che ha innestato l’elezione diretta del Presidente della Regione sulla precedente legge elettorale. A seguito della riforma costituzionale del 1999, e in attesa dei nuovi Statuti regionali, la forma di governo regionale transitoria si basa su due strutture egualmente legittimate dal corpo elettorale: • Il Consiglio regionale: viene eletto dagli elettori regionali ed è titolare della funzione legislativa, del potere di fare proposte alle Camere e delle altre funzioni conferitogli dalla Costituzione e dalle leggi gode della classica prerogativa delle assemblee elettive, cioè dell’insindacabilità dei suoi membri per le opinioni espresse e i voti dati; • Il Presidente della Regione: è eletto a suffragio universale e diretto dall’intero corpo elettorale regionale. Esso rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile, promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali, dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione (articolo 121.4 Cost.). La Giunta regionale è l’organo esecutivo della Regione, cioè è titolare della funzione amministrativa. Ma essa è diretta politicamente dal Presidente eletto, cui la Costituzione affida il potere di nominare o di revocare i componenti della Giunta. Le relazioni tra il Consiglio regionale, il Presidente eletto e la Giunta sono riconducibili al modello della forma di governo neoparlamentare: infatti, il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta mediante mozione motivata, sottoscritta da almeno 1/5 dei suoi componenti ed approvata per appello nominale a maggioranza assoluta dei componenti. Tale mozione non può essere messa in discussione prima che siano trascorsi tre giorni dalla sua presentazione. La sua approvazione determina le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale, con la conseguenza che si andrà a nuove elezioni per il rinnovo di entrambi gli organi. L’assetto descritto della forma di governo regionale è previsto dalla Costituzione, che però affida allo Statuto di ciascuna Regione la competenza a determinare, in armonia con essa, la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento (articolo 123.1 Cost.), con la conseguenza che lo Statuto regionale potrà integrare e modificare il modello costituzionale e, in ultima istanza, potrà anche escludere l’elezione diretta del presidente della Regione. La nuova disciplina costituzionale affida poi alla legge regionale il compito di stabilire il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente e gli altri componenti della Giunta, nonché dei consiglieri regionali (articolo 122.1 Cost.). I nuovi Statuti delle Regioni ordinarie hanno tutti optato per l’elezione diretta del Presidente, ma ancora poche Regioni si sono dotate di una propria legge elettorale. Le altre sono rette dalla disciplina transitoria, che ha previsto l’applicazione della vigente legge elettorale (quella del 1995) con i seguenti adattamenti: • Sono candidati alla Presidenza della Regione i capilista delle liste regionali; • È proclamato eletto Presidente della Regione il candidato che ha conseguito il maggior numero di voti validi in ambito regionale; • Il Presidente della Regione fa parte del Consiglio regionale; • Entro 10 giorni dalla proclamazione, il Presidente della Regione nomina i componenti della Giunta, tra i quali un vicepresidente, e può successivamente revocarli; • Se il Consiglio approva una mozione di sfiducia, entro tre mesi si procede all’indizione di nuove elezioni del consiglio regionale e del Presidente della Regione. Secondo l’articolo 123 Cost. ogni Regione ha uno Statuto che ne determina la forma di governo, discostandosi da quella transitoria, ed i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Il sistema che ne segue può essere così sintetizzato: • La Costituzione fissa un criterio generale di elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione; • In questo contesto istituzionale, il rapporto tra il Presidente della Regione e il Consiglio generale è retto dal principio “simul stabunt, simul cadent”, per cui qualsiasi ipotesi di cessazione del Presidente determinerebbe altresì lo scioglimento del Consiglio regionale; • Il Consiglio potrebbe sempre votare una mozione di sfiducia contro il Presidente della Regione e ciò non sarebbe derogabile da parte dello Statuto; • Le Regioni nell’esercizio della loro potestà statutaria, potrebbero allontanarsi da questo modello e orientarsi verso una diversa modalità di elezione del Presidente della Regione (fino all’esclusione dell’elezione diretta del Presidente, ritornando a sistemi parlamentari con la scelta del Presidente dopo le elezioni o all’elezione consiliare dello stesso); • Qualora la Regione scegliesse di confermare l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Regione dovrebbe rispettare la disciplina dell’articolo 126 Cost., secondo cui: 1) Il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia con mozione motivata, sottoscritta da almeno 1/5 dei suoi componenti e approvata per appello nominale a maggioranza assoluta dei componenti. Detta mozione non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione; 2) L’approvazione della mozione di sfiducia comporta la rimozione del Presidente ed il contestuale scioglimento del Consiglio regionale; 3) I medesimi effetti conseguono alla rimozione, all’impedimento permanente, alla morte o alle dimissioni volontarie del Presidente, nonché alle dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti del Consiglio. I PRINCIPI DI SUSSIDIARIETÀ, DIFFERENZIAZIONE ED ADEGUATEZZA In base al principio di sussidiarietà verticale, introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, le funzioni amministrative degli enti locali, delle Regioni e dello Stato, secondo quanto previsto dall’articolo 118.1 Cost. sono attribuite, in via generale, all’ente più vicino al cittadino, cioè ai Comuni, mentre l’intervento degli enti di livello superiore è solo sussidiario, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, la legge (statale o regionale, a seconda delle rispettive competenze) non provveda a conferirle a Province, Città metropolitane, Regioni o Stato. Accanto al principio di sussidiarietà verticale, l’articolo 118.4 Cost. prevede anche il principio di sussidiarietà orizzontale, in forza del quale tutti gli enti territoriali che costituiscono la Repubblica, compreso lo Stato, sono tenuti a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Il principio, in questo caso, traccia una linea di confine fra l’intervento pubblico e l’intervento privato: secondo alcuni il primo viene totalmente omesso dall’esistenza del secondo, secondo altri i pubblici poteri tengono conto, ove esistente, dell’iniziativa privata. Il principio di sussidiarietà può comportare che alcune funzioni amministrative vengano attratte verso l’alto perché non possono essere convenientemente esercitate in basso o perché richiedono un coordinamento centrale. Talvolta, la sussidiarietà finisce con consentire uno sconfinamento dello Stato dalle sue materie: però, in questi casi, la Corte richiede che sia sempre rispettato il principio di leale collaborazione, svolto attraverso il sistema delle Conferenze, che deve governare i rapporti tra lo Stato e le Regioni nelle materie Nell’ottocento avviato, sul piano politico si afferma una relazione “verticale”, che parte dallo Stato e arriva alle classi subalterne: queste ultime scatenano il loro moto rivendicativo proprio verso uno Stato che viene avvertito come “monoclasse”, ossia espressione dei soli ceti dominanti. Sul piano economico-sociale vi è l’importane evento della rivoluzione industriale, che, creando una nuova classe “indigena”, quella degli operai, fa insorgere maggiormente le classi subalterne un po’ in tutto il mondo. I DIRITTI SOCIALI COME OGGETTO COSTITUZIONALE Le rivendicazioni che divampano nel primo ottocento sono destinate a divenire veri e propri diritti. Si tratta però di diritti particolari, fatti non per i forti, bensì per i deboli. Tali sono i diritti sociali, le cui caratteristiche possono essere così riassunte: • Sono espressione di una diffusa tendenza polemica rivolta contro lo stato delle cose; • Sono conseguenti al riconoscimento, da parte dell’ordinamento giuridico, del fatto che ci fosse una parte della popolazione mancante di qualcosa e dunque bisognosa di quel qualcosa, che non aveva, a differenza di altri, la possibilità di godere; • Sono diritti esclusivamente delle persone che ne hanno bisogno di essere protette, non sono dunque diritti a cui chiunque possa appellarsi; • Producono un diritto “diseguale”: nel senso che tale diritto prevederà nel concreto non trattamenti uguali per tutti, ma trattamenti diversificati per ciascuno in base al bisogno; • Per essere soddisfatti richiedono l’intermediazione dei pubblici poteri, a cui si rivolgano affinché intervengano a livello sociale; • Il loro scopo è consentire alle classi subalterne la partecipazione ai benefici della vita associata: lo strumento attraverso il quale ciò si realizza è la redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta. Questi diritti sono definiti “sociali” innanzitutto perché prendono in considerazione le aspettative che i cittadini hanno in quanto individui sociali che vivono in società con altri individui. Inoltre, muovono dall’oggettività della realtà sociale, caratterizzata dalla diseguaglianza. Inoltre, si caratterizzano per il fatto di richiedere una prestazione volta alla “demercificazione” di alcuni beni della vita e richiedono un comportamento attivo e non omissivo dello Stato: è lo Stato che deve intervenire nel sociale per realizzarli concretamente. Ciò fa di essi dei diritti pretensivi. Altra loro caratteristica è l’obiettivo economico, coesivo ed emancipativo, che fa di essi dei diritti redistributivi, in quanto prevedono appunto la redistribuzione della ricchezza stessa per raggiungere il fine emancipativo ed eliminare le distinzioni economiche. Non tutti i diritti pretensivi sono anche redistributivi e viceversa, ma solo quelli che hanno entrambe queste caratteristiche possono essere considerati davvero diritti sociali. I DIRITTI SOCIALI NELLA COSTITUZIONE ITALIANA I diritti sociali rappresentano una garanzia, non solo degli spunti programmatici, in quanto non sono comprimibili in termini assoluti tant’è che le esigenze della finanza pubblica o di funzionalità dell’organizzazione non possono consentire una loro compressione tale da intaccarne il contenuto “minimo essenziale” stabilito dalla Costituzione. Tali diritti li ritroviamo in diversi articoli: • Articolo 1 Cost.: già solo l’apparizione dei termini “Repubblica democratica” sottolinea l’identificazione tra il cittadino e lo Stato. Il benessere dell’uno garantisce quindi anche il benessere dell’altro. Affermando che tale Repubblica si fonda sul lavoro, si intende creare una connessione tra il piano politico e il piano economico-sociale, che è poi quello che mediante i diritti sociali si realizza. Inoltre, vediamo come il lavoro sia considerato come fondamento sociale della convivenza, è il diritto sociale per eccellenza, quello da cui sgorgano tutti gli altri, in cui esso si soggettivizza: abbiamo così la realizzazione di uno Stato sociale, creato in risposta a una domanda venuta dal basso, che si basa sulla concezione della necessità di un favore particolare riservato agli interessi dei ceti subalterni e alla loro tutela; • Articolo 2 Cost.: in esso vengono garantiti i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Il riferimento alla personalità ci fa capire che l’uomo viene considerato concretamente, nella concretezza della sua esistenza. Inoltre da qui deriviamo un’altra caratteristica dei diritti sociali: essi sono diritti soggettivi, individuali, ma nonostante ciò, in grado di determinare l’evoluzione complessiva della società. In tale articolo vediamo dunque una connessione tra diritti sociali e solidarietà “sociale”: il loro scopo è proprio quello di eliminare le distinzioni che esistono di fatto tra le persone; • Articolo 3 Cost.: le condizioni e la dignità sociale insieme formano la “personalità sociale”. Quest’ultima indica quelle qualità attraverso le quali è possibile individuare un uomo all’interno delle sue relazioni sociali. Il comma 2, imponendo il principio di eguaglianza sostanziale, riconosce che ci sia una disuguaglianza di fatto, per provvedere alla quale è necessario modificare l’ordinamento sociale per adeguarlo a quello giuridico, cosa del resto gli stessi diritti sociali si propongono di fare: sono proprio i diritti sociali a svolgere questa funzione di “eguagliamento” rimuovendo gli ostacoli economici e sociali, avendo come obiettivo la piena partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale. I SOGGETTI ATTIVI O BENEFICIARI La Costituzione elenca espressamente alcuni soggetti destinatari dei diritti sociali: lavoratori, figli, indigenti, studenti capaci e meritevoli anche se privi di mezzi, donne lavoratrici, cittadini inabili al lavoro, lavoratori in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, ecc. Alcuni sono però, in specifici casi, riferiti a tutti: il diritto alla salute, il diritto al lavoro, anche se poi ci si appella solo quando questo effettivamente manca o viene a mancare, quindi solo se si ha un effettivo bisogno. I DIRITTI SOCIALI DAL PUNTO DI VISTA DEGLI OGGETTI Il diritto al lavoro (articolo 4 Cost.): esso spetta a tutti i cittadini e, quindi, i pubblici poteri ed il legislatore devono impegnarsi a garantire la piena occupazione, così come i datori di lavoro devono impegnarsi per stabilizzare il rapporto lavorativo. Il diritto al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione spettante ai figli, anche se nati fuori dal matrimonio (articolo 30 Cost.): il riferimento al mantenimento ci fa intuire la connessione di tale diritto con la sfera economica. Esso ricade in primis sui genitori e poi ricadrà sui pubblici poteri qualora quest’ultimi risultino incapaci. Il diritto alla salute (articolo 32 Cost.) spetta a tutti. Ciò perché la salute viene vista come un interesse collettivo e qualificata come diritto fondamentale. Esso presenta un aspetto tipicamente negativo, cioè la pretesa dell’individuo a che i terzi si astengano da comportamenti pregiudizievoli per la sua integrità psico- fisica: ad esso perciò si riconnette anche il diritto ad un ambiente salubre, quale condizione da cui dipende un’effettiva realizzazione del diritto alla salute stesso. Inoltre, al profilo negativo è connesso anche il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, sancito dall’articolo 32.2 Cost., che vieta al medico, salvo i casi di necessità, di intervenire senza il consenso del paziente. Il diritto all’assistenza sanitaria rappresenta, invece, il profilo positivo del diritto alla salute: è un classico diritto di prestazione. Esso è riconosciuto a tutti, non solo ai cittadini, ma anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso. L’articolo 32.1 Cost. impegna la Repubblica a garantire cure gratuite agli indigenti: è un concetto particolare di indigenza, che non significa affatto povertà, perché le cure mediche possono essere talmente costose da non essere affrontabili neppure da persone normalmente considerate abbienti. L’apparato organizzativo pubblico deve assicurare un’assistenza sanitaria effettiva agli individui, sia direttamente, attraverso strutture assistenziali pubbliche, sia indirettamente, consentendo l’accesso alle prestazioni erogate da strutture private (il Servizio sanitario nazionale, le Aziende sanitarie locali). Il diritto all’istruzione: l’articolo 33.1 Cost. tutela l’insegnamento, sia inteso come insegnamento scolastico che come qualsiasi altra forma di trasmissione del sapere. I commi successivi regolano la libertà della scuola, imperniata sul principio del pluralismo scolastico. Accanto alla scuola pubblica, la cui istituzione è un obbligo per lo Stato, è sancita la libertà delle scuole private: a queste è garantita la parità, quanto ai titoli rilasciati, ma anche la libertà ideologica. Le scuole private, cioè, possono essere delle organizzazioni di tendenza, ispirate ad un programma educativo ideologico o confessionali preciso. Queste scuole, secondo quanto previsto dall’articolo 33.3 Cost., devono vivere senza oneri per lo Stato. Oggi la tendenza sembra quella di aggirare il problema del finanziamento pubblico diretto alla scuola privata mediante una forma di finanziamento indiretto: non si erogano contributi all’istituzione scolastiche, ma alle famiglie. L’articolo 34 Cost. pone due principi: il principio di eguaglianza nell’accesso alla scuola ed il diritto all’istruzione. La scuola è aperta a tutti è una specificazione dell’eguaglianza formale, perché garantisce l’accesso a qualsiasi grado dell’istruzione scolastica a tutti, senza distinzione tra cittadini e stranieri o forme di discriminazione. L’istruzione, però, è anche un dovere, per ciò che riguarda la scuola dell’obbligo. Vi è poi un’applicazione del principio di eguaglianza sostanziale, nell’impegno della Repubblica di assicurare l’effettività dell’accesso all’istruzione. Da qui discendono sia il principio di gratuità dell’istruzione obbligatoria, sia il sistema del diritto allo studio. È un sistema fatto di borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze: espressioni che alludono ad un complesso articolato di sostegni finanziari rivolti ad abbattere i costi dell’istruzione superiore ed a consentire il mantenimento di chi studia e della sua famiglia. Il principio che pone la Costituzione è quello del concorso pubblico, che necessariamente si deve basare su un parametro meritocratico (articolo 34.3 Cost.). Il diritto di ciascun lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (articolo 36 Cost.). Afferma inoltre il diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite: questo per garantire il riposo psicofisico, un periodo di tempo ricreativo, da dedicare a sé ed alla famiglia. Il diritto (per le donne incinte o comunque con bambini) a condizioni di lavoro tali da consentire l’adempimento dell’essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione (articolo 37 Cost.). Questo articolo tutela anche il lavoro minorile. Il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere (articolo 38 Cost.): l’obiettivo è di garantire condizioni adeguate di vita ai cittadini che versano in condizioni di debolezza economica o di disagio sociale, per liberarli da quello stato di bisogno che impedisce il pieno godimento dei diritti civili e politici. Tale articolo ha una doppia finalità: da un lato tutela gli inabili al lavoro e gli indigenti, garantendo loro il mantenimento e l’assistenza sociale integralmente a carico del bilancio pubblico, assicurando loro mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Si tutelano quindi i lavoratori ed i loro familiari dai rischi derivanti dalla perdita del lavoro a causa di malattie o infortuni, ma anche si garantisce loro, dopo la cessazione del lavoro per limiti di età, la pensione e, quindi, una relativa tranquillità economica. Ciò a fronte di una contribuzione obbligatoria da parte del lavoratore lungo tutto l’arco della vita lavorativa e proporzionata alla retribuzione percepita. Si tratta, dunque, di un’assicurazione obbligatoria, che fa capo ad alcuni enti pubblici, quali INPS (Istituto nazionale per la previdenza sociale) e INAIL (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni del lavoro). Inoltre, il terzo comma assicura a coloro che si trovino in condizione di inabilità fisica e psichica il diritto all’inserimento nel mondo della scuola e del lavoro, sempre come espressione della solidarietà generale ed a carico della collettività. Il diritto a collaborare alla gestione delle aziende, spettante ai lavoratori, sempre “in armonia con le esigenze della gestione” (articolo 46 Cost.): è quindi il legislatore che ne stabilisce modi e limiti. I DIRITTI SOCIALI DI FRONTE ALLA PLURALIZZAZIONE DEI LIVELLI NORMATIVI I diritti sociali vennero riconosciuti anche a livello internazionale nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Nizza, 2000). In essa i diritti sociali vengono riconosciuti come fondamentali, anche se manca il riferimento al diritto al lavoro. Ma tali diritti hanno obiettivi ben più grandi dei diritti sociali finora considerati: mirano a promuovere l’occupazione, a garantire una protezione sociale adeguata, a migliorare le condizioni di lavoro, ecc. Tutto ciò con delle limitazioni: tale evoluzione in senso sociale deve risultare dal funzionamento del mercato interno e tali interventi non devono incidere sull’equilibrio finanziario degli Stati membri. accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.”. Articolo 15 “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. / La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.”. Articolo 16 “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. / Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.”. Articolo 17 “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. / Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. / Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.”. Articolo 18 “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. / Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.”. Articolo 19 “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.”. Articolo 20 “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.”. Articolo 21 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. / La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. / Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. / In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo d'ogni effetto. / La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. / Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”. Articolo 22 “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.”. Articolo 23 “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”. Articolo 24 “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. / La d ifesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. / Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. / La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.”. Articolo 25 “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. / Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. / Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.”. Articolo 26 “L'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali. / Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici”. Articolo 27 “La responsabilità penale è personale. / L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. / Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. / Non è ammessa la pena di morte.”. Articolo 28 “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. / In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.”. Titolo II: rapporti etico-sociali Articolo 29 “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. / Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.”. Articolo 30 “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. / Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. / La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. / La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.”. Articolo 31 “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. / Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.”. Articolo 32 “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. / Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”. Articolo 33 “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. / La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. / Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. / La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. / È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale. / Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.”. Articolo 34 “La scuola è aperta a tutti. / L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. / I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. / La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”. Titolo III: rapporti economici Articolo 35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. / Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. / Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. / Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.”. Articolo 36 “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. / La durata massima Articolo 50 “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.”. Articolo 51 “Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. / La legge può, per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. / Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.”. Articolo 52 “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. / Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici. / L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.”. Articolo 53 “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. / Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”. Articolo 54 “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. / I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.”. Parte II: ordinamento della Repubblica Titolo I: il Parlamento SEZIONE I: le Camere Articolo 55 “Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. / Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione.”. Articolo 56 “La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto. / Il numero dei deputati è di seicentotrenta, dodici dei quali eletti nella circoscrizione Estero. / Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età. / La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall'ultimo censimento generale della popolazione, per seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.”. Articolo 57 “Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero. / Il numero dei senatori elettivi è di trecentoquindici, sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero. / Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette; il Molise ne ha due, la Valle d'Aosta uno. / La ripartizione dei seggi tra le Regioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall'ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.”. Articolo 58 “I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età. / Sono eleggibili a senatori gli elettori che hanno compiuto il quarantesimo anno.”. Articolo 59 “È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. / Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario.”. Articolo 60 “La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni. / La durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra.”. Articolo 61 “Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni. / Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti.”. Articolo 62 “Le Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre. / Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti. / Quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l'altra.”. Articolo 63 “Ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l'Ufficio di presidenza. / Quando il Parlamento si riunisce in seduta comune, il Presidente e l'Ufficio di presidenza sono quelli della Camera dei deputati.”. Articolo 64 “Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti. / Le sedute sono pubbliche; tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta. / Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale. / I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono.”. Articolo 65 “La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di deputato o di senatore. / Nessuno può appartenere contemporaneamente alle due Camere.”. Articolo 66 “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità.”. Articolo 67 “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Articolo 68 “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. / Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. / Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.”. Articolo 69 “I membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita dalla legge.”. SEZIONE II: la formazione delle leggi Articolo 70 “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.”. Articolo 71 “L'iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. / Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.”. Articolo 72 “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e con votazione finale. / Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza. / Può altresì stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi Articolo 85 “Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni. / Trenta giorni prima che scada il termine, il Presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. / Se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, la elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica.”. Articolo 86 “Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato. / In caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione.”. Articolo 87 “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. / Può inviare messaggi alle Camere. / Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. / Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. / Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. / Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. / Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. / Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. / Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. / Presiede il Consiglio superiore della magistratura. / Può concedere grazia e commutare le pene. / Conferisce le onorificenze della Repubblica.”. Articolo 88 “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. / Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura.”. Articolo 89 “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. / Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.”. Articolo 90 “Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. / In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri.”. Articolo 91 “Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune.”. Titolo III: il Governo SEZIONE I: il Consiglio dei Ministri Articolo 92 “Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. / Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.”. Articolo 93 “Il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.”. Articolo 94 “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. / Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. / Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. / Il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. / La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.”. Articolo 95 “Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei Ministri. / I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. / La legge provvede all'ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei Ministeri.”. Articolo 96 “Il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale.”. SEZIONE II: la Pubblica Amministrazione Articolo 97 “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. / I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. / Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. / Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.”. Articolo 98 “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. / Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità. / Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero.”. SEZIONE III: gli organi ausiliari Articolo 99 “Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. / È organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. / Ha l'iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge.”. Articolo 100 “Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione. / La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito. / La legge assicura l'indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti di fronte al Governo.”. Titolo IV: la Magistratura SEZIONE I: ordinamento giurisdizionale Articolo 101 “La giustizia è amministrata in nome del popolo. / I giudici sono soggetti soltanto alla legge.”. Articolo 102 “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. / Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. / La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia.”. Articolo 103 “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. / La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge. / I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.”.
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