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Storia Romana: dalle origini alla tarda antichità, Dispense di Storia Romana

Il testo è un ampio e completo riassunto sul libro "Storia romana dalle origini alla tarda antichità". E' stato da me effettuato per l'esame di Storia romana sostenuto nell'Università La Sapienza di Roma. Molto esaustivo, copre dall'origine di Roma, toccando ampiamente tutta l'età repubblicana e tutta l'età imperiale.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 10/06/2022

Gio084
Gio084 🇮🇹

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Scarica Storia Romana: dalle origini alla tarda antichità e più Dispense in PDF di Storia Romana solo su Docsity! ESAME DI STORIA ROMA-JOHN THORNTON STORIA DI ROMA DALLE ORIGINI ALLA TARDA ANTICHITA’ Sezione 1-Capitolo 1:I popoli dell’Italia antica 1.L’italia settentrionale Antecedentemente all’unificazione Romana, l’Italia era abitata da una serie di popoli aventi lingua, cultura e organizzazione sociale diverse. L’Italia Settentrionale era occupata da:  LIGURI, popolavano un’area più vasta dell’attuale Liguria, dalla colonia Greca di Marsiglia a Pisa e quindi dalla Pianura Padana fino al Po.  OROBI, presso il Lago di Como  LEPONZI, a nord del Lago Maggiore  INSUBRI, nella Pianura Lombarda La regione delle Alpi conobbe lo sviluppo di importanti culture come quella dei RETI (nelle Alpi centrali), dei CAMUNI (in Val Camonica) e degli EUGANEI (nelle Alpi venete). Tali popoli dovettero poi probabilmente arretrare a causa della penetrazione dei Celti e dei Veneti. 2.Gli Etruschi L’origine degli Etruschi o Tyrrhenoi è una delle problematiche maggiore dello studio Pre- Romano. Qualunque sia la sua vera origine, gli Etruschi svilupparono nel corso del tempo una civiltà e cultura del tutto indipendente dalle altre popolazioni d’Italia. Erodoto sosteneva la loro provenienza dalla Lidia guidati dall’eroe Tirreno; Dionisio di Alicarnasso invece sosteneva che fossero uno dei popoli autoctoni dell’Italia; mentre i vari indizi di un probabile arrivo dall’egeo, per via di comunanze con la lingua dell’isola di Lemnos, può essere semplicemente risolta afferamno che i contatti linguistici possono benissimo essere avvenuti nella Penisola, quando dall’VIII in poi i Greci iniziarono assiduamente a frequentare l’Italia. Pallottino pervenne alla conclusione che gli Etruschi siano un popolo frutto di un processo storico di ‘formazione’ verificatosi a partire dall’VIII secolo. Nell’VIII, i villaggi Villanoviani, furono trasformati radicalmente assumendo la forma di città, tra le più importanti ricordiamo: VEIO, CAERE, POPULONIA, VETULONIA, VULCI, ROSELLE VOLSINII… Le dodici città maggiori si costituirono nella Lega dei Dodici, con sede nel santuario di Voltumna (a Volsinii). L’Etruria dunque sia articolava in città-stato, con caratteri affini a quelle Greche, connesse tra loro con vincoli religiosi e politici, ma rispettando le autonomie locali. Queste città erano rette da re chiamati ‘LUCUMONI’ da cui i Romani presero alcuni elementi, come la Toga di Porpora, il trono e lo scettro. 3.Il Lazio Il Lazio era popolato da genti Latine che, nel corso dell’VIII avevano attraversato un intenso processo di urbanizzazione. Il territorio originali dei latini includeva la zona chiamata LATIUM VETUS. L’area Latina conobbe un numero elevato di abitanti protostorici e subì poi l’immissione di elementi esterni, di origine osco-umbra, sabina, equa e volsca. Tra le città principali si possono ricordare Satrico, Ardea, Preneste, Gabii e Lavinio; Dai reperti archeologici sembrerebbe evincersi un’assenza di una stratificazione sociale articolata, perlomeno fino all’VIII secolo, manifestatasi invece a partire dalla metà del secolo come traspare da alcune tombe principesche. La tradizione vuole che il re del popolo latino fosse Latino, il quale era discendente dai re degli Aborigeni accolse Enea nel suo territorio e gli diede in sposa la figlia Lavinia. Il figlio della coppia sarà il capostipite dei re latini che regnarono sul Lazio e Albalonga, collegando così Enea e la fondazione di Roma da parte di Romolo. Importante è il santuario di Lavinio e di Neni, attorno a cui si sviluppò la lega delle città latina. L’influenza etrusca sarà importante dal VI secolo, rafforzò e accelerò il processo di urbanizzazione e di monumentalizzazione degli spazi e parallelamente anche la civiltà greca esercito diretta influenza sullo sviluppo della cultura laziale. A seguito della crisi nel V secolo si impose l’egemonia di Roma. 4.L’Italia Centrale L’aria centrale tirrenica, fatta eccezione per gli Etruschi e Latini, era occupata da un fondo etnico a tratti indistinto, caratterizzato su tutti da popolazioni come Sabini (Samnium) e sanniti. Lungo la fascia del versante medio-adriatico, si sviluppò un’unità etnica Picena riconoscibile tramite una cultura definita anche in ambiente funerario. In età storica più avanzata, i Piceni si potranno (territorialmente) dividere in popolazioni come i Vestini, i Marrucini, i Peligni, gli Equi e i Marsi. I Volsci, a partire dal V secolo, si sovrapporranno parzialmente nei territori degli Ernici e dei Latini. Gli Umbri sono noti per i centri principali di Gubbio Assisi Todi e Spoleto e per le Tavole Iguvine che forniscono uno spaccato della Religione Umbra, databili tra III e I secolo. 5.L’Italia Meridionale e le Isole Prima della colonizzazione Greca dell’Italia Meridionale, questa era abitata da diverse popolazioni locali. La regione Pugliese era abitata dagli Iapigi fino a circa l’800 a.C., quando subentrarono ulteriori stanziamenti di popoli cosicché la regione fu abitata dai Dauni (nord), Peucezi (centro) e Messapi (sud). Sull’estrema punta nella penisola, nella zona delle attuali Puglia e Calabria, vi erano piccole popolazioni come gli Ausoni, i Siculi, i Morgeti e gli Itali. Prima della colonizzazione Greca della Sicilia invece, questa zona era fondamentalmente tripartita in tre popoli: Sicani (nella zona centrale), Elimi (nella zona occidentale) e i Siculi (nella zona orientale). Mentre nella Sardegna, vi era la popolazione dei Sardi, che sviluppò pressoché da subito (a partire dal II Millennio a.C.) la cosiddetta Civiltà Nuragica. ciclo agricolo sono più numerose e più importanti di quelle legate alla pastorizia. La tradizione attribuisce qualcosa a ognuno dei 7 Re di Roma. La città viene progressivamente ampliata con l’ammissione in città di popolazioni provenienti da altre città, in particolare i popoli vinti. Questa capacità di Roma di assimilare i nemici vinti mette la città nella condizione di poter assimilare uomini con cui poter combattere, in numero maggiore rispetto ai nemici evento importante attribuito al periodo Romuleo è il cosiddetto RATTO DELLE SABINE dopo aver fondato Roma, si rivolge alle popolazioni vicine per stringere alleanze e ottenere delle donne con cui procreare e popolare la nuova città. Al rifiuto dei vicini risponde con l'inganno: organizza un grande spettacolo per attirare gli abitanti della regione e rapire le loro donne… bloccato da queste donne Sabine viene costretto a far nascere una diarchia con Tito Tazio (Sabino). A Romolo è poi attribuita la concessione del cosiddetto ASILIO ROMULEO, cioè garantisce protezione ai popoli, permettendo di rifugiarsi a Roma dove sarebbero diventati cittadini a tutti gli effettiAPERTURA DELLA CITTA’ DI ROMA. LIVIO libro 1 parla dell’Asilo Romuleo ammettendo che a Roma trovarono rifugio ogni genere di schiavi, non facendo differenze fra liberi e schiavi. La sua è una posizione meno ‘difensiva’ (o meglio delinea la verità dei fatti, più veritiero) rispetto alla narrazione effettuata da Dionisio di Alicarnasso nel Discorso sulla storia arcaica di Roma, libro II capitolo 15 parla dell’asilo romuleo dandone un’immagine un po’ più positiva, cercando di attenuare il problema politico-sociale generato dalla concessione dell’Asilo Romuleo. In generale, Romolo viene descritto come il vero fondatore (incognita: Roma fondazione o formazione) della città, come un ecista Greco, e fondatore delle istituzioni politico-militari.  Il 2° re è NUMA POMPILIO (715-672), re Sabino. Anche questo è un elemento importante nell’autorappresentazione romana Roma è in grado di attribuire il regno anche a stranieri. A Numa Pompilio la tradizione attribuiva la fondazione delle istituzioni religiose romane. Fondatore dei grandi collegi sacerdotali Romani (quello dei flamines, delle vergini Vestali…). È un re pacifico, a differenza di Romolo e di gran parte dei suoi successori.  Il 3° re di Roma è TULLO OSTILIO (672-640), a cui la tradizione attribuiva la conquista e distruzione di Albalonga Duello tra Orazi e Curiazi…Il rischio era che se le città si fossero affrontate in uno scontro che avrebbe messo a dura prova la potenza militare di entrambe, i vicini etruschi avrebbero potuto approfittarne. La popolazione di Alba viene accolta a Roma e le famiglie più illustri vengono accolte nel patriziato e la città di Alba viene distrutta (gentes albanes -> famiglia di Giulio Cesare). Le gentes Albane verranno riconosciuti come veri cittadini, allo stesso titolo dei Romani solita capacità di assimilare i cittadini vinti.  Il quarto re di Roma è Anco Marcio (640-616), cui la tradizione attribuisce la fondazione di Ostia e stabilì i compiti dei Feziali, collegio di sacerdoti che celebravano i riti preparatori della guerra, in modo da farla apparire come una bellum iustum agli occhi degli dei. Il suo successore sarà un re EtruscoInizio della Monarchia Etrusca e Livio riporta un aneddoto sull’origine e sul passaggio a Roma di Tarquinio Prisco. Anche qui si sottolinea la differenza tra Roma e le città vicine, differenza che garantirà il successo di Roma e consiste nella capacità romana di assimilare. Tarquinio Prisco viene dall’Etruria, ma lì non aveva potuto realizzare le sue ambizioni, perché aveva origine greca. Era figlio di Parato di Corinto, venuto per caso a trasferirsi a Tarquinia. Roma è una città nuova, dove un uomo di valore si può fare strada e nessuno ti impedisce di accedere ad alcune posizioni solo perché straniero. EX VIRTUTE NOBILITAS formula molto significativa che si incontra in molti autori latini, tra cui Sallustio, che la attribuisce a Gaio Mario; A Roma anche chi non fa parte della nobilitas può accedere al consolatoGaio Mario, Cicerone…. Livio e Sallustio usano la stessa formula nonostante i loro ambiti siano differenti (Sallustio viene qualche decennio prima di Livio) e per due persone e tematiche differenti come Mario e Tarquinio Prisco. In generale, per l’impotenza e la magnificenza dei monumenti e degli investimenti fatti dagli ultimi tre Re di Roma, si parlò spesso della ‘Grande Roma dei Tarquini.  Il 5° re di Roma è dunque Tarquinio Prisco (616-579), a lui è attribuito la conquista della latina Apiole e in generale l’espansione romana nel Lazio, vittorie sui sabini… sotto di lui avvenne la costruzione del Campidoglio, il tempio di Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva e furono organizzati i Ludi Romani a imitazione dei giochi Greci. Il Foro Romano divenne il luogo delle assemblee del popolo  Il 6° re di Roma Servio Tullio ( 578 e 539) tradizioni contrastanti per origini e modo in cui arrivò al trono1. tradizione latina (Livio), in cui Tullio è presentato come un principe di una delle città latine sottomesse da Tarquinio Prisco…Livio smentisce la tradizione secondo cui Tullio sarebbe nato come schiavo. A lui è attribuito l’ordinamento centuriato alla base dei comizi centuriati… la popolazione è divisa in 5 classi di censo, divise in Centurie=base per arruolamento dell’esercito e politicamente, unità di partecipazione alla vita romana nei cosiddetti comizi centuriati. I comizi centuriati erano un’assemblea riunita per approvazione di legge (+dichiarare guerra+ elezione magistrati superiori), ma erano solo organi censitari e dunque non sono come assemblee greche in cui vi è dibattito, in cui è prevista solo la votazione della legge. Rispetto alle assemblee democratiche, cambiano le modalità di voto: se in quelle il voto di ogni persone vale ugualmente, a Roma essendo i comizi censitari è situazione TIMOCRATICA, cioè da più importanza al voto delle classi censitarie elevate e meno a quelle inferiori comizi centuriati perché contano dunque il voto delle CENTURIE (unita di voto, il voto del singolo vanno a far parte del gruppo, non voto individuale). Livio ci racconta che le Centurie erano in totale 193, di cui 80 centurie della prima classe di censo (40 di juniores e 40 di seniores) seppur fossero meno numerosi dei cittadini più poveri; alla seconda, terza e quarta classe 20 centurie (10 e 10) quinta classe formano 30 centurie…quelli che erano al di sotto del limite per appartenere all’ultima classe era organizzato in ulteriore centuria. Tullio formò altre 18 centurie di cavalieri, tratti ovviamente dai cittadini più ricchi e forse più giovani, con le 80 della prima classe garantiva la maggioranza delle 193 centurie, garantendo che l’esito dei comizi centuriati fosse ‘controllato’. E’ chiaro come gli humiles non avessero alcun modo di farsi sentire nei comizi (In età repubblicana i comizi eleggono i sommi magistrati, CONSOLI e PRETORI, quelli che hanno l’IMPERIUM cioè quelli che erediteranno il potere monarchico). 1. tradizione etrusca (discorso dell’imperatore Claudio) Gallia comata=caratteristiche di una vita meno civile capelli lunghi, province sono Aquitania Lugdunesis, Belgica… Claudio vuole far ammettere nello stato romano, i cittadini più illustri di questa zona della Gallia, ma trova resistenza di consoli e senatori… Claudio sfruttando la sua oratoria erudita (Claudio=imperatore Etruscologo, discepolo di Tito Livio) propone una lettura della Storia Romana di una città aperta all’integrazione, tanto sul piano etnico quanto sul piano sociale superando la tradizioneTABULA CLAUDIANA DI LIONE (città che faceva parte della Gallia comata) in cui Claudio dice quello sopra scritto e in più sottolinea l’arrivo degli stranieri a Roma con Tarquinio Prisco, che nonostante non fosse Romano ha raggiunto ugualmente le classi nobili, sembra quasi che riprende Tito Livio nella descrizione dell’origine di Tarquinio. Celio Vibenna, condottiero di esercito in cui aveva fatto parte Tulliocondottieri disponibili a cercare fortuna in più di una città, esercito non di una città ma di un condottiero, come se fosse esercito gentilizio. La TOMBA FRANCOIS DI VULCI testimonia quanto narrato da Claudio nella tabula, tomba del 320 A.C. con un complesso programma iconografico che adorna la camera di questa tomba, di cui le pitture murali narrano Mastarna(=Servio Tullio) che libera Celio Vibenna, e vi è presenza di uccisi (sacrificio di prigionieri Troiani) tra cui uno identificato, tramite un’iscrizione in tomba, come un NEO TARQUINIO DI ROMA… pitture della tomba come anche lo SPECCHIO INCISO DA BOLSENA, sono due rappresentazioni che ci mostrano scene non facilmente ricostruibili, ma l’indicazione che fuoriesce è la presenza di esercito di questo Celio e le sue avventure, di cui faceva cenno anche l’imperatore Claudio (tradizioni precedenti all’arrivo a Roma di Servio Tullio, di circa 2 secoli precedenti). Testo di Claudio rappresenta il monumento di Roma come città aperta all’integrazione. Nel santuario di Portonaccio a Veio è stato scoperto un vaso di bucchero della prima meta del VI secolo A.C. con l’iscrizione di ‘Aulo Vibenna’, che sottoscrivono la presenza di questi anche a Veio, e dunque sottoscrivendo il movimento continuo di questi gruppi gentilizi, ed evidenziano la realtà di questo personaggio Etrusco. In generale sono due tradizioni (latina ed etrusca) che descrivono Tullio in due maniere differenti, la seconda di Tullio come facente parte a esercito gentilizio, mentre la prima a Tullio fautore della CENTRALITA’ del potere romano. secolo a.C. I patres familia creavano i cittadini, fossero essi figli, liberti o clienti; la funzione del padre era tipicamente Romana e faceva si che Roma fosse l’unica città del mondo antico in cui gli schiavi liberati diventavano cittadini. Si diventava cittadini a tutti gli effetti quando il pater presentava pubblicamente il figlio nel foro, quando gli riteneva fosse il giusto momento. Iscrizioni Latine evidenziano il sistema onomastico Romano con la caratteristica del TRIANOMINAprenome, nome gentilizio e cognome… donne nominate solo con il nome gentilizio del padre. PRENOME: C(aius), M(arcus), L(ucius), T(itus), Ti(berius), Ap(pius), Ser(vius) esempi di prenomi che ha possibilità di abbreviazione con le lettere fuori dalle parentesi… NOME GENTILIZIO: indica l’appartenenza alla famiglia, alla gens…è al secondo posto della formula del nome totale e spesso terminano in ius… COGNOME: possono derivare da caratteristiche fisiche (Barbatus,Crassus) da qualità morali (Pius, Frugi) da località (Collatinus) da attività svolte (Agricola). Sistema onomastico diverso dei Greci, in cui è molto più semplice, dove vi è solo proprio nome e PATRONIMICO. 8.I sacerdoti In campo religioso avevano competenza non solo i sacerdoti ma anche i magistrati, il popolo e il Senato. I più antichi sacerdozi erano quelli dei flamines; poi c’erano i pontifex, guidati dal pontifex maximus. Il pontifex maximus sceglieva le Vestali e ne controllava il comportamento. Gli Augures erano un collegio di esperti nell’interpretazione del volo degli uccelli e prodigi di ogni tipo; mente gli aruspices erano esperti etruschi, chiamati in casi eccezionali per dare la loro consulenza su prodigi e problemi religiosi apparentemente irrisolvibili. 9.Roma e i Latini Pochi anni dopo la fondazione della Repubblica, un esercito di città etrusche guidato dal re Porsenna, conquistò Roma. Questo tentò di sottomettere anche i Latini ma fu duramente battuto ad Aricia, grazie l’intervento dei greci di Cuma al fianco dei Latini; Questi ultimi erano stanziati in città sulla costa, a Lavinium, Ardea e Terracina. Fra latini e romani seguì una fase di ostilità perché Roma era in buoni rapporti con il re etrusco. Quest’ostilità culminò nel 496 nella battaglia del Lago Regillo, dove i latini furono vinti e privati di parte delle loro terre. La pace sarà raggiunta nel 493, grazie al console plebeo Spurio Cassio e al foedus Cassianum, il trattato di Cassio. Questo determinò la nascita della Lega Latina, che poteva radunare eserciti e fondare colonie; fra Romani e Latini vigeva lo ius Latinum, che prevedeva il diritto di contrarre matrimoni, commerciare e stabilirsi in una città diversa dalla propria madrepatria. Nel 486 Roma stabilì con gli Ernici un trattato che, insieme a quello con i Latini, sarà fondamentale per fronteggiare le popolazioni sabelliche dei Sabini, Equi, e volsci che premevano ai confini. 10.La questione sociale e i comizi Secondo le fonti tradizionali in poco tempo dalla fondazione della Repubblica, i ricchi acquisirono uno strapotere intollerabile nei confronti dei poveri. Livio dice che dalla morte di Tarquinio nel 495, la plebe iniziò a subire ingiustizie da parte del patriziato. Il divario economico tra ricchi e poveri aumentò, il potere dei ricchi si rafforzò politicamente grazie ai clientes, cioè le persone economicamente deboli che si affidavano al patronato di qualche cittadino ragguardevole. In questa fase si colloca la secessione della plebe (494) sul monte sacro e la costituzione della plebe come blocco politico forte dire democratiche. La secessione finì con la creazione del tribuno della plebe nel 493. Il tribunale era volto a difendere i diritti politici e civili dei plebei e loro poteri erano circoscritti all’area del pomerio. La plebe eleggeva anche gli edili, che controllavano la correttezza dell’uso di suolo pubblico e avevano supervisione sui templi. I tribuni venivano eletti da una nuova assemblea, i comizi tributi in cui il voto era portato tribù per tribù e dunque comprendeva tutti cittadini sul territorio, che tornavano a votare al di là del loro censo, avendo dunque un carattere democratico. Questi comizi eleggevano le magistrature minori (edili curuli e questori). Con la fine della prima secessione, fu messo in atto un nuovo patto sociale, che si basava sul giuramento della plebe di proteggere i propri i tribuni anche con azioni violente e garantirne la libertà di azione. Il giuramento si configurava come una coniuratio, che garantiva i diritti dei plebei. Una tale situazione introdusse valide garanzie per i cittadini meno abbienti, ma determinò una conflittualità di lunga durata. Sappiamo che in epoca arcaica oltre ai comizi tributi, che si basavano sul principio della democrazia indiretta, vi erano i comizi curiati che votavano curia per curia, basati sulla democrazia diretta; dal V secolo furono concepiti i comizi centuriati, i quali garantivano la maggioranza alla prima classe di censo. Nel 443 fu introdotta la censura. I censori, il numero di due, ogni cinque anni facevano il censimento e celebravano il lustrum, cioè la purificazione del popolo, ripartito in 5 classi censitarie. Essi creavano anche il Senato per il lustro seguente e avevano anche la facoltà di deporre i senatori indegni con la ‘nota censitaria’. Le proposte di legge potevano essere avanzate solo dal console che presiedeva i comizi. Nei comizi tributi le proposte erano avanzate dal tribuno della plebe e se approvate, prendevano il nome di plebiscita. I votanti ponevano in un’urna una tavoletta con scritto V (‘come tu proponi’) oppure A (‘tutto resti invariato’). Le leggi dovevano ottenere però l’approvazione del Senato prima di essere varate. Questa era detta auctoritas senatus (o auctoritas patrum); nel corso della prima metà del V secolo i consoli vennero eletti sempre più frequentemente fra i Patrizi, per cui il Senato fu sempre più controllato da questo schieramento politico. 11.Il patriziato La tradizione sostiene che il patriziato fu creato da Romolo e che i primi Patrizi furono i 100 senatori che costituivano il primissimo Senato. In realtà, le funzioni di questa aristocrazia emergono solo in età repubblicana. La natura repubblicana del Patriziato è ribadita dalla natura del rito dell’interregno, cioè quando entrambi i consoli erano morti si doveva trovare qualcuno che avesse il diritto di presiedere le elezioni consolari e in questo caso eccezionale si individuavano 10 senatori Patrizi ex consoli, fra i quali uno a turno provava a convocare i comizi e far nominare la nuova coppia di consoli. La teoria secondo cui a determinate cariche Romana non si potesse giungere se non si era patrizi, è smentita da per esempio nomi di alcuni re tipicamente plebei (Numa Pompilio, Anco Marcio, Servio Tullio). Solo dal 485 in poi i nomi dei plebei diverranno sempre più rari. In realtà lo ‘scontro’ patrizi-plebei è tema assai più ampio: evento chiave nel V secolo, nasce con la nascita della Repubblica, e lo si vede perché nel I libro di Livio (ambientato in età monarchica) non si parla del conflitto tra patrizi e plebei. Secondo Livio, Romolo avrebbe istituito un gruppo ristretto di 300 PATRES (e patrizi fu chiamata la loro progenie), con funzione di organo consultivo del re. Il senato sarebbe descritto come la mente dello stato Romano, e dal modo in cui Livio ne parla sembra che prerogativa di appartenenza al senato sia essere appunto Patrizi. Il conflitto si accende dunque nel V secolo per: 1. questione dell’indebitamentocon conseguente secessione della plebe e l’organizzazione della plebe con il tribuno. 2. Prezzo del grano 3. Distribuzione dell’Ager publicusla plebe rivendica di poter usufruire delle terre sottratte ai nemici. La tradizione per l’età monarchica non conosce scontri tra patrizi e plebei, che per quanto sappiamo comincia soltanto nella Repubblica. Per l’età monarchica, quindi, il patriziato sembra una struttura che cresce, disposta ad accogliere novità, di pari passo con l’espansione di Roma. Nella fine dell’800 e fino alla prima guerra mondiale, alcuni studiosi hanno provato ad attribuire la differenza tra patrizi e plebei a una differenza etnica (patrizi=latini, plebei=invasori ecc.. idee differenti in base alle fonti), ma forse si tratta piuttosto di idee basate sui nazionalismi, più che sullo studio delle fonti effettivo. La cesura più significativa si deve riconoscere nella tesi di Gaetano De Santis, che rilevò nelle liste dei magistrati nei primi secoli della Repubblica la presenza di gentes non patrizieEvidentemente l’accesso alle cariche più alte non era ancora esclusiva solo dei patrizi. L’evoluzione nel tema dell’importanza fra le due classi farà giungere lo storico ad una conclusione: ad un certo punto avviene una chiusura (“serrata del patriziato”formula di De Santis). L’esclusione dei plebei dalle magistrature è quindi frutto di un processo storico, che inizia nel momento in cui inizia la Repubblica e ha il suo culmine nel ventennio fra 427 e 401 in cui la presenza dei non patrizi scende all’1%. 12.L difesa dei confini Polibio ci parla di un TRATTATO ROMANO-CARTAGINESE nel primo (o forse secondo) anno della Repubblica; Egli ne offre uno scritto in traduzione Greca di cui gli ultimi passi sono fondamentali perché sottoscrivono le prerogative territoriali di Roma. Polibio parla di clausole territoriali, in cui è imposto ai cartaginesi di non imporre torti agli abitanti di Ardea, Anzio, Laureto, Circei, Terracina…Sembra che queste siano quindi già comunità romane, attribuendo ai Tarquini un possedimento territoriale molto maggiore di quello che provocatio (ratificata solo nel 300 con la Lex Valeria) e sia la validità per tutti ei plebiscita (in realtà ultima conquista della plebe con la Lex Hortensia del 287). Un ulteriore ‘garanzia costituzionale’ venne fornita alla plebe con l’istituzione, sempre nel 449, dopo la cacciata della seconda commissione, dei tribuni della plebe. Il 444 sembra essere l’anno in cui al posto dei consoli figurano tre tribuni militium consulari potestate, i quali pur avendo potestà consolare, avevano prerogative inferiori ai consoli. I Tribuni consolari sostituirono i consoli saltuariamente fra il 444 e 394 (stabilmente fra 391-36). Alcuni sostengono inoltre che la creazione di tali tribuni consolari avrebbe aperto ai plebei l’accesso al Senato: sarebbe così da spiegare l’origine della categoria dei conscripti apparsa tra il 400 e il 400. Nel 443 venne istituita la censura, nata per alleviare i consoli di alcuni compiti amministrativi, come il censimento dei cittadini e la relativa registrazione dei beni patrimoniali di ciascuno. Nel 339 il dittatore Q. Publilio Filone promulgò tre leggi secundissimae plebi, tra cui una che stabiliva che uno dei censori doveva essere plebeo (Lex Publilia de censore creando). Nel 376 due tribuni della plebe, G Licinio Stolone e L. Sestio Laterano, avanzarono 3 proposte di legge per affrontare 3 problemi: 1. Quello dei debiti 2. Quello dei limiti all’occupazione di agro pubblico 3. Quello dell’accesso dei plebei al consolato  Nel 367 finalmente furono approvate le leggi Licinie Sestie, in base alle quali uno dei due consoli poteva essere plebeoL. Sestio fu eletto primo console plebeo.  Nel 368, per quanto riguarda i colleggi sacerdotali, il numero dei duoviri sacris faciundis, fu portato a 10 di cui la metà plebei.  Nel 342 un plebiscito stabilì che entrambi i consoli potevano essere plebei, cosa che si sarebbe verificato solo nel 172.  Nel 337 si ebbe l’ammissione dei plebei alla pretura  Nel 300 con la lex Ogulnia venne reso accessibile anche il pontificato ai plebei. Con tutte questi provvedimenti, l’unica carica rimasta appannaggio esclusivo dei patrizi fu l’interrex. La conclusione del conflitto si ebbe nel 287, quando si verificò l’ultima e quinta secessione della plebe, le cui condizioni economiche erano aggravate a seguito delle lunghe guerre sannitiche. Con la già menzionata lex Hortensia, i plebiscita venivano equiparati alle leges. Si venne cosi a creare un’oligarchia patrizio-plebea, che si riconosceva in comuni interessi politici e aveva alla base un eguale potere economico. La concordia ordinum era stata raggiunta. 3.Magistrature e assemblee CONSOLATO=magistratura più rappresentativa della Repubblica, caratterizzato da collegialità, eponimia, annualità ed elezione per voto dei comizi centuriati. La tradizione accomuna la sua nascita parallelamente a quella della Repubblica, mentre la tendenza degli studiosi del ‘900 (de Sanctis e Mazzarino) vede la magistratura, nella sua forma definita, nascere solo nel 367 con le licinie sestie. Questa visione è dovuta alle notizie delle fonti secondo cui, almeno fino al 449, il nome dei consoli era Praetores. La tendenza accettata oggigiorno è che al passaggio alla Repubblica, la figura prevalente era quella del praetor maximus mentre il titolo di consul attribuito solo dal 367. Fra i tre magistrati che originariamente portavano questo titolo, vi erano due consoli e un terzo che era autorizzato a guidare l’esercito ed era maggiormente specializzato in compiti giudiziari. Dal 242 il pretore sarà affiancato dal praetor peregrinus, incaricato a risolvere le liti fra cittadini. I consoli detenevano il potere giudiziario e politico e le lunghe e difficili operazioni militari al tempo della seconda guerra sannitica imposero delle proroghe al loro potere: i beneficiari di questa proroga vennero chiamati rispettivamente proconsoli e propretori e il loro ambito di competenza era la provincia. La censura venne istituita nel 443, aiutando i consoli il compito del censimento dei cittadini. Le sue competenze furono ampliate successivamente con l’autorità di escludere coloro che si fossero macchiati di indegnità dal Senato. La censura divenne così la più alta autorità morale della res pubblica. Altre loro importanti mansioni erano legate alla locazione dell’ager publicus e solo dopo, all’appalto delle entrate pubbliche. Tra le incombenze dei censori rientrava la purificazione dei campi, della città e del popolo che avveniva ogni cinque anni (lustro=durata della carica). Erano conosciuti anche come ‘magistrati curuli’ dalla sella curulis, la sedia d’avorio che contraddistingueva la loro carica. Con la Lex Aemilia de censura minuenda la loro carica fu fissata a 18 mesi. INTERREX, l’unica carica rimasta ad appannaggio dei patrizi, aveva anch’essa durata molto breve, di soli 5 giorni, in caso di scomparsa violenta di entrambi i consoli. Fra le magistrature minori più antiche, vi erano gli edili istituiti secondo la tradizione nel 493. In origine custodivano solo gli archivi della plebe, mentre a partire da 449 anche gli acta Senatus, dimostrando la capacità organizzativa della plebe migliore rispetto a quella del patriziato. Tra i loro compiti si annoverano anche l’approvvigionamento di Roma, il controllo dei mercati e l’organizzazione dei giochi pubblici. Altra magistratura minore con compiti civili era la questura, creata nel 447 e legata all’amministrazione del tesoro pubblico, per cui i titolari furono denominati quaestores aerarii. Si occupavano anche della vendita ai privati di quei terreni chiamati ager quaestorius. Nel 421 il numero dei questori fu portato a quattro e abbiamo notizie che nel 409 tre dei quattro questori erano plebei. La carica per eccellenza delle rivendicazioni plebe (sin da 494), fu il tribunale della plebe che non può essere considerato considerata una magistratura. Il problema del tribunale come istituto rivoluzionario si vedrà nell’età dei Gracchi poiché si trattava di una carica sine imperio e strettamente esercitabile nella cerchia urbana di Roma. Forse in origine erano due, successivamente saranno quattro e infine 10. I titolari della carica godevano di una potestà sacrosanta e inviolabile, riconosciuta come tale dalle leggi Valerie Orazie del 449, per cui chiunque avesse usato attentare alla persona di un tribuno sarebbe stato maledetto. Ma il grande potere dei tribuni risiedeva nel diritto di porre veto alle decisioni degli altri magistrati, se queste fossero risultate dannose per la plebe. Si riconosceva loro anche il ius coercitionis, Il diritto cioè di far rispettare la propria volontà, prerogativa che, poteva dar vita a un meccanismo ostruzionistico. Infine, il ius auxilii conferiva al tribuno la capacità di difendere un cittadino che si fosse posto sotto la sua protezione. Il ius agendi cum plebe lo rendeva autorità competente a riunire l’assemblea della plebe (concilium plebis). Il senato e le assemblee popolari costituivano ciò che era chiamato senatus popolusque romanus. Tutti i cittadini maschi adulti formavano il popolo dei Quirites. Romolofondatore delle tre tribù ‘etniche’ che perdono però la loro importanza in età repubblicana, in cui si sviluppò invece l’uso di farsi rappresentare nelle assemblee da 30 littori. 4.L’impegno bellico di Roma. Società ed economia fra V e IV secolo Tra IV e III secolo sembra esserci un parallelismo tra la politica estera e quella interna, poiché alla graduale parificazione degli ordini corrispose un’unificazione dell’Italia centrale, dell’Etruria e dell’Italia meridionale sotto l’egemonia romana. La volontà imperialistica di Roma fu pronunciata nei primi contatti polemici avuti dall’Urbe con le comunità latine nel V secolo. Un esempio è Quando Roma nel 444 approfittando di una contesa tra ardea e Ariccia, si annette il territorio conteso tra le due col pretesto che dipendeva da Corioli (centro già inglobato dai Romani); Era una mossa intelligente che servì a creare un punto di passaggio verso la pianura Pontina e ad evitare che la lega Latina nei traesse da sola i vantaggi. La tradizione annalistica confluita di Livio ricordava incessanti guerre tra Romani e Sabini per tutta la prima metà del V secolo, non facile fu comprendere se era Roma che conquisto i Sabini o l’inverso, perché non facile era l’interpretazione del passaggio di personaggi Sabini come Appio Claudio a Roma. Il passaggio dal V al IV, vide romani impegnati in un lungo conflitto con Veio, città etrusca. (La battaglia che il potente clan gentilizio dei Fabii portò avanti testimonia il vivo interesse economico che questa gens nutriva per il circondario). Tra Roma e Veio c’era un’antica rivalità per il controllo delle saline alla foce del Tevere e l’assedio della città etrusca scoppiò nel 406 concludendosi solamente nel 396 grazie al dittatore M.Furio Camillo. A Veio fu fatale la tradizionale assenza di coesione di intenti tra le città etrusche, che solitamente agivano come unità autonome (Chiusi e Cere si schierarono dalla parte dei romani addirittura). Le relazioni commerciali di Veio con l’agro falisco, giustificò l’appoggio che i Falisci diedero agli etruschi. Questa guerra indebolì la lega Latina, che agli inizi del IV secolo abbandono l’alleanza con Roma e le rimase ostile fino al suo definitivo scioglimento nel 338è questo il momento in cui la lega latina lotta per la sua indipendenza. Conflitto con Veio ha innescato numerosi processi innovativi a Roma, riguardo all’organizzazione bellica e alla situazione economica delle classi sociali:  Istituzione di un soldo militare per permettere ai soldati di sopravvivere senza lavorare la terra  Il conflitto determinò un salasso economico, perché la citta rivale era grande e potente, e i cittadini del ceto equestre furono autorizzati a servirsi dei cavalli propri.  Economicamentel’ager Veientanus et Capenas incamerato, venne parcellizzato in lotti di sette iugeri ciascuno. Ebbe occupazione effettiva solo dal 388, e l’anno Conquista di Capua e Cuma, rispettivamente 423 e 421 ad opera di genti Sabelliche, segna una svolta epocale nella storia delle antiche genti d’Italia e degli equilibri interni. La colonia spartana di Taranto doveva fronteggiare gli Iapigi e Messapi, mentre Dionisio di Siracusa doveva fronteggiare i Siculi si crea un momento di rivolta dei popoli autoctoni contro le civilità aristocratiche Etrusche e Grechemotivo economico più che culturale. Non è facile comprendere le peculiarità dei popoli italici basandoci solamente sull’evidenza archeologica, ma sicuramente quello che viene fuori da questi moti è una diseguaglianza economica fra i vari popoli che spingono quelli dell’entroterra-Liguri, Volsci, Equi e Sanniti- a muovere verso la più ricca Pianura Padanarito del ver sacrum, esilio di una parte della popolazione verso terre migliori. Sono queste le dinamiche storiche che porteranno le genti di stirpe osco-umbra alla conquista di Capua e Cuma. Si crearono così in campania 3 federazioni di popoli: 1. Quella campana, con capitale Capua 2. Quella nucerina 3. Quella nolana A seguito di una seconda ondata, si generarono altre due confederazioni destinate a stanziarsi in Italia meridionale: quella dei Lucani e quella dei Bruttii. Alla meta del IV secolo, il gruppo dei Sabelli si era profondamente diversificato al proprio interno e fra i vari popoli non correvano sempre buoni rapporti in quest’ottica s’insinuò Roma, trascinata dalla speranza che i Campani riposero in lei, come ‘protettrice’ dalle minacce dei popoli italici. I Sanniti erano un popolo con un’organizzazione federale, il cui spazio si identificava nei pagi, circoscrizioni montane guidate da un meddix, capo militare ed amministratore della giustizia. I populi, abitanti dei pagi, confluivano nella touta, una forma federativa, con a capo un meddix tuticus. Le fonti ci parlano di un’alleanza Romano-Sannitica del 354, probabilmente legata all’interesse comune per la valle del Liri, nonché al metus gallicus. La tradizione ci parla di 3 guerre Romano-Sannitiche: 1. Quella del 343/341 sarebbe stato innescato dalla rivalità fra le tribù Appenniniche da un lato e Campani e Sidicini dall’altro. Secondo Livio, Roma scenderà al fianco di quest’ultima, ma su questo le fonti sono discordanti: Diodoro non conosce altra guerra fra Roma e Sanniti prima del 327 2. Quella del 327/304nel 327 si era determinata a Napoli una rivolta tra le due parti, quella dei Paleopolitai (favorevole ai Sanniti) e quella di Neapolis (favorevole ai romani). Il compito di condurre l’assedio fu affidato al console Q.Publilio Filone (nel 339 era stato un dittatore ‘popolare’, in quanto aveva promosso le 3 leggi secundissimae plebi e per di più fu il primo console a cui fu affidata una seconda causa, trasgredendo alla legge Genucie, ma per motivi bellici, di continuazione della spedizione ormai intrapresa a Napoli). Evento chiave di questa guerra è la disastrosa sconfitta Romana delle Forche Caudine (321),che da ambiziosa manovra per giungere nell’apulia, si scatenò in disastromotivo che fece cambiare la tattica di guerra, da oplitica a manipolare, più adatto alle battaglie in aree montuose. Dopo ciò fu firmato un accordo, per cui Roma dava ai Sanniti la colonia di Fregellae. Roma promosse la riorganizzazione, creando due nuove tribù, Falerna e Ufentina. Nel 311 terminò l’accordo quarantennale siglato con Tarquinia e Falerii, che verranno prontamente chiamate a mobilitarsi contro Roma e dunque a favore dei Sanniti. Nel 310 vi fu un’importante vittoria Romana, col generale Fabio Rulliano, sul Lago Vadimone, episodio che sancì l’inversione di rotta con l’inizio del declinio definitivo delle città Etrusche e l’accresciuta influenza Romana. La guerra si concluse nel 304:  La confederazione Sannitica mantenne il suo territorio pressochè intatto, ma venne accerchiato dalle colonie dedotte dai Romani;  Colonie nate: Alba Fucens e Carseoli; Narnia e Minturno e Sinuessa nel territorio degli Aurunci (296/5) 3. Quella del 298/291 l’intervento romano a difesa dei Lucani, fu il casus belli della terza guerra sannitica. L’Italia appenninica trovò in Gellio Egnazio un capo carismatico che riuscì a mettere insieme una koine anti-romana, comprendente anche Celti, Umbri ed Etruschi. Questo grande dispiegamento di forze porterà allo scontro decisivo contro Roma nella cosiddetta Battaglia di Sentino (295), detta anche ‘battaglia delle nazioni’. La guerra si trascino per 5 anni, concludendosi nel 290, grazie ai successi maturati da L.Papirio Cursore e di M.Curio Dentato, che in quell’anno annetteranno la Sabina. I Sanniti formalmente manterranno l’autonomia, ma in realtà non avevano più alcuna possibilità d’azione verranno fondate le colonie di: Maleventum, Isernia, Firmo, Venosa ed Adria(e nel territorio dei Salentini, Brindisi)si determinò insomma una barriera che impedì ai Sanniti contatti con i loro antichi alleati. I romani per di più nel 283 crearono la colonia di Sena Gallica, nel territorio dei Senoni. L’annessione nel 290 della Sabina avvenne con la modalità della civitas sine suffragio, mutuata poi in cittadinanza nel 268. Fabio Pittore ci racconta come solo in questo momento i romani compresero cosa significasse ottenere una grande ricchezza, dovuta a tale abbondanza di terre conquistate. Il III secolo vide anche la fine dell’Etruria. La rigida divisione in proprietari, servi e proletariato urbano annunciava gravi tensioni sociali. Nel 265 l’intervento romano a Volsinii Per soffocare movimenti rivoluzionari sancì la caduta in mano romana della città. Nel 273 invece era già stata dedotta una colonia a Cosa, in Etruria meridionale. La civiltà etrusca così sparì per sempre, una civiltà che aveva dato moltissimo alla Roma arcaica in termini culturali e politico istituzionali, nonché in molti pratiche della sfera religiosa come in quella dell’Aruspicina. Le popolazioni italiche dopo la conquista romana si ritrovarono divise in due categorie: inglobate nella res publica o ad essa legata con un trattato su base quasi mai paritaria. Ad esempio con le nationes arretrate dell’appenino, Roma stipulò dei foedus comprendenti tutto l’ethnos, mentre nelle aree più urbanizzate si attuarono trattati con le singole città. Campani etruschi e Sabini ebbero la civitas sine suffragio, comportante i diritti della sfera privatistica di commercium, connubium e provocativo. Tra i socii una categoria particolare era quella di latini, che erano destinati a formare con i romani un gruppo omogeneo. Dopo lo scioglimento della lega nel 338, Roma continuo a dedurre colonie latine, i cui abitanti provenivano da Roma e tramite lo status giuridico moto come nomen latinum, potevano beneficiare non solo dello Ius commercio connubio e provocazione, ma anche di votare nei comizi tributi, se si fossero trovati a Roma di passaggio. Per tutti i popoli legati politicamente a Roma vi era l’obbligo del servizio militare e divieto di condurre una politica estera autonoma. Tutti i cives erano costretti al pagamento del tributo, imposta diretta calcolata sulla base delle capacità economiche individuali, da cui erano esenti gli alleati (che dovevano comunque pagare il vectigal, canone sull’usufrutto dell’ager publicus, e i portoria il pedaggio sulle merci in transito attraverso i territori della confederazione romana). Per la giurisdizione civile e penale, venivano inviati dei preafecti nelle città; per il resto Roma riconobbe quasi piena autonomia, limitandosi ad appoggiare le aristocrazie agrarie. Su di un altro piano sono da collocare le colonie Romane (a cui vanno aggiunte quelle latine aggregate dopo il 338) , create sull’ager publicus, come presidio lungo le coste (Anzio, Terracina, Ostia) formate in origine da 300 cittadini. Vi erano infine i distretti rurali, noti come conciliabula e fora, che col tempo mutarono il loro nome in municipiomunicipium= città conquistata in cui di solito si riconosceva la civitas sine suffragio e con il tempo indicherà i centri amministrativamente autonomi. 6.La censura di Appio Claudio (312 a.C.) Appio Claudio è l’unico uomo politico romano dell’età medio repubblicana, che può essere confrontato i grandi del II e I secolo a.C.; è secondo molti infatti da lui che inizia la fase storica di Roma. La censura di appio Claudio fu un momento rivoluzionario degli assetti sociali a Roma, e di lui ci viene raccontato da Livio e da Diodoro Siculo. Appio Claudio nel tentativo di andare incontro al popolo, non sicurò del Senato anzi gli recò apertamente offesa permettendo ai cittadini di iscriversi in quale tribù volessero. Il popolo, che era favorevole a queste innovazioni perché speravo in un miglioramento delle proprie condizioni, nel 304 elesse edile curule, un plebeo figlio di liberto, Gneo Flavio, cliente di appio Claudio. Si aggiunge che, dopo aver deposto la carica di censore, si rintanò a casa propria fingendosi cieco per sfuggire all’odio del Senato. Le nostre fonti lo ricordano per la costruzione della grande via da Roma a Capua (prolungata poi nel 264, fino a Benevento e Brindisi), appunto via Appia e per l’Aqua Appia, Che portava l’acqua dall’Aniene a Roma. La persona di Appio Claudio fu fondamentale perché fece emergere il cittadino individualmente rispetto ai comizi centuriati, dov’era prevalente il voto timocratico. Non meno innovatore fu l’ammissione dei libertini nel senato quest’atto ha avuto letture differenti, ma la più accreditata sembra essere quella di Staveley, per cui Appio avrebbe di verghe di bronzo, e poi nel 289 alla creazione dei tresviri monetales, in qualità di supervisori della zecca con sede sul Campidoglio. L’emissione di monete vere e proprie si ebbe con l’as librale, moneta rotonda in bronzo, i contatti con città dall’economia più sviluppata, condussero Roma verso la necessità di una moneta in argentosi è in un primo tempo datata ciò al 260, anche se gli studi numismatici recenti propongono di spostare questa datazione al 215-211, collegandole con la necessità belliche della Seconda Guerra Punica. I primi trattati romano-punici sono posti nella tradizione polibiana al 509, rivelano la salvaguardia degli interessi Cartaginesi e la loro libertà, limitando il commercio e la navigazione dei Romani il secondo trattato, databile al 348, col quale si riconobbe a Cartagine un monopolio ancora maggiore del precedente (forse perché Roma, impegnata nella guerra contro i Latini, non ha interessi immediati nel controllo del mediterraneo). Dopo un terzo accordo, nel 306 viene sancito il quarto accordo, il quale risulta essere il primo che prevede un’alleanza militare, cioè indotta alle preoccupazioni di entrambe contro Pirro. Cartagine manteneva il controllo delle rotte mediterranee e non temeva le mire di Roma, a cui era concessa la presenza in Sicilia a scopi difensivi. Sarà proprio la Sicilia il teatro dello scontro tra Cartagine e Roma bellum Siculum. Cartagine era stata fondata nel IX secolo da coloni fenici provenienti da Tiro. La loro vocazione mercatile portò la citta al controllo delle terre dal Magreb alla Spagna e dalla Sardegna alla Sicilia occidentale. Erano in perenne conflitto con la Sicilia Orientale e soprattutto con Siracusa. Cartagine aveva soprattutto una temibile flotta e in guerra usava gli elefanti. Vi sono invece voci che sottoscrivono l’esistenza di una marina militare romana anche prima del 264 seppur non accertate del tutto. Fino a questa data le relazioni Roma-Cartagine non erano state ostili. Il casus belli fu la richiesta di aiuto da parte dei Mamertini, che assediati a Messina dai Siracusani richiesero l’aiuto sia dei Cartaginesi che dei Romani, forse giuridicamente giustificata dal fatto che i due popoli fossero alleati (l’aiuto ai romani era inoltre giustificato da un legame di homophylia, etnico che avrebbe legati i due popoli). Se i cartaginesi risposero prontamente, i Romani temporeggiarono per motivi morali sollevati dal senato, ma soprattutto per la paura di un potenziale passaggio cartaginese in Italia, ove fossero diventati padroni dello stretto di Messina oltre che della Sardegna. Dopo il fallimento nella mediazione, Appio Claudio, console del 264, sconfisse separatamente Ierone II e Cartagine, apprestandosi ad assediare Siracusa. L’anno successivo M.Valerio (che insieme al collega Otacilio) avevano rilevato il potere, tentarono l’assedio alle poderose fortificazioni Siracusane, e dove fallirono militarmente, arrivarono con la diplomazia si giunse ad un’alleanza che sancì per Roma il controllo della Sicilia orientale. L’anno successivo la guerra si spostò in Sicilia centrale, intorno ad Agrigento amica di Cartagine. La città cadde nel 261 anno in cui il console Valerio propose un rafforzamento della flotta senza precedenti che permise la vittoria nel 260 presso Mylae, dove i romani usarono la tecnica dei ‘corvi’i romani compresero che nelle battaglie navali potevano sancirsi gli scontri definitivi della guerra e dunque portarono la loro maggiore capacita, lo scontro per terra, nelle battaglie navali. L’importanza degli scontri navali fu ancora più chiara dopo la sconfitta ottenuta da Attilio Regolo nel 255. Lo sforzo economico per continuare la guerra di stava facendo pesantissimo nel 247 vi fu l’invio in Sicilia di Amilcare Barca, che usò l’isola come base di scorrerie vero le coste italiche e qui necessitò un ultimo gravoso sforzo contro Cartagine, per scongiurare la possibile risalita della penisola da parte di questi ultimi. Si arriva così alla vittoria decisa presso le Isole Egadi nel 241, che determinò l’avvio delle trattative di pace. Ai Cartaginesi fu imposto l’abbandono della Sicilia, nonché il pagamento di un’indennità di guerra di 3220 talenti euboici. Quel che è certo è che solo nel 272 si istituisce ufficialmente la provincia Sicilia e fu inviato a governare l’isola il primo pretore nella persona di Gaio Flaminio a partire da questi anni la Sicilia diverrà spesso decisiva nel rifornimento al granaio di Roma. Parallelamente alla presa della Sicilia, nel 240 vi è la rivolta dei mercenari Sardi verso i Cartaginesi, atto che porterà nel 227 alla presa della Sardegna e all’imposizione della consegna ai Romani anche della Corsica, con il relativo primo governatore. (Prima guerra punica 264-241) 3.L’intermezzo Eventi tra le due guerre punicheNel 235 la situazione a Roma era molto tranquilla ma la pace fu di breve durata. La fondazione di una colonia Latina a Brindisi nel 244, mirava a rinnovare le prospettive per il versante adriatico e per i movimenti che erano pero troppo spesso impediti per le scorrerie dei pirati illirici, che danneggiavano i mercati dei negotiatores italici. In particolar modo furono proprio le eccessive proteste dei negotiatores che spinsero Roma a mandare due ambasciatori a Teuta, la regina degli illiri. Questa non solo negò l’invito di Roma di rendere libere le vie di navigazione ma minacciò anche la morte di L.Coruncanio, uno dei due legati. La guerra fu allora inevitabile: nonostante qualche successo iniziale degli Illiri, Roma risolse il conflitto definitivamente nel 229, quando la regina fu costretta a rinunciare ad ogni mira sulle città Greche della Dalmazia e il pagamento di un tributo. Erano risultati che facevano dormire sonni tranquilli anche ai popoli della Grecia che infatti furono invitati dai Corinzi alla partecipazione dei giochi istmici successivi. La seconda guerra illirica venne combattuta 10 anni dopo (219) contro Demetrio di Pharos il quale cacciato dal suo possesso isolano dai due consoli di quell’anno (Livio Salinatore ed Emilio Paolo) trovò rifugio in macedonia. Roma era di pieno diritto entrata nel novero delle grandi potenze del mediterraneo e contribuiva a condizionare il delicato gioco di equilibri tra i regni ellenistici. Prima dello scoppio della guerra Annibalica, Roma completò l’unificazione dell’italia sotto la sua egemonia, giungendo alla conquista anche della zona della Gallia Cisaplinanel 232 il tribuno G.Flaminio fece approvare una legge de agro Gallico Piceno virtim dividundo, in base alla vi si attuava la distribuzione delle terre dell’ager publicus (distribuzione viritane) in contrasto con l’opinione dell’oligarchia senatoria. Questa legge si pone nel quadro del difficile e continuo dibattito a Roma sui modi di utilizzo dell’ager publicus. I Galli Boi erano sempre più preoccupati dalla crescita esponenziale degli ultimi anni di Roma, il cui territorio confinava con Roma tramite la città di Arminium (dedotta colonia nel 268) per cui essi temettero che l’intenzione di Roma era quella di distruggerli totalmente è così che i Galli Boi organizzarono un’impressionante coalizione di Insubri, Lingoni e di Gesati. Le rinnovate agitazioni galliche fecero tornare nella capitale il metus Gallicus, facendo tornare a Roma il crudele rito arcaico di seppellire vivi una coppia di Galli e una di Greci. La coalizione gallica mosse contro Roma nel 225 ma furono letteralmente sterminati a Talomone. La conquista venne completata nel 222 con l’occupazione di Mediolanum, tolta agli Insubri, ad opera del console Cn.Cornelio Scipione, dopo la decisiva vittoria di Clastidium riportata nello stesso anno da M.Claudio Marcello. A sugellare la conquista vennero dedotte due colonie, Piacenza e Cremona. Gaio Flaminio fece costruire la via da Roma a Rimini che prese il suo nome. In quest’area si creò una crisi demografica dovuta dallo sterminio delle tribù celtiche che ne vivevano e per cui il ripopolamento avvenne solo un secolo dopo. Nel 241 vennero create le ultime due tribù rustiche (Velina e Quirina) che portarono il numero a 35 si ebbe una riforma, forse di Flaminio, dei comizi centuriati, che furono maggiormente vincolati all’ordinamento per tribù. La prima classe venne ridotta da 80 a 70 centurie, così da alleggerirne il peso elettorale. Nel 218 Flaminio si rese nuovamente ostile ai nobili, appoggiando il tribuno Q.Claudio nella Lex Claudia, la quale vietava ai senatori la magna mercatura,col limite massimo di anfore sulle navi di 300legge che va letta come volontà dei negotiatores di eliminare la conoscenza senatoria nel campo del commercio. 4.La guerra annibalica (218-202) Cartagine non morì dopo la sconfitta della prima guerra punica, e ciò si dimostrò soprattutto quando Amilcare si trasferì in spagna con il genero Asdrubale e con il figlio Annibale, con l’intenzione di estendere i loro domini dopo le gravi perdite ad opera dei romani qui fu fondata la ‘Nuova Cartagine’. Asdrubale aveva tentato di promuovere lo svecchiamento in senso democratico di alcune istituzioni cartaginesi, facendosi portatore di una politica nazionalista e antiromana. Quando egli morì, il cognato Annibale si fece ereditiere degli obiettivi del padre: riprendere definitivamente le ostilità con Roma. Approfittando della contesa fra i Saguntini e una delle tribù cartaginesi, nel 218 diede inizio all’assedio di Sagunto. Nel 226 era stato firmato un trattato fra Roma e Cartagine che fissava all’Ebro il limite alla sfera d’azione cartaginese nella penisola iberica. La critica moderna ha sottolineato come sussistano molti dubbi sulla liceità dell’attacco a Sagunto, che sembrava essere nella zona di competenza cartaginese e non al di là dell’Ebro. Di sicuro, l’evento di Sagunto fu la scusa affinché Roma mosse guerra ad Annibale dopo 8 mesi di assedio. Annibale comprese l’importanza di spostare il fronte della guerra dalla Spagna all’Italia, dove avrebbe dovuto puntare allo smembramento della confederazione romano-italica nel 218 riuscì a sfuggire ai Romani che volevano intercettarlo e con i suoi soldati ed elefanti, valicò i Pirenei e poi le Alpi, giungendo in Italia. Qui ottenne l’appoggio delle popolazioni celtiche e dell’Italia settentrionale e arrivò alle vittorie del Ticino e Trebbia (218) e Trasimeno (217). I romani dopo le inaspettate sconfitte, nominarono dittatore Quinto Fabio Massimo, portatore della strategia della guerra di logoramento, che gli era valso il soprannome di Cunctator (‘il temporeggiatore’); nel frattempo Annibale raggiunse la Daunia, lasciandosi dietro rovine e saccheggi. La situazione non migliorò sotto A) Roma nell’Oriente ellenistico 1.La crisi del regno d’Egitto La pace di Fenice (206) pose fine alla prima guerra Macedonica, ma non spense totalmente i risentimenti nei confronti del re macedone. Filippo per parte sua, nonostante non fosse riuscito a porre fine alla presenza romana in Illiria, non era però uscito male dalla guerra e approfitto della pace per rivolgere le mire di conquista altrove. Nel 204 la morte di Tolomeo IV e la successione al trono di Alessandria del piccolo Tolomeo V, aggravò la crisi dell’Egitto. L’instabile equilibrio fra le 3 dinastie che si erano spartiti l’impero di Alessandro- gli Antigonidi in Macedonia, i Seleucidi in Siria e in Asia Minore, i Tolemei in Egitto- sembrava sul punto di spezzarsi. In questo contesto la tradizione attribuisce a Filippo V e Antioco III, sovrani di macedonia e Siria, un accordo segreto per spartirsi il regno tolemaico. Quel che è certo, è che Antioco riprese l’offensiva e con la vittoria di Panion, nel 200, la sottrasse all’Egitto; contemporaneamente Filippo nel 202 conquistò posizioni in Tracia e nell’aria degli stretti e l’anno successivo conquistò ulteriori posizioni impadronendosi della flotta tolemaica a Samo; facendo così si attirò l’ostilità di Rodi e pergameni, i quali nell’autunno del 201 invocarono il soccorso dei romani contro Filippo V. 2.La seconda guerra macedonica Al loro appello si aggiunse poi quello degli ateniesi. Ad Atene erano stati condannati a morte e giustiziati due Acarnani, i quali fedeli alleati della macedonia ottennero la collaborazione di Filippo per un’azione di rappresaglia contro Atene in cui tutta l’Attica fu invasa. A Roma in un primo tempo il popolo, stanco dopo i lunghi conflitti contro Annibale, respinse la proposta di porre guerra a Filippo. Il console del 200 Galba, ripresentò la proposta riuscendo a ottenere il voto favorevole dei comizi solo dopo aver delineato la negativa prospettiva di una terza invasione dell’Italia, dopo quelle di Pirro e di Annibale, se non si fosse bloccato Filippo V. Né Galba né il suo successore del 199, Tappullo, riportarono successi decisivi su Filippo; Galba tuttavia rinnovo l’alleanza con gli Etoli, pronti a riprendere le ostilità contro il nemico macedone. Più fortunato fu il console del 198, Tito Flaminino, che riuscì a penetrare in Tessaglia sloggiando Filippo dalle posizioni sulle gole dell’Aoo (odierna Albania). Diplomaticamente nel 198 il console porto dalla sua parte gli Achei offrendo loro la restituzione di Corinto quindi fece fallire le trattative di pace con Filippo e trasse dalla sua parte anche i Beoti. Nell’estate del 197 sconfisse la falange macedone a Cinoscefale, in Tessaglia. 3.La pace con Filippo V (195) e l’ira degli Etoli I dissidi fra romani ed Etoli iniziarono a mostrarsi subito dopo la battaglia decisiva ma si acuirono soprattutto intorno all’assetto da dare alla Grecia; gli Etoli, contrariati dalla decisione di Flaminino di concedere una tregua e l’apertura di trattative di pace con Filippo, insinuarono che il console fosse stato corrotto dal re macedone. Flaminino in realtà non aveva intenzione di sostituire gli Eoli con la storica Macedonia, poiché riteneva la Macedonia insostituibile nel ruolo storico di baluardo della Grecia, dalle invasioni di Traci e Galati. Filippo V accettò subito di ritirarsi a tutta la Grecia, compresa la Tessaglia, che era stata sotto il controllo macedone dall’epoca di Filippo II e di ritirarsi anche dalle tre postazioni strategiche, Demetriade, Caldice d’Eubea e Corinto, che aveva definito le catene della Grecia. Filippo avrebbe anche restituito agli Etoli tutte le città di cui rivendicavano il possesso ma Flaminino era disposto a concedere a questi la sola Tebe Ftie, mentre tutte le altre città si erano rimesse alla fides dei romani. Quando gli Etoli si richiamarono ai termini del trattato nel 211, rivendicando le azioni negative di Roma, il console replicò che questo era stato annullato dalla pace separata del 206 fra gli etoli e Filippo V. Così, il contrasto con questi si fece insanabile. A Filippo invece, Flaminino si affrettò a spianare la via verso la pace, temendo che la guerra potesse essere prolungata tramite il soccorso, a Filippo, di Antioco III. 4.La liberazione della Grecia (196) Quando fu il momento di lavorare alla sistemazione della Grecia, Flaminino si sforzò di convincere i 10 senatori della commissione ad applicare il principio della libertà dei Greci, solennemente affermato dal Senato. Voleva smentire con i fatti le calunnie degli Etoli, secondo cui questa liberazione rischiava di tradursi nel passaggio da un padrone all’altro. In occasione degli Agoni Istmici del 196, a Corinto, Flaminino fece proclamare la libertà e autonomia dei greci, esentandoli espressamente dal pagamento di tributi e dall’obbligo di ospitare guarnigioni. 5.La guerra contro Nibiade di Sparta e l’abbandono della Grecia I rapporti con gli Etoli e con Antioco III si fecero sempre più tesi. Nel 195 Flaminino, (avendogli il senato prorogato il comando per un altro anno), dichiarò guerra a Nabide di Sparta, con il consenso di tutti gli alleati greci, tranne gli Etoli. Durante la seconda guerra Macedonica, Filippo V aveva ceduto al re di Sparta Argo e lui si è affrettato a farsi riconoscere il possesso da Flaminino, tradendo Filippo e siglando una tregua con gli achei. Alla fine della guerra nel 195, al re spartano s’impose di abbandonare Argo. Nel 194, Flaminino intervenne negli affari interni delle città greche, e poi ritirasse le guarnigioni che occupavano ancora la Demetriade e Calcide ricondusse esercito in Italia, dopo aver esortato i greci alla concordia. 6.Verso la guerra contro Antioco III e gli Etoli Gli Etoli individuarono in Antioco III (re della Seleucide) il possibile vero liberatore dei greci dal dominio romano. Già durante la guerra con Filippo i romani si erano sforzarti di contenere l’avanzata di Antioco con la diplomazia. Ma nella primavera del 197 questo mosse alla riconquista dell’Asia minore. I Rodii, per paura di una possibile alleanza fra Antioco e Filippo, prima imposero al re di non superare capo Chelidonio, ma alla notizia della vittoria dei romani nella battaglia di Cinoscefale, trovarono un accordo con Antioco. Nel 196 dopo la proclamazione della libertà dei greci, Flaminino intimò agli ambasciatori seleucidi di non attaccare le città autonome in Asia e di sgombrare quelle sottratte a Tolomeo e Filippo. Per le fasi successive delle trattative fra il re e i romani, si identifico una prospettiva completamente differente e che avrebbe portato ad una guerra inevitabile. Antioco perseguiva il programma della reconquista e negava ai romani il diritto di intromettersi negli affari dell’Asia. Al contrario i romani avevano una loro ‘geografia dell’apprensione’ che considerava il passaggio del re in Europa una diretta minaccia nei loro confronti. Al precipitare degli eventi contribuì l’esilio di Annibale, presso Antioco dopo essere stato costretto ad abbandonare Cartagine. Annibale sarebbe potuto essere per Antioco uno strumento importante perché con una flotta, avrebbe potuto procurarli l’alleanza di Cartagine e muovere guerra contro l’Italia sollevando le popolazioni ‘ribelli’ della penisola contro i romani. Sembra poi che Annibale cercò in tutti modi di convincere il re ad attirare dalla propria parte Filippo V. Il progetto tuttavia si rivelò irrealizzabile perché troppo accesi e recenti erano gli odi e i risentimenti che contrapponevano i potenziali alleati, contro Roma, ma soprattutto risultavano in conciliabili i loro obiettivi. A Filippo, Antioco offri circa 3000 talenti e 50 navi da guerra oltre alla restituzione delle città greche che aveva occupato, ma il re macedone era ormai sempre più vicino ai romani. 7.La guerra contro Antioco e gli Etoli Nel 192 Antioco sbarcò a Demetriade, che gli Etoli avevano tratto dalla loro parte approfittando del timore che la popolazione avessi che i romani erano intenzionati a riconsegnare la città a Filippo. Nel frattempo a Sparta ad approfittare dell’omicidio del re Nabide, fu l’acheo Filopemene. Antioco conquistata finalmente Calcide, nel 191 occupo il passo delle Termopili, ma fu messo in fuga dalle truppe del console Galabrione, le quali riuscirono ad aggirare le posizioni affidate agli Etoli. Ma ai romani più che le operazioni contro questi ultimi, interessava portare il colpo decisivo contro Antioco. Così il console del 190, Lucio Cornelio Scipione, concesse una tregua agli Etoli e mosse verso l’Asia; potè attraversare Macedonia e Tracia grazie alla collaborazione di Filippo V, e nel frattempo le vittorie navali riportate a Corico, a Side e a Mionneso (tra 191 e 190) consegnarono il dominio del mare alla flotta romana. Antioco dovette ritirare la guarnigione di stanza a Lisimachia; Così ai romani il re presentò un’offerta di pace che fu considerata però insufficiente e tardiva la battaglia decisiva si svolse presso Magnesia del Sipilo e vide la disfatta delle truppe seleucidi. 8.La pace con Antioco e la guerra contro i Galati Nei giorni successivi Antioco apri le trattative di pace. Gli si impose di abbandonare l’Europa e tutta l’Asia a nord del Tauro, una catena montuosa che divideva il continente in due parti da ovest ad est. Egli doveva poi farsi carico interamente delle spese di guerra nella somma di 15.000 talenti e di consegnare a Roma, il nemico Annibale ed altri leader greci che avevano appoggiato Antioco. A Lucio Cornelio Scipione subentrò il console del 198, Gneo Manlio Vulsone. Egli cercò la gloria militare in una spedizione contro i Galati, e La vittoria su Perseo determina un’incontrastata posizione egemonica di Roma e una forza mai avuta prima del Senato. Il primo a farne le spese, subito dopo Pidna, fu il re di Siria Antioco IV, il quale fu intimato bruscamente di abbandonare l’Egitto, rinunciando alla conquista del regno tolemaico. Nonostante l’umiliazione, Antioco non rinunciò a celebrare la vittoriosa campagna d’Egitto e nel 166 organizzò a Dafne, una solenne festa che si protrasse per 30 giorni. I romani erano inquietati dalla dimostrazione di ricchezza di Antioco, ma quando questo nel 164 morì, i romani approfittarono della successione al trono di un bambino di nove anni, Antioco V inviando in Siria una legazione che impose il rispetto delle clausole militari del trattato di Apamea. Ma in quest’occasione va inquadrato l’uccisione del console, Gneo Ottavio, da parte di un fanatico religioso Demetrio, figlio di Seleuco IV, prigioniero a Roma, riuscì a scapparne e giunto in Siria prese il potere. Il Senato accettò il fatto, ma non avendo ottenuto la consegna dell’assassino di Gneo, mostrò di voler continuare a tenere sotto scacco Demetrio. 14.Tensione con Eumene II Eumene di Pergamo, accusato di aver avuto trattative segrete con Perseo, cadde in disgrazia e nel 167 gli fu imposto di abbandonare l’Italia. Anche in questa situazione, il senato si mostrò pronto ad accogliere ogni lamentela dei rivali di EumeneAttalo II, ascese al trono alla morte del fratello Eumene nel 159 15.La Grecia dopo Pidna In Grecia (da Polibio) i politici filoromani esercitarono il loro dominio in forme tiranniche: In Epiro, Carope avrebbe istituito un regime del terrore; in Etolia, Licisco, in Beozia, Mnasippo e in Acarnania, Crema. Solo la loro morte, nel 159, avrebbe riportato la concordia. 16.Andrisco e la quarta guerra di Macedonia La divisione della Macedonia nelle quattro repubbliche, non mancò di suscitare accesi conflitti soprattutto nel 151. Nel 149, il figlio di Perseo, Andrisco (note col nome di Filippo VI), assunse il controllo della regione e con forse raccolte sconfisse persino un esercito romano. Polibio attribuisce ad Andrisco una politica del terrore, necessaria ad imporre a tutti la condivisione della sua linea, che portò appunto il sostegno dei macedoni. La sua sconfitta a Pidna, nel 148, portò alla provincializzazione della Macedonia, cioè una stabile presenza militare romana agli ordini di un magistrato inviato regolarmente da Roma. 17.La guerra acaica e la distruzione di Corinto. Nel frattempo si aprì nel Peloponneso una crisi determinata dallo scontro fra le aspirazioni egemoniche della lega achea e il tenace attaccamento alla libertà degli spartani. E a questo motivo di fondo sembra intrecciarsi quello dell’avidità e della corruzione che portò allo scontro fra Callicrate e lo spartano Menalcida, incapaci di accordarsi sulla ripartizione per ottenere l’intervento militare acheo in difesa della città, minacciata dagli Ateniesi. Nel 149 la questione fu portata davanti al Senato dove si confrontarono Menalcida e Dieo (Callicrate era morto nel viaggio). Quando gli achei ripresero le ostilità, senza riuscire però a imporre Sparta la sottomissione alla lega, il Senato inviò a Corinto nel 147 il legato Romano Lucio Aurelio Oreste e questo comunicò la decisione del Senato: non solo Sparta ma anche Corinto, Argo, Eraclea e Orcomeno dovevano abbandonare la lega. Questo smembramento non fu tollerato dalla popolazione di Corinto, che assunse la guida politica della lega portandola allo scontro con Roma. In un primo scontro con le truppe di Cecilio Metello presso Scarfea, rimase ucciso lo stratega Critolao. Il suo successore, Dieo, guidò gli achei nella battaglia decisiva di fronte a Corinto, dove fu sconfitto nel 146 dal console Lucio Mummio. Corinto fu saccheggiata e distrutta per ordine del Senato, e tutte le opere d’arte andarono ad abbellire Roma e le altre città dell’Italia romana. La lega achea fu sciolta e le istituzioni delle città furono riformate il senso timocratico. 18.Il testamento di Attalo III, la rivolta di Aristonico e l’istituzione della provincia d’Asia Nel 133 morì il re Attalo III, lasciando il regno in eredità al popolo romano. Forse un figlio illegittimo di Eumene II, rivendicò il regno, assumendo il nome di Eumene III (Aristonico). Impegnati nella Guerra Numantina e nelle rivolte servili in Sicilia, i Romani dovettero ricorrere all’aiuto dei re d’Asia. Non è facile determinare l’andamento preciso del conflitto, ma pare che il console del 131, Licinio Crasso morì e il suo successore del 130, Marco Perpenna riuscì a vincere e catturare Aristonico; mentre al successore, Manio Aquilio, toccò a riorganizzare la provincia d’Asia. Le città sembrerebbero per la maggior parte aver appoggiato Roma, e fra le varie città della provincia, ve ne furono alcune a cui fu concessa maggiore libertà, che almeno sulla carta le sottraeva al potere del governatore. B) L’occidente mediterraneo 1.Dalla sconfitta di Annibale alla terza guerra punica e alla distruzione di Cartagine Il trattato di pace che concluse la guerra annibalica, concedeva ai cartaginesi la possibilità di mantenere il controllo sui territori posseduti prima della guerra, ma al contempo imponeva loro di restituire a Massinissa, il re di Numidia, tutti territori appartenuti ai suoi antenati. A Cartagine era stato fatto divieto muovere guerra senza preventiva autorizzazione romana, e dunque Massinissa tentò di approfittare dell’ambigua definizione dei confini, del favore del Senato e della paralisi militare imposta ai suoi rivali. Eletto nel 196 Annibale intraprese un programma di democratizzazione delle istituzioni combattendo contro gli arricchimenti illeciti dei magistrati. Per liberarsene i suoi nemici e fecero appello ai senatori romani, accusando Annibale di aver stabilito segreti contatti con Antioco III in funzione antiromana. Così vi fu l’invio di una legazione senatoria che aveva il compito a Cartagine di imporre la condanna di Annibale (ufficiosamente), ma lo scopo ufficiale dichiarato della missione era la volontà di far da mediatori fra Cartagine e Massinissa. Annibale però non si fece ingannare e fuggì recandosi prima a Tiro, in Fenicia, la madrepatria di Cartagine, e poi presso Antioco III. Nel 193, l’ambasceria Cartaginese in senato, denunciò i progetti di Annibale, il quale rifugiato ad Antioco, mandò a Cartagine un certo Aristone di Tiro per preparare la città alla guerra antiromana. Inoltre il Senato, probabilmente a seguito delle lamentele e delle provocazioni di Massinissa, inviò una legazione in Africa. Consapevoli però che i romani andarono in Africa per la riconoscenza verso gli alleati e non per astratte considerazioni di giustizia (cioè non per riconoscere le lamentele del re di Numidia) i cartaginesi tentarono di contendere a questo il favore il Senato. Questi offrirono in dono il grano, proposero di armare a proprie spese una flotta e di pagare in un’unica rata di residue pesanti indennità di guerra. Tutte le offerte e furono respinte dal Senato che sembrava sempre più vicino al re di Numidia. Questo scontro fra il re e Cartagine si ripetè in termini analoghi anche al tempo della terza guerra di macedonia quando il re nel 174 accusò i cartaginesi di intrattenere segrete relazioni con Perseo. Nel 172 è annotata una richiesta cartaginese al Senato di porre fine alla disputa, ma ai cartaginesi sarebbe stato imposto perfino di pagare a Massinissa un indennizzo di 500 talenti per l’usufrutto delle città contese. Quindi i rapporti si rovinarono fino al 151 quando a Cartagine preso il sopravvento i fautori di una linea politica più decisa nella difesa dell’autonomia. Al termine di una falsa interna convulsa, nel 150 un esercito Cartaginese, comandato da Asdrubale, mosse contro Massinissa, impegnato nell’assedio della città punica di Orospoca. Era una violazione aperta delle clausole militari del trattato di pace con Roma, e la sconfitta di Asdrubale, produsse un nuovo rivolgimento politico a Cartagine e un nuovo timore del risveglio della reazione romana. Asdrubale e gli altri della spedizione furono condannati a morte. Nel 149 la città di Utica si sottomise alla sovranità romana (deditio in fidem) e sarebbe potuta essere un’importante base da cui condurre le operazioni di guerra per i romani. Compresa questa notizia i cartaginesi si affrettarono ad inviare in Senato ambasciatori con pieni poteri, ma quando questi arrivarono trovarono le legioni che erano già in viaggio per l’Africa. Per evitare il peggio questi ambasciatori furono costretti alla deditio in fidem; Il Senato li lodò e gli concesse libera autonomia. Contemporaneamente però si impose loro di inviare a Lilibeo 300 giovani in ostaggio scelti fra i figli dei cittadini più eminenti. All’approdo dei consoli ad Utica, gli ambasciatori inviati da Cartagine ricevettero l’ordine di consegnare tutte le armi e i cartaginesi si piegarono anche a questa nuova imposizione. Solo a questo punto i consoli svelarono l’ordine del Senato di distruggere la città di Cartagine, la decisione era il revocabile. Quando gli ambasciatori cartaginesi tornarono in città e diedero la notizia, gli abitanti adottarono le misure estreme quali la città era solita ricorrere nelle circostanze più drammatiche; liberarono gli schiavi, annullarono la condanna morte di Asdrubale e gli conferirono il comando dei 20.000 uomini, tutta la città fu indirizzata alla fabbricazione di armi. La resistenza cartaginese si protrasse fino al 146; fu Scipione Emiliano che conquistò definitivamente Cartagine; la città fu saccheggiata e distrutta e fu trasformata nella provincia d’Africa. 2.Le guerre nella penisola iberica fino alla distruzione di Numanzia accontentarsi per il momento dell’indennizzo previsto dalla legge. Secondo quanto raccontato da un’operetta di Gaio Gracco citata da Plutarco, Tiberio avrebbe preso coscienza della gravità della situazione dei contadini-soldati romani e italici, quando si recò in Spagna attraversando l’Etruria. Il problema che Tiberio evidenziava e che i territori dei piccoli proprietari terrieri erano stati abbandonati in favore della guerra e che stavano per essere occupati da schiavi, sempre potenzialmente infidi e ostili; La riforma doveva servire proprio a questo, a ristabilire i piccoli proprietari nei loro territori di competenza. 2.La prima rivolta degli schiavi in Sicilia Tiberio usò la rivolta servile che era ancora in corso in Sicilia, presentata da Diodoro Siculo come ‘la più grande rivolta degli schiavi di tutti tempi’, per diffondere insicurezza della popolazione. Questi schiavi col tempo avrebbero preso di mira non più solo i viandanti, ma le fattorie e gli insediamenti rurali più indifesi e in questo clima maturò la rivolta vera e propria, partita dal crudele Damofilo. Euno, uno schiavo Siriano, garantì l’approvazione divina per il programma degli insorti. Occupata Enna, una banda di schiavi mister meno la popolazione libera; Euno assunse la guida della rivolta assumendo il titolo di re con il nome di Antioco. Un altro leader, il cilicio Cleone, attivo nella zona di Agrigento, si sottomise all’autorità di Euno. Gli eserciti ribelli ebbero la meglio anche su truppe ordinate da governatori di rango pretorio. Solo nel 132 il console Rupilio poté occupare Tauromenio ed Enna, ultimi baluardi della disperata resistenza degli insorti; la rivolta, il cui anno d’inizio non si può determinare con certezza, ebbe la durata di almeno cinque anni. 3.L’opposizione alla legge agraria fino alla morte di Tiberio Gracco L’opposizione dei ceti che occupavano grandi estensioni di ager publicus, si espresse tramite il veto posto dal tribuno della plebe Ottavio, che impedì più volte la votazione del progetto di legge. Neanche il Senato riuscì a risolvere questa situazione, ma alla fine Tiberio contando sul favore popolare, forzò la situazione invitando il popolo a votare la deposizione del suo rivale. In una drammatica seduta del concilio della plebe, Ottavio si rifiutò di ritirare il veto anche quando alla ratifica della sua deposizione, fatta votare da Tiberio, mancava il voto di una sulla tribù. Una volta caduto il veto, la legge agraria (rogatio Sempronia agraria) poté essere approvata regolarmente. A comporre la commissione triumvirale furono Tiberio, promotore della legge, suo fratello Gaio, e il console del 143, Appio Claudio Pulcro, suocero di Tiberio. Alla notizia della morte del re di Pergamo, Attalo III, Tiberio propose per legge che fosse la commissione a disporre del tesoro Pergameno e inoltre intendeva strappare al Senato la decisione sul futuro delle città d’Asia. Il conflitto fra Tiberio e gli oppositori era sempre più acceso e quando Tiberio tentò di assicurarsi la rielezione al tribunato per l’anno successivo, fu accusato di ambire a un potere di stampo monarchico, di aspirare al regnum. Mucio Scevola si rifiutò di ricorrere alle armi contro i graccani, sostenendo che Tiberio non aveva violato alcuna legge e così prese l’iniziativa il pontefice massimo Scipione Nasica che determinò l’uccisione di Tiberio e di 300 dei suoi sostenitori. 4.Da Tiberio a Gaio Sempronio Gracco In commissione il posto di Tiberio fu preso da Publio Licinio Crasso. Nasica, il responsabile del massacro dei Gracchi fu inviato in Asia e qui morì. Nel 129 i grandi possessori italici, colpiti anche loro dalle confische, rivolsero un appello a Scipione Emiliano, il quale accolse le loro richieste e sottrasse alla commissione agraria il potere di giudicare le controversie sulla natura giuridica delle terre rivendicare dallo Stato. Affidando questo compito ai consoli, si contava di poter boicottare l’applicazione della legge e di sospendere le confische. Poco più tardi Scipione Emiliano fu trovato morto in casa sua, e la moglie Sempronia, sorella di Gracchi, fu sospettata di omicidio. Nel 125, Fulvio Flacco, console e membro della commissione agraria, formulò il progetto (che non sarà mai messa ai voti, perché questo dovette andare nelle Gallie) di concedere agli Italici la cittadinanza, così che non sarebbero stati più da intralcio all’approvazione della legge. 5.Il tribunato di Gaio Gracco Nel 123 Gaio Sempronio Gracco, il fratello di Tiberio, assunse il tribunato proponendo un complesso pacchetto di leggi:  Ribadì la redistribuzione in lotti dell’ager publicus;  Promosse misure in favore dei cittadini arruolati, vietando la coscrizione prima dei 17 anni;  Propose una legge frumentaria, che stabiliva vendita a prezzi politici del grano;  Strappò ai senatori il monopolio della funzione giudicante con una legge giudiziaria;  Costruzione di strade e magazzini per il grano;  Promosse deduzione di colonie- tradizionale strumento di distribuzione di terrala più importante era il progetto sul sito della vecchia Cartagine; Fu rieletto tribuno nel 122, e al suo fianco figurava Fulvio Flacco; come per Tiberio, anche gli avversari di Gaio utilizzarono contro di lui un collega, sempre un tribuno della plebe, Livio Druso; Questo avrebbe promosso la fondazione di 12 colonie, rimasta però sulla carta. Altro elemento che indebolì il fronte Graccano, fu un progetto di legge che avrebbe esteso la cittadinanza ai latini; il console Fannio, eletto grazie a gaio Gracco, impedì l’approvazione del provvedimento suscitando la felicità della plebe romana. Il console del 121, Opimio, sfruttò le notizie di presagi sfavorevoli intorno alla rifondazione di Cartagine per intaccare Gaio. Questo console ottenne sempre più potere fino a quando insieme a Gaio e Fulvio Flacco furono uccisi 3000 uomini. 6.Le trasformazioni dell’agricoltura italica fra II e I nel dibattito contemporaneo L’insistenza di Tiberio Gracco sull’importanza della legge agraria, ha fatto interrogare a lungo sull’evoluzione dell’agricoltura in Italia fra II e I secolo a.C.. Grande importanza è stata data ad Arnold Toynbee il quale nel ‘L’eredita di Annibale’, imputava una drastica trasformazione in Italia, dovuta alla presenza di Annibale nelle regioni meridionali. La riduzione ad ager publicus delle terre confiscate alle comunità ribelli dell’italia Sud, avrebbe provocato la fine della piccola proprietà terriera e lo sradicamento del ceto dei contadini soldati. Una produzione orientata principalmente verso il mercato, le Villae schiavili, avrebbe preso il posto dell’agricoltura di sussistenza praticata nelle piccole aziende familiari e della cerealicoltura. Le esigenze del servizio militare avrebbero strappato i contadini-soldati al loro poteri; le famiglie non sarebbero stato più in grado di mantenerne il possesso e così ne avrebbero approfittati i ceti proprietari (questa è la visione di Tiberio). Si usa spesso dire che “i contadini-soldati romani combattessero per venire espropriati delle loro proprietà”. La villa, diretta dal vilicus, produceva per la commercializzazione e dunque era importante una posizione che le consentisse il facile accesso ai mercati. La ricerca degli ultimi anni si è più volte interrogata su questo uniforme quadro, basato sulla contrapposizione della villa schiavile e del grande allevamento transumante. Facendo ricorso alle fonti archeologiche, si è creduto di poter affermare esistenza di una densa popolazione rurale insediata in unità produttive che disponevano di appezzamenti assai ridotti, giungendo ad affermare un rapporto di necessaria integrazione fra villae e piccola proprietà. In generale studi recenti evidenziano come il passaggio agrario tardo repubblicano non presenterebbe aspetti di radicali novità, le villae non sarebbero affatto il carattere dominante. In opposizione a quanto pensava Tiberio Gracco, riguardo il problema demografico, gli studi più recenti hanno dimostrato come la piccola proprietà sarebbe stata enormemente resistente e da sole le donne sarebbero state in grado di produrre il necessario alla sussistenza, senza alcun tipo di problema di calo demografico. Questo studio moderno vuole evidenziare come l’alto tasso di mortalità militare negli anni della guerra annibalica, avrebbe messo a disposizione delle coppie superstiti più ampie estensioni di terra inaugurando una fase di prosperità. L’eccesso di popolazione frutto di questo boom demografico avrebbe condotto però al frazionamento delle piccole proprietà, e dunque non si può parlare di crisi demografica come nè parlava Tiberio Gracco, ma al contrario una fase di tumultuosa crescita demografica che avrebbe condotto alla crisi della piccola proprietà. 7.La manodopera schiavile Innegabile è la rilevanza dell’afflusso di manodopera schiavile: 150.000 furono gli schiavi immessi sul mercato dopo il saccheggio dell’Epiro (da parte di Emilio Paolo); nel 177, i 40.000 sardi riesci schiavi, e non da meno i 400.000 schiavi deportati da Cesare dopo la spedizione in Gallia. Oltre alle guerre di conquista, fonte di approvvigionamento del mercato della manodopera, erano anche altre fonti: la più importante sembrano essere state le razzie di uomini che colpivano i villaggi rurali della Siria o delle regioni interne dell’Asia minore; A rifornire di merce umana il mercato di Delo (importante meracto di controllo Romano nel III-II), dovevano essere in primo luogo i pirati cilici. Minimo, almeno in quest’epoca, è stato l’approvvigionamento di schiavi da abbandono di neonati e dalla celtiberica. Sembra che i contatti con gli eserciti romani crearono un forte consenso attorno al giovane africano, per cui i nobili gli promettevano appoggi per la successione al trono. Quando si intromise in questa faccenda Scipione, il sovrano di Numidia fu indotto ad adottare Giugurta e a designarlo coerede al regno per neutralizzare prevedibili colpi di mano. Dopo la morte del re, il ‘partito’ di Giugurta salì al potere, uccidendo Iempsale, e scaturendo l’invio di una delegazione romana, sollecitata da Aderbale. Giugurta, padrone ormai della Numidia e a fronte dello sdegno dei Romani, ripose le speranze nell’avidità della classe dirigente romana e nel proprio denaro. Pertanto invio nell’Urbe i propri delegati carichi d’oro ed argento per farne omaggio ai romani. In Senato però prevalse la posizione secondo cui la verità era più importante rispetto al denaro, e dunque si deliberò una commissione di 10 per la divisione del regno di Micipsa, tra Aderbale e Giugurta. La decisione del Senato non venne accettata da Giugurta, che non esitò ad occupare i territori del fratello, provocando una reazione indotta dalle devastazioni di città. L’assedio alla piazzaforte di Cirta, popolato dai negoziatores italici, che furono massacrati, provocò una svolta nella vicenda. Infatti sotto la spinta emotiva delle notizie diffuse da Aderbale, la denuncia della colpevole inerzia del Senato da parte di Gaio Memmio, provocò la dichiarazione di guerra a Giugurta nel 111. L’ostilità del senato sarebbe stata spiegata come timore che la conquista della Numidia avrebbe consolidato il potere degli equites, divenuti già abbastanza importanti dopo la riforma di Gaio Gracco. I tanti insuccessi romani si protrassero fino al 108/107 quando la direzione della guerra fu assunta dal console Quinto Cecilio Metello. Questo riconquistò quasi tutta la Numidia grazie anche all’impegno del luogo tenente Gaio Mario. Quest’ultimo fu eletto console nel 107, riuscì ad assumere il comando della guerra accelerandone la conclusione. Giugurta perse il suo esercito e fu tradito dagli amici, ma ottenne l’aiuto del suocero Bocco, re della Mauritania. Ma dopo due sconfitte successive blocco si fece persuadere dall’abilità diplomatica di Silla, questure al seguito di Mario e passò dalla parte di Roma; Giugurta fu così consegnato in catene a Mario nel 105 che potè celebrare il trionfo. 2.L’homo novus Mario, tra rivoluzione e conservazione (108-100) Se sul piano politico la acquisizione della Numidia fu letta in maniera negativa da parte del Senato (sopra spiegato perché), sul piano storico rivestì un significato dirompente di una vera e propria cesura. La colonizzazione e la relativa assegnazione di terre ai veterani, modificò il profilo Graccano della lotta di classe, senza che a ciò corrispondesse una riforma strutturale. L’obbligo prescritto al Senato, dai tribuni della plebe, di giurare il rispetto della legge che sanciva la distribuzione ai soldati di terre dell’ager gallicus (strappato da Mario ai Cimbri), scatenò lo scontro tra le parti. In questo quadro fondamentale è la persona di Gaio Glaucia, un tribuno della plebe che si oppose al Senato e formò un’alleanza con Mario; questo fu ucciso inaugurando una guerra civile di cui si rese protagonista il Senato. L’atteggiamento ambiguo di Mario in questo clima di grande conflittualità, rivela la consapevolezza dell’esigenza di affrancarsi da alleati scomodi, in vista di un possibile comando proconsolare contro Mitridate, re del Ponto. Siamo in un periodo in cui il quadro del dopo guerra contro Giugurta ha enormemente dato importanza a Mario, che viene prima designato al secondo consolato per l’anno 104 e successivamente gli vengono concessi altri cinque consolati dal 104 al 100. L’enfatizzazione del pericolo Gallico, scampato da Mario, rende più significativa la vittoria romana, e giustifica il titolo di pater patriae, attribuito a Mario. 3.La seconda guerra servile in Sicilia (104-101) La storiografia, in questo quadro già complesso, ci racconta anche di una nuova gravissima sollevazione in Sicilia, che Diodoro inserisce all’interno di un’ampia politica consegnata a Nicomede, re di Bitinia, al quale si era rivolto il senato nel corso dell’assedio dei Cimbri. Il sovrano rifiutò di aiutare Roma, giustificando con la condizione di schiavitù nella quale era riversata la sua popolazione, nella provincia romana. Il Senato decretò che nessun alleato di condizione libera potesse essere ridotti schiavitù e quindi cercò di muovere subito i governatori affinché restituissero la libertà a quanti si trovavano in quella condizione. Questo scatenò l’inizio di una nuova guerra servile in Sicilia, le cui tecniche della rivolta analoghe a quelle già sperimentate 30 prima, miste ad una conoscenza del territorio, mise in crisi il governo romano per circa quattro anni. Diodoro ci racconta che la rivolta si concluse nel 101 quando Gaio Aquilino, il console insieme a Mario, riuscirono a sconfiggere i ribelli; gli ultimi 1000 schiavi portati a Roma furono risparmiati ma costretti a combattere nelle arene. 4.La questione Italica e il tribunato di Marco Livio Druso (91-90) La ribellione degli alleati italici, prevista da Scipione Emiliano insieme ad altre catastrofi che avrebbero colpito Roma dopo la distruzione di Cartagine, fu percepita in tutta la sua gravità per i nuovi equilibri socio-politici che si sarebbero delineati. Nel 91 Marco Livio Druso, figlio del Druso avversario di Gaio Gracco, propose un pacchetto di leggi volte ad ampliare il potere dell’aristocrazia attraverso solide alleanze. Di grande intuizione storica è la lettura di Appiano sul tribunato di Druso, che ne giustificherebbe la guerra civile. I punti della politica di questo erano contenuti nella:  Lex frumentaria, di evidente tenore demagogico  La lex agraria, per la deduzione di colonie in Italia e Sicilia che dovevano creare il consenso attorno alla  Lex de civitate latinis et sociis danda  Lex iudiciaria, la cui prevedeva il trasferimento delle corti giudicanti dagli equesti al senato, aumentato però di 300 membri scelti fra i cavalieri. Questa legge era il passo inevitabile per la creazione dell’asso senato-cavalieri con una formula inclusiva dei due ordini. In realtà questo non avvenne, non si riuscì a neutralizzare i contrasti interne a queste due classi: da un lato i cavalieri sospettavano che le corti giudicanti venissero trasferite al solo senato ed erano preoccupati per l’introduzione nella lex iudiciaria, dell’accusa di corruzione delle giurie. Dall’altro lato, i senatori temevano che potesse formarsi in quest’organo una nuova fazione contro i vecchi senatori. Infine gli stessi italici avevano perplessità circa la legge coloniale, in quanto sarebbero stati danneggiati e in questo clima si giunse all’uccisione di druso in casa sua da ignoti. 5.La guerra sociale e gli esiti politico-giuridici del conflitto (90-88) La guerra dichiarata allo stato romano (90 a.C.), fu considerata civile per i legami di sangue di quelli morali tra dominatori e dominanti, mentre tutti attribuiscono la responsabilità morale alla classe dirigente romana. Druso fu ritenuto responsabile dei disastri che la guerra provocò in tutta la penisola. La guerra, di breve durata, apparve da subito di esito incerto per l’equilibrata abilità delle forze in campo. Gli italici scelsero di creare uno stato federale ispirato al modello romano, con capitale Corfinum, la città più importante dei Peligni e coniarono una propria moneta con la legenda Italia, usando l’immagine del toro che schiaccia la Lupa romana. La scintilla della guerra fu l’evento che avvenne ad Asculum, dove vennero uccisi il propretore Servilio e il suo luogotenente Fonteio; la stessa sorte subirono tutti i Romani che abitavano nelle vicinanze, furono uccisi e distrutte le loro case. Si andò nella direzione del compromesso con l’istituzione di due leggi:  La lex Iulia de civitate latinis et sociis danda, che concedeva la cittadinanza alle città del Lazio e a tutti quelli che erano rimasti fedeli a Roma  La lex Plautina Papiria de civitate sociis danda, un plebiscito che concedeva il diritto a tutti quanto lo chiedessero entro 30 giorni. Le due leggi in definitiva estendevano la civitas a tutti gli Italici fino all’Arno, esclusa la zona della Gallia Transpadana. La drammaticità dei racconti spiegano e giustificano queste misure adottate dai romani per arginare i danni di una guerra difficile da portare a termine. Sul piano istituzionale però, non vennero immediatamente recepiti i cambiamenti provocati dall’esito della guerra si pensi ad esempio al tentativo di neutralizzare l’influenza dei novi cives nelle assemblee, iscrivendoli in 8 o 10 tribù supplementari motivo che da lì a poco sarà materia di nuovo scontro. I romani organizzarono i nuovi territori incorporati con l’istituto del municipium, che avrebbe concorso ad accellerare il processo di romanizzazione. 6.Crisi politica a Roma: Publio Sulpicio Rufo, la marcia di Silla su Roma e i provvedimenti d’urgenza (88) Nell’itinerario verso il pareggiamento politico degli Italici, i punti di criticità che avevano condotto al fallimento di Druso riaffiorarono nell’88 dopo l’apertura di un nuovo fronte di guerra contro Mitridate, re del ponto, che aveva occupato Bitinia, Frigia e Asia. Il comando della guerra fu assegnato a Silla, console di quell’anno la classe equestre non era d’accordo per timore che i loro interessi venissero minacciati dall’esponente (Silla) della classe aristocratica, e si accordarono con i popolari per assegnare la guida dell’esercito a Mario. Questi vennero appoggiati dal tribuno Rufo che propose un gruppo di leggi, il cui contenuto demagogico, scatenò l’ira dei consoli. Queste prevedevano che: -gli Italici dell’arrivo di Pompeo, perché non sentendosi legate a Sertorio, cambiarono fronte. Pompeo conquisto Valenzia, uccidendo un gran numero di soldati e riprendendo subito i combattimenti pe evitare che Metello potesse godere dei frutti della vittoria. Il racconto sulla guerra è caratterizzato da un legame particolare di Sertorio con una cerva- portafortuna che mortificò il suo sentimento religioso, attraendolo nella spirale dei vizi che portò i suoi compagni ad ordire una congiura contro di lui. La guerra si concluse quindi con una ‘vittoria’ di Pompeo che si sbarazzò anche di Perpenna, uccidendolo per tema di rivelazioni che potessero provocare turbamenti a Roma. 2.Insurrezione schiavile in Italia: Spartaco e l’impegno dello stato (73-71) Nella cornice delle guerre civili si inserisce la rivolta degli schiavi gladiatori guidati dal Trace Spartaco, che giunse in Italia forse con le truppe ausiliarie di Silla nell’83. Nel 73 fuggì da Capua e dopo aver tenuto in scacco per due anni i vari comandanti romani, la direzione della guerra fu affidata a Publio Licinio Crasso, forse pretore. I timori diffusi da una replica del clima creato Annibale, rendono più glorioso il risultato vincente ottenuto da Roma. La misura estrema adottata da Crasso di crocifiggere, tra Capua e Roma, ben 6000 schiavi sembra un espediente per affermare il primato del vincitore. Primato in cui si inserisce anche Pompeo, e la concorrenza con Crasso, temporeggiò fin quando il popolo non riuscì a persuaderli invocando le disgrazie della guerra civile tra Mario e Silla. Certamente questa rivolta di schiavi non è un episodio privo di conseguenze, considerando questa Roma fondava la propria economia sullo sfruttamento del lavoro servile. È fuori dubbio che queste insurrezioni erano frutto di un processo lento di cambiamento nelle forme produttive che portò a poca poco alla crisi dell’economia schiavile. 3.Il panorama politico a Roma e la dialettica tra le partes (75-63 a.C.) Per una migliore comprensione del progetto politico di Catilina, bisogna conoscere le fasi della dislocazione dei gruppi di potere quali si erano configurati in età post Silvana. Il confronto dialettico tra le partes, che riguardò il ripristino dell’originaria potestas tribunizia e l’amministrazione senatoria che investiva l’ambito giudiziario e quello del governo provinciale, si tradusse in uno scontro per la persistenza di un intransigente autodifesa oligarchica di interessi economici. In questo stesso contesto non va perso di vista come i problemi creati dei nuovi dinasti, partoriti dal seno dell’aristocrazia senatoria, costituissero terreno fertile per un’intesa temporanea per cui alla lotta cittadina non potevano non intrecciarsi i conflitti esterni in Italia e nelle province. 4.La congiura di Cailina e il ruolo di Cicerone (63-62) In un quadro dinamico caratterizzato da ricerca di equilibrio interno e potenziamento di una politica estera aggressiva, la congiura di Catilina appare come uno specchio nel quale si riflessero i mali di Roma e diviene per noi più chiaramente leggibile. Strumentali deformazioni fra le due fonti maggiori, Cicerone e Sallustio, non oscurano uno sfondo comune di compromessi e di accordi, nel nome della salvezza dello Stato, minacciato da politiche sociali di gruppi disomogenei, le cui istanze non coincidevano tranne che per l’aspirazione ad una ripresa economica. Mentre Pompeo tornava dall’oriente carico di vittoria, si scoprì la congiura nel 63 a.C. Gli anni che portarono all’ascesa politica di Lucio Sergio Catilina (tra il 66 e 63), sono quelli in cui questo riuscì ad emergere dopo il collasso economico della sua famiglia, entrando a far parte del ‘consiglio’ di Gneo Pompeo Strabone e, per divenire subito dopo silano e partecipare alle operazioni contro gli anti- silani con azioni efferate. Il suo iter politico, dalla questura (78), all’edilità (71), alla pretura (68), registra i legami con gli ottimati sin dal 66 quando fu difeso da questi nel processo per immoralità durante la propretura in Africa tra il 67 e 66. Fondamentale fu il suo ruolo ricoperto nel complotto organizzato per neutralizzare la vittoria popolare alle elezioni consolari nel 66. Il processo de repetundis gli impedì di ripresentarsi alle elezioni dell’estate e l’obbligo a rinviare di un anno la candidatura cioè al 63, lo stesso anno in cui si candidò Cicerone. Nel 63 però fu escluso nel ballottaggio con Antonio Hybrida e dovette pensare a un possibile successo per l’anno seguente attraverso trame sotterranee. Vi fu un cambiamento radicale di indirizzo politico col passaggio di Catilina alla pars popolares. I fatti successivi accelerarono l’atto finale della tragedia, perché il nuovo insuccesso di Catilina come terzo eletto per il 62 allargò l’area della protesta alle contestazioni in Senato si aggiunsero la fuga di Catilina, la denuncia di ambasciato degli Allobrogi, le manovre organizzate dai suoi seguaci rimasti a Roma e la guerra contro i ribelli in armi e la relativa condanna di questi prigionieri senza il ricorso alla provocatio ad populum. Si calava così il sipario su una delle vicende più torbide della res publica con il ritorno di Pompeo dall’oriente, richiamato da Cesare, con l’emergere di nuove figure politiche fra gli optimates (Catone il giovane) e lo sgretolamento della tanto ordinata concordia ordinum ciceroniana. L’esperienza dell’aspirante console Catilina si concluse in battaglia a Pistoia. 5.Verso il primo triumvirato. L’itinerario politico di Pompeo e Cesare (79-61) Dopo il consolato del 70, Pompeo non assunse alcun proconsolato nel 69, come invece prevedeva la Lex Cornelia e trovò la possibilità di nuova ascesa politica quando bisognava cacciare i pirati da tutto il mediterraneo. I successi militari ottenuti da questo nel 67-63, vanno collocati in un momento di ripresa della pars popularis, che rivestì un ruolo primario per l’ex console, di un potere nuovo. Ne sono una prova le modalità seguite dalla lex Gabinia, dal tribuno Aulo Gabinio, per il conferimento di un comando con poteri straordinari a Pompeo per la guerra contro i pirati. L’attribuzione dell’imperium infinitum della durata di tre anni su tutto il mediterraneo, la leva di 20 legioni, l’allestimento della flotta e la creazione di un fondo per le spese di guerra determinò il contrasto tra il senato e i comizi tributi. Il potere di Pompeo veniva staccato dalla potestas magistratuale e conferito a un privato cittadino, per un periodo che superava l’annualità (e che inoltre prevedeva la nomina di magistrati subordinati-legati propraetore-) violava i principi repubblicani. Tali aspetti dell’imperium straordinario furono ampliati con la lex Manilia, che gli affidava anche il comando della guerra mitridatica emerge palesemente il contrasto tra le rivendicazioni di un’appartenenza senatoria e il palese appoggio datogli dai populares. L’impegno di Cicerone e Cesare per l’approvazione di due leggi era volta a neutralizzare l’opposizione del senato, troppo debole per contrastare Pompeo, la quale convergenza popolare era solo provvisoria e sarebbe diventata da lì a poco legame con gli ottimati, nel duello finale con Cesare. Le imprese di Pompeo in Oriente vennero svolte nel solco di un itinerario compiuto da Lucullo, luogotenente di Silla. Pompeo, nelle guerre contro Mitridate e contro Tigrane re di Armenia, cercò di consolidare il suo potere attraverso la demonizzazione del nemico. Dopo la vittoria sulla Siria, ‘sfruttando’ il dividi et impera, egli aumentò il numero delle città libere aumentando il consenso delle varie clientele in suo favore e ciò indusse il senato a consolidare le proprie posizioni in un clima generale di sospetto. Il gesto di Pompeo al ritorno dalle guerre mitridatiche, di congedare l’esercito con la promessa di farlo partecipe al trionfo (gennaio 61) destò l’attenzione di Cesare per future alleanze. 6.L’accordo del 60 a.C. tra Cesare e Pompeo e Crasso e la costruzione di un fronte antisenatorio Esigenza di un’asse si avvertì dopo il senatoconsulto sulla corruzione delle giurie equestri e la riduzione sul capitolato di appalto delle imposte dei publicani d’Asia. Catone suggellò la separazione dei due ordini favorendo l’elezione di Cesare al consolato del 59. Cesare infatti decise di rinunciare ai successi da pretore in Spagna, dopo il famoso accordo del 60 con Pompeo e Crasso e venne eletto con buon risultato insieme a Marco Bibulo. La vera svolta del suddetto accordo è che prevedeva l’approvazione degli ordinamenti assunti da Pompeo in Asia e per Crasso la possibilità di dispiegare un impegno diplomatico e militare, come contrappeso degli strumenti finanziari si determinò un’esperienza politica rappresentata dalla centralità e soprattutto staccata dall’auctoritas senatoria. Il ‘mostro a tre teste’ (così definito da Varrone l’accordo del 60) è l’esito scontato di opposizione a poteri personali cercati dalla classe senatoria. Il progetto derivò dall’intuizione di Cesare che seppe sfruttare la delusione di Pompeo per il rifiuto del senato di notificare gli atti da lui assunti in Asia, consolidando la loro ‘unione’ politica tramite il matrimonio di Pompeo e Giulia, la figlia di Cesare. La sintesi delle 3 istanze diede vita a questo “compromesso”, che si rivelò poi nei fatti surrettizio perché minato in partenza da ambizioni di potere personale. Importante il rapporto fra Cesare e Clodio, un patrizio passato alla plebe e divenuto sostenitore del partito popolare, di cui il console non disdegnò l’appoggio per l’approvazione delle sue leggi. Di grande spessore politico e sociale sono: la lex agraria, la lex Iulia de publicanis, la lex Iulia de actis Cn.Pompei confirmandis e la lex iulia de pecuniis repetundis. Con la prima si voleva rispondere alle richieste di Pompeo per i suoi veterani, senza perdere di vista le esigenze dei ceti disagiati. Tutto l’ager pubblicus doveva essere diviso rispettando gli attuali possessori, e bisognava acquistare terra dei privati con i proventi del bottino di guerra per l’assegnazione delle singole quote a cittadini poveri con almeno tre figli. Una commissione di 20 eletti dalle tribù, doveva farsene compito e ai senatori si faceva obbligo di giurarne il rispetto, pena gravi sanzioni. Nonostante la legge colpisse soltanto il demanio, e non la possessio, l’opposizione senatoria fu durissima. Con Cesare fu nominato in un primo momento dittatore per 10 anni, poi a vita, aprendo nuovi scenari dominanti della visione ecumenica dell’impero che ben si adattava alla posizione di Cesare il quale, esigeva un ampio consenso attraverso gli strumenti della concordia e della clementia. Le prerogative del Senato vennero ridimensionate dall’aumento del numero dei magistrati e dall’ingresso di elementi nuovi, scelti in qualche caso anche tra i provinciali, nel segno di un reale coinvolgimento degli organi di controllo locali e infine lo spazio alle clientele locali che concorrevano a formare nuove classi politiche, snaturando l’essenza della civitas. In ambito economico, Cesare previde la rivalutazione dei possessi fondiari e l’obbligo di investire nelle terre italiche in modo che si risollevassero i ceti medi. Capitolo 3: “Le Idi di marzo e le guerre tra potentati (44-31 a.C.) 1.L’assassinio di Cesare e le reazioni politiche Tale politica non rispose alle aspettative dei militari dal momento che con questo quadro istituzionale non vi era più il vincolo del legame truppe-comandante. L’allineamento degli equestri, i nuovi delusi, con il senato condusse al tragico evento delle IDI DI MARZO del 15 del 44 a.C.la soppressione, simbolo della tirannide, fu utilizzata contro il potere del tiranno stesso. Lo smarrimento delle coscienze, a seguito del delitto, attraversò società ed istituzioni riportando in superficie tutte le contraddizioni implose durante la dittatura di Cesare. Responsabile l’assenza di un progetto strategico organico e condiviso che tenesse conto dei cambiamenti profondi di appartenenza politica, proprio per evitare di trascinare su un terreno in certo di una congiura uno strappo eversivo ammantato dell’ideale supremo della libertà. Il racconto degli storici rende conto della diffusa atmosfera di paura e dei gradi diversi di reazione al complotto. Mentre i cesaricidi, delusi dal mancato entusiasmo del popolo, si rifugiarono nel Campidoglio, i cesariani dopo un iniziale sbandamento –Antonio si era recato presso amici, mentre Lepido aveva occupato Foro e Campo di Marte con le sue truppe- accettarono di trattare con il Senato, che in cambio di un’amnistia decretarono onoranze divine per Cesare e l’approvazione di tutti provvedimenti emanati fino alla sua morte. Per questo si giunge al pensiero di Cicerone che “nonostante la morte del tiranno la tirannia sopravviva”. Scomparso il dittatore, le magistrature repubblicane ripresero il loro ruolo senza che si sollevassero obiezioni al potere del console Antonio. Questo fu il protagonista indiscusso della politica di quei giorni tumultuosi che esigevano compromessi continui con il Senato, dominato da Cicerone, dal quale si fece assegnare la provincia di Macedonia per l’anno successivo e soprattutto dopo l’approvazione dell’abolizione della dittatura. Le divergenze si manifestarono quando Antonio, durante i funerali (20 marzo), lesse il testamento di Cesare che aveva assegnato a ciascun cittadino un legato, suscitando l’odio del popolo perché il dittatore aveva previsto vari incarichi anche per i suoi assassini. La paura indusse i congiurati a lasciare Roma per Anzio, mentre il Senato sospettando che Antonio potesse manomettere gli Acta Caesaris per ragioni clientelari, propose una commissione di controllo. Lo scontro si fece più duro quando si affacciò un nuovo protagonista nella scena, Gaio Ottavio, nipote di Cesare che era stato nominato da lui erede in sostanza. Egli era destinato a scompaginare equilibri già resi fragili da provvedimenti emanati da Antonio che acuirono il contrasto con il Senato, a partire della legge sulle assegnazioni di terre in Italia (già autorizzate da Cesare), in favore dei veterani. Ottavio non si fece scrupolo di appoggiare gli uccisori di Cesare per andare contro Antonio, che si fece approvare una legge per l’attribuzione a lui della Gallia Cisalpina, già assegnata da Cesare a Decimo Bruto. L’ostilità di Antonio nei confronti del giovane Ottavio, giunto a Roma dall’oriente per ricevere l’eredità, si rivelò subito nel rifiuto di concedergli la tribunicia potestas; questo favorì l’avvicinamento al giovane del senato pilotato da Cicerone. Quest’ultimo ebbe un ruolo importante molto attivo, adoperandosi perché si legalizzasse l’arruolamento irregolare degli eserciti di Ottaviano (il cambiamento del nome è legato all’avvenuta adozione testamentaria), perché si annullassero in quanto per vim latae, le leggi di Antonio che poteva così essere dichiarato nemico della Repubblica, e perché si provasse la proposta di conferire la propretura ad Ottaviano, in modo che tra l’altro potesse questo partecipare alle sedute del Senato. Dopo che il Senato cedette, si inviò una legazione ad Antonio per trattare, ma il fallimento di questa determinò un tumultus, formula che impediva di condannare Antoniosi determinò un senatum consultum ultimum in cui i consoli Irzio e Panza avevano il compito di difende la res publica con l’appoggio di Ottaviano. 2.La guerra di Modena tra i paradossi della politica (43 a.C.) Cesariani e cesaricidi mossero guerra ad Antonio che rivendicava il possesso della Cisalpina ex lege de permutatione provinciae, annullata però perché non si era rispettato l’intervallo di 30 giorni dall’approvazione. Dopo le prime vittorie a Modena del fronte contrapposto ad Antonio (1-3 gennaio 43), sembrò manifestarsi un consenso pressoché unanime agli anticesariani, forse solo per esorcizzare il timore della guerra civile. La morte di due consoli, cesariani moderati, rovesciò nuovamente la situazione; è probabile che alla base della decisione di Ottaviano di non trarre alcuna conseguenza militare politica dal successo di Modena, ci sia stata la delusione di una parziale esclusione dagli onori del trionfo, tributato invece a Decimo Bruto. La cresciuta forza militare di Antonio, che fu nel frattempo supportato da rinforzi condotti da Ventidio Basso, lo portò nella Narbonense dove ricevette ulteriori aiuti da Lepido, (filocesariano che Cicerone accusò per essere voltafaccia poiché prima gli era stato concesso di celebrare il trionfo per i negoziati riusciti con Sesto Pompeo) dovette determinare la decisione di Ottaviano di marciare su Roma con le sue legioni per ottenere il consolato. Subito dopo l’elezione, Ottaviano emanò con il collega, il cugino Quinto Pedio, la legge per la condanna degli assassini di Cesare ed estese il procedimento a Sesto Pompeo. 3.Il triumvirato costituente (43 a.C.) Con la mediazione di Lepido, Ottaviano si recò in Cisalpina per incontrare Antonio e dopo tre giorni di intensi colloqui, i due decisero di creare una nuova magistratura -il triumvirato “rei publicae constituendae” - di grande peso politico. La lex Titia diede fondamento giuridico agli accordi di Bologna, finalizzati alla ripartizione delle sfere di influenza. La carica prevedeva i poteri straordinari per cinque anni da esercitare secondo la formula “rei publicae costituendae”sfere territoriali: Antonio manteneva la Gallia Comata e la Cisalpina; Lepido la Galia Narbonense e la Spagna; Ottaviano, che rinunciò al consolato, sembrò penalizzato dall’assegnazione dell’Africa della Sardegna e della Sicilia. L’oriente sarebbe stato diviso in un secondo momento, e i tre provvidero ad eliminare gli avversari politici che potevano minacciare la pace a Roma. Il metodo utilizzato fu nuovamente le proscrizioni che diedero vita a tragedie umane di inaudita violenza. Com’e noto la vittima più illustre fu Cicerone; la tradizione che volle identificare il godimento di Antonio nell’esposizione del capo reciso nella tribuna nel quale Cicerone aveva tante volte parlato, è una tecnica retorica funzionale alla propaganda augustea che voleva assolvere appunto Ottaviano dai delitti ai quali sicuramente prese parte. Intanto in oriente, Bruto e Cassio avevano occupato la Macedonia e l’illiria lasciate dai loro governatori e da lì si spostarono rispettivamente in traccia e in Siria. 4.Guerre di Perugia e accordi di Brindisi (41-40 a.C.) Mentre in oriente si affacciava la minaccia dei Parti, in Italia il problema delle risposte sui donativi ai veterani provocò un terremoto sociale e politico che sfociò nelle guerre di Perugia, definita seconda guerra sociale per le dimensioni del coinvolgimento della classe media italica. Di questi contrasti approfittarono Lucio Antonio e Fulvio, fratello e moglie del triumviro, che tentarono la sollevazione in tutta la penisola. Lucio fu assediato a Perugia nel 41 a.C. e ciò condusse ad un nuovo accordo a Brindisi fra Antonio e Ottaviano, per spartirsi le province e per rafforzare la posizione di Ottaviano. Questo ottenne le province occidentali mentre Antonio quelle orientali, Lepido conservò l’Africa e i tre si accordarono di muovere guerra a Sesto in Sicilia se non si fosse trovata una convergenza. Quando su pressione della plebe affamata a causa delle scorrerie di sesto nel Mediterraneo, si trovò la convergenza, nel 39 venne stipulato il trattato di Miseno con il quale si riconosceva al figlio di Pompeo il governo della Sicilia della Sardegna e delll’Acaia per cinque anni, mentre Sesto dal canto suo ritirò le truppe dall’Italia e garanti rifornimenti di grano a Roma. Ben presto però si riaprirono le ostilità con Sesto e, a Taranto Antonio e Ottaviano concordarono le modalità di reciproco aiuto e il rinnovo del triumvirato per altri cinque anni. Nel 38 ci fu l’espulsione da questo di Lepido e dopo la vittoria su Sesto di Ottaviano (ma ufficialmente condotta da Agrippa), i due titani si preparavano allo scontro finale. 5.Sesto Pompeo nel ridisegno di nuovi equilibri (38-35) Nel gennaio del 42, con consoli Lepido e Munazio Planco, si prepararono in macedonia e in Illiria gli eserciti di Bruto e Cassio, mentre la flotta repubblicana occupava l’Adriatico e Sesto Pompeo aveva investito la Sicilia facendo presagire problemi per i cesariani. Dopo la morte di Cesare, Sesto Pompeo era tornato nella Spagna Ulteriore, strappata a Pollione cercando di rientrare in possesso del patrimonio lasciatogli dal padre, ma acquistato da Antonio. Anche per questo il Senato si era speso per il ritorno del giovane che era disposto Si assiste nel I secolo a importanti fenomeni di mobilità che riguardano la proprietà agricola, come conseguenza delle proscrizioni e delle leggi agrarie. La proscrizione e eliminazione di senatori appartenenti a ceti economicamente emergenti, fece sì che le ricchezze di questi andarono ad alimentare la base popolare e la distribuzione ai veterani delle confiscate, la quale contribuiva a ridisegnare la morfologia sociale. I praemia erano assegnati a chi collaborava alle proscrizioni, e andavano a determinare le improvvise nuove fortune dei ricchi ma, d’altra parte la liquidità che si ricavava dalla vendita dei beni dei proscritti era fortemente limitata dalla viltà dei prezzi dei beni stessi, a paragone del loro valore reale. Ad incidere sulla proprietà terriera furono inoltre le vicende dell’ager publicus successive alle riforme Graccane. Sono attestate numerose leggi agrarie proposte dopo il 111 e fino a 44 che si ispiravano al riformismo dei Gracchi. Una fase di risistemazione dell’ager fu tra gli esiti della riorganizzazione amministrativa dell’Italia e all’indomani della guerra sociale; nei fatti l’ager publicus venne scomparendo, considerando che già al tempo di Silla per i 120.000 veterani destinati di assegnazione, non vi era sufficiente terra pubblica. Dopo il 111 l’ager residuo era destinato perlopiù al pascolo, mentre l’ultima fetta ancora esistente sul suolo italico doveva essere quello dell’ager campanus. Quest’ultimo fu protagonista della legge nel 59 di Cesare, che stabiliva la distribuzione di terre a 20.000 padri di famiglia con almeno tre figli: pare che in questo caso alcune terre furono attinte da quelli personali di Cesare, proprio a causa della penuria di ager publicus. La situazione di grave disagio sociale nelle campagne dell’età post silano è denunciata dal ruolo che giocò in alcune vicende il malcontento della popolazione rurale italica, ormai diventata prole. Si pensi alla protesta agraria del 63 così come la legislazione del 59 che traggono ispirazione da un tale contesto di degrado. Dopo la bocciatura della rogatio di Servio Rullo, è testimoniata la mossa di Cicerone che compose orazioni schierandosi contro il progetto della Lex agraria. Il ceto senatorio non si fece coinvolgere in questo processo di redistribuzione, e dunque le confische colpirono soprattutto le fasce sociali medie ed ebbero effetti importanti sul piano dell’economia. Il fenomeno resta discusso ma l’emigrazione dei proscritti e la formazione di bande armate sono conseguenza immediata di questo rivolgimento sociale. Il quadro generale a seguito di questi eventi porta a concludere nel senso della crescita del latifondo, ma non va negato l’importanza della piccola proprietà. Analogamente va considerata diversificata la stessa produzione: allevamento, cerealicoltura e coltivazione di prodotti di punta destinati alla commercializzazione, quali quelli della vite e dell’ulivo che dovevano coesistere nelle diverse aree. La varietà dei quadri è ben documentata ed alcuni esempi possono mostrare la differenziazione dei contesti produttivi per quanto riguarda sia la tipologia di beni sia gli aspetti gestionali. Esempio è l’Etruria, la cui parte meridionale è caratterizzata dal fenomeno della villa schiavistica mentre al contrario quella settentrionale non registra l’affermazione di tale modello. Piuttosto, è ormai accettata la complementarità di allevamento e l’agricoltura, non esclusivamente cerealicola. L’affermazione e la diffusione dell’organizzazione produttiva della villa in questo periodo è, oltre a che archeologicamente documentata, ha conferma nella presenza di ritrovamenti di anfore fino alla prima metà del I secolo e sostituita poi da quelle di modelli successivi fino agli ultimi decenni del I, destinati al trasporto del vino italico. La manodopera impiegata è quella schiavile, definita instrumentum vocale, affiancata da mercennari, ovvero da manodopera libera per i lavori più importanti; a capo dei mancipia è ancora uno schiavo ma appare mutato il trattamento loro riservatociò che accrebbe la fedeltà e la produttività dello schiavo fu sicuramente il consentire a questi di avere un peculio, di coinvolgerli nelle scelte sui lavori e di potersi sposare con le compagne di schiavitù e di avere figli. Il I secolo è caratterizzato da crescita dell’urbanizzazione in continuità con quanto verificatosi nel secolo precedente; aumenta la popolazione di Roma che a fine Repubblica doveva contare 1 milione di abitanti. L’idea generale per la fine della Repubblica è che vi sia un aumento globale della popolazione, tanto nelle città in quanto nelle campagne. Sezione 5 “Il principato di Augusto. La dinastia Giulio-Claudia”- Capitolo 1 “Da Azio all’ordine Nuovo” 1.Saeculum Augustum La battaglia di Azio in cui Ottaviano sconfisse l’ultimo regno nato dalla disgregazione delle conquiste di Alessandro magno, L’Egitto, è stato spesso considerato evento significativo di una cesura radicale sia nella storia di Roma sia più generale della storia del Mediterraneo. La vittoria su Antonio segnerebbe la fine del periodo repubblicano ed inizio dell’impero romano nella sua accezione istituzionale, cioè come forma di governo incentrata nelle mani di un imperator. Sotto un altro punto di vista rappresenterebbe lo spartiacque tra il periodo ellenistico e l’epoca dell’unico dominio di Roma sui paesi gravitanti attorno al Mediterraneo. Non è però unanime il giudizio sulla portata e sull’incidenza dell’evento militare che evidenzierebbero il passaggio dalla Repubblica all’impero come un processo iniziato dalla fine del regno dei Tolomei e completato con Augusto. Alcune proposte interpretative hanno allargato infatti l’ambito cronologico in cui individuare il cambiamento estendendolo a tutta l’attività politica di Ottaviano, fino a comprendere alcuni casi anche la precedente esperienza di Cesare. Sotto quest’ultimo punto di vista fondamentale l’espressione ricordata da Svetonio “Saeculum Augustum” il quale faceva idealmente iniziare da Giulio Cesare la sequenza dei 12 imperatori. Diverse prospettive sono identificate da Tacito e da Cassio Dione i quali focalizzavano l’inizio dell’impero su altri momenti. Il primo individuava lo snodo cruciale degli eventi alla morte di Augusto, con cui sottolineò come il regime mostrò di avere capacità di tenuta e dunque stabilizzazione del sistema; il secondo invece focalizzò una svolta decisiva nel 29 a.C. anno in cui veniva collocato un dibattito tra Agrippa e Mecenate sul tipo di governo, monarchico o repubblicano, da consigliare ad Ottaviano. Aldilà della data precisa in cui collocare quest’evento, è la portata stessa del cambiamento che è stata messa in discussione, o quantomeno ridimensionata, proprio in relazione alla sua natura squisitamente istituzionale e politica, ma solo limitatamente culturale economica e sociale. L’inglobamento dell’Egitto nel dominio di Roma incise, sul piano economico e sociale, solo parzialmente sulle trasformazioni della capitale. Si è sottolineato come i cambiamenti realizzati da Augusto in seguito a questo inglobamento, non abbiano prodotto un’autentica trasformazione delle strutture sociali e delle sue basi economiche; queste innovazioni non appaiono significative di una rivoluzione. Si tende quindi ad allargare l’orizzonte cronologico del cambiamento alla tarda repubblica, ridimensionando la cesura collegata al cambiamento istituzionale politico di Augusto, evidenziandone piuttosto il carattere di restaurazione e rinsaldamento del sistema produttivo e sociale, che con Augusto trovò la via per una razionalizzazione e sistemazione. 2.Le forme del potere Le innovazioni di Augusto in campo istituzionale sono state difficili da definire per i moderni, soprattutto per la scarsità e complessità delle fonti. I due momenti salienti sono l’anno del 27 e del 23, ma varie sono le tappe per comprendere la gradualità del processo imperiale. Dopo la battaglia del 31, nel corso della quale Cleopatra fuggì verso le Egitto e poi sarà seguita ad Antonio, Ottaviano ritorno prima in Italia per provvedere al congedo di alcuni veterani a fine febbraio del 30 a.C. giunse in Egitto, dove tra scontri, inganni, tradimenti e trattative diplomatiche si giunse infine al drammatico suicidio di Antonio e poi a quello di Cleopatra. Dopo alcuni mesi impiegati a consolidare il potere nel paese eliminando avversari (Cesarione e Antonio il giovane su tutti) Ottaviano infine nell’autunno del 30 prese la via di ritorno a Roma dove, console per la quinta volta, celebrò un triplice trionfo con sfarzo e un abile propaganda che ne accrebbero la popolarità e il gradimento generale. In questo anno Ottaviano assunse ufficialmente come prenome il titolo di imperator, nel 28 quello di princeps senatus, cioè di senatore che aveva la facoltà di convocare e presiedere l’assemblea. Sarà console per la sesta e settima volta nel 28 il 27, in cui il suo potere divenne assoluto, cioè trasferito dal governo nelle sue maniL’operazione ufficiale avvenne il 13 gennaio del 27. Importante per la definizione del suo potere fu l’attribuzione del titolo di Augustus, da lui assunto come cognomen, l’espressione della dimensione sacrale del suo potere. L’auctoritas permetteva al principe di dominare le istituzioni repubblicane e in quanto Ottaviano si collocava su un piano sacrale; il titolo Augustus gli conferiva la dimensione del fondatore di un nuovo Stato come egli stesso amava considerarsi e di crescenti prospettive di un potere monarchico, autoritario, a base carismatica. Questa visione capovolgeva quella formulata nell’ottocento da Mommsen, che definì il tipo di governo di epoca augustea una diarchia, tra il principe e il Senato. Nel 27 inoltre venne assegnato ad Augusto l’amministrazione delle province in cui non era stata del tutto domata l’opposizione armata al dominio romano (mentre l’amministrazione delle altre era lasciata al senato); secondo molti è questo conferito a lui fu un Imperium proconsulare maius, dunque senza limiti territoriali (secondo alcuni ciò avviene solo dal 23, mentre nel 27 era un più ‘semplice’ imperium proconsulare), che avrebbe legittimato Augusto ad intervenire anche nelle province amministrate dal Senato. Dall’estate del 27 fino al 24 Augusto sarebbe intervenuto in Gallia e poi in Spagna, per a) Interventi a Roma: Roma con Augusto diventa non sono il centro politico ma anche culturale dell’impero. Alcuni interventi si caratterizzano per la loro eccezionalità e per la loro settorialità, altri si segnalano come organicamente strutturali, sia sul piano urbanistico, monumentale e infrastrutturale, sia su quello dell’amministrazione, del controllo del territorio e nell’ordine pubblico. Svetonio ci ricorda gli interventi monumentali nella ridefinizione dello spazio pubblico nel quadro generale del rinnovamento religioso e culturale: dopo la Curia, e il ‘Calcidico’, elencava la costruzione di 13 templi, compreso il Lupercale e inoltre il restauro di altri 80. Tutti attestano l’impegno di Augusto nel promuovere la religiosità romana- tempio di Apollo sul Palatino; -il tempio per Cesare nel foro; - il tempio di Marte Ultore; il tempio di Castore e Polluce; -il tempio della Concordia Augusta. Per quanto riguarda la costruzione o restauro di opere ‘laiche’: -il portico di Ottavio; -il teatro di Pompeo e quello di Marcello; -la basilica per i giovani Gaio e Lucio; -il restauro della tribuna degli oratori nel foro di Cesare addobbata con i rostri delle navi catturate ad Azio. La gestione dei beni primari, approvvigionamento dei viveri acqua ecc, fu affrontata con atti di evergesia privata consistenti in elargizione di ciò che serviva e inoltre nella costruzione o restauro di acquedotti, terme, mercati, ponti e dell’importante asse viario della via Flaminia. Per la normale gestione delle strutture si continuò ad utilizzare l’edilità, la magistratura che per secoli aveva avuto questo compito, ma fu modificata per scongiurare che potesse diventare potenzialmente pericolosa sul piano politico. Dall’edilità furono estrapolate e frammentate le competenze, individuate come curae specifiche; la divisione dei compiti dell’edilità assicurava una più accurata realizzazione dei vari interventi ed una limitazione del potere connesso arrivare in funzione: -la cura aquarum (funzionamento e sorveglianza degli acquedotti); -la cura aedium sacrarum et operum locorumque publicorum (manutenzione e costruzione edifici sacri e non); -la cura frumenti dandi e la cura viarum (costruzione e manutenzione delle strade). Accanto all’istituto delle curae, ci era quello della preafecura, coadiuvate dal procurator annonae e in quanto assegnata e non eletta, non aveva limiti di annualità ed era dotata di imperium: -la praefectura urbis, di competenza di membri dell’ordine equestre, col compito di mantenimento dell’ordine pubblico e con funzioni giurisdizionali in materia criminale (compiti ‘condivisi’ con la praefectura vigilum); -la praefectura praetorii, consisteva nel comando delle corti pretorie, di cui 3 di stanza a Roma. Roma dal 7 a.C. fu ripartita in 14 regiones, a loro volta suddivise in vici, quartieri, e questi riuniti insieme eleggevano dei magistri, estratti dalla plebe, col compito di controllo dell’ordine pubblico. b) Interventi in Italia: Con Augusto la penisola viene suddivisa in 11 regiones, la cui funzione è stata oggetto di dibattito, forse solo di carattere censitario e non amministrativo. Solo nel II secolo d.C. saranno istituiti i magistrati regionali, per l’amministrazione della giustizia civile, consulares o iuridici, mentre di quella penale si occupava il praefectus praetorio. Gli abitanti dei circa 400 insediamenti urbani, che dopo la guerra dei soci avevano tenuto lo statuto municipale, erano cittadini romani, che si cercò di incrementare con una campagna demografica. I centri urbani amministravano lo spazio rurale ricadente nel proprio territorium, ripartito in distretti, pagi, funzionali alla registrazione della realtà agraria, articolata in: agri, fundi con villae (fattorie o centri di produzione) e vici (villaggi di contadini). c) Ordinamento delle province: Anche nell’amministrazione dei territori dell’impero si lavorò nel compromesso tra tradizione e innovazione. Formalmente rimase in piedi il sistema repubblicano, con i territori provinciali e continuarono quindi ad essere inviati ex magistrati a governare le province. Tutta via già nel 27 a.C. le province vennero ripartite in due diverse sfere di competenza, da un lato quella tradizionale del Senato e del popolo e dall’altro quelle nuove del principe. Nelle prime vengono comprese le province d’Africa proconsolare, la Betica, la Narbonese, la Sicilia, Macedonia, Acaia, Asia, Creta, Cipro e Ponto; nelle seconde le province di recente conquista o situate vicino alla frontiera, considerati cioè non pacificate. A governare le prime erano ex consoli o ex pretori che rimanevano in carica per un anno; anche nelle seconde vi erano ex consoli o ex pretori, ma scelti dal principe perché erano sui legati e denominati perciò legati Augusti. La durata della carica era variabile, stabilita di volta in volta dalla volontà del principe. Nella riscossione delle tasse in queste province si occupavano emissari del principe chiamato il procuratores. È ovvio però che nella concretezza dei fatti, la distinzione di massima era meno netta di quanto si possa pensare. Vi erano forme sottili di interferenza da parte del principe, di cui per esempio una legge vietò che è un governatore potesse essere scelto come patrono della comunità provinciali che amministrava, limitando di fatto la autorevolezza e la possibilità di crearsi delle clientele nelle province governate. Il patronato ora invece tendeva a concentrarsi nella persona del principe. La distinzione tra i due tipi di province si manifestò inoltre come una realtà dinamica, in quanto province inizialmente considerate non pacificate, con il cambiamento della situazione passarono nell’ambito della competenza del Senato e del popolo mentre altre effettuarono il passaggio opposto. Una provincia in particolare, molto importante sia per i rifornimenti granari di Roma ma anche dal punto di vista strategico e politico, fu sottratta al governo senatorio: l’Egitto, nel quale i senatori non potevano neanche entrare senza l’autorizzazione del principe. Al suo governo fu mantenuta, ma restaurata, la gestione tolemaica e fu preposto un cavaliere, il praefectus Alexandreae et Aegypti, che comandava le regioni ma dipendeva esclusivamente e direttamente dal principe. Il ruolo svolto altrove dal procuratores, cioè di amministratore dei beni privati del principe, qui era attribuito a un funzionario di tradizione tolemaica chiamato idiologos. Questo sistema amministrativo, se si considera l’estensione dei territori, potè funzionare grazie alle comunità urbane, articolate in relazione ai rapporti instaurati con Roma nella fase della conquista e al grado di romanizzazione: colonie o municipia. Questi centri erano amministrati da duoviri iure dicundo, da due aediles e da un senato locale i cui membri erano detti decuriones. La maggior parte delle comunità provinciali erano peregrinae straniere, la cui aspirazione di ottenere la cittadinanza romana non trovò grande apertura in Augusto. d) Ristrutturazione delle imposte fiscali: Per i cittadini romani residenti a Roma e nelle città italiane fu mantenuta l’esenzione dell’imposta fondiaria, ma fu introdotto il pagamento di alcune tasse quali la vicesima hereditatium (il 5% sull’importo di successioni e donazioni) che colpiva le classi abbienti, e poi anche quella che riguardava i ceti popolari chiamata, centesima rerum venalium (1% sulle aggiudicazioni e sulle vendite). Il gettito di queste imposte fu fatto confluire in una cassa pubblica di nuova istituzione chiamata, aerarium militare, cui attingere per i premi di congedo di veterani. I cittadini romani che vivevano nelle province, avevano lo stesso tipo di imposta, mentre a volte le comunità peregrine erano immuni. L’esazione dei tributi provinciali in moneta, confluivano non nell’aerarium militare ma nella cassa dello Stato tradizionale, l’aerarium Saturni, che aveva sede nel tempio di Saturno ed era gestita dal Senato, tramite i suoi rappresentanti di cui non mi cambiarono sotto i successori di Augusto: prima pretores, poi questores, poi prefetti scelti dall’imperatore. Tasse indirette erano i vectigalia e i portoria. e) Riforme dell’esercito: Riforme militari furono coerenti da un lato con l’annuncio della pace interna ed esterna, dall’altro con il riconoscimento della persistenza di focolai di guerra, in alcune zone del vasto impero non del tutto assoggettate al dominio di Roma. Alla riorganizzazione dell’esercito, Augusto provvide in primo luogo con lo scioglimento della maggior parte dei corpi militari, il cui numero appariva esorbitanti rispetto alle esigenze effettive. Le legioni, arrivati nel conflitto contro Antonio nel numero di 60, furono ridotte a 28 e trasformate in esercito permanente, diminuita e poi a 25 dopo la pesante sconfitta di Teutoburgo. La drastica riduzione effettuata da Augusto contribuì a ridimensionare il problema degli arruolamenti e ad incentivare il pagamento del soldo, lo stipendio annuo, e incentivazione anche del premio finale di congedo. La somma di quest’ultimo era equivalente all’ammontare del soldo di più di 10 anni ed era sufficiente a consentire l’acquisto di un podere; era ovviamente però un considerevole onere finanziario per lo stato, in alcuni casi sostenuto personalmente da Augusto. Delle legioni erano arruolati cittadini romani, e l’esercito legionario fu un esercito di volontari, professionisti. Il comando delle legioni era esercitato in nome del principe, generale supremo dell’esercito, dai governatori delle province non pagate e dai generali delle legioni ad esso subordinati. Per i giovani di famiglia senatoria il servizio militare costituiva una sorta di passaggio tra le magistrature minori e la tradizionale successione di questura, dopo la quale si poteva accedere alla legazione di regione o al governatorato delle province imperiali. Dell’esercito faceva parte anche il corpo matrimonio della sorella Ottavia, fatto sposare nel 25 con Giulia l’unica figlia avuta da Augusto. A Marcello stesso furono attribuiti nel 24 l’edilità, il seggio in Senato tra gli ex pretori, e la possibilità di presentarsi candidato al consolato 10 anni prima dell’età legale; nel 23 però ad appena vent’anni Marcello morì. La giovane vedova fu data in sposa al fedelissimo amico e generale Agrippa, al quale nel 18 fu attribuita la tribunicia potestas e rinnovato il proconsolato. Augusto non voleva affermare i propri progetti di successione su Agrippa, ma adottò immediatamente i loro due figli Gaio e Lucio che furono presto fatti emergere nella vita pubblica. Gaio a 15 anni indosso la toga virile e ricevette il titolo di ‘principe di giovani cavalieri’ e fu designato console; due anni più tardi, il fratello Lucio ottenere onori analoghi. Quando morirono precocemente, non mancarono i sospetti su Livia, seconda moglie di Augusto e prima di Tiberio Claudio Nerone, dal quale aveva avuto due figli Tiberio, il futuro imperatore, e Druso. Livia aspirava alla successione soprattutto il primo figlio che dopo la morte di Agrippa e fu costretto divorziare dalla sua moglie per sposare Giulia; fu in seguito acclamato imperatore per le campagne condotto in Germania e gli era stato concesso di celebrare il trionfo; nel 6 a.C. riceverò la tribunicia potestas. La morte prima di Gaio e poi di Lucio riaprirono la possibilità di Tiberio che, richiamato a Roma dopo una sorta di esilio volontario, nel 4 d.C. fu adottato da Augusto; Questo fu un chiaro segnale per la successione, ma Tiberio, come garanzia di linea successione in futuro che sarebbe ritornata ai discendenti sangue di Augusto, fu costretto ad adottare il nipote Germanico, parente di Augusto e gli fu costretto anche di sposare Agrippina maggiore una delle figlie femmine nate dal matrimonio di Giulia con Agrippa. Pare che Augusto nell’ultima fase della sua vita si sia riavvicinato ad Agrippa postumo, l’ultimo dei figli di Giulia e Agrippa, e che nel 14 d.C.; quando il principe e Fabio Massimo andarono a visitarlo, e poco dopo morirono improvvisamente, acuisce i dubbi e i sospetti su Livia e Tiberio, che forse si sentirono ‘minacciati’. 2.L’impero hereditas di una sola famiglia TIBERIO (14-37 d.C.) La morte di Augusto non segnò quella del tipo di governo da lui pazientemente costruito, anche se intervennero modifiche e adattamenti in relazione alle diverse tendenze politiche dei principi che gli succedettero. Tiberio, già dotato di Imperium proconsolare e di tribunicia potestas, ricevette dal Senato l’offerta dell’impero, seppur più volte affermava di non voler ricoprire il titolo di Imperator e di pater patriae. Storici antichi e moderni lo hanno spesso accusato di ipocrisia, poiché nonostante l’iniziale posizione ‘costituzionalista’, gli ultimi anni di Tiberio sono tratteggiati come quelli di un regime di terrore, in cui vari processi e suicidi delineano il profilo di un despota crudele. Seppur nella fase del conferimento dei poteri i senatori si erano mostrati unanimi e insistenti, non mancarono posizioni di opposizione al conferimento del potere di Tiberio; tale è l’avventura dello schiavo di Agrippa Postumo, Clemente, che cercò di fomentare una rivolta nel 16 d.C. manifestando dissenso nei confronti della successione di Tiberio, a cui preferiva il comandante Germanico. Pare che inizialmente Tiberio riconobbe una precedenza di Germanico rispetto al proprio figlio naturale Druso II, seppur covava nei suoi confronti invidia per la sua popolarità fra le truppe. Si preparava così la tragedia di Germanico, perché fu richiamato a Roma e inviato in Oriente nel 18 per risolvere la questione dell’Armenia; contestualmente veniva scelto come propretore della Siria Gneo Pisone che aveva il compito esplicito di supportare la missione di germanico e l’occulto fine di controllarne l’operato. Il conflitto tra i due scoppiò molto presto per il mancato aiuto militare a germanico, giustificato da Pisone che non accettò la sua libertà di movimento in oriente, recandosi anche in Egitto, senza alcuna concessione del Senato. Germanico fu colpito da una grave malattia, probabilmente avvelenato per ordine di Pisone e quando morì, Pisone fu richiamato a Roma, processato assieme alla moglie e al figlio che lo avevano accompagnato in Siria. La sentenza lo condannò ma egli si suicidò prima. Gelosie e sospetti di possibili congiure si andarono accentuando sempre più negli anni successivi, caratterizzati dalla persecuzione della famiglia di germanico e da processi politici che eliminarono molti elementi della corte, sospettati di aspirare al principato. Nel 27 Tiberio si ritirò a Capri lasciando la gestione dell’impero al prefetto al pretorio L.Elio Seiano. Questo nel 31 ricevete il consolato assieme all’imperatore, pur essendo un cavaliere. L’eccessivo potere del prefetto al pretorio che mostrava di aspirare a legarsi alla domus del principe con vincoli matrimoniali, suscitò l’opposizione decisa della vecchia Antonio, che lo denunciò presso l’imperatore. Tiberio nominò un nuovo prefetto al pretorio Q. Nevio Cordio Sutorio Macrone che dovete ufficializzare la condanna e portare a compimento l’esecuzione di Seiano nel 31 d.C. Nel frattempo un senatore di nome L.Vitellio nel 35 d.C., stava emergendo, gestì l’alleanza contro i Parti difronte all’invasione dell’Asia Minore di nemici comuni, gli Alani. Tibero morì a Miseno il 16 Marzo 37 d.C. secondo alcuni per morte naturale secondo altri per omicidio. CALIGOLA (37-41 d.C.) La sintesi degli elementi che erano fondamentali secondo Augusto per la successione, nell’eredità della gens Iulia, mancarono dopo la morte di Tiberio, ed emersero invece nuovi protagonisti del potere, la guardia pretoriana e la plebe romana, e si modificò il rapporto con il Senato e la composizione della corte. Il successore fu Gaio, soprannominato Caligola (‘piccola scarpa militare’) il quale era figlio di Druso II e è dunque l’inclusione nella successione privata in qualche modo sembrò fare le veci dell’adozione e assunse una valenza pubblica. Caligola adottò Tiberio Gemello ma i pretoriani e la plebe espressero il loro favore per il solo Caligola e poco tempo dopo Tiberio gemello viene eliminato. Nel suo breve regno Caligola cercò di instaurare un potere autocratico, rivendicandone la natura divina ed esigendo dunque il suo culto collegato anche a Roma e persino in Giudea, dove impose la collocazione di una sua statua nel tempio di Gerusalemme. Questa sua idea del potere con lusso sfarzoso e gesti clamorosi, determinò la presentazione da parte dei nemici come un folle. La storiografia moderna a proposito della follia di Caligola, ha consigliato l’immagine per esempio della cavalcata sul ponte di baia o la nomina senatoria del suo cavallo, alla luce di teorie psicanalitiche che riconducono la sua diversità a traumi infantili. L’adozione di costumi egizio-tolemaici, e quindi nella prospettiva di un potere di tipo ellenistico, si rivedono dello scandaloso rapporto con la sorella Drusilla. Una prima congiura nel 39 fallì, ma la seconda nel 41 e eliminò brutalmente il principe assieme alla moglie e alla figlia. CLAUDIO (41-54 d.C.) L’assassinio di Caligola individuò il suo successore nella persona di un suo zio, Claudio, un fratello di Germanico. Questo al potere mostrò una buona attitudine al governo e all’amministrazione dell’impero, riuscendo anche ad ampliare i confini con la conquista della Britannia nel 43 d.C. e la provincializzazione della Mauretania. Le fonti lo presentano come un intellettuale incompreso e infatti Claudio legifera anche in materia come la riforma dell’alfabeto latino, la riceleberazione dei Ludi secolares nel 47 e dell’augurium salutis nel 49, che appaiono espressione di curiosa erudizione. Se il principio dinastico era stato il criterio di scelta prevalente all’ascesa al principato di Claudio, è proprio con lui che iniziano ad emergere segni di novità. Si inizia a scorgere infatti la spia di un cambiamento, di dinamiche interne che determinarono l’emergere del Senato e a corte di famiglie ‘nuove’, la cui aspirazione a concorrere insieme o al posto delle famiglie di antica nobiltà, o all’imparentamento con la casa Giulio-Claudia, sarà il fenomeno che determinerà la graduale estinzione di discendenti di sangue da Augusto a causa delle lotte intestine per il potere. Acquistavano grande potere politico anche alcuni liberti del principe, chi erano i veri capi dell’amministrazione imperiale; proprio questi giocheranno un ruolo importante alla successione dello stesso Claudio. Claudio morì nel 54. NERONE (54-68 d.C.) Fu la discendenza di Augusto l’elemento che prevalse nelle lotte per la successione di Claudio, morto con ogni probabilità avvelenato per intrighi della moglie. Agrippina, sorella di Caligola, nipote per via paterna di Claudio e per via materna di Augusto, riuscì a sposare lo zio (Claudio) rimasto vedovo di Messalina nel 49 d.C. e a far prevalere sulla discendenza diretta dei figli principe Ottavia e Britannico, il proprio figlio nato da un suo precedente matrimonio. Il nome del figlio e successore di Claudio è Lucio Domizio Enobarbo, universalmente noto come Nerone, nome assunto dopo l’adozione da parte del principe Claudio. Agrippina utilizzò molti strumenti per consolidare la posizione del figlio al potere: non solo l’adozione, ma anche l’alleanza matrimoniale e l’entrata molto precoce alla vita pubblica e l’appoggio della guardia pretoriana che dopo l’eliminazione di Claudio acclamò Nerone. Tutto ciò si intrecciò tragicamente al destino non solo dei giovani figli di Claudio (Britannico e Ottavia morirono nel 55 e nel 62) ma anche dei suoi generi e dei Giuni Silani, solo per il timore di una probabile discendenza con Augusto. La presenza corte di un intellettuale come Seneca, chiamato dalla madre e quale mentore del giovane principe e il controllo del prefetto al pretorio Afranio Burro garantirono inizialmente un argine alla fragilità psicologica di Nerone e una linea politica che garantì la connivenza con il Senato, nei primi anni dopo la presa di potere di Nerone. Al termine di questo periodo è posta una cesura e l’inizio del principato caratterizzato dall’unione di Nerone con Pompea Sabina (moglie del futuro imperatore Salvio Otone, e amante di Nerone e sposata nel 62 d.C.); in questo quadro vanno aggiunti gli eventi della rottura con la madre fino al matricidio nel 59, e la rottura con il Senato e infine con lo stesso Seneca allontanato e tutte le città italiche e provinciali rientrano nel modello romano come grande centro di produzione e consumo. La velocità e l’economia dei trasporti rimase affidata soprattutto ai percorsi marittimi, ma vi sono attestazioni anche in zone lontane dal mare e da corsi d’acqua navigabili. Un limite dell’economia monetaria antica fu la mancanza di moneta cartacea e di forme di credito, seppur ritrovamenti più recenti epigrafici hanno attestato proprio per l’epoca di Nerone la sperimentazione di forme di credito per transazioni a distanza, ridimensionando questo grande limite secondo le fonti più antiche. Sulla produzione e sui trasporti fondamentale fu l’organizzazione politica unitaria, non solo per la costruzione di infrastrutture ma anche per la loro maggiore sicurezza e per il controllo dei mari e per la difesa dei confini. La committenza di opere pubbliche e lo sfruttamento di cave di proprietà imperiale dovettero contribuire alla circolazione di denaro. In questo campo l’azione di Augusto agì da modello, sollecitando in tal senso anche privati cittadini e sarà seguito dagli altri principi giulio-claudi. Sia Caligola che Claudio effettuarono investimenti in opere pubbliche (Vedi ad esempio Claudio che fece costruire un grande porto a Ostia per agevolare l’approvvigionamento di Roma, e anche un nuovo acquedotto). Anche Nerone concepì e in parte attuò, un rinnovamento profondo del piano regolatore di Roma in funzione della costruzione della domus aurea. Anche nelle province si realizzava un’incentivazione dei lavori pubblici, se pur non paragonabile alla successiva politica di Adriano. L’incentivazione statale dell’economia si basava fondamentalmente su un sistema monetario unificato, garantito dal principe e adottato in tutto l’impero o quasi: Augusto riorganizzò il sistema monetario romano stabilizzando il rapporto tra moneta d’oro e moneta d’argento fissato a 1:25 (1 denari o=100 monete di rame, i sesterzi). Il controllo del principe sulla finanza permetteva interventi per un riequilibrio in caso di crisi; è questo il caso di Tiberio la cui posizione è stata evidenziata positivamente per la rigorosa gestione delle casse dello Stato, della spesa pubblica e della politica fiscale, ed è stata rivalutata la politica provinciale di Tiberio che fece migliorare e costruire strade e acquedotti, seppur non a livello di Augusto. La diminuzione di circolante provocò a Roma speculazioni monetaria e un rialzo dei tassi di interesse nel 33 d.C. La crisi finanziaria fu risolta dall’intervento imperiale che mise a disposizione delle banche pubbliche una notevole quantità di denaro senza interesse e sano così la situazione debitoria. Uno strumento fondamentale per fornire alle casse dello Stato le somme utilizzate nella spesa pubblica furono anche le stragi, effettuate già in parte da Tiberio, ma soprattutto poi con Caligola Claudio e Nerone, i quali sfruttarono ampiamente la Lex de maiestate. Nerone, che aveva perfino proposto l’abolizione delle tasse indirette, affermò che la necessità di procurarsi liquidità per continuare a potenziare una politica di larghe spese potesse essere affrontata tramite una nuova via: la riforma riguardò la quantità di fino dei due tipi monetali che venne diminuita pur rimanendo fisso il loro valore nominale. In pratica fu diminuita la quantità di materiale utilizzato per produrre la moneta, questo però fu maggiore nella moneta d’argento e minore in quella d’oro, pur facendo rimanere invariato il rapporto di 25:1, il che si traduce in un evidente guadagno dello Stato, che con la stessa quantità di metallo pregiato era in grado di coniare una maggiore quantità di moneta. 2.Dinamiche sociali A fianco di tutte le dinamiche economiche, l’età giulio-claudia è caratterizzata dalla crescita di una classe ‘borghese’ o media, economicamente attiva e dinamica composta da commercianti ma anche da piccoli e medi proprietari, da soldati e dei loro discendenti, da liberti ma anche da cavalieri, impegnati negli affari e nei commerci e appoggiata da Augusto, ma contemporaneamente lasciata immune da ingerenze dello Stato. Questo strato sociale borghese è apparso dal punto di vista della definizione vago e ambiguo, e la sua diffusione è stata ridimensionata in relazione al ridimensionamento dello sviluppo capitalistico. Anche qui, come in campo economico, il potere politico fu fondamentale come regolatore delle dinamiche sociali. I principi da Augusto a Nerone non risposero uniformemente alla pressione delle forze sociali. Augusto si qualificò come un cambiamento rispetto al passato repubblicano, in quanto restaurazione e perfezionamento degli assetti sociali preesistenti tramite una loro nuova definizione. I criteri di distinzione non erano più livelli di ricchezza, ma una diversa caratterizzazione sociale e un diverso coinvolgimento nella gestione dell’impero, con il conseguente superamento degli attriti e la realizzazione della pace civile. Nel concedere la cittadinanza, il principe cercava di proteggere i due ordini superiori dalle aspirazioni all’ascesa sociale di ceti inferiori e provinciali, approvando però anche le leggi suntuarie, limitando il problema dell’ostentazione del lusso. Il Senato fu riordinato da Augusto nel numero e nella qualità di componenti, scelti con un nuovo metro morale, già con la Lectio Senatus del 29. Pur nell’ambito di una riduzione complessiva del numero, altri individui furono introdotti nel Senato per sopperire al progressivo svuotarsi del ceto senatorio. In particolar modo l’aspirazione degli equites determinerà un senato rinnovato, per la maggioranza costituita da uomini nuovi, che aspirarono direttamente al principato. Tiberio come Augusto continuò la linea politica di composizione armonica dei due ordini superiori. Dopo l’anno 30 d.C., gli eventi che vedono protagonisti Germanico e Seiano, determineranno una cesura nella politica sociale di Tiberio che mirò a ridefinire la complessiva organizzazione della classe equestre. La crescita incontrollata di questa era stata già bloccata da Augusto, ma Tiberio ne fissò le condizioni preliminari di accesso. L’irrigidimento degli ordini superiori si coniugò con una certa mobilità sociale, sia pure controllata dall’alto. Per quanto riguarda i rapporti con le città provinciali sia Augusto che Tiberio introdussero nel Senato i milioni cittadini originari delle colonie ed i municipi italici. Anche i liberti tentarono di entrare nella classe equestre, ma sia Tiberio che Augusto cercarono di frenare questa tendenza di ascesa sociale. Come già detto, i liberti assunsero con Claudio un ruolo importante nell’amministrazione dell’impero anche se tale funzione si colloca ancora nell’ambito di un uso signorile del personale della domus. Significativa in questo quadro è l’ascesa sociale e politica dei Vitelli, che da liberti passarono prima nella classe equestre poi nel Senato e poi imperatore. Il riferimento alla figura di Trimalcione nel romanzo di Petronio, il Satyricon, ci mostra una realtà dinamica tesa alla trasformazione e soprattutto difficilmente controllabile. Il protagonista del racconto è espressione dell’ascesa sociale, diventato un grande proprietario terriero, aspirante a possedere un latifondo grande ed è ‘arrivato’ con attività commerciali e finanziarie alla classe più elevata dello stato romano, partendo dal basso. Nulla o molto scarse dovevano essere le possibilità di riscatto e di ascesa sociale degli schiavi rurali, che costituivano la forza lavoro basilare anche se non esclusiva nelle ville schiavistica. La riforma monetaria di Nerone favoriva, non la plebe in quanto proletariato, ma i ceti detentori di moneta d’argento in grado di operare cambi con la moneta aurea. Le contraddittorie tendenze del principato di Nerone, diviso tra iniziale linea filosenatoria e finale politica antisenatoria riflettono l’urto tra contraddittorie forze economiche e sociali. È importante capire queste dinamiche sociali perché sono quelle che faranno sfociare nel cambio al vertice col principato di Flavi, che avevano quindi dietro di sé una dinamica non limitata allo strato sottile di senatori e cavalieri, neanche però circoscritta entro il perimetro di Roma. Capitolo 4 “Fermenti religiosi in età giulio-claudia” Nell’ambito sociale del ceto medio, ebbe inizio e maturò in età giulio-claudia una novità religiosa, il cristianesimo. Anche sotto il profilo religioso vi è l’oscillazione tra rappresentazioni di continuità e ricostruzione di un profondo cambiamento, maturati soprattutto in riferimento alle origini del cristianesimo. Secondo una prospettiva, con Augusto vi sono ricostruzioni di restaurazione dell’antico, nel segno della continuità con il passato. Secondo altre posizioni sempre con lo stesso Augusto siamo davanti ad una progressiva decadenza di una religiosità romana antica. Anche nei confronti dei culti stranieri, i principi giulio-claudi intervennero: il culto dell’egiziana Iside per esempio fu prima utilizzata nella propaganda contro Cleopatra, e poi promosso da Caligola e poi da Claudio. In queste iniziative il dato nuovo era la centralità del ruolo del principe, nuovo protagonista nella promozione della religiosità pubblica. Legato all’accentramento del potere vi fu l’introduzione del culto del sovrano, usuale nelle province orientali di tradizione ellenistica. Questo fu con cautela accettato da Augusto, non del tutto soppresso da Tiberio e invece fortemente frenato da Claudio; fu invece accettato da Caligola e Nerone in linea con il loro principato autocratico; il culto in imperiale doveva rispondere alle esigenze di rassicurazione e protezione da parte dei sudditi. Si è giustamente sottolineato che si trattava però di uno strumento di potere precario che correlava il potere politico a quello divino; alla fragilità di questo si è spesso contrapposto l’espansione, forte e significativa già in età Giulio-Claudia, del cristianesimo. Incontro tra cristianesimo e impero romano era fondamentale perché questo impero era alla ricerca di una risposta definitiva alla domanda di salvezza del mondo contemporaneo, un mondo stanco di guerre e stragi e alla ricerca di risposte soteriologiche. Il messaggio cristiano interessò gli ambienti romani perché, differentemente da precedenti esperienze pagane, era un annuncio che iniziava nel presente ma era proiettato in un tempo eterno. In questo quadro è stata evidenziata la vitalità dell’offerta religiosa politeistica romana, caratterizzata da apertura a nuovi culti, in relazione al processo di urbanizzazione e romanizzazione. È stata anche sottolineata la vitalità del culto imperiale e la sua funzione di composizione dei rapporti tra classi sociali diverse, e anche il successo non solo di culti Germania inferiore individuarono in Aulo Vitellio un nuovo imperatore; Il giorno dopo anche eserciti della Germania superiore giurarono per lui. Di fronte a queste difficoltà Galba ritenne opportuno far emergere un giovane esponente del Senato di nome Pisone, il quale poteva vantarsi di discendere sia da Pompeo che da Crasso. Otone aveva nutrito fondate speranze di poter essere associato al potere e intensificò così una serie di contatti con varie persone insoddisfatte della situazione politica; il 15 gennaio fu proclamato imperatore dai pretoriani e dalle truppe che si trovavano a Roma in quel momento e subito dopo Galba fu soppresso nel foro e Pisone venne ucciso davanti al tempio di Vesta. Otone fu riconosciuto Augusto dal Senato e gli furono conferiti la potestà tribunizia e altre prerogative imperiali. Il primo atto tentato dal nuovo imperatore fu il tentativo di associare al proprio potere Vitellio, con la promessa di sposarne la figlia, ma ciò sfociò in un rifiuto. L’appoggio al nuovo principe a Roma fu incondizionato grazie all’azione dei pretoriani, i quali imposero anche il nuovo prefetto della città: si trattava di Flavio Sabino, fratello di Vespasiano. Se le province orientali e danubiane accettarono l’ascesa al trono di Otone, l’Occidente in modo pressoché unanime si schierò in favore di Vitellio. Gli eserciti di quest’ultimo si misero in marcia alla volta della penisola italiana, poiché ormai il conflitto fu inevitabile, e comandati da Fabio valente e Aulo Cecina. Gli eserciti di Otone erano comandati da un gruppo di importanti generali fra cui Svetonio Paolino. Alcuni iniziali successi sembravano volgere il conflitto in favore di questi ultimi, seppur in favore dei vitelliani vi erano centri importanti come Pavia e Cremona. L’imperatore aveva posto il proprio accampamento a Brescello mentre sull’altro fronte ci fu il ricongiungimento degli eserciti di valente e Cecina. Anche le forze di Otone erano aumentate grazie agli aiuti delle province danubiane. Nonostante l’inferiorità numerica degli eserciti, furono proprio quelli dell’imperatore a muovere guerra a Vitellio, determinato dal fatto che la guerra fu affidata a personaggi inesperti nell’arte militare, quale il fratello dell’imperatore Tiziano e il prefetto del pretorio Licinio Proculo. Il piano dell’imperatore doveva essere probabilmente isolare Cremona muovendo l’esercito, verso Occidente della stessa Cremona; questo movimento però non passo inosservato e l’esercito fu attaccato quando era in marcia lungo la via Postumia, e venne sconfitto. I Vitelliani raggiunsero poi la base dell’esercito dell’imperatore (Bedriacum) dove ricevettero la resa; Otone, pur sollecitato da alcuni ad attendere l’arrivo di altre truppe dalla Moesia, preferì porre fine alla guerra togliendosi la vita. La transazione al nuovo regime avvenne tranquillamente a Roma, dove a Flavio Sabino proclamò la propria lealtà al nuovo sovrano. Intanto Vitellio iniziò a manifestare tutti i difetti del proprio carattere, e giunto al Lione si dette al lusso, ai banchetti e alle crudeltà, compiendo anche atti fatali come mettere a morte i centurioni delle legioni danubiane, precludendosi così per il futuro l’appoggio degli eserciti in quelle province. Contemporaneamente l’esercito vittorioso trucidava nelle città dell’Italia i sostenitori del passato regime. Vitellio dopo aver preso possesso della capitale, manifestò in breve l’indolenza e la mancanza di intuito politico che accelerarono la fine del nuovo principe, che non intuì la grande minaccia dall’oriente e comprese l’errore fatto con le legioni danubiane. È questo il contesto in cui vi è l’ascesa di Flavio Vespasiano, che si trovava in oriente dal 67 quando era stato incaricato da Nerone a debellare la ribellione scoppiata nel 66 per opera degli ebrei di Giudea. Egli subentrò al potere in questa zona di Cestio Gallo, che aveva patito una bruciante sconfitta nelle gole di Beth Horon. Quando giunse in oriente si accordò con il prefetto di Alessandria, Tiberio Giulio Alessandro e con il nuovo legato di Siria, Licinio Muciano. Già nella primavera del 67 Vespasiano aveva preso possesso della Galilea e nell’arco di altri due anni eliminò con relativa facilità tutti i capisaldi della resistenza ebraica. Mancava solo da spogliare la capitale ebraica di Gerusalemme, il cui compito però fu facilitato dal fatto che i rivoltosi erano a loro volta divisi in fazioni in lotta fra loro per il potere nella città. Forte dell’appoggio delle truppe e dei comandanti in oriente, nel luglio del 69 Vespasiano fu acclamato imperatore ad Alessandria d’Egitto e subito dopo in Giudea in Siria. Mentre il suo esercito si incamminò alla volta dell’Italia lui rimase a consolidare la propria posizione in Oriente. Fondamentali furono le legioni danubiane che si schierarono apertamente per vespasiano e che furono condotte in guerra da Antonio Primo, che le portò a riversarsi nella pianura padana. Qui riuscirono a scoprire e mettere in catene Cecina e i suoi soldati, mentre il resto dell’esercito Vitelliano rimaneva nelle mani di Valente. In questo contesto di mancanza di autorevole comando fra i vitelliani si venne a combattere la battaglia decisiva per le sorti della nuova guerra civile: Antonio primo mosse rapidamente il proprio esercito verso Bedriacum, in cui le due fazioni si scontrarono (nei pressi dello stesso luogo della precedente guerra civile). Dopo un primo netto successo di Antonio lungo la via Postumia, ulteriori battaglie determinarono una rottura completa dei Vitelliani; i superstiti cercarono un riparo fra le mura di Cremona, ma in breve Antonio riuscì a ottenere la resa. L’atto conclusivo del conflitto fu rappresentato dal saccheggio e distruzione di questa antica colonia. Nella capitale, dove Flavio Sabino aveva continuato a gestire la carica di prefetto, si tentò di negoziare la resa di Vitellio ma fallendo. Contro il volere dello stesso Vitellio, alcuni soldati a lui fedeli si diedero alla caccia di Flavio Sabino e del giovane figlio di vespasiano, Domiziano. Sabino fu ucciso e il Campidoglio dato alle fiamme, mentre Domiziano riuscì a scappare. Il 20 dicembre Antonio Primo sbaragliò le resistenze e eliminarono Vitellio il cui corpo fu scagliato sulle Gemonio e poi gettato nel Tevere. 2.Il dominio dei Flavi (Vesapasiano 69-79; Tito 79-81; Domiziano 81-96) La prospettiva di una ordinata successione avrebbe favorito Vespasiano, con i suoi due figli Tito, che si stava brillantemente facendo valere come comandante nella guerra giudaica e il secondo Domiziano era riuscito a sfuggire dall’uccisione di Vitellio. Un documento epigrafico illustra le modalità costituzionali con cui vennero definiti i poteri del principe vespasiano: si trattava della Lex de imperio vespasiani. Si è spesso detto che questa legge non fosse una prerogativa di questo principe ma che ci fosse già precedentemente, ma la mancanza di termini quali Imperium proconsolare e tribunizia potestà o la qualifica di pontifex maximums, induce a pensare che questa legge forse in qualche modo indipendente dalle precedenti prerogative imperiali. Elemento di straordinaria novità nel potere di vespasiano viene quando nella massima seduta del Senato in cui questo fu riconosciuto imperatore e Augusto, si acconsenti di ratificare retroattivamente come il giorno in cui effettivamente è stato proclamato imperatore, quello quando questo avvenne dagli eserciti ad Alessandria d’Egitto. Per la prima volta venne ufficialmente riconosciuta la derivazione dell’Imperium del principe da un semplice pronunciamento delle truppe. Vespasiano tornò a Roma nel 70 quando a Tito era stato affidato il comando col compito di conquistare Gerusalemme, dopo che tutto il resto del territorio della Giudea era ormai caduto in mani romane. Quando nel settembre del 70 l’espugnazione della capitale ebraica e la distruzione del tempio avvenne, l’imperatore tentò di amplificare il più possibile la risonanza del successo, di un evento che aveva reso necessario l’impiego di un esercito dalle dimensioni enormi e l’assedio stesso di Gerusalemme si era protratto per cinque mesi. La distruzione del tempio rappresentò una tragedia indicibile, questo era il santuario nazionale di tutti gli ebrei e questi erano soliti devolvere al tempio somme di denaro, ma ora furono stornate da vespasiano in una cassa dell’impero appositamente creata, il fisco giudaico enorme risentimento ebraico nei confronti dei romani. La giudea fu organizzata come una provincia senatoria. La celebrazione del trionfo, l’esibizione dei tesori depredati e l’uccisione del capo degli ebrei ribelli, costituì un momento epocale di euforia e coesione. Nel corso degli anni furono costruiti imponenti monumenti per immortalare il successo nella guerra. In primo luogo fu costruito il tempio della pace, in cui l’imperatore ordinò che fossero collocati tutte le suppellettili d’oro sottratte agli ebrei. Le opere d’arte dovevano rappresentare una sorta di museo aperto a tutti, con una chiara volontà di rovesciare i contenuti della politica neroniana tesa alla gratificazione esclusivamente personale del sovrano. Fino alla fine degli anni 90 si era pensato che il Colosseo fosse stato inaugurato nell’anno 80, ma in realtà grazie ad un’iscrizione in cui si commemora la costruzione del monumento si è riusciti a ricostruire il testo perduto che accennava al fatto che il momento fosse stato eletto con un grande bottino di guerra. Considerando il fatto che nell’epoca di vespasiano non vi furono altri vittoria aldilà di quella contro Gerusalemme, bisogna asserire che questo fu costruito nel momento subito successivo a questa guerra. Furono poi costruiti due archi dedicati a Tito imperatore, collocati lungo il percorso della via trionfale, e completati prima e dopo la morte di questi nell’81. Il primo di questi due, andato perduto era situato presso il circo Massimo, mentre il secondo è collocato ancora oggi fra il Colosseo e il foro Romano. Vespasiano e la sua dinastia volevano dimostrare il successo militare dal carattere straordinario, che era immortalato visivamente in spazi urbani prestigiosi, e che coinvolgeva l’intera popolazione beneficandolo di un grandioso impianto per i giochi gladiatori. Nonostante la sostanziale stabilità determinata dall’impero di vespasiano, il ripresentarsi di attriti videro implicati personaggi estremamente rappresentativi della continuità con il passato come Licinio Muciano e ed esponenti della tradizione filosofica che inizialmente riposero speranza nel sovrano, che svanirono quando l’imperatore fece effettuare l’esecuzione di Elvidio Prisco, il principale esponente della corrente filosofica storica. Tito ottenne la carica chiave di prefetto al pretorio detenuta fino al 71, anno della morte del padre. La solidità del regime appariva così assai forte, anche se la morte di Licinio privò di un importante elemento di Pisoni. Era stato il console ordinario nel 71 e nel 90 in entrambi i casi all’indomani di una guerra civile; il fatto che gesti il consolato in momenti particolari, svela che dovete avere una particolare abilità a sfruttare le amicizie al potere. Il fatto che Nerva non aveva figli faceva pensare a lui come un imperatore di transizione, alla cui morte si sarebbe potuto riprendere l’idea di restaurazione della Repubblica. Le fonti svelano esattamente il contrario, cioè che quasi subito dopo la sua elezione sorsero pericoli per la stabilità del regime e che si stava tramando un colpo di stato che avrebbe dovuto portare al trono un senatore, lo spagnolo Cornelio Nigrino, governatore della provincia di Siria. Per sventare la manovra, nel 97 il principe affiancò al suo potere Ulpio Traiano, allora governatore della provincia di Germania superiore. Traiano, spagnolo di origine dell’antica colonia di Italica, sembrò per vari motivi l’uomo giusto in cui riporre fiducia: in primo luogo aveva a disposizione un esercito importante; era poi il figlio di un importante uomo politico dell’età Flavia che aveva detenuto le cariche più prestigiose del cursus. Si deve supporre che egli avesse ereditato una serie di rapporti con i personaggi ai massimi vertici del Senato e dell’ordine equestre. Va sfatato invece la convinzione secondo cui Traiano fu scelto per la sua grande fama militare. Nerva morì nell’arco di pochi mesi verso la fine del 98 e il suo regno si segnalò per una serie di provvedimenti importanti: Concessioni di terre a cittadini indigenti, ridotta la tassazione e concesse garanzie legali ai cittadini nell’ambito dei processi in cui questi si trovavano in lite con il fisco. Gli eserciti e i pretoriani ottennero dei donativi e il popolo viene soddisfatto con una congiarium, una distribuzione di monete. Vennero poi riorganizzati distribuzione del grano e rifornimenti di acqua. 2.Traiano Dopo la morte di Nerva, Traiano rimase un anno sul reno a organizzare le frontiere, e quando tornò a Roma organizzò subito un nuovo congiarium, per rendersi popolare. Il tipo di propaganda del nuovo principe è desumibile dall’opera di Plinio, che nell’orazione pronunciata in occasione dell’assunzione del proprio consolato nel 100, affermò un elemento qualificante di Traiano: differentemente da quanto avvenuto nel passato, il nuovo sovrano fu scelto non all’interno della famiglia dell’imperatore regnante, ma designato tenendo presenti le sue caratteristiche morali e pratiche; egli era così l’Optimus princeps. Ci troviamo dunque davanti a un principato in cui emergono la figura del funzionario e un’ordinata integrazione fra popolo, Senato e principe. Il principe rappresenta la punta di diamante di questo sistema che ha come risultante quella di conferirgli un potere assoluto. Non a caso il titolo stesso di Optimus princeps, sottende chiaramente qualità avvicinabili a quelli della divinità del mondo romano, Giove, designato come Optimus e maximus. La discussione di Plinio quindi verte sull’evidenziare le virtù del principe della philantropiae dell’humanitas. Nel 101 Traiano lanciò una campagna militare contro i Daci facendo scorgere quell’impulso straordinario all’azione militare, che si concretizzò con uno slancio imperialistico di grande portata. La spedizione vide l’imperatore impegnato in prima persona, cui scopo dovette essere un’azione tendente a ridimensionare la potenza del re dei Daci, Decebalo e a ridefinire i termini del trattato che questo era riuscito a firmare con Domiziano. Le truppe imperiali si mossero da Lederata sul Danubio, e dopo una serie di eventi bellici non sempre favorevoli, Traiano ottenenne una chiara vittoria presso Tapae e chiuse la stagione ritirandosi nei quartieri invernali. Nel 102 giunsero molte altre truppe di rinforzo, per stroncare qualsiasi resistenza. Vennero catturate macchine da guerra, armi e le insegne di cui i Daci si erano impadroniti all’epoca della disastrosa sconfitta partita da Cornelio Fusco. L’esercito romano poi intraprese una manovra a tenaglia: Traiano si pose alla guida del contingente che sferrò un attacco diretto al passo delle porte di ferro mentre un comandante, Lusio Quieto, sorprese Decebalo in un altro settore, forse quello del passo di Vulcan. Il governatore della Moesia, Laberio Massimo guidò infine un’altra parte dell’esercito al passo della torre rossa. L’esercito romano si ricongiunse e Decebalo chiese la pace. Traiano impose come condizioni la restituzione delle armi, lo smantellamento dei forti e la cessione di tutti territori di cui i romani si erano impadroniti durante la campagna. A seguire questa vittoria fu la costruzione di un ponte a Drobeta, un’ardita impresa di ingegneria eseguita dall’architetto Apollodoro di Damasco. Quest’opera serviva in caso di necessità all’invio di rinforzi oltre il Danubio in qualsiasi stagione. La pace non durò molto perché Decebalo contravvenne a tutte le clausole e preparò una nuova guerra. Nel 105 scagliò un’offensiva a Banato, una postazione occupata poco prima dai Romani. Gli eserciti e le autorità romane furono colte di sorpresa e nell’autunno di quello stesso anno un esercito di Traiano giunse a Drobeta. Decebalo tentò di stringere alleanza con i popoli dell’area transdanubiana, ma fu la diplomazia di Roma ad avere la meglio. L’offensiva Romana si volse verso il passo del Vulcan dove venne stroncata ogni resistenza nemica. Decebalo organizzò la guerriglia, ma ciò non impedì ai romani di conquistare tutte le fortezze e giungere fino alla cattura della capotale, Sarmizegetusa Regia. Decebalo continuò a combattere fino a quando, individuato dalle milizie romane, per sfuggire alla prigionia, si tagliò la gola; ciò non impedì ai soldati romani di portare la testa a Roma e farla rotolare sulle Scale Gemonie. Mezzo milione di Daci fu fatto prigioniero e il regno fu immediatamente organizzato come una provincia romana e fu fondata una nuova capitale a cui fu dato il nome di colonia Ulpia Traiana Augusta Dacia fu una conquista fondamentale che determinò un cuneo romano nell’area transdanubiana, in grado di controllare e reprimere i movimenti ostili delle popolazioni sarmatiche. La conquista fu adeguatamente festeggiata con un grande trionfo e con i giochi gladiatorii, a cui furono costretti i prigionieri condotti a Roma. Una serie di costruzioni immortalò la straordinaria epopea imperialistica: una monumentale struttura funeraria, il cosiddetto Tropaeum Traiani, venne eretta nella provincia di Moesia inferior. Sopra questo mausoleo erano istoriate le fasi della battaglia. Nella stessa capitale avviene la costruzione di un complesso monumentale straordinario: si tratta del foro di Traiano, progettato e costruito da Apollodoro di Damasco, dalle dimensioni gigantesche. Questo comprendeva il vero e proprio foro, una monumentale basilica, la biblioteca, e una serie di pannelli a spirale che illustravano le campagne Traianee contro i Daci, (la colonna Traiana). Va ricordato come è possibile che i fregi della colonna siano stati scolpiti solo in un secondo tempo, all’epoca di Adriano. A fianco al foro vi sono anche edifici comunemente chiamati mercati traianei. Lo slancio imperialistico conosce l’occupazione nel 106 del regno dei Nabatei, da parte del legato di Siria, Cornelio Palma; non è un atto di facile comprensione vista l’amicizia che legava Roma a questo regno, probabile è che siano sorti problemi di successione alla morte del re nabateo Rebbel II, e sarebbe nata dunque la decisione di annettere questo territorio ricchissimo. La capitale Petra, era uno snodo fondamentale della famosa via delle spezie, che immetteva nel mercato del bacino mediterraneo, prodotti provenienti dall’Arabia meridionale. Cornelio Palma venne insignito degli ornamenti trionfali, e dunque questo presuppone che forse egli combatté contro questo popolo, cioè che non fu un’annessione del tutto pacifica. Il territorio fu organizzato come una provincia romana col nome di Arabia. Fu costruita la grande arteria, la via nove Traiana (alcuni tratti sono visibili ancora oggi nell’odierna Giordania), che da Aqaba giungeva fino alla citta di Bostra. La terza grande spedizione è quella contro i Parti, mossa al re dei Parti Cosroe, per la deposizione del re di Armenia, Parthamasiris, senza interpellare i Romani. Tuttavia, la nomina del re di Armenia era compito dei Parti, seppur formalmente necessitava di essere insignito dai romani. Traiano comunque organizzò una grandiosa spedizione, e all’inizio del 114 circa 80 mila uomini mossero per attaccare il nemico; entrambi i re tentarono di negoziare la pace. Parthamasiris si presentò a Traiano per la pace, ma fu posto in prigionia e morì in condizioni non ancora note. Anche qui l’attacco avvenne con una manovra a tenaglia: Lusio Quieto avanzò attraversando il settore a sud del lago Van, mentre Traiano procedeva ad assoggettare la Mesopotamia. Nel 116 fu conclusa la conquista dell’Adiabene, che fu resa provincia col nome di Assiria, e fu conquistata anche Babilonia. Nel frattempo Traiano scese l’Eufrate, giunse all’altezza di Seleucia e Ctesifonte (capitale dei Parti), mosse per terra fino al Tigri e conquistò queste due città. Traiano fece coniare moneta in cui venne annunciata la conquista della Partia, risolta in uno straordinario successo ottenuto senza che si fosse manifestata un’opposizione particolare. Fu in questo contesto di euforia che Traiano vuole navigare fino alle foci del Tigri, e secondo il racconto di Cassio Dione, dopo aver visto le navi che salpavano verso l’India affermò di non essere più abbastanza giovane per emulare le imprese di Alessandro magno. Questa considerazione si rivelò inattuale quando un nipote del re Parto, Sanatrukes, mise in moto una rivoluzione nel cuore del regno, attaccando e distruggendo guarnigione romane in Armenia e Mesopotamia. La controffensiva romana ebbe solo parzialmente successo, anche se fu ucciso il nipote del re parto, ma suo figlio riuscì a prendere possesso della maggior parte dell’Armenia. Traiano comprese l’impossibilità di mantenere come provincia un territorio così esteso e preferì nominare al trono di Partia un figlio di Cosroe, in qualità di re eletto dei romani. L’imperatore cercò di mantenere il proprio dominio sulla Mesopotamia verso la fine del 116, cerco di catturare la città di Hatra; L’assedio non ebbe successo e Traiano riprese la strada verso la costa del Mediterraneo, ormai debilitato sia nel fisico che nel morale. L’imperatore si spegneva così a 73 anni ripiegato sull’insuccesso della spedizione partica, mentre altre delle sue conquiste sembravano in pericolo. L’Armenia era ormai andata perduta, la Dacia subiva attacchi da popolazioni esterne, e anche del nord della Britannia vi dopo che questa regione aveva patito gli attacchi di alcune popolazioni locali, e diede inizio alla costruzione di una muraglia in Scozia, il celebre vallo di Adriano che si prolungava per 120 km. Una fonte di età successiva afferma che lo scopo della costruzione del vallo era quello di ‘separare i romani dai barbari’; appariva chiaro che l’età dell’espansione era terminata. La permanenza in Britannia fu comunque breve perché continuò a viaggiare visitando la Gallia, la Spagna, l’Africa e forse Creta e Cipro e quando giunse in Siria incontrò il re dei persiani con cui siglò un trattato di pace. Continuò il suo viaggio in tutte le province dell’Asia minore fino alla Grecia e ritornò in Italia nell’estate del 125. Nei suoi numerosi viaggi egli si interessò da vicino a vari aspetti della vita civica delle singole città e in alcuni casi nominò dei funzionari provenienti dal Senato o dal ceto equestre, il curatores per l’amministrazione di queste città. La loro nomina non dipendeva però da una situazione di crisi della città; il curatores rimanevano in carica per un tempo breve, un anno e non si trattava di un’istituzione stabile. Se l’imperatore si riteneva che la città avesse superato il momento di necessità si tornava alla generale amministrazione fra gli organi istituzionali locali e il governatore provinciale. Spesso Adriano organizzò un gran numero di costruzioni che perfezionarono il quadro urbanistico delle città, e a volte anche a proprie spese; di particolare rilievo fu la sua attività a Cizico dove egli portò a termine la costruzione dell’enorme tempio di Zeus, che era stato iniziato nel II secolo a.C., e che venne annoverato come una delle sette meraviglie del mondo antico. Quando tornoò a Roma intraprese la costruzione della villa a Tivoli: allestì qui un palazzo dotato di un vasto cortile, una sala del trono, due strutture termali, un teatro, uno stadio e altre strutture modellato sui edifici pubblici dell’Egitto o della Grecia. Un altro lavoro di particolare rilievo fu il prosciugamento del lago Fucino. Dal punto di vista amministrativo Adriano divise Italia in quattro distretti governati da altrettanti consolari. Si trattava di un’innovazione che toglieva al Senato la tradizionale prerogativa di supervisione sull’Italia e da cui la penisola fu amministrata come una provincia. Nel 128 Adriano riprese la sua instancabile attività di viaggiatore recandosi in Africa. Qui costruì il nuovo acquedotto di Cartagine e si interessò alla piena integrazione delle comunità peregrinae ai diritti della cittadinanza; Inoltre vari municipi ricevettero il diritto più prestigioso di colonia. Importante per Adriano furono anche le leggi emesse per regolamentare il possesso della terra nella proprietà imperiale. In base alla Lex Hadriana coloro che coltivavano terre marginali, non precedentemente sfruttate, venivano esentati dal pagamento dell’affitto per molti anni. Nella Lex Manciana fu data una regolamentazione dettagliata: coloro che occupavano e coltivava le terre centuriate con olio e viti avrebbero goduto di diritti di proprietà. Sembra poi che anche in Africa Adriano non manco di dedicare la propria attenzione all’organizzazione di confini, con la costruzione di un sistema di barriere lineari, che furono apportate per controllare l’accesso di pastori seminomadi nelle zone agricole. Per quanto riguarda la cura degli eserciti, alcuni testi epigrafici scoperti in Africa ci hanno illuminato sull’attività di questo imperatore: un’importante iscrizione monumentale rinvenuta nei pressi dell’accampamento a Lambesis in Numidia, riproduce l’adlocutio di Adriano. Le valutazioni positive, ma anche qualche piccola specifica critica, formulate dal sovrano sono la migliore testimonianza dell’estrema attenzione che questo pose nella preparazione dei suoi uomini. In definitiva si può dire che gli avrà assistito comunque con estrema attenzione alle manovre e alle esercitazioni di suoi soldati. Tra il 128 e 129 Adriano torno in Grecia dove porto a termine la costruzione del tempio di Zeus Olimpio ad Atene. Fu l’evento che gli fece affiancare nella propria titolatura l’epiteto di Olimpio insieme a quello di Augusto. Istituì puoi anche il Panhelleion, una nuova lega fra città greche incentrata sul culto imperiale. Due sono gli eventi che turbano l’apparente serenità del regno di Adriano: il primo è la perdita del suo amante Antinoo che annega nelle acque del Nilo, e in suo onore egli decise di fondare una nuova città, Antinoupolis. Il secondo fu una rivolta di portata straordinaria degli ebrei della Giudea nel 132. Questi non accettarono il provvedimento di Adriano del divieto della circoncisione e il progetto di trasformazione di Gerusalemme in una colonia romana con il nome di Aelia Capitolina. In breve tempo gli eserciti della provincia dovettero fronteggiare una guerra in cui i ribelli adottarono delle tecniche di guerriglia particolarmente efficaci, grazie la costruzione di una serie di cunicoli sotterranei comunicanti fra di loro utili sia come nascondigli che come luogo di immagazzinamento di armi. (Cunicoli non dissimili dai vietkong del XX secolo). Differentemente dalla prima rivolta, gli ebrei non si divisero e furono comandati da un unico uomo, Simon bar Kosiba, un capo rigoroso nel mantenimento della disciplina fra i suoi uomini. I ribelli coniarono anche delle monete in cui proclamavano ‘la redenzione di Gerusalemme’; dai i dati finora emersi non è chiaro se questi riuscirono ad impadronirsi di questa città. Non abbiamo una fonte che ci racconta evento per evento tutta la guerra, ma un riassunto medievale della narrazione dello storico Dione Cassio. Pare che nel 133 Adriano decise di nominare un nuovo generale per debellare la rivolta. Il prescelto fu Sextus Iulius Severus, un uomo che aveva ricoperto la carica di governatore prima della dacia, poi della Moesia e infine della Britannia. È probabile che lo stesso imperatore sia stato presente sul teatro delle operazioni. La guerra si protrasse con aspri combattimenti fino al 136 quando vi fu la cattura della fortezza di Bethar in Giudea in cui si era asserragliato il campo dei ribelli. Simon si suicidò. Due sono gli aspetti significativi di questa rivolta: in primo luogo Dione Cassio afferma che tutta la Giudea si era sollevata e che comunque gli ebrei si erano organizzati per combattere il potere romano. Lo studioso sottolinea poi come anche altri popoli si erano uniti agli insorti spinti alla rivolta dell’insurrezione ebraica. In effetti molti sono gli studiosi che dopo aver valutato una serie di documenti, sottoscrissero come oltre agli ebrei vi fossero altre popolazioni del vicino oriente. Nei festeggiamenti il sovrano poteva fregiarsi di una seconda acclamazione imperatoria e vennero concessi riconoscimenti agli ufficiali che si erano distinti nella guerra. Non si sa con certezza ma pare che dopo questa vittoria furono costruiti diversi monumenti, fra cui il tempio di vespasiano, che creò un collegamento simbolico fra il recente successo e quello della prima guerra giudaica. Fu conclusa poi anche la costruzione del tempio di Venere e Roma. Nel 136, mentre la salute stava per abbandonarlo, Adriano dispose quanto necessario per la successione imperiale e decise di adottare Lucio Ceionio Commodo, In maniera abbastanza sorprendente infatti questo causò il risentimento di Pedanio Fusco, parente dello stesso imperatore e che fino a quel momento era ritenuto il più verosimile erede al trono. Fusco tentò un colpo di Stato ma fallì e venne messo a morte; in questo stesso clima muri anche Apollodoro di Damasco, che era incorso nell’odio verso Adriano. Commodo, dopo aver tenuto un comando straordinario in Pannonia per circa un anno morì; l’imperatore individuò nella figura di Aurelio Antonino un maturo e distinto senatore, pronto per succedergli. La sua poca esperienza in campo militare doveva essere una scelta simbolica di Adriano che intendeva ribadire come in ogni caso l’avventura espansionistica dell’impero dovesse considerarsi finita. Ad Antonino fu imposto di adottare il figlio bambino di Elio Cesare e il giovane Marco Annio vero. Distrutto dalla malattia e dopo aver tentato più volte il suicidio, Adriano morì nel 138; fu sepolto in un maestoso mausoleo nell’ager vaticanus, una struttura preceduta da un ponte sul Tevere adorno di statue. Capitolo 4 “Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero” 1.Antonino Pio (138-161) Il giudizio degli storici riguardo la figura di Antonino non è stato concorde: alcuni sottolineano il suo regno come un’epoca di pace in cui non ci furono guerre di rilievo e vigeva un ottimo rapporto fra il Senato e l’imperatore. Al contrario altri studiosi hanno dato un giudizio negativo su questo sovrano, ritenendolo dotato di scarsa personalità e responsabilità, a causa della sua inerzia nel campo militare. Contrariamente alle attese comunque dopo aver preso il potere, procedete all’operazione di tipo espansionistico. In Britannia, il legato Lollius Urbicus, combatté con successo contro le popolazioni della Scozia oltre il vallo di Adriano e ben presto il confine fu portato più a nord, dove tra il 139 e il 142 si costruì una nuova muraglia edificata non in pietra ma in torba, e chiamata vallum Antonini. Nonostante egli non partecipò alla campagna, il Senato attribuì ad Antonino all’onore di un’acclamazione imperatori e di potersi così fregiare del titolo di imperator II. Una simile politica di cauta espansione si verificò in Germania superior, dove fra il 155 e 160 si diede una nuova configurazione con lo spostamento di 30 km più a est nel settore del fiume tra il Meno e Lorch. I forti e le torri di guardia costruite in legno vennero sostituite da strutture in pietra. Negli ultimi anni del regno vi furono anche delle operazioni militari di successo in dacia, contro popolazioni barbariche che minacciavano la sicurezza della provincia. A guidare la Dacia in quegli anni fu M.Statius Priscus Licinius Italicus, che nel 159 ottenne anche il consolato ordinario. L’ascesa di questo è un evento importante perché era un cavaliere militare e quindi si deve vedere questa come la spia di una tendenza in atto da parte di molti senatori volta a evitare la gestione di comandi militari questo rimanderebbe all’ascesa ai più portanti comandi da parte di personaggi equestri che si erano segnalati nell’ambito di una carriera tipicamente militare. Tensioni gravi emersero fra l’imperatore e il Senato quando Antonino voleva stabilire di consacrare il predecessore come Divus, una procedura che rendeva esplicita una valutazione positiva di Adriano mentre il Senato intendi ma che questi atti fossero annullati (egli li fece approvare ugualmente, perché l’annullamento avrebbe cancellato la sua stessa adozione). Ben presto attuò una politica di riconciliazione con il Senato promulgando una serie di misure che di quest’epoca fanno presagire il tramonto della civiltà classica, ironia della sorte proprio quando al trono era ricoperto da un principe che incarnava quell’ideale politico e culturale. Nel clima della peste vi furono due avvenimenti dal carattere pregnante: I cristiani divennero un bersaglio quasi obbligato venivano ritenuti come un elemento estraneo in seno all’impero e quindi incorsero nell’acidità da parte di chi credeva che con il loro comportamento avessero suscitato l’ira degli dei. Bisogna poi ricordare l’altro evento del 169 in cui Marco istituì una vendita pubblica di beni imperiali per provvedere alle gravi necessità finanziarie dello Stato; Si deve poi ricordare che siamo nel periodo in cui l’esercito era stato dimezzato dalla peste e dal calo demografico e la situazione del momento rendeva ardua i nuovi reclutamenti. La monetazione andò incontro a una pesante svalutazione. Nella primavera del 167 la presenza di Marco e Lucio alla testa degli eserciti che giunsero al confine dell’impero sembrò smorzare le abilità dei barbari che ben presto si risolsero a chiedere il perdono per aver infranto la pace; i Quadi furono sconfitti e il loro re ucciso. Nell’inverno tra il 168 e 169 i due stavano tornando nella capitale, in uno dei momenti più duri di tutta la storia dell’impero romano in cui la peste era accompagnata da un clima di gelo; durante il viaggio Lucio fu colpito da un infarto e morì tre giorni dopo. Il lutto per la perdita del sovrano si colmò subito con la decisione di Marco di far sposare la figlia Lucilla a Claudio Pomepiano, nonostante l’opposizione della donna. Operazioni militari sul fronte danubiano ripresero nel 170 con rinnovato vigore. Le battaglie con I Marcomanni, i Quadi e gli Iazigi avvennero in un’epoca terra contraddistinta da pestilenza, povertà e calo demografico. Nello stesso 170 l’offensiva al di là del Danubio risultò essere un disastro; il governatore della dacia, Claudio Frontone cade in combattimento. I Marcomanni penetrarono addirittura nell’Italia nord-orientale, ma furono bloccati da Pompeiano a cui era stato affidato il comando sulle zone alpine e sull’Italia. I Costoboci invasero la penisola balcanica irrompendo in Tracia, Macedonia e Acaia fino ad Eleusi dove fu distrutto il celebre santuario. Nel 171 la situazione fu raddrizzata grazie successi militari: i Quadi furono costretti alla pace e a varie tribù fu concesso di stabilirsi all’interno dell’impero romano. Lo spopolamento di molti territori e il bisogno da parte dei barbari di sfuggire agli attacchi di altre tribù dal Nord erano due elementi che concorrevano verso una soluzione che sembrava poter risultare utile ad entrambi le parti. La concessione ai barbari di diverse zone, alcune anche in Italia, si rivelò ben presto un errore, quando scoppiò una rivolta presso Ravenna ad opera di alcuni gruppi di barbari; l’impero comprese di aver sbagliato la politica di accoglienza dei barbari, e alcuni furono addirittura allontanati. Nel 172 vi fu anche una rivolta in Egitto dei Bucoloi, che terrorizzò la zona del Delta del Nilo; Marco Aurelio fece attribuire prerogative speciali su tutto il vicino oriente al governatore della Siria, Avidio Cassio, al quale fu consentito di entrare con i suoi eserciti in Egitto (si ricordi come al tempo di Augusto ai senatori era vietato andare in Egitto) e nell’arco di qualche tempo la ribellione venne sedata. Il confidente ottimismo che sembrava essere tornato nel 175, fu spazzato via quando vi fu la notizia che Cassio era stato proclamato imperatore dagli eserciti e fu riconosciuto come tale da tutto il vicino oriente. Il fatto che l’Egitto fosse caduto nelle mani di Cassio, faceva paventare un blocco dei rifornimenti granari. Pare che questo atto effettuato da Cassio deve essere fatto risalire alle notizie secondo cui la salute dell’imperatore era precaria, e la cui morte veniva data per imminente; secondo alcune voci fu anche Faustina ad esortare Cassio a ribellarsi. Comunque sia, nell’arco di tre mesi la sollevazione terminò e un centurione uccise l’usurpatore la cui testa fu poi portata a Marco. Un certo effetto sugli eserciti doveva aver fatto la comparsa nella vita politica del giovane figlio di Marco, Commodo. Questo fu presentato alla popolazione e aveva presieduto ad una congiarium, e sembrava quindi evidente che la continuità imperiale sarebbe stata assicurata. Dopo la morte di Cassio, Marco si recò in Grecia e in Asia ribadendo l’autorità della casata davanti alle popolazioni di queste province; durante questo viaggio morì l’imperatrice a 45 anni, e alcune voci hanno parlato di un avvelenamento da parte del marito; bisogna però ricordare la precarietà della situazione sanitaria in quel momento e il fatto che Faustina aveva superato almeno 14 gravidanze. Le voci di un avvelenamento erano nate forse dal comportamento quasi menefreghista di Marco il quale si era comportato così anche nella morte di tutti gli altri figli (solo tre erano rimasti ancora in vita) perché riteneva fondamentale la sua concezione stoica del mostrarsi imperturbabile davanti al dolore. Nella 176 concesse l’Imperium al figlio, celebrando insieme il trionfo per le vittorie contro i popoli danubiani. Sintomatico di un’epoca di crisi fu un episodio di persecuzione dei cristiani che si verificò nella città di Lione, in cui molti furono imprigionati e costretti a combattere come gladiatori nel 177. Dopo il matrimonio di Commodo nel 178 con la figlia di un eminente senatore, Nel 179 si riprese la via del fronte danubiano in cui vi furono nuovamente alcuni successi e l’occupazione dei territori al di là del fiume sembrò allora un fatto acquisito. Pare che i romani erano giunti a schierare 20.000 uomini in Slovacchia e altrettanti in Boemia e che era ormai immediata la provincializzazione di queste terre. Proprio quando si stava per lanciare una campagna nel 180 che avrebbe dovuto concretizzare le attese del sovrano, Marco morì in una tenda nell’arco di pochi giorni nel marzo del 180, non si sa se per peste o altra malattia. Con Marco Aurelio si incrina quella stagione dell’impero romano comunemente chiamata ‘età degli imperatori Antonini’. Dal regno di Traiano la ricchezza della penisola e delle province si erano espressi a livelli altissimi. È testimoniata da splendidi monumenti pubblici che abbellirono le città. I potenti locali svilupparono spesso la pratica dell’evergetismo, cioè appunto delle donazioni ai concittadini. Somme ingenti di denaro furono così sborsate per l’erezione di monumenti, per lo svolgimento di feste cittadine e di competizioni sportive. Fu in questo contesto che ebbe luogo l’urbanizzazione e la monetizzazione di vaste aree del Mediterraneo. Con Marco Aurelio vi furono dunque le prime penetrazione di barbari all’interno dell’impero, il divampare della peste e le difficoltà di reclutamento di soldati. Sono questi gli avvenimenti che fanno da preludio alla vasta crisi dell’impero che si manifesterà in tutta la sua gravità nel secolo successivo. Sezione 7 “Il secolo lungo dalla crisi del 193 alla dissoluzione dell’ordinamento tetrarchico” Capitolo 1 “Il III secolo come problema storiografico” Poco più di cent’anni intercorrono tra la presa di potere di Settimio Severo (193) e il ritiro di Diocleziano a Spalato (305): è un secolo lungo che trasformò l’impero degli Antonini nello Stato burocratico tardo arcaico. Seppur non si usa più la dicitura principato- dominato, resta indubbio che l’impero di Costantino sia molto diverso da quello del I e II secolo d.C.: nel mezzo vi sono decenni bui delle invasioni barbariche e delle guerre con i persiani, delle continue usurpazione e del decremento demograficocrisi del III secolo. Il continuo stato in guerra sia in oriente che in Occidente determinò la sempre maggiore importanza dell’esercito, che arrivò ad esautorare il Senato nella scelta degli imperatori e a trasformarsi nel principale vettore di dinamismo sociale: le necessità militari imposero che fossero solo le capacità e l’esperienza a determinare la possibilità di carriera e dunque portando ai vertici dello Stato a volte anche uomini senza alcuna patente di nobiltà. Si assiste alla destrutturazione dell’antico sistema politico, sociale ed economico dell’impero: in politica, le carriere dei senatori e dei cavalieri tendono sempre di più a confondersi. In economia, il vecchio denario viene progressivamente sostituito dalla meno preziosa moneta argentea di Caracalla; l’uomo di III secolo non trova più conforto alla sua angoscia nella religione olimpica di padri, ma in nuove credenze venute dall’oriente come il Mitraismo e il cristianesimo. In filosofia invece alla fiducia dell’immanenti provvidenza degli storici si sostituirà l’afflato mistico verso l’entità trascendente al centro del sistema di pensiero dei neoplatonici. Tuttavia il III secolo conobbe anche elementi di progresso, tra questi sicuramente l’incremento della cultura scritta, a cui non fu estraneo lo sviluppo delle “Religioni del Libro” (Cristianesimo, manicheismo ed ebraismo) e che portò a quel potenziamento delle diverse culture e letterature nazionali che trovarono poi lo sviluppo pieno nel IV e V secolo. Proprio per quest’ultimo motivo gli studiosi moderni tendono a ridimensionare i presunti fattori di crisi chiamerebbero connotato questa epoca, insistendo soprattutto su alcuni punti: a) Necessità di una regionalizzazione delle indagini: Il processo di decentramento economico cominciato alla fine del I secolo e le differenti condizioni province nel corso del III invitano ad un puntuale esame delle singole realtà locali, facendo emergere l’impossibilità di ricondurre l’analisi ad un quadro omogeneo. Anche questo approccio possiede qualche lacuna perché non si rivela sempre facile l’individuazione di criteri di delimitazione delle diverse aree di indagine, sottolineando così come vi sia la necessità di una valutazione globale riguardante una medesima compagine politica. Resta chiaro che, aldilà di opportune considerazioni di carattere metodologico unitario, la differenziazione regionale è una realtà da cui non si può prescindere. Ad esempio in questo periodo del III secolo emerge come il Reno e il Danubio o le province galliche appaiono più duramente colpite rispetto ad altre zone come Africa e Sicilia che riconoscono una relativa prosperità. b) Ridimensionamento del fenomeno inflazionistico: che si sarebbe verificato tale sono attorno agli anni 70 del IIIQuesta è un’affermazione che si basa sull’analisi della documentazione egiziana, poiché i papiri lasciano trapelare come i mutamenti di
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